torna all'home page


IDENTITA`SEPOLTA


ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SULLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

Xena and all characters and names related are owned by and copyright © 1995,1996,1997,1998,1999,2000,2001 by MCA Television/Universal Studios.

DICIOTTESIMO CAPITOLO

Quella mattina, piuttosto tardi per la verità, Cheryl Cooper si era alzata con un mal di testa gigantesco. Le pareva che qualcuno dall'interno del suo cranio cercasse di farsi strada a mani nude, scavandole nel cervello. Non si poteva dire che fosse una novità. Ormai erano mesi che, periodicamente, quelle terrificanti emicranie si erano saldamente installate nella sua vita e Cheryl odiava con tutte le sue forze le medicine e i medici. Da quando, ancora giovanissima, aveva visto suo padre consumarsi lentamente in un letto, senza che tutta la scienza medica fosse riuscita ad alleviare anche minimamente le sue sofferenze. Le urla di quel poveruomo gli erano penetrate nelle orecchie al punto che, anche molti mesi dopo la sua morte, si svegliava in piena notte con quelle grida nella mente. Da allora, aveva sviluppato una fortissima idiosincrasia nei confronti della classe medica, e si era fatta un punto d'onore di non inquinare mai il suo fisico con elementi chimici di dubbia provenienza. (Qualcuno avrebbe potuto obiettare che ciò che non le potevano fare i medicinali, forse glielo avrebbero fatto le molte sigarette giornaliere che fumava, ma da quell'orecchio Cheryl non ci sentiva.) E per anni era riuscita a mantenere l'impegno. Ma poi c'era stata quella maledetta inchiesta sul traffico di droga e di donne tra l'Europa e il Medio Oriente. Al TRIBUNE si era fatta la fama di reporter d'assalto, grazie ad alcuni colpi messi a segno contro la malavita organizzata, ed era considerata tra i maggiori esperti dell'intricato mondo della mafia internazionale. Così, quando il caso era esploso, coinvolgendo anche alcune delle massime cariche politiche di paesi come Siria e Egitto, Cheryl era partita col suo inseparabile computer portatile, pronta a smascherare l'ennesimo intrigo politico-economico-criminale. Ma quella volta, si era spinta troppo in là. Nel tentativo di riuscire ad assistere all'arresto in diretta di uno dei trafficanti più ricercati al mondo, era rimasta coinvolta in uno scontro a fuoco tra la polizia del Cairo e la banda, e una pallottola l'aveva colpita alla testa. Le fasi concitate della sparatoria avevano impedito al fotografo che l'aveva seguita, un free-lance del posto che lavorava occasionalmente anche per il suo giornale, di soccorrerla (in realtà se l'era data a gambe ai primi spari, lasciandola sola) e così la donna era stata ritrovata giorni dopo, in delirio e quasi totalmente disidratata, mentre vagava senza memoria nel deserto. Ricoverata nell'ospedale più vicino, vi era rimasta tra la vita e la morte per quasi due mesi, ma poi il suo forte fisico aveva avuto il sopravvento e lentamente si era ripresa.
Ristabilitasi sufficientemente, era tornata a casa, ma la sua prima decisione era stata quella di dimettersi dal TRIBUNE. Inutilmente, il direttore e tutto lo staff con cui aveva collaborato in quegli anni, avevano cercato di dissuaderla. Cheryl era uscita da quell'esperienza profondamente traumatizzata. Aveva praticamente perso due mesi della sua vita di cui non ricordava niente e aveva cominciato a sperimentare quei lancinanti mal di testa che le avrebbero tenuto compagnia per i molti mesi a venire.
La pallottola che l'aveva colpita, le avevano spiegato, aveva compresso parzialmente l'osso della scatola cranica, per cui a meno di interventi chirurgici, peraltro di dubbio successo, si sarebbe dovuta rassegnare a subire quel dolore per il resto dei suoi giorni.
Così, allergica anche solo all'idea di una sala operatoria, e per sua fortuna immemore di essere stata la protagonista di un'operazione chirurgica di quasi sei ore per rimuoverle un frammento di proiettile rimastole conficcato nella testa, aveva valutato i pro e i contro e aveva deciso che in fondo qualche mal di testa poteva essere un prezzo equo da pagare per la propria sopravvivenza. Era venuta a patti col proprio onore e aveva iniziato ad utilizzare della semplice aspirina, quando proprio non ne poteva più.
Dopo aver lasciato il suo lavoro, si era riposata per qualche tempo (poteva permetterselo, visto che a nemmeno trent'anni aveva un conto in banca con un discreto numero di zeri), dopodiché un suo amico le aveva procurato un colloquio con l'INSIDE VIEW, che l'aveva accolta a braccia aperte, e l'ex-giornalista d'assalto si era ritrovata ad occuparsi di omini verdi e di uxoricidi particolarmente fantasiosi. La cosa avrebbe potuto sembrare anche umiliante, ma non a Cheryl che non chiedeva di meglio di un lavoro tranquillo e privo di rischi, e che quindi si era buttata con entusiasmo in questo nuovo mondo. Senza contare l'aspetto tutt'altro che marginale di uno stipendio che era di quasi un terzo più alto di quello offertole dal TRIBUNE.
La donna aveva rapidamente fatto breccia nel cuore dei lettori della rivista ed il suo nome era presto diventato uno dei più richiesti. In realtà, aveva fatto breccia anche in quello di alcuni dei suoi colleghi, ma una delle inderogabili regole nella vita e nella carriera di Cheryl Cooper era, mai mischiare lavoro ed affetti. In fondo, in quel mestiere non si poteva mai sapere quando ti sarebbe potuto capitare l'occasione di fare le scarpe ad un collega, ed in quel caso, era meglio non avere legami sentimentali che avrebbero potuto costituire un ostacolo.
Barcollando sotto le fitte nella testa, la donna raggiunge l'armadietto del bagno e dopo aver afferrato, come un naufrago che si aggrappa ad un salvagente, il tubetto delle aspirine, lo vuota nella mano, ne sono rimaste solo tre, e ingoia le compresse con un generoso sorso d'acqua direttamente dal rubinetto. Scostandosi i lunghi capelli che le sono caduti sul viso, con il passo ancora malfermo, Cheryl ritorna nella sua stanza e si getta sul letto, aspettando gli effetti del medicinale.
Dopo una ventina di minuti, il dolore alla testa sembra essere divenuto solo un lievemente fastidioso rumore di sottofondo, e un po' rinfrancata la donna si alza e si dirige verso la doccia. La giornata precedente è stata lunga. E' rimasta a studiarsi gli incartamenti del suo caso fino quasi a mezzanotte, ma quella odierna non si prospetta migliore. Ha messo le mani su qualcosa di interessante e crede che sia il caso di approfondirlo.
Il getto dell'acqua lungo la schiena fa sparire anche gli ultimi residui del malessere, e con un sospiro di sollievo, Cheryl chiude gli occhi lasciando che quel momentaneo piacere le scorra dappertutto.


-Se ho capito bene, professore, lei vorrebbe sottopormi ad una seduta di ipnosi regressiva? - chiede Joyce, fissando Sutherland, ma lanciando di quando in quando rapide occhiate preoccupate a Jennifer. La psicologa la sta osservando attentamente, ricercando con ansia nel volto o nello sguardo dell'amica, un segnale di uno stato tensivo che possa sconsigliare l'esperimento, ma con sorpresa, ha notato sempre più nelle ultime ore che l'atteggiamento di Joyce sta subendo un mutamento. La fragile bambina smarrita e spaventata che aveva conosciuto qualche giorno prima, sembra quasi del tutto scomparsa. Ora davanti a loro, c'è una giovane donna, certo ancora un po' confusa dalla strana vicenda di cui si è trovata involontaria protagonista, ma più sicura e determinata a cercare la luce in fondo a quel tunnel apparentemente senza fine.
-Ma di cosa si tratterebbe, esattamente? - prosegue Joyce - Ho letto qualcosa a proposito di persone che hanno ricordato vite precedenti…
-Oh, no, no, mia cara, - la interrompe il professore, rassicurandola con una risatina, - niente di tutto questo. Innanzitutto, mi lasci precisare che a tenere la seduta non sarei io, ma un mio carissimo amico oltre che uno dei massimi luminari di questa particolare branca della scienza, il professor John Irving. Non so se ha mai sentito il suo nome?
Joyce lancia un'altra occhiata a Jennifer, poi torna a rivolgere la sua attenzione a Sutherland.
-Temo di no.
-E' uno dei più grandi esperti in materia, Joyce. Forse il migliore. - interviene Jennifer.
-Per dirla in parole povere, potremmo dire che Irving sta all'ipnoterapia, come Joe Di Maggio sta al baseball o Pavarotti all'opera lirica, se mi perdonate gli irriverenti paragoni. - dice il professore - In breve, non c'è di meglio.
-Inoltre, non abbiamo alcuna intenzione di farti tornare alla tua infanzia, ad altre vite o a roba simile. - aggiunge Jennifer. - Non c'è alcuna prova che regressioni ipnotiche così profonde siano mai state davvero realizzate. Ci sarebbero troppe variabili da calcolare e l'autosuggestione o la suggestione indotta nel soggetto dalla stessa seduta potrebbero facilmente alterarne i risultati.
-No, Joyce. Il nostro scopo sarebbe quello di riportarla alla sera del trauma e cercare di risvegliare la sua memoria per capire cosa sia successo realmente. - La voce di Sutherland si fa particolarmente morbida nel tentativo di rendere la sua richiesta il meno impressionante possibile per la ragazza, ma con scarso successo in apparenza, perché al solo sentire rammentare quella particolare occasione, gli occhi di Joyce hanno un lampo di terrore. - Sarebbe importante soprattutto per lei, riuscire a ricordare. La dottoressa mi ha detto che dorme male, ha incubi che non riesce a definire, ma che le causano angoscia. E' possibile che riuscendo a sbloccare la sua memoria, tutto questo scompaia.
-Professore, - interviene ancora Jennifer, - non cerchi di spingerla. Deve essere lei a decidere. - Poi, posa le mani sulle spalle di Joyce, costringendola a fissarla negli occhi. - Joyce, se non te la senti, se credi di non essere ancora pronta ad affrontare una cosa del genere, non hai che da dirlo. Non insisteremo.
Nella stanza si fa un silenzio da potersi tagliare con il coltello. Jennifer e Sutherland, seduti di fronte a Joyce, l'osservano con attenzione, pur con intendimenti diversi. La donna, tutta rivolta verso l'amica, nel tentativo di accertarsi che non si senta in qualche modo costretta ad accettare una situazione che non vorrebbe, magari nella convinzione di non volerli deludere. Il professore, invece, nonostante la sollecitudine e la simpatia che dimostra nei confronti della giovane, vorrebbe in quel momento essere dotato di poteri telepatici, per poter comunicare alla mente di Joyce, tutta l'importanza che conferisce ad una sua risposta positiva. Joyce, dal canto suo, sembra vivamente combattuta tra due opposti stati d'animo. Da una parte, la paura di tornare a vivere momenti al cui solo pensiero, la sua gola si contrae e il cuore comincia a battere come un martello, ma dall'altra, l'insopprimibile desiderio di ricordare, magari di riuscire a vedere il volto della sua misteriosa salvatrice, a risentirne la voce, che è l'unico labile ricordo che ha di lei, ma che le riempie costantemente l'anima di un indefinibile dolore. E, quando sembra ormai che quel silenzio non debba rompersi mai più, le labbra di Joyce si aprono e le sue parole hanno il peso e la gravità di una decisione irrevocabile.
-Va bene, - dice - ci sto. Farò la seduta.


Mentre il professore stenta a contenere il suo entusiasmo, dando a Jennifer quasi l'impressione che possa mettersi a saltare per la stanza da un momento all'altro, la donna si china verso l'amica, prendendole le mani nelle sue.
-Sei sicura? - le chiede.
Le mani di Joyce tremano lievemente, ma lo sguardo che fissa nei suoi occhi è fermo.
-Sì, Jen. Sono sicura. Ho bisogno di sapere.
-Bene, bene, benissimo, mia cara. Lei è una ragazza molto coraggiosa, oltre che bella e intelligente. - grida quasi Sutherland, in preda ad una felicità sfrenata. - Ero sicuro che avrebbe preso la decisione giusta. E non tema, io, la dottoressa e il professore faremo in modo che lei non abbia alcun ulteriore problema da questa esperienza, anzi, posso quasi garantirle che dopo si sentirà come non le accade da mesi.
-Lo spero davvero, professore. - dice Joyce.
-Vedrà, non se ne pentirà. I problemi vanno affrontati. Fuggire non serve a nulla, tranne forse ad aggravarli. - prosegue Sutherland, prendendo Joyce sottobraccio. - E ora vada a riposarsi un po'. Mi creda, ne avrà bisogno. Io mi metterò in contatto con il professor Irving oggi stesso, e se tutto va bene, al massimo fra un paio di giorni dovremmo essere in grado di sottoporla alla seduta.
Joyce, rassicurata dall'atteggiamento paterno di Sutherland, si reca nella sua stanza. Jennifer entra subito dopo di lei e si chiude la porta alle spalle.
-Mi dispiace, Joyce, - dice - ma non vorrei che il professore ti avesse in qualche modo spinta ad accettare, se non sei convinta.
-No, Jen, non preoccuparti. La decisione è mia. - risponde lei. - Sono rimasta in dubbio per un po', ma poi ho capito che la soluzione più giusta è questa. Devo capire, Jen, devo sapere.
Jennifer esita un attimo, poi decide.
-Senti, Joyce, non vorrei che ti facessi delle aspettative eccessive. Irving è il migliore, è vero. Non potresti essere in mani più capaci, ma nonostante questo, non è assolutamente detto che la seduta riesca. E' la tua mente che deve ricordare, Joyce. E non c'è intervento umano o divino che possano spingerla a farlo se, per qualche ragione, non vuole.
Joyce resta per un attimo silenziosa, seduta sul bordo del letto.
-Vuoi dire che potrebbe non servire a nulla?
-E' giusto che tu lo sappia. - mormora Jennifer, quasi con un senso di colpa.
-Ti ringrazio per la sincerità, Jennifer, ma io voglio tentare. - dice infine Joyce.
La psicologa sente crescere dentro di se, l'ammirazione e l'affetto per la ragazza.
-Come vuoi. - dice. Con un sorriso, le depone un leggero bacio sulla fronte ed esce, lasciandola sola nella stanza.
Joyce resta a sedere sul letto ancora per qualche minuto, poi si distende fissando il soffitto.
Un pensiero improvviso le attraversa la mente e le parole le escono di bocca senza quasi che se ne renda conto.
-Attraverserei qualunque inferno, pur di rivederti.
E' stato il suo cervello a formularlo e la sua voce ad esprimerlo, e tuttavia rimane lì, senza fiato, mentre ancora quelle parole strane ed inquietanti, le risuonano nelle orecchie.
Attraverserei qualunque inferno, pur di rivederti.
"Sì," pensa "lo farei davvero. Ma per rivedere chi?"


Quando Jennifer torna nel salottino, lo stato d'eccitazione del professor Sutherland sembra essersi un po' calmato. L'anziano docente se ne sta seduto in poltrona, sorbendo ancora le ultime gocce del suo tè. All'ingresso della donna, come un perfetto gentiluomo d'altri tempi, si alza e attende che lei si sia seduta prima di riaccomodarsi a sua volta.
-Cara dottoressa, credo che si possa dire che tutto è andato a meraviglia. - dice. - La sua amica è davvero una ragazza straordinaria, e - aggiunge a voce così bassa che, a malapena, Jennifer riesce ad udirlo - se le cose stanno come penso, non potrebbe essere diversamente.
La psicologa gli lancia un'occhiata un po' preoccupata.
-Sì, Joyce è davvero speciale, ne sono stata convinta fin dall'inizio, ma aspetterei a cantare vittoria. Non sarò tranquilla almeno fino a quando questa seduta non sarà conclusa positivamente.
Il professore le sorride solidale.
-Lei tiene molto a quella ragazza, e questo le fa onore. Ma le assicuro che anche io, ora che l'ho conosciuta, provo una grande simpatia per lei e non potrei mai fare nulla che rischiasse di nuocerle.
-Me lo auguro, professore, perché in questa storia io mi sto prendendo un po' troppe libertà. Il Procuratore mi ha dato carta bianca, ma credo di stare esagerando. Intanto, in caso non l'avesse capito, ho cercato di tenere segreto il suo coinvolgimento. Non Me ne chieda il motivo. Non lo so neanch'io. E adesso sto addirittura organizzando una seduta d'ipnosi su una povera ragazza che mi è stata affidata, senza dire niente a nessuno. Se qualcosa dovesse girare storto, credo che Joyce non sarebbe l'unica vittima.
Sutherland si china verso di lei e le prende le mani con aria affabile.
-Jennifer, mia cara, non poteva fare diversamente, mi creda. Dovremo cercare il modo perché trapeli il meno possibile di questa storia. E' troppo importante.
-Le credo, professore, ma quella rivista continua a preoccuparmi. Se in Procura dovessero fare due più due…
-Fin'ora non è accaduto, e non accadrà, se la notizia resterà limitata ad una rivista di quel genere.
Jennifer resta in silenzio per un po', poi annuisce.
-Beh, speriamo. Piuttosto, nelle sue domande a Joyce, si è mantenuto molto sul generico. Non ha fatto riferimento a ciò che ha detto a me.
-Certo che no. - risponde reciso il professore. - E mi sorprende che me lo chieda. Dobbiamo evitare ogni possibile fonte di suggestione. Tutto ciò che Joyce dirà, dovrà essere frutto esclusivo della sua mente. D'altronde un paio di cose interessanti le ha già dette.
-E cioè?
-Vediamo se riesce ad individuarle lei. - dice Sutherland, fissandola.
Jennifer, colta di sorpresa come una studentessa ad un'interrogazione non preventivata, avverte con fastidio una vampata di calore al viso.
-Quella che mi ha colpito di più - dice, respingendo con uno sforzo di volontà l'imbarazzo, - è una cosa che avrei dovuto chiederle io, quando ho saputo del suo sogno. Da bambina, lei si vedeva nel sogno già adulta.
-Esattamente. Ottimo, dottoressa. - risponde Sutherland soddisfatto. - Questo normalmente non accade mai. Un bambino, in sogno, si vedrà sempre come un bambino.
-E quindi questo, secondo lei, dimostrerebbe che Joyce sogni di qualche esperienza precedente a questa vita? - chiede Jennifer, non riuscendo a dissimulare un velo di disagio.
-Dimostrare è una espressione eccessiva. - Anche il professore sembra molto cauto nel trattare un tema così delicato, nonostante l'entusiasmo manifestato fino a poco prima. - Diciamo che è una possibilità da non poter scartare a priori. Inoltre, ricorda come ha descritto i suoi capelli? Se i capelli nel sogno sono corti, visto che ha negato la presenza di acqua in cui specchiarsi, come può essere certa che siano biondi? Ma c'è di più.
-Cosa?
-Gli abiti che dice di indossare. Tra i pochi resti nella tomba di cui le parlavo, sono stati ritrovati frammenti di abiti femminili che potrebbero corrispondere alla descrizione di Joyce, e un paio di calzari dai lunghi lacci.
Jennifer guarda il professore, poi emette un sospiro, scuotendo la testa.
-Andiamo, professore, sa meglio di me che questo non può costituire una prova attendibile.
-Certo. Ma comunque è strano, che Joyce descriva se stessa con indosso indumenti simili a quelli con cui è stata seppellita una donna di duemila anni fa.
-Questo per me, vuol dire arrampicarsi sugli specchi. Se andassimo a raccontarlo in giro, ci riderebbero dietro per anni.
-Per questo, non diremo niente a nessuno. - afferma il professore serafico. Poi prosegue, facendosi serio. - Jennifer, se ho ragione, noi abbiamo un'opportunità straordinaria.
-Ma ragione su cosa? - esplode Jennifer. - Lei crede davvero che Joyce sia…
-La reincarnazione di Olimpia? - dice Sutherland, finendo la frase al posto suo, mentre la psicologa nel sentire quel concetto espresso così brutalmente, ha un sussulto come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. - Non lo so, Jennifer. Non oso quasi chiedermelo per timore della risposta, ma qui abbiamo una giovane donna che sogna cose che non dovrebbe neanche conoscere ed un fantasma armato di spada che si comporta come una guerriera leggendaria. Non possiamo far finta che non significhi niente. Se Xena è davvero qui, c'è perché sa, perché il suo cuore ha sentito la presenza di Olimpia. Due anime gemelle non possono restare separate per l'eternità, ricorda?. Prima o poi, fatalmente si ritroveranno. E' così che deve andare. E' il loro destino.
Jennifer si alza e va verso la finestra. Fuori il sole sta ormai tramontando e gli ultimi raggi rossastri ne colorano l'intera stanza. Ci sono momenti in cui la sua mente, che sta cercando di mantenere aperta per quanto le sia possibile, stenta a seguire quelli che chiunque dotato di un minimo di razionalità, liquiderebbe come i deliri di un folle, ma qualcosa dentro di lei, così in profondità da essere appena percepibile, le dice che in tutta quella vicenda soffia un vento proveniente da dimensioni sconosciute. Un vento reale come quello che scuote la bandiera appesa al palazzo di fronte alle sue finestre. Intangibile eppure concreto.
-Ma se Joyce è Olimpia, - chiede, quasi parlando a se stessa - chi è Xena, e dov'è?
Alle sue spalle, il professor Sutherland resta a sedere, senza rispondere.

DICIANNOVESIMO CAPITOLO


-Ted, andiamocene. - ripete, per la terza volta negli ultimi sessanta secondi, Rachel Ward. Con la sua insistenza, ne è consapevole, sta rischiando di stancare il suo ragazzo, o almeno quello che le sarebbe piaciuto poter considerare il suo ragazzo, prima ancora che la loro conoscenza sia stata approfondita, ma in quel momento sente che non potrebbe importarle di meno. Eppure ha fatto la posta a Ted Konchalsky, il ragazzo più "fico" del liceo, per almeno un mese. Aveva cercato di farsi notare da lui in tutte le maniere, tranne forse quella di denudarglisi davanti all'improvviso, ma se la teneva comunque come soluzione estrema, in caso tutte le altre non avessero avuto successo. Finalmente, era riuscita a stabilire un contatto proprio quando stava per perdere ogni speranza. Ted aveva grossi problemi in chimica. I suoi voti erano largamente al di sotto della sufficienza, mentre Rachel era una delle migliori nella materia. Così, dato che certi ragazzi sono così orgogliosi da prendere storta anche un'altruistica (altruistica?) offerta d'aiuto, e chissà perché, era certa che Ted non facesse eccezione, dapprima aveva iniziato cautamente a passargli sottobanco la soluzione dei problemi, poi aveva cominciato ad andarlo a trovare a casa per aiutarlo nei compiti, ed infine una sera, che sarebbe rimasta indelebilmente scolpita nella sua memoria, si erano baciati sotto il portico, e Rachel, durante quel lungo meraviglioso minuto aveva seriamente dubitato che l'universo potesse riservare da qualche parte una gioia più grande. Da allora, era passata meno di una settimana, ma a lei, così immersa nel suo sogno ad occhi aperti, era sembrato che la loro unione fosse ormai eterna e camminava costantemente a dieci centimetri da terra.
Fino a questa sera, fino a quest'appuntamento al buio in quella sudicia stradina, sul retro delle maleodoranti cucine di uno dei tanti ristorantini cinesi del quartiere.
Ted l'aveva invitata in discoteca. Era il loro primo vero appuntamento, e dire che Rachel si sentiva eccitata era un blando eufemismo. Aveva vissuto le ventiquattr'ore precedenti come in stato catatonico. Tutto ciò che le accadeva intorno era inutile e poco interessante. La sua attenzione era totalmente focalizzata sulle lancette dell'orologio. Meno nove, meno otto, meno sette. Le ore che la separavano dal loro incontro le sembravano interminabili. Ogni minuto ne durava almeno tre, e pareva proprio che le dieci di quella sera non dovessero arrivare mai. Ma alla fine erano arrivate, eccome, e adesso Rachel avrebbe volentieri dato tutto ciò che aveva per riportare l'orologio indietro di un giorno, di una settimana, di un mese, pur di non trovarsi lì in quel momento.
-Ted, ti prego, andiamo via. Lascia perdere, tanto non ho più voglia di andare a ballare.
La ragazza si stringe nel suo soprabito, non tanto per il fresco della notte, quanto perché quell'abitino così succinto che aveva scelto con tanta cura e che era sicura avrebbe fatto cadere definitivamente nella sua rete l' obiettivo maschile più ambito e fatto di lei la più invidiata (e odiata) della scuola, le pare ora il meno adatto alla circostanza, una vera e propria insegna luminosa con la scritta "carne giovane e disponibile".
-Rachel, piantala con questa lagna. Tanto Miguel mi ha detto di aspettarlo qui, e noi non ci muoveremo. - Ted si appoggia al muro sporco del vicolo, incurante della giacca bianca che indossa. - Quella roba mi serve, te l'ho detto. Non ho intenzione di spomparmi dopo un'ora. E vedrai che piacerà anche a te.
-Io non voglio prendere nulla. I miei mi ammazzano se lo vengono a sapere. E poi ho promesso che sarei tornata per mezzanotte.
-Ah, - scoppia a ridere, Ted - senti, senti, la novella Cenerentola. E tu vorresti metterti con me? Bimba, chi sta con Ted Konchalsky deve imparare a vivere al suo ritmo, al ritmo della notte, o non ha nessuna possibilità.
Rachel tace e guarda il suo "cavaliere". Come ha potuto essere così stupida? Che ci ha trovato in lui? Ora lo vede per quello che è realmente, un piccolo bullo di quartiere e per di più drogato.
"Chi vuoi prendere in giro, Rachel?" pensa "E' proprio questo che ti piaceva di lui, con quella sua aria da bello e maledetto."
-Io me ne vado, Ted. - dice. - Non ho intenzione di aspettare in questo posto un solo minuto di più. E poi il giornale di mia madre diceva che c'è una specie di pazza che se ne va in giro per la città, ammazzando gente con una spada.
-Ah, sì? Inventane una migliore, e poi come pensi di fare? - risponde il ragazzo sarcastico. -Siamo almeno a dieci chilometri da casa tua. Credi di riuscire a farteli a piedi, con quelle tue scarpine?
-Beh, posso sempre trovare un taxi e…
-Ehi.
L'esclamazione è stata poco più che sussurrata, ma nel buio e nel silenzio ai due ragazzi è sembrata come un colpo di pistola. Rachel che stava già per allontanarsi (o per fingere di farlo), si volta di scatto, ma anche Ted, che fino ad un attimo prima giocava a fare il duro, appare un po' impallidito alla tenue luce circostante.
-Miguel! Cominciavo a credere che non venissi. - dice poi, sorridendo in modo un po' stentato, rivolgendosi all'uomo che è apparso all'improvviso accanto a loro. Questi si avvicina di un paio di passi e Rachel riesce a vederlo più chiaramente. Un tipo dalla pelle olivastra, probabilmente portoricano, con due grandi occhiali scuri che non arrivano però a coprirgli una profonda cicatrice che gli attraversa la faccia dal labbro superiore fin quasi alla tempia. Non molto alto ma ben piantato, con entrambe le mani nelle tasche del giubbotto, l'uomo chiamato Miguel li squadra senza parlare.
-Ce l'hai, vero?
Ora l'urgenza nella voce di Ted è evidente, tanto da soffocare anche l'altrettanto evidente paura che quella sinistra figura gli ispira.
Miguel, sempre senza emettere un fiato, estrae dalla tasca destra del giubbotto un paio di bustine contenenti polvere bianca, tenendole nel palmo della mano. Ted si fa avanti, cercando di afferrarle, ma con l'abilità di un prestigiatore, l'uomo con la cicatrice le ha già fatte sparire di nuovo in tasca, facendo contemporaneamente un passo indietro.
-Piano! - sibila. - Prima tira fuori i cento dell'altra volta.
Ted lo guarda come se avesse parlato in un'altra lingua.
-L'altra volta? - chiede con una voce alterata che Rachel riconosce a stento. - Ma di che diavolo parli? Ti ho sempre pagato regolarmente!
L'uomo, senza la minima preoccupazione di fronte alla reazione rabbiosa del ragazzo, tira fuori dalla tasca sinistra, quasi casualmente, un lungo coltello a scatto e fattane uscire la lama lucente ed appuntita, comincia a pulirsi le unghie.
-Non alzare la voce con me, pupo. - dice sempre con lo stesso tono, tagliente quanto il suo coltello. - Non si alza la voce con Miguel.
-Ted, lascialo perdere. Andiamocene. Vuoi darmi ascolto?!
Rachel, che fino a quel momento è riuscita a starsene in silenzio, non resiste più e afferra il braccio del ragazzo, cercando di tirarlo via.
-Cristo! Vuoi lasciarmi in pace?!?
E così dicendo, il giovane la spinge da parte, mandandola a sbattere contro un cassonetto della spazzatura. Umiliata e dolorante, la ragazza si rialza a fatica e va ad appoggiarsi contro il muro, il più lontano possibile da quei due.
-Ascolta, - fa Ted, rivolgendosi a Miguel, cercando di mantenere la calma, - ne ho solo duecento, qui con me. Ecco, prendili tutti e lasciami la roba.
Con la mano tremante, Ted si fruga e tende due biglietti da cento tutti spiegazzati a Miguel. L'uomo li prende e li infila in tasca, senza mostrare però nessuna intenzione di soddisfare la richiesta del ragazzo.
-Me ne devi ancora cento. - dice. - Con questi non ci paghi la roba di stasera. I prezzi sono aumentati.
-Ora basta!! - strilla Ted, con voce resa stridula dall'isteria, e incurante del coltello si lancia su Miguel, ma l'uomo, senza neanche spostarsi, libera un pesante manrovescio che si abbatte sul volto del giovane violentemente. Preso in pieno dalla forza d'urto del colpo, questi scivola in terra senza un suono.
-Ted! Oh, mio Dio! -Terrorizzata, Rachel corre verso il corpo esanime del ragazzo e si china su di lui. Il volto appare pallidissimo e un rivolo di sangue che fuoriesce dal sopracciglio gli riga la guancia. - Maledetto bastardo!! - urla Rachel, anche lei sull'orlo di una crisi di nervi, stringendo tra le braccia la testa di Ted. - L'hai ammazzato! Assassino!!
La mano di Miguel scatta come un lampo ed afferra la ragazza per i capelli sollevandola quasi di peso. Gridando disperata per lo spavento ed il dolore, Rachel percuote l'aria intorno a lei con i pugni, nel tentativo di colpire l'uomo, ma vanamente.
-Il tuo bello ha un debito con me, dolcezza, - le mormora Miguel all'orecchio, stringendola da dietro per impedirle di dimenarsi, - ma se davvero ci tieni tanto a lui, potresti saldarlo tu, in natura.
Con gli occhi spalancati dal terrore, al pensiero di ciò che l'attende, Rachel caccia un urlo ancora più forte e non appena sente la grossa mano dell'uomo pressarlesi sulla bocca, stringe i denti sulla carne con tutta la forza che ha. Questa volta è il turno di Miguel di urlare. Con uno spintone, la ragazza si libera della presa, ma fatti due passi, nella fretta inciampa in alcune bottiglie abbandonate per terra e piomba al suolo di peso, in un gran rumore di vetro infranto.
Miguel, osservandosi la mano insanguinata, afferra il coltello e si getta verso di lei.
-Maledetta cagna! Adesso ti faccio strillare io!
Rachel, istintivamente, chiude gli occhi, aspettando che l'uomo le piombi addosso con tutto il suo peso, ma ciò che accade non è quello che si aspettava.
Attraverso il sipario delle palpebre serrate, sente un terrificante frastuono, mentre un tonfo a poca distanza da lei le indica che il corpo di Miguel non è atterrato dove intendeva. Disserrando appena gli occhi, quasi timorosa di ciò che potrebbe vedere, Rachel invece li spalanca un attimo dopo, davanti allo spettacolo che le si presenta.
L'uomo chiamato Miguel è appoggiato contro il muro dal lato opposto del vicolo e tiene davanti a sé il coltello, puntandolo verso una figura di spalle, rispetto a Rachel, che si staglia dritta di fronte a lui. E' inequivocabilmente una donna, ma molto alta e prestante. A Rachel, ancora distesa in terra, sembra che misuri almeno due metri e che superi di tutta la testa e le spalle quel Miguel che ora, al suo cospetto, pare quasi un nano.
Ma non è l'altezza della donna a colpire di più la ragazza, ma gli strani abiti che indossa. La vede solo di dietro, ma quella è proprio un'armatura, come quelle indossate dagli antichi romani o dai greci, e stringe una spada nella mano.
Miguel, che ora sta assaporando un terrore anche superiore a quello che ispirava a Rachel solo pochi attimi prima, la fissa incapace di muoversi. Il coltello in pugno è l'unica traccia di reazione che mostra, ma la mano gli sta tremando al punto che c'è da dubitare che sia in grado di colpire qualunque cosa.
Con un rapido colpo di piatto della spada, la donna fa volare via l'innocua arma dalle mani di quella tremolante parodia di criminale che è diventato il terribile Miguel, e un attimo dopo lo colpisce al viso con la pesante elsa. La testa di Miguel rimbalza con un inquietante scricchiolio contro il muro e lo spacciatore, privo di sensi crolla al suolo.
Allora la donna si volta verso Rachel, e lei può vederla meglio. Aveva ragione. E' proprio un'armatura quella che ha indosso. Le borchie brillano nella poca luce del vicolo. Lunghi capelli scuri le incorniciano un viso dai lineamenti perfetti e due occhi azzurri e gelidi come lame di ghiaccio si posano su di lei.
-Oddioddioddio. - Rachel non riesce a dire nient'altro, mentre la stupefacente figura le mormora qualcosa interrogativamente, in una lingua che non comprende, accennando al ragazzo che giace in terra a pochi passi da lei.
Rachel, che in quei pochi agitatissimi minuti aveva quasi dimenticato il grande amore della sua vita, ricorda all'improvviso, tornando in sé. Si alza e si avvicina a Ted, sempre senza perdere di vista la donna con la spada. Sembra che il ragazzo si stia riprendendo e il respiro le pare regolare.
-Sta bene. - dice - almeno credo.
La donna si avvicina a sua volta, e chinatasi su di lui, gli tasta la nuca e il collo, poi addolcendosi in un sorriso, mormora qualche altra incomprensibile parola in tono rassicurante.
In quel momento, in distanza, si odono delle sirene. Allora, la donna fa la cosa più incredibile che Rachel abbia mai visto. Lanciando una specie di grido di battaglia, si getta verso l'alto ruotando su se stessa più e più volte, fino ad atterrare su un tetto distante dal suolo almeno una decina di metri e scomparendo nel buio.
La ragazza rimane per lunghi interminabili secondi come paralizzata ad osservare il nulla sopra di lei. Un movimento accanto, le comunica che Ted sta riprendendo i sensi. Il ragazzo cerca di tirarsi in piedi, aggrappandosi ad alcuni scatoloni appoggiati in un angolo.
-Che diavolo è successo? - borbotta, tenendosi la mano sulla fronte insanguinata.
Rachel, dopo aver lanciato un'ultima occhiata verso l'alto, dove ormai c'è solo il buio della notte, gli va vicino e lo aiuta a sorreggersi.
-Lascia perdere, - risponde, - tanto non ci crederesti.
E i due ragazzi si allontanano barcollando, mentre le sirene della polizia si avvicinano sempre più.





torna all'home page