IDENTITA`SEPOLTA
ROMANZO DI A. SCAGLIONI
BASATO
SULLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"
CREATA
DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT
E
SVILUPPATA DA R.J.STEWART
Xena
and all characters and names related are owned by and copyright ©
1995,1996,1997,1998,1999,2000,2001 by MCA Television/Universal Studios.
DICIOTTESIMO
CAPITOLO
Quella mattina, piuttosto tardi per la verità, Cheryl Cooper
si era alzata con un mal di testa gigantesco. Le pareva che qualcuno
dall'interno del suo cranio cercasse di farsi strada a mani nude,
scavandole nel cervello. Non si poteva dire che fosse una novità.
Ormai erano mesi che, periodicamente, quelle terrificanti emicranie
si erano saldamente installate nella sua vita e Cheryl odiava con
tutte le sue forze le medicine e i medici. Da quando, ancora giovanissima,
aveva visto suo padre consumarsi lentamente in un letto, senza che
tutta la scienza medica fosse riuscita ad alleviare anche minimamente
le sue sofferenze. Le urla di quel poveruomo gli erano penetrate nelle
orecchie al punto che, anche molti mesi dopo la sua morte, si svegliava
in piena notte con quelle grida nella mente. Da allora, aveva sviluppato
una fortissima idiosincrasia nei confronti della classe medica, e
si era fatta un punto d'onore di non inquinare mai il suo fisico con
elementi chimici di dubbia provenienza. (Qualcuno avrebbe potuto obiettare
che ciò che non le potevano fare i medicinali, forse glielo
avrebbero fatto le molte sigarette giornaliere che fumava, ma da quell'orecchio
Cheryl non ci sentiva.) E per anni era riuscita a mantenere l'impegno.
Ma poi c'era stata quella maledetta inchiesta sul traffico di droga
e di donne tra l'Europa e il Medio Oriente. Al TRIBUNE si era fatta
la fama di reporter d'assalto, grazie ad alcuni colpi messi a segno
contro la malavita organizzata, ed era considerata tra i maggiori
esperti dell'intricato mondo della mafia internazionale. Così,
quando il caso era esploso, coinvolgendo anche alcune delle massime
cariche politiche di paesi come Siria e Egitto, Cheryl era partita
col suo inseparabile computer portatile, pronta a smascherare l'ennesimo
intrigo politico-economico-criminale. Ma quella volta, si era spinta
troppo in là. Nel tentativo di riuscire ad assistere all'arresto
in diretta di uno dei trafficanti più ricercati al mondo, era
rimasta coinvolta in uno scontro a fuoco tra la polizia del Cairo
e la banda, e una pallottola l'aveva colpita alla testa. Le fasi concitate
della sparatoria avevano impedito al fotografo che l'aveva seguita,
un free-lance del posto che lavorava occasionalmente anche per il
suo giornale, di soccorrerla (in realtà se l'era data a gambe
ai primi spari, lasciandola sola) e così la donna era stata
ritrovata giorni dopo, in delirio e quasi totalmente disidratata,
mentre vagava senza memoria nel deserto. Ricoverata nell'ospedale
più vicino, vi era rimasta tra la vita e la morte per quasi
due mesi, ma poi il suo forte fisico aveva avuto il sopravvento e
lentamente si era ripresa.
Ristabilitasi sufficientemente, era tornata a casa, ma la sua prima
decisione era stata quella di dimettersi dal TRIBUNE. Inutilmente,
il direttore e tutto lo staff con cui aveva collaborato in quegli
anni, avevano cercato di dissuaderla. Cheryl era uscita da quell'esperienza
profondamente traumatizzata. Aveva praticamente perso due mesi della
sua vita di cui non ricordava niente e aveva cominciato a sperimentare
quei lancinanti mal di testa che le avrebbero tenuto compagnia per
i molti mesi a venire.
La pallottola che l'aveva colpita, le avevano spiegato, aveva compresso
parzialmente l'osso della scatola cranica, per cui a meno di interventi
chirurgici, peraltro di dubbio successo, si sarebbe dovuta rassegnare
a subire quel dolore per il resto dei suoi giorni.
Così, allergica anche solo all'idea di una sala operatoria,
e per sua fortuna immemore di essere stata la protagonista di un'operazione
chirurgica di quasi sei ore per rimuoverle un frammento di proiettile
rimastole conficcato nella testa, aveva valutato i pro e i contro
e aveva deciso che in fondo qualche mal di testa poteva essere un
prezzo equo da pagare per la propria sopravvivenza. Era venuta a patti
col proprio onore e aveva iniziato ad utilizzare della semplice aspirina,
quando proprio non ne poteva più.
Dopo aver lasciato il suo lavoro, si era riposata per qualche tempo
(poteva permetterselo, visto che a nemmeno trent'anni aveva un conto
in banca con un discreto numero di zeri), dopodiché un suo
amico le aveva procurato un colloquio con l'INSIDE VIEW, che l'aveva
accolta a braccia aperte, e l'ex-giornalista d'assalto si era ritrovata
ad occuparsi di omini verdi e di uxoricidi particolarmente fantasiosi.
La cosa avrebbe potuto sembrare anche umiliante, ma non a Cheryl che
non chiedeva di meglio di un lavoro tranquillo e privo di rischi,
e che quindi si era buttata con entusiasmo in questo nuovo mondo.
Senza contare l'aspetto tutt'altro che marginale di uno stipendio
che era di quasi un terzo più alto di quello offertole dal
TRIBUNE.
La donna aveva rapidamente fatto breccia nel cuore dei lettori della
rivista ed il suo nome era presto diventato uno dei più richiesti.
In realtà, aveva fatto breccia anche in quello di alcuni dei
suoi colleghi, ma una delle inderogabili regole nella vita e nella
carriera di Cheryl Cooper era, mai mischiare lavoro ed affetti. In
fondo, in quel mestiere non si poteva mai sapere quando ti sarebbe
potuto capitare l'occasione di fare le scarpe ad un collega, ed in
quel caso, era meglio non avere legami sentimentali che avrebbero
potuto costituire un ostacolo.
Barcollando sotto le fitte nella testa, la donna raggiunge l'armadietto
del bagno e dopo aver afferrato, come un naufrago che si aggrappa
ad un salvagente, il tubetto delle aspirine, lo vuota nella mano,
ne sono rimaste solo tre, e ingoia le compresse con un generoso sorso
d'acqua direttamente dal rubinetto. Scostandosi i lunghi capelli che
le sono caduti sul viso, con il passo ancora malfermo, Cheryl ritorna
nella sua stanza e si getta sul letto, aspettando gli effetti del
medicinale.
Dopo una ventina di minuti, il dolore alla testa sembra essere divenuto
solo un lievemente fastidioso rumore di sottofondo, e un po' rinfrancata
la donna si alza e si dirige verso la doccia. La giornata precedente
è stata lunga. E' rimasta a studiarsi gli incartamenti del
suo caso fino quasi a mezzanotte, ma quella odierna non si prospetta
migliore. Ha messo le mani su qualcosa di interessante e crede che
sia il caso di approfondirlo.
Il getto dell'acqua lungo la schiena fa sparire anche gli ultimi residui
del malessere, e con un sospiro di sollievo, Cheryl chiude gli occhi
lasciando che quel momentaneo piacere le scorra dappertutto.
-Se ho capito bene, professore, lei vorrebbe sottopormi ad una seduta
di ipnosi regressiva? - chiede Joyce, fissando Sutherland, ma lanciando
di quando in quando rapide occhiate preoccupate a Jennifer. La psicologa
la sta osservando attentamente, ricercando con ansia nel volto o nello
sguardo dell'amica, un segnale di uno stato tensivo che possa sconsigliare
l'esperimento, ma con sorpresa, ha notato sempre più nelle
ultime ore che l'atteggiamento di Joyce sta subendo un mutamento.
La fragile bambina smarrita e spaventata che aveva conosciuto qualche
giorno prima, sembra quasi del tutto scomparsa. Ora davanti a loro,
c'è una giovane donna, certo ancora un po' confusa dalla strana
vicenda di cui si è trovata involontaria protagonista, ma più
sicura e determinata a cercare la luce in fondo a quel tunnel apparentemente
senza fine.
-Ma di cosa si tratterebbe, esattamente? - prosegue Joyce - Ho letto
qualcosa a proposito di persone che hanno ricordato vite precedenti
-Oh, no, no, mia cara, - la interrompe il professore, rassicurandola
con una risatina, - niente di tutto questo. Innanzitutto, mi lasci
precisare che a tenere la seduta non sarei io, ma un mio carissimo
amico oltre che uno dei massimi luminari di questa particolare branca
della scienza, il professor John Irving. Non so se ha mai sentito
il suo nome?
Joyce lancia un'altra occhiata a Jennifer, poi torna a rivolgere la
sua attenzione a Sutherland.
-Temo di no.
-E' uno dei più grandi esperti in materia, Joyce. Forse il
migliore. - interviene Jennifer.
-Per dirla in parole povere, potremmo dire che Irving sta all'ipnoterapia,
come Joe Di Maggio sta al baseball o Pavarotti all'opera lirica, se
mi perdonate gli irriverenti paragoni. - dice il professore - In breve,
non c'è di meglio.
-Inoltre, non abbiamo alcuna intenzione di farti tornare alla tua
infanzia, ad altre vite o a roba simile. - aggiunge Jennifer. - Non
c'è alcuna prova che regressioni ipnotiche così profonde
siano mai state davvero realizzate. Ci sarebbero troppe variabili
da calcolare e l'autosuggestione o la suggestione indotta nel soggetto
dalla stessa seduta potrebbero facilmente alterarne i risultati.
-No, Joyce. Il nostro scopo sarebbe quello di riportarla alla sera
del trauma e cercare di risvegliare la sua memoria per capire cosa
sia successo realmente. - La voce di Sutherland si fa particolarmente
morbida nel tentativo di rendere la sua richiesta il meno impressionante
possibile per la ragazza, ma con scarso successo in apparenza, perché
al solo sentire rammentare quella particolare occasione, gli occhi
di Joyce hanno un lampo di terrore. - Sarebbe importante soprattutto
per lei, riuscire a ricordare. La dottoressa mi ha detto che dorme
male, ha incubi che non riesce a definire, ma che le causano angoscia.
E' possibile che riuscendo a sbloccare la sua memoria, tutto questo
scompaia.
-Professore, - interviene ancora Jennifer, - non cerchi di spingerla.
Deve essere lei a decidere. - Poi, posa le mani sulle spalle di Joyce,
costringendola a fissarla negli occhi. - Joyce, se non te la senti,
se credi di non essere ancora pronta ad affrontare una cosa del genere,
non hai che da dirlo. Non insisteremo.
Nella stanza si fa un silenzio da potersi tagliare con il coltello.
Jennifer e Sutherland, seduti di fronte a Joyce, l'osservano con attenzione,
pur con intendimenti diversi. La donna, tutta rivolta verso l'amica,
nel tentativo di accertarsi che non si senta in qualche modo costretta
ad accettare una situazione che non vorrebbe, magari nella convinzione
di non volerli deludere. Il professore, invece, nonostante la sollecitudine
e la simpatia che dimostra nei confronti della giovane, vorrebbe in
quel momento essere dotato di poteri telepatici, per poter comunicare
alla mente di Joyce, tutta l'importanza che conferisce ad una sua
risposta positiva. Joyce, dal canto suo, sembra vivamente combattuta
tra due opposti stati d'animo. Da una parte, la paura di tornare a
vivere momenti al cui solo pensiero, la sua gola si contrae e il cuore
comincia a battere come un martello, ma dall'altra, l'insopprimibile
desiderio di ricordare, magari di riuscire a vedere il volto della
sua misteriosa salvatrice, a risentirne la voce, che è l'unico
labile ricordo che ha di lei, ma che le riempie costantemente l'anima
di un indefinibile dolore. E, quando sembra ormai che quel silenzio
non debba rompersi mai più, le labbra di Joyce si aprono e
le sue parole hanno il peso e la gravità di una decisione irrevocabile.
-Va bene, - dice - ci sto. Farò la seduta.
Mentre il professore stenta a contenere il suo entusiasmo, dando a
Jennifer quasi l'impressione che possa mettersi a saltare per la stanza
da un momento all'altro, la donna si china verso l'amica, prendendole
le mani nelle sue.
-Sei sicura? - le chiede.
Le mani di Joyce tremano lievemente, ma lo sguardo che fissa nei suoi
occhi è fermo.
-Sì, Jen. Sono sicura. Ho bisogno di sapere.
-Bene, bene, benissimo, mia cara. Lei è una ragazza molto coraggiosa,
oltre che bella e intelligente. - grida quasi Sutherland, in preda
ad una felicità sfrenata. - Ero sicuro che avrebbe preso la
decisione giusta. E non tema, io, la dottoressa e il professore faremo
in modo che lei non abbia alcun ulteriore problema da questa esperienza,
anzi, posso quasi garantirle che dopo si sentirà come non le
accade da mesi.
-Lo spero davvero, professore. - dice Joyce.
-Vedrà, non se ne pentirà. I problemi vanno affrontati.
Fuggire non serve a nulla, tranne forse ad aggravarli. - prosegue
Sutherland, prendendo Joyce sottobraccio. - E ora vada a riposarsi
un po'. Mi creda, ne avrà bisogno. Io mi metterò in
contatto con il professor Irving oggi stesso, e se tutto va bene,
al massimo fra un paio di giorni dovremmo essere in grado di sottoporla
alla seduta.
Joyce, rassicurata dall'atteggiamento paterno di Sutherland, si reca
nella sua stanza. Jennifer entra subito dopo di lei e si chiude la
porta alle spalle.
-Mi dispiace, Joyce, - dice - ma non vorrei che il professore ti avesse
in qualche modo spinta ad accettare, se non sei convinta.
-No, Jen, non preoccuparti. La decisione è mia. - risponde
lei. - Sono rimasta in dubbio per un po', ma poi ho capito che la
soluzione più giusta è questa. Devo capire, Jen, devo
sapere.
Jennifer esita un attimo, poi decide.
-Senti, Joyce, non vorrei che ti facessi delle aspettative eccessive.
Irving è il migliore, è vero. Non potresti essere in
mani più capaci, ma nonostante questo, non è assolutamente
detto che la seduta riesca. E' la tua mente che deve ricordare, Joyce.
E non c'è intervento umano o divino che possano spingerla a
farlo se, per qualche ragione, non vuole.
Joyce resta per un attimo silenziosa, seduta sul bordo del letto.
-Vuoi dire che potrebbe non servire a nulla?
-E' giusto che tu lo sappia. - mormora Jennifer, quasi con un senso
di colpa.
-Ti ringrazio per la sincerità, Jennifer, ma io voglio tentare.
- dice infine Joyce.
La psicologa sente crescere dentro di se, l'ammirazione e l'affetto
per la ragazza.
-Come vuoi. - dice. Con un sorriso, le depone un leggero bacio sulla
fronte ed esce, lasciandola sola nella stanza.
Joyce resta a sedere sul letto ancora per qualche minuto, poi si distende
fissando il soffitto.
Un pensiero improvviso le attraversa la mente e le parole le escono
di bocca senza quasi che se ne renda conto.
-Attraverserei qualunque inferno, pur di rivederti.
E' stato il suo cervello a formularlo e la sua voce ad esprimerlo,
e tuttavia rimane lì, senza fiato, mentre ancora quelle parole
strane ed inquietanti, le risuonano nelle orecchie.
Attraverserei qualunque inferno, pur di rivederti.
"Sì," pensa "lo farei davvero. Ma per rivedere
chi?"
Quando Jennifer torna nel salottino, lo stato d'eccitazione del professor
Sutherland sembra essersi un po' calmato. L'anziano docente se ne
sta seduto in poltrona, sorbendo ancora le ultime gocce del suo tè.
All'ingresso della donna, come un perfetto gentiluomo d'altri tempi,
si alza e attende che lei si sia seduta prima di riaccomodarsi a sua
volta.
-Cara dottoressa, credo che si possa dire che tutto è andato
a meraviglia. - dice. - La sua amica è davvero una ragazza
straordinaria, e - aggiunge a voce così bassa che, a malapena,
Jennifer riesce ad udirlo - se le cose stanno come penso, non potrebbe
essere diversamente.
La psicologa gli lancia un'occhiata un po' preoccupata.
-Sì, Joyce è davvero speciale, ne sono stata convinta
fin dall'inizio, ma aspetterei a cantare vittoria. Non sarò
tranquilla almeno fino a quando questa seduta non sarà conclusa
positivamente.
Il professore le sorride solidale.
-Lei tiene molto a quella ragazza, e questo le fa onore. Ma le assicuro
che anche io, ora che l'ho conosciuta, provo una grande simpatia per
lei e non potrei mai fare nulla che rischiasse di nuocerle.
-Me lo auguro, professore, perché in questa storia io mi sto
prendendo un po' troppe libertà. Il Procuratore mi ha dato
carta bianca, ma credo di stare esagerando. Intanto, in caso non l'avesse
capito, ho cercato di tenere segreto il suo coinvolgimento. Non Me
ne chieda il motivo. Non lo so neanch'io. E adesso sto addirittura
organizzando una seduta d'ipnosi su una povera ragazza che mi è
stata affidata, senza dire niente a nessuno. Se qualcosa dovesse girare
storto, credo che Joyce non sarebbe l'unica vittima.
Sutherland si china verso di lei e le prende le mani con aria affabile.
-Jennifer, mia cara, non poteva fare diversamente, mi creda. Dovremo
cercare il modo perché trapeli il meno possibile di questa
storia. E' troppo importante.
-Le credo, professore, ma quella rivista continua a preoccuparmi.
Se in Procura dovessero fare due più due
-Fin'ora non è accaduto, e non accadrà, se la notizia
resterà limitata ad una rivista di quel genere.
Jennifer resta in silenzio per un po', poi annuisce.
-Beh, speriamo. Piuttosto, nelle sue domande a Joyce, si è
mantenuto molto sul generico. Non ha fatto riferimento a ciò
che ha detto a me.
-Certo che no. - risponde reciso il professore. - E mi sorprende che
me lo chieda. Dobbiamo evitare ogni possibile fonte di suggestione.
Tutto ciò che Joyce dirà, dovrà essere frutto
esclusivo della sua mente. D'altronde un paio di cose interessanti
le ha già dette.
-E cioè?
-Vediamo se riesce ad individuarle lei. - dice Sutherland, fissandola.
Jennifer, colta di sorpresa come una studentessa ad un'interrogazione
non preventivata, avverte con fastidio una vampata di calore al viso.
-Quella che mi ha colpito di più - dice, respingendo con uno
sforzo di volontà l'imbarazzo, - è una cosa che avrei
dovuto chiederle io, quando ho saputo del suo sogno. Da bambina, lei
si vedeva nel sogno già adulta.
-Esattamente. Ottimo, dottoressa. - risponde Sutherland soddisfatto.
- Questo normalmente non accade mai. Un bambino, in sogno, si vedrà
sempre come un bambino.
-E quindi questo, secondo lei, dimostrerebbe che Joyce sogni di qualche
esperienza precedente a questa vita? - chiede Jennifer, non riuscendo
a dissimulare un velo di disagio.
-Dimostrare è una espressione eccessiva. - Anche il professore
sembra molto cauto nel trattare un tema così delicato, nonostante
l'entusiasmo manifestato fino a poco prima. - Diciamo che è
una possibilità da non poter scartare a priori. Inoltre, ricorda
come ha descritto i suoi capelli? Se i capelli nel sogno sono corti,
visto che ha negato la presenza di acqua in cui specchiarsi, come
può essere certa che siano biondi? Ma c'è di più.
-Cosa?
-Gli abiti che dice di indossare. Tra i pochi resti nella tomba di
cui le parlavo, sono stati ritrovati frammenti di abiti femminili
che potrebbero corrispondere alla descrizione di Joyce, e un paio
di calzari dai lunghi lacci.
Jennifer guarda il professore, poi emette un sospiro, scuotendo la
testa.
-Andiamo, professore, sa meglio di me che questo non può costituire
una prova attendibile.
-Certo. Ma comunque è strano, che Joyce descriva se stessa
con indosso indumenti simili a quelli con cui è stata seppellita
una donna di duemila anni fa.
-Questo per me, vuol dire arrampicarsi sugli specchi. Se andassimo
a raccontarlo in giro, ci riderebbero dietro per anni.
-Per questo, non diremo niente a nessuno. - afferma il professore
serafico. Poi prosegue, facendosi serio. - Jennifer, se ho ragione,
noi abbiamo un'opportunità straordinaria.
-Ma ragione su cosa? - esplode Jennifer. - Lei crede davvero che Joyce
sia
-La reincarnazione di Olimpia? - dice Sutherland, finendo la frase
al posto suo, mentre la psicologa nel sentire quel concetto espresso
così brutalmente, ha un sussulto come se avesse ricevuto uno
schiaffo in pieno viso. - Non lo so, Jennifer. Non oso quasi chiedermelo
per timore della risposta, ma qui abbiamo una giovane donna che sogna
cose che non dovrebbe neanche conoscere ed un fantasma armato di spada
che si comporta come una guerriera leggendaria. Non possiamo far finta
che non significhi niente. Se Xena è davvero qui, c'è
perché sa, perché il suo cuore ha sentito la presenza
di Olimpia. Due anime gemelle non possono restare separate per l'eternità,
ricorda?. Prima o poi, fatalmente si ritroveranno. E' così
che deve andare. E' il loro destino.
Jennifer si alza e va verso la finestra. Fuori il sole sta ormai tramontando
e gli ultimi raggi rossastri ne colorano l'intera stanza. Ci sono
momenti in cui la sua mente, che sta cercando di mantenere aperta
per quanto le sia possibile, stenta a seguire quelli che chiunque
dotato di un minimo di razionalità, liquiderebbe come i deliri
di un folle, ma qualcosa dentro di lei, così in profondità
da essere appena percepibile, le dice che in tutta quella vicenda
soffia un vento proveniente da dimensioni sconosciute. Un vento reale
come quello che scuote la bandiera appesa al palazzo di fronte alle
sue finestre. Intangibile eppure concreto.
-Ma se Joyce è Olimpia, - chiede, quasi parlando a se stessa
- chi è Xena, e dov'è?
Alle sue spalle, il professor Sutherland resta a sedere, senza rispondere.
DICIANNOVESIMO
CAPITOLO
-Ted, andiamocene. - ripete, per la terza volta negli ultimi sessanta
secondi, Rachel Ward. Con la sua insistenza, ne è consapevole,
sta rischiando di stancare il suo ragazzo, o almeno quello che le
sarebbe piaciuto poter considerare il suo ragazzo, prima ancora che
la loro conoscenza sia stata approfondita, ma in quel momento sente
che non potrebbe importarle di meno. Eppure ha fatto la posta a Ted
Konchalsky, il ragazzo più "fico" del liceo, per
almeno un mese. Aveva cercato di farsi notare da lui in tutte le maniere,
tranne forse quella di denudarglisi davanti all'improvviso, ma se
la teneva comunque come soluzione estrema, in caso tutte le altre
non avessero avuto successo. Finalmente, era riuscita a stabilire
un contatto proprio quando stava per perdere ogni speranza. Ted aveva
grossi problemi in chimica. I suoi voti erano largamente al di sotto
della sufficienza, mentre Rachel era una delle migliori nella materia.
Così, dato che certi ragazzi sono così orgogliosi da
prendere storta anche un'altruistica (altruistica?) offerta d'aiuto,
e chissà perché, era certa che Ted non facesse eccezione,
dapprima aveva iniziato cautamente a passargli sottobanco la soluzione
dei problemi, poi aveva cominciato ad andarlo a trovare a casa per
aiutarlo nei compiti, ed infine una sera, che sarebbe rimasta indelebilmente
scolpita nella sua memoria, si erano baciati sotto il portico, e Rachel,
durante quel lungo meraviglioso minuto aveva seriamente dubitato che
l'universo potesse riservare da qualche parte una gioia più
grande. Da allora, era passata meno di una settimana, ma a lei, così
immersa nel suo sogno ad occhi aperti, era sembrato che la loro unione
fosse ormai eterna e camminava costantemente a dieci centimetri da
terra.
Fino a questa sera, fino a quest'appuntamento al buio in quella sudicia
stradina, sul retro delle maleodoranti cucine di uno dei tanti ristorantini
cinesi del quartiere.
Ted l'aveva invitata in discoteca. Era il loro primo vero appuntamento,
e dire che Rachel si sentiva eccitata era un blando eufemismo. Aveva
vissuto le ventiquattr'ore precedenti come in stato catatonico. Tutto
ciò che le accadeva intorno era inutile e poco interessante.
La sua attenzione era totalmente focalizzata sulle lancette dell'orologio.
Meno nove, meno otto, meno sette. Le ore che la separavano dal loro
incontro le sembravano interminabili. Ogni minuto ne durava almeno
tre, e pareva proprio che le dieci di quella sera non dovessero arrivare
mai. Ma alla fine erano arrivate, eccome, e adesso Rachel avrebbe
volentieri dato tutto ciò che aveva per riportare l'orologio
indietro di un giorno, di una settimana, di un mese, pur di non trovarsi
lì in quel momento.
-Ted, ti prego, andiamo via. Lascia perdere, tanto non ho più
voglia di andare a ballare.
La ragazza si stringe nel suo soprabito, non tanto per il fresco della
notte, quanto perché quell'abitino così succinto che
aveva scelto con tanta cura e che era sicura avrebbe fatto cadere
definitivamente nella sua rete l' obiettivo maschile più ambito
e fatto di lei la più invidiata (e odiata) della scuola, le
pare ora il meno adatto alla circostanza, una vera e propria insegna
luminosa con la scritta "carne giovane e disponibile".
-Rachel, piantala con questa lagna. Tanto Miguel mi ha detto di aspettarlo
qui, e noi non ci muoveremo. - Ted si appoggia al muro sporco del
vicolo, incurante della giacca bianca che indossa. - Quella roba mi
serve, te l'ho detto. Non ho intenzione di spomparmi dopo un'ora.
E vedrai che piacerà anche a te.
-Io non voglio prendere nulla. I miei mi ammazzano se lo vengono a
sapere. E poi ho promesso che sarei tornata per mezzanotte.
-Ah, - scoppia a ridere, Ted - senti, senti, la novella Cenerentola.
E tu vorresti metterti con me? Bimba, chi sta con Ted Konchalsky deve
imparare a vivere al suo ritmo, al ritmo della notte, o non ha nessuna
possibilità.
Rachel tace e guarda il suo "cavaliere". Come ha potuto
essere così stupida? Che ci ha trovato in lui? Ora lo vede
per quello che è realmente, un piccolo bullo di quartiere e
per di più drogato.
"Chi vuoi prendere in giro, Rachel?" pensa "E' proprio
questo che ti piaceva di lui, con quella sua aria da bello e maledetto."
-Io me ne vado, Ted. - dice. - Non ho intenzione di aspettare in questo
posto un solo minuto di più. E poi il giornale di mia madre
diceva che c'è una specie di pazza che se ne va in giro per
la città, ammazzando gente con una spada.
-Ah, sì? Inventane una migliore, e poi come pensi di fare?
- risponde il ragazzo sarcastico. -Siamo almeno a dieci chilometri
da casa tua. Credi di riuscire a farteli a piedi, con quelle tue scarpine?
-Beh, posso sempre trovare un taxi e
-Ehi.
L'esclamazione è stata poco più che sussurrata, ma nel
buio e nel silenzio ai due ragazzi è sembrata come un colpo
di pistola. Rachel che stava già per allontanarsi (o per fingere
di farlo), si volta di scatto, ma anche Ted, che fino ad un attimo
prima giocava a fare il duro, appare un po' impallidito alla tenue
luce circostante.
-Miguel! Cominciavo a credere che non venissi. - dice poi, sorridendo
in modo un po' stentato, rivolgendosi all'uomo che è apparso
all'improvviso accanto a loro. Questi si avvicina di un paio di passi
e Rachel riesce a vederlo più chiaramente. Un tipo dalla pelle
olivastra, probabilmente portoricano, con due grandi occhiali scuri
che non arrivano però a coprirgli una profonda cicatrice che
gli attraversa la faccia dal labbro superiore fin quasi alla tempia.
Non molto alto ma ben piantato, con entrambe le mani nelle tasche
del giubbotto, l'uomo chiamato Miguel li squadra senza parlare.
-Ce l'hai, vero?
Ora l'urgenza nella voce di Ted è evidente, tanto da soffocare
anche l'altrettanto evidente paura che quella sinistra figura gli
ispira.
Miguel, sempre senza emettere un fiato, estrae dalla tasca destra
del giubbotto un paio di bustine contenenti polvere bianca, tenendole
nel palmo della mano. Ted si fa avanti, cercando di afferrarle, ma
con l'abilità di un prestigiatore, l'uomo con la cicatrice
le ha già fatte sparire di nuovo in tasca, facendo contemporaneamente
un passo indietro.
-Piano! - sibila. - Prima tira fuori i cento dell'altra volta.
Ted lo guarda come se avesse parlato in un'altra lingua.
-L'altra volta? - chiede con una voce alterata che Rachel riconosce
a stento. - Ma di che diavolo parli? Ti ho sempre pagato regolarmente!
L'uomo, senza la minima preoccupazione di fronte alla reazione rabbiosa
del ragazzo, tira fuori dalla tasca sinistra, quasi casualmente, un
lungo coltello a scatto e fattane uscire la lama lucente ed appuntita,
comincia a pulirsi le unghie.
-Non alzare la voce con me, pupo. - dice sempre con lo stesso tono,
tagliente quanto il suo coltello. - Non si alza la voce con Miguel.
-Ted, lascialo perdere. Andiamocene. Vuoi darmi ascolto?!
Rachel, che fino a quel momento è riuscita a starsene in silenzio,
non resiste più e afferra il braccio del ragazzo, cercando
di tirarlo via.
-Cristo! Vuoi lasciarmi in pace?!?
E così dicendo, il giovane la spinge da parte, mandandola a
sbattere contro un cassonetto della spazzatura. Umiliata e dolorante,
la ragazza si rialza a fatica e va ad appoggiarsi contro il muro,
il più lontano possibile da quei due.
-Ascolta, - fa Ted, rivolgendosi a Miguel, cercando di mantenere la
calma, - ne ho solo duecento, qui con me. Ecco, prendili tutti e lasciami
la roba.
Con la mano tremante, Ted si fruga e tende due biglietti da cento
tutti spiegazzati a Miguel. L'uomo li prende e li infila in tasca,
senza mostrare però nessuna intenzione di soddisfare la richiesta
del ragazzo.
-Me ne devi ancora cento. - dice. - Con questi non ci paghi la roba
di stasera. I prezzi sono aumentati.
-Ora basta!! - strilla Ted, con voce resa stridula dall'isteria, e
incurante del coltello si lancia su Miguel, ma l'uomo, senza neanche
spostarsi, libera un pesante manrovescio che si abbatte sul volto
del giovane violentemente. Preso in pieno dalla forza d'urto del colpo,
questi scivola in terra senza un suono.
-Ted! Oh, mio Dio! -Terrorizzata, Rachel corre verso il corpo esanime
del ragazzo e si china su di lui. Il volto appare pallidissimo e un
rivolo di sangue che fuoriesce dal sopracciglio gli riga la guancia.
- Maledetto bastardo!! - urla Rachel, anche lei sull'orlo di una crisi
di nervi, stringendo tra le braccia la testa di Ted. - L'hai ammazzato!
Assassino!!
La mano di Miguel scatta come un lampo ed afferra la ragazza per i
capelli sollevandola quasi di peso. Gridando disperata per lo spavento
ed il dolore, Rachel percuote l'aria intorno a lei con i pugni, nel
tentativo di colpire l'uomo, ma vanamente.
-Il tuo bello ha un debito con me, dolcezza, - le mormora Miguel all'orecchio,
stringendola da dietro per impedirle di dimenarsi, - ma se davvero
ci tieni tanto a lui, potresti saldarlo tu, in natura.
Con gli occhi spalancati dal terrore, al pensiero di ciò che
l'attende, Rachel caccia un urlo ancora più forte e non appena
sente la grossa mano dell'uomo pressarlesi sulla bocca, stringe i
denti sulla carne con tutta la forza che ha. Questa volta è
il turno di Miguel di urlare. Con uno spintone, la ragazza si libera
della presa, ma fatti due passi, nella fretta inciampa in alcune bottiglie
abbandonate per terra e piomba al suolo di peso, in un gran rumore
di vetro infranto.
Miguel, osservandosi la mano insanguinata, afferra il coltello e si
getta verso di lei.
-Maledetta cagna! Adesso ti faccio strillare io!
Rachel, istintivamente, chiude gli occhi, aspettando che l'uomo le
piombi addosso con tutto il suo peso, ma ciò che accade non
è quello che si aspettava.
Attraverso il sipario delle palpebre serrate, sente un terrificante
frastuono, mentre un tonfo a poca distanza da lei le indica che il
corpo di Miguel non è atterrato dove intendeva. Disserrando
appena gli occhi, quasi timorosa di ciò che potrebbe vedere,
Rachel invece li spalanca un attimo dopo, davanti allo spettacolo
che le si presenta.
L'uomo chiamato Miguel è appoggiato contro il muro dal lato
opposto del vicolo e tiene davanti a sé il coltello, puntandolo
verso una figura di spalle, rispetto a Rachel, che si staglia dritta
di fronte a lui. E' inequivocabilmente una donna, ma molto alta e
prestante. A Rachel, ancora distesa in terra, sembra che misuri almeno
due metri e che superi di tutta la testa e le spalle quel Miguel che
ora, al suo cospetto, pare quasi un nano.
Ma non è l'altezza della donna a colpire di più la ragazza,
ma gli strani abiti che indossa. La vede solo di dietro, ma quella
è proprio un'armatura, come quelle indossate dagli antichi
romani o dai greci, e stringe una spada nella mano.
Miguel, che ora sta assaporando un terrore anche superiore a quello
che ispirava a Rachel solo pochi attimi prima, la fissa incapace di
muoversi. Il coltello in pugno è l'unica traccia di reazione
che mostra, ma la mano gli sta tremando al punto che c'è da
dubitare che sia in grado di colpire qualunque cosa.
Con un rapido colpo di piatto della spada, la donna fa volare via
l'innocua arma dalle mani di quella tremolante parodia di criminale
che è diventato il terribile Miguel, e un attimo dopo lo colpisce
al viso con la pesante elsa. La testa di Miguel rimbalza con un inquietante
scricchiolio contro il muro e lo spacciatore, privo di sensi crolla
al suolo.
Allora la donna si volta verso Rachel, e lei può vederla meglio.
Aveva ragione. E' proprio un'armatura quella che ha indosso. Le borchie
brillano nella poca luce del vicolo. Lunghi capelli scuri le incorniciano
un viso dai lineamenti perfetti e due occhi azzurri e gelidi come
lame di ghiaccio si posano su di lei.
-Oddioddioddio. - Rachel non riesce a dire nient'altro, mentre la
stupefacente figura le mormora qualcosa interrogativamente, in una
lingua che non comprende, accennando al ragazzo che giace in terra
a pochi passi da lei.
Rachel, che in quei pochi agitatissimi minuti aveva quasi dimenticato
il grande amore della sua vita, ricorda all'improvviso, tornando in
sé. Si alza e si avvicina a Ted, sempre senza perdere di vista
la donna con la spada. Sembra che il ragazzo si stia riprendendo e
il respiro le pare regolare.
-Sta bene. - dice - almeno credo.
La donna si avvicina a sua volta, e chinatasi su di lui, gli tasta
la nuca e il collo, poi addolcendosi in un sorriso, mormora qualche
altra incomprensibile parola in tono rassicurante.
In quel momento, in distanza, si odono delle sirene. Allora, la donna
fa la cosa più incredibile che Rachel abbia mai visto. Lanciando
una specie di grido di battaglia, si getta verso l'alto ruotando su
se stessa più e più volte, fino ad atterrare su un tetto
distante dal suolo almeno una decina di metri e scomparendo nel buio.
La ragazza rimane per lunghi interminabili secondi come paralizzata
ad osservare il nulla sopra di lei. Un movimento accanto, le comunica
che Ted sta riprendendo i sensi. Il ragazzo cerca di tirarsi in piedi,
aggrappandosi ad alcuni scatoloni appoggiati in un angolo.
-Che diavolo è successo? - borbotta, tenendosi la mano sulla
fronte insanguinata.
Rachel, dopo aver lanciato un'ultima occhiata verso l'alto, dove ormai
c'è solo il buio della notte, gli va vicino e lo aiuta a sorreggersi.
-Lascia perdere, - risponde, - tanto non ci crederesti.
E i due ragazzi si allontanano barcollando, mentre le sirene della
polizia si avvicinano sempre più.