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IDENTITA`SEPOLTA


ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SULLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

Xena and all characters and names related are owned by and copyright © 1995,1996,1997,1998,1999,2000,2001 by MCA Television/Universal Studios.

QUINTA PARTE: LA SEDUTA

VENTUNESIMO CAPITOLO


Le dita di Jennifer compongono un numero sul cellulare e la mano se lo porta all'orecchio, mentre dal microfono si odono distintamente gli impulsi sonori che corrispondono ad altrettanti squilli.
E' mattina, ormai, anche se presto. Le lancette dell'orologio appeso al muro della cucina, segnano appena le sette e cinquanta. Joyce dorme ancora, di un sonno profondo, quasi inquietante. Jennifer è stata a lungo indecisa se svegliarla o no, per accertarsi del suo stato, poi ha preferito lasciarla stare. Dopo qualche altro squillo, una voce ancora un po' assonnata, risponde.
-Pronto?
-Professore, mi dispiace disturbarla a quest'ora, ma non so se sarà il caso di tenere quella seduta oggi. - dice subito lei.
La voce di Sutherland appare subito più sveglia nell'udire quelle parole.
-Dottoressa Rowles… Jennifer. Cosa è successo? Joyce sta male?
-Ha avuto un'altra crisi. Urlava, piangeva. Sono corsa da lei e si è messa a parlare. All'inizio credevo che fosse sveglia e parlasse con me, ma non era così.
-Di nuovo sonnambulismo?
-No, non proprio. Se ne stava lì, seduta sul letto a piangere, rivolgendosi a qualcuno che vedeva solo lei.
-Cosa diceva? L'ha capito?
-Sì. Stavolta non ha usato quella… lingua. Diceva "Tu sei morta. Come hai potuto lasciarmi?" e poi ha continuato per diversi minuti a ripetere "Come farò senza di te?"
-"Tu sei morta" - ripete il professore, soprappensiero. - Ma non ha fatto nomi?
-No. Almeno non mentre c'ero io. Professore, come facciamo a sottoporla allo stress di una seduta d'ipnosi, in queste condizioni?
All'altro capo della linea, Sutherland resta in silenzio per qualche secondo, considerando la domanda con evidente attenzione.
-Il professor Irving mi ha detto di averle parlato ieri, e che lei sembrava d'accordo con la bontà dell'esperimento. - dice, poi.
-E lo ero. Ma prima che accadesse questo. La mente di Joyce è sottoposta ormai da settimane ad una tensione enorme. Rivivere il trauma di quella notte, in questo stato, potrebbe essere pericoloso. Senta, professore, sarò sincera con lei. - dice Jennifer che sente un bisogno disperato di sfogarsi. - Ieri pomeriggio, ho passato il momento peggiore da quando è cominciata questa storia. Mi sono chiesta seriamente cosa intendessi fare. Perché mi fossi fatta coinvolgere così profondamente, a scapito della mia vita e della mia carriera. E non sono riuscita a trovare una risposta. Non una ragionevole, almeno. Poi, ho ricevuto la telefonata del professor Irving. Quell'uomo è davvero straordinario, è riuscito a comunicarmi forza e a convincermi che stavo facendo la cosa migliore, ma ora… ora non lo so più.
Sutherland, che ha volutamente lasciato il tempo a Jennifer di buttare fuori tutti i suoi dubbi, riprende la parola.
-Ascolti, Jennifer, non è solo Joyce ad essere sottoposta a questa tensione. Lo è anche lei. E' logico che attraversi qualche momento di sconforto, ma si convinca che è questa la direzione da prendere se vogliamo avere qualche speranza di vedere la luce. La crisi di Joyce potrebbe anche non essere negativa. Quella ragazza sta lentamente ma progressivamente riprendendo possesso della sua memoria, del suo stesso essere. Per ora le accade solo in sogno, ma questa situazione presto potrebbe evolversi, dovrà evolversi, e noi dobbiamo fare tutto il possibile per controllarla, per dirigerla. Forse siamo solo strumenti in mano al destino, o a Dio se preferisce, ma credo che ci sia stato assegnato un grande compito e non possiamo mancare a questo impegno.
-Professore, io…
-Inoltre, Irving partirà fra qualche giorno per una serie di conferenze in Europa che lo terranno lontano per almeno due mesi. Non possiamo permetterci di attendere tanto.
Jennifer ha ascoltato con attenzione il discorso di Sutherland. La sua forza di persuasione è notevole. Quasi pari a quella di Irving. Ma i dubbi continuano a dibattersi dentro di lei. Quanto c'è di sincero, si chiede, in tutto quel fervore, quanta è autentica volontà di correre in soccorso di un essere umano, di un'anima sofferente, e quanta pura sete di conoscenza, arida curiosità scientifica? La stessa che porta a scoperchiare il cranio di una scimmia viva per studiare l'attività del suo cervello o a vivisezionare un topolino per osservare il suo cuore esposto, battere convulsamente dal terrore?
E anche questa è una domanda a cui preferisce non rispondere.
-Irving è il migliore, Jennifer. Lo sappiamo tutti e due, - prosegue Sutherland, ignaro di tutto, teso all'unico scopo di convincerla - non farà nulla, se non riterrà che Joyce possa sopportarlo, mi creda.
-Va bene, professore. - acconsente alla fine lei, con un sospiro rassegnato. - Facciamo come deciso. Ci vediamo dopo. - E spegne l'apparecchio prima che Sutherland possa aggiungere altro.
Jennifer posa il cellulare e si siede al tavolo della cucina. Portandosi una mano al viso, si accorge con stupore di una lacrima che le sta scorrendo lungo la guancia.
-Dio, - invoca, asciugandosela con un dito, - ti prego, fai che stiamo davvero facendo la cosa giusta. E proteggila. Proteggila.


Poco dopo, mentre Jennifer ha appena finito di vestirsi, un rumore in soggiorno le annuncia che Joyce si è svegliata ed è in piedi. Infatti, la trova davanti alla finestra, a scrutare fuori, fra i tetti dei palazzi sui quali sta già cominciando a battere un sole ancora debole, ma che annuncia una bella giornata.
-Ciao. - le saluta Jennifer. - Sei qui. Che c'è? Cosa guardi?
Joyce si volta, e l'amica scorge sul suo viso i segni di una notte agitata.
-Mi era sembrato che ci fosse un uomo su quel tetto, che guardava da questa parte. - dice.
Jennifer la raggiunge e guarda a sua volta, ma il posto appare deserto.
-Sarà uno dei poliziotti di guardia. Carruthers mi ha detto che l'ha posizionato sul tetto di fronte.
-Oh, - risponde Joyce - è strano, però. Mi è parso che si nascondesse, quasi che non volesse essere visto. - Dopo aver lanciato un'ultima occhiata, un po' inquieta fuori, Joyce si allontana dalla finestra. - Sono distrutta, stamattina. Vado a farmi un caffè .
-Hai dormito male? Brutti sogni? - chiede Jennifer, cercando di sembrare il più casuale possibile.
-Non ricordo nulla. Buio assoluto. - risponde Joyce, meditabonda. - Eppure…
-Eppure? - l'incoraggia, con un po' di timore, Jennifer.
-Non so, a volte mi sembra che… oh, non so come spiegarmi.
-Provaci.
-E' come se vivessi due vite parallele. Una nella realtà e una in sogno. - risponde Joyce, fissandola.
-Non è così strano. In fondo, è un po' vero per tutti. Non sappiamo molto sui sogni, nonostante siano studiati da decenni in tutto il mondo. Oggi li consideriamo come una specie di valvola di sfogo che di notte depura la nostra mente dalle intossicazioni che incameriamo durante il giorno, ma per secoli, si è pensato che fossero molto di più, - spiega Jennifer - una porta su altri mondi, addirittura la soglia dell'aldilà. Ma tu non pensarci. - aggiunge, accorgendosi dello strano sguardo della ragazza. - Sono solo antiche credenze.
-La cosa che più mi spaventa - dice Joyce - è che a volte ho dei dubbi su quale sia la realtà vera e quale il sogno.
Poi si gira e scompare in cucina.


Sulla strada, l'auto della polizia senza segni di riconoscimento, è posteggiata lungo il bordo del marciapiede. Dentro, uno dei due poliziotti di turno, sta sorbendo le ultime gocce di caffè in un bicchiere di carta che il collega gli ha appena portato.
-OK, - dice, gettando il contenitore ormai vuoto fuori dal finestrino, - è ora che salga su quel dannato tetto. Ci si bolle col sole.
-Divertiti. - gli risponde il collega con un sorrisetto. L'uomo, che si chiama Joseph Ducanne, ha trentotto anni, un'incipiente calvizie e una discreta pancia, frutto di troppe birre e pasti irregolari. Attraversa la strada ed entra nell'ingresso principale del palazzo di fronte. Come è già accaduto il giorno precedente, il portiere è assente e l'agente si dirige agli ascensori. Con la mente occupata dalle rate del mutuo per la casa e la preoccupazione per suo figlio Benjamin di tredici anni, che si è appena beccato una forma particolarmente virulenta di morbillo. Ducanne è preoccupato perché gli hanno detto che il morbillo può essere pericoloso se preso non da piccolissimi, e il faccino di Ben, quando l'ha visto per l'ultima volta quel mattino presto, ancora sepolto sotto le coperte, non l'ha per nulla rassicurato.
Con questi pensieri e lontanissimo dall'essere concentrato sul suo compito, il poliziotto esce all'ultimo piano dell'ascensore e comincia a salire la breve scala che porta all'uscita sul tetto. Troppo tardi i suoi occhi gli comunicano un rapido movimento alle sue spalle e, prima che possa reagire, un colpo tremendo alla testa cancella all'istante tutti i suoi pensieri e preoccupazioni.


Il ronzio del campanello fa quasi sobbalzare Jennifer. Istintivamente il suo sguardo corre all'orologio sulla mensola. Le dieci in punto.
"Hanno volato." pensa "Sutherland temeva proprio che cambiassi idea."
L'uomo sulla soglia, accanto al professore, s'inchina compito, quando Jennifer apre. La psicologa l'ha già visto in altre occasioni, in televisione e di persona ad un paio di congressi, ma mai così da vicino.
John Irving è sulla cinquantina, ma la sua età è tradita solo dal grigio sulla folta chioma e qualche ruga sotto gli occhi, per il resto dimostrerebbe dieci anni di meno. Il viso senza barba o baffi, rasato di fresco e atteggiato al sorriso, scompare quasi dietro la profondità dello sguardo, la caratteristica che più colpisce chiunque venga a contatto con lui. Jennifer non può fare a meno di sentirsi in soggezione sotto l'attenta disamina a cui è sottoposta.
-Jennifer, - dice Sutherland, cedendo il passo al suo compagno, - mi permetta di presentarle il professor John Irving. La dottoressa Rowles, professore.
-Mia cara dottoressa. - Irving da perfetto gentiluomo si china a sfiorarle la mano. - E' un onore conoscerla, anche se ci siamo già sentiti per telefono. Sutherland mi ha raccontato qualcosa delle vicissitudini che state attraversando lei e la sua, come chiamarla, paziente o amica?
-L'onore è mio, professore. - risponde Jennifer, un po' sorpresa da quella delicatezza vecchio stampo. - In quanto a Joyce, ormai la considero soprattutto un'amica, e mi sta molto a cuore la sua salute fisica e mentale.
-Naturalmente. I suoi timori sono più che comprensibili, ma come sicuramente le avrà spiegato l'amico Sutherland, la mia preoccupazione maggiore sarà proprio quella di non creare ulteriori traumi a Joyce e, anzi, cercare di aiutarla per quel che potrò.
-Ma certo. - s'intromette Sutherland, prendendo sottobraccio sia Jennifer che Irving e portandoli verso l'ampio divano del salotto. - La dottoressa Rowles è perfettamente consapevole che la nostra Joyce è in ottime mani e che ogni timore per lei non ha ragione di esistere. Inoltre, caro amico, Joyce è una ragazza straordinariamente intelligente e coraggiosa e vedrà che saprà collaborare nel migliore dei modi.
-Un momento, professor Sutherland. - Jennifer è costretta quasi ad alzare la voce per frenare quel fiume di parole. - Prima di cominciare qualunque cosa, credo sia meglio che il professor Irving sia messo al corrente nei dettagli della situazione.
-Dottoressa Rowles, a quanto ne so, il professore preferisce parlare direttamente con il soggetto per prima cosa. - dice Sutherland, con aria ansiosa.
-Ma - la voce di Irving sovrasta quella dell'altro - non ho alcuna difficoltà, vista la natura "particolare", diciamo così, del caso, a mutare le mie abitudini. Mi dica pure ciò che vuole, dottoressa.
-Joyce Bowers - comincia Jennifer - è una ragazza che sta attraversando un momento difficilissimo. Io non ho una grande esperienza come lei, professore, ma credo che anche a lei alcuni aspetti di questo caso appariranno insoliti. Dubito che il professor Sutherland possa avergliene parlato nei dettagli, anche perché alcune cose non le sa nemmeno lui. La prego di scusarmi - prosegue, rivolgendosi a Sutherland - se non le ho raccontato proprio tutto. C'era un segreto istruttorio da rispettare, ma credo che ormai questa cosa sia andata troppo avanti. Se vogliamo davvero aiutare quella ragazza, credo che sia il caso di mettere da parte i segreti. Quello che sto per dirvi, vi prego, che rimanga tra noi, perché temo di non aver chiesto ufficialmente l'autorizzazione per riferirlo.
I due uomini la osservano col massimo interesse, ma nessuno dei due dice nulla.
-Ho conosciuto Joyce in una stanza d'ospedale, - continua Jennifer - dove era stata ricoverata in seguito ad un'aggressione. Una pattuglia della polizia l'aveva trovata priva di sensi in un vicolo. Qualcuno ce l'aveva lasciata approntando per lei un giaciglio improvvisato. Aveva una leggera commozione cerebrale. Accanto a lei, era stata trovata una mano d'uomo mozzata. All'inizio non sapevamo cosa pensare. La Procura mi aveva assegnato il compito di seguire il caso per coadiuvare la polizia, ma io avevo una strana sensazione. Non saprei come definirla. Quella ragazza mi colpì subito. C'era qualcosa in lei… ma non usciamo dal seminato. Prima ancora che si svegliasse, la sentimmo parlare nel sonno, io e il tenente Carruthers, l'incaricato dell'inchiesta, e pensammo che fosse straniera, visto che non era stata ancora identificata, perché parlava in una lingua che non comprendevamo assolutamente. Ma quando si riprese scoprimmo che non era affatto così. Ci disse il suo nome e ci confessò di avere ucciso suo marito.
Sutherland la fissa allibito.
-Sì, professore, questo è un altro dettaglio che le avevo taciuto, e le chiedo ancora scusa, ma ritenevo, e in parte ne sono ancora convinta, che fosse meglio non divulgarlo. Tanto più che non corrispondeva alla verità. Mark Bowers, il marito, un sadico che le aveva reso la vita impossibile picchiandola tutte le volte che ne aveva voglia, doveva trovarsi, secondo quello che ci aveva detto Joyce, nella loro casa con un coltello nel petto, che lei stessa gli aveva piantato per difendersi dall'ennesimo pestaggio, ma non era così. Dell'uomo non fu trovata nessuna traccia, a parte un po' di sangue. E questo, anche se alleggeriva la posizione di Joyce da una possibile accusa di omicidio, sia pur per legittima difesa, non contribuiva affatto a chiarirla. Joyce non ricordava praticamente altro. Né come fosse giunta dove era stata ritrovata, né cosa le fosse capitato lì. L'unica cosa che ricordava era una donna armata di spada, una figura confusa però, ed una voce che le aveva parlato in una lingua che non conosceva, subito prima che perdesse i sensi. Il resto più o meno lo conosce anche il professor Sutherland e probabilmente gliene avrà già parlato.
-Sì, - risponde Irving, quasi soprappensiero, come se stesse ancora considerando le informazioni fornitegli da Jennifer. - me ne ha accennato a grandi linee, ma come lui stesso ha detto prima, io preferisco parlare direttamente coi soggetti. Ma invece, sono particolarmente interessato a saperne di più su quella sensazione di cui mi parlava prima. Mi diceva che quella ragazza l'aveva particolarmente colpita. Potrebbe spiegarmene il motivo?
E lo psichiatra si china in avanti verso di lei, come per concentrarsi il più possibile sulla sua risposta. Jennifer lo guarda imbarazzata. Non sa nemmeno lei perché se ne è uscita con quella affermazione che poteva benissimo risparmiarsi.
-No, non lo so. E' come se avessi intuito… oh, so che non c'è niente di scientifico in questo, - sbotta poi, come esasperata dalla sua incapacità di esprimere il concetto in termini razionali - ma è come se in quella ragazza ci fosse di più di ciò che si vede, qualcosa che sfugge alla nostra mentalità materialistica, ma che sta chiedendo aiuto da molto lontano.
Per qualche secondo nella stanza, il silenzio regna assoluto. Sutherland e Irving la guardano come affascinati. Poi Irving parla.
-Dottoressa Rowles, credo che lei abbia reso l'idea magnificamente. Adesso non vedo davvero l'ora di conoscere la sua amica. Ma prima, un'ultima cosa, questo marito di cui mi parlava. Se ne è più saputo nulla?
-Oh, sì, direi proprio di sì. L'ha seguita dove l'avevamo nascosta per proteggerla. Credo che volesse rapirla, e ha quasi ucciso me nel tentativo. Ma l'abbiamo fermato anche se è riuscito a scappare. Ora, professore - aggiunge rivolgendosi a Sutherland - sa anche perché il nostro primo incontro dovette essere rimandato.
-Non si preoccupi, Jennifer, - risponde Sutherland - capisco la sua posizione e non la biasimo. Caro Irving, le parlavo prima del coraggio della signora Bowers, ma le assicuro che la dottoressa non è da meno. Ha impegnato tutta se stessa in questa storia e del tutto altruisticamente.
-Non ne dubitavo affatto. - dice Irving con ammirazione. -Ma ora, penso che sia arrivato il momento di parlare con lei.
-Vado a chiamarla. - Jennifer si alza e si avvia verso la stanza da letto. - Se volete scusarmi un attimo.
Joyce è distesa sul letto con gli occhi aperti quando Jennifer entra. La ragazza subito si solleva dal cuscino a guardarla.
-Ti ho sentita parlare con qualcuno. Sono loro? - chiede.
-Sì. - Jennifer si chiude la porta dietro. - Sei pronta? Come ti senti?
-Un po' meglio. - dice Joyce scendendo dal letto. - Almeno non ho più quella tremenda emicrania.
-Joyce, te lo devo chiedere ancora una volta.- fa Jennifer andandole vicina. - Te la senti? Sei sicura di volerlo fare?
La ragazza la fissa per un attimo e poi l'abbraccia, nascondendo il volto contro la sua spalla.
-Tienimi stretta, Jen. Ho paura. Mentirei se non l'ammettessi, ma il desiderio di sapere è più forte. Devo farlo. - dice.
Jennifer risponde con calore al suo abbraccio, mentre sente le lacrime bruciarle agli angoli degli occhi.
-Ti voglio bene, Jennifer. - le sussurra all'orecchio la voce di Joyce.
-Anch'io ti voglio bene. Tanto. - risponde lei stringendola a sé.


-Signora Bowers, - John Irving non può fare a meno di fissare ammirato Joyce, tenendole la mano che lei gli tende, tra le sue - mi avevano parlato della sua intelligenza e del suo coraggio, ma non della sua bellezza.
Un po' imbarazzata da quell'inaspettato, ma evidentemente sincero, complimento, Joyce ritira la mano e se la passa tra i capelli scostandoli dal viso. In quel momento, rimpiange di non aver neanche pensato a truccarsi un po' almeno per quell'incontro.
-La prego, - dice - mi chiami Joyce. Bowers è un nome che spero di cancellare presto dalla mia vita.
-Capisco. Sarà un piacere per me.
Joyce, Irving, Sutherland e Jennifer sono tutti seduti ad occupare il divano e le due poltrone del salotto di Jennifer. Joyce ed Irving sono sul divano al centro e lo psichiatra è leggermente chino verso di lei.
-Probabilmente, lei non mi conosce, - dice lui - ma io sono qua per cercare di aiutarla ad uscire dalla brutta vicenda in cui si è trovata.
-Sia Jennifer che il professor Sutherland mi hanno parlato di lei. E da quel che mi hanno detto, lei è l'unico che possa riuscirci.
-Sono troppo buoni. Ma posso garantirle che farò del mio meglio. Ora, mia cara - dice Irving, alzandosi - vorrei che lei si distendesse su questo divano. Così. Appoggi la testa sul bracciolo. E' comoda? Molto bene. Dottoressa Rowles, professore, vi dispiacerebbe lasciarci soli per un po'?
Sutherland si alza e Jennifer fa altrettanto con una leggera esitazione. Joyce la guarda con occhi imploranti.
-Jen. - mormora.
-Non temere, tesoro. Stai tranquilla. Io e il professore aspetteremo di là. - dice Jennifer, sorridendole per rassicurarla.
-Non ci vorrà molto. - dice Irving, seguendoli per chiudere la porta.


Nella cucina, con il solo rumore del ticchettio dell'orologio, Jennifer e Sutherland restano per un po' seduti in silenzio. Poi la donna si scuote.
-Vuole un caffè, professore? Tanto non riesco a stare ferma. Se non faccio qualcosa, mi metto a urlare.
-L'accetto volentieri, grazie. Ma lei non deve essere così tesa. Anche lei è del mestiere e dovrebbe sapere che Joyce non corre rischi.
-L'unica cosa che so - dice Jennifer, preparando le tazze - è che quella povera ragazza ha dovuto confrontarsi con traumi fisici e psicologici di ogni genere e se adesso, per colpa nostra, dovesse succederle qualcosa, io…
-Non le succederà niente. - l'interrompe Sutherland - L'ha detto anche lei che è una ragazza forte. Ne ha superate tante. Supererà anche questa. Andiamo, su, su. - fa il professore, vedendo Jennifer cedere alle lacrime. - E' stata dura anche per lei. Perché non mi aveva parlato del marito?
Asciugandosi gli occhi, Jennifer torna ad occuparsi del caffè.
-Non lo so. Non capisco più niente di ciò che faccio e del perché lo faccio. Forse avrei bisogno anch'io di un po' d'ipnosi. - risponde, trovando la forza di un mezzo sorriso.


Nella mente di Jennifer, l'attesa diventa infinita, insostenibile. Praticamente ogni minuto, il suo sguardo corre alla porta del salotto che dal tavolo a cui è seduta si intravede parzialmente. Le tazze di caffè sembrano già svuotate da una vita, quando finalmente il rumore della maniglia abbassata la fa sobbalzare, ma l'orologio nel suo freddo ticchettio dice che non è passata più di mezz'ora da quando quella stessa maniglia aveva girato in senso contrario chiudendo la porta dietro di loro. Anche Sutherland, perso nelle proprie meditazioni, si volta di scatto, mentre il professor Irving esce dal salotto ed entra nella cucina. Il suo sguardo adocchia subito la caraffa del caffè ormai quasi vuota.
-Potrei averne un po' anch'io? - chiede.
Jennifer che lo fissa ad occhi spalancati, è quasi colta di sorpresa dalla richiesta.
-Oh, certo - dice - ma questo ormai è freddo. Gliene faccio subito dell'altro.
-Non si disturbi. Va benissimo così. - prova a dire Irving, ma la donna è già all'opera.
-Ci vorrà un minuto. Si metta a sedere.
Irving si accomoda sulla sedia occupata fino ad un attimo prima da Jennifer, e Sutherland, che non sta più nella pelle, rompe subito gli indugi.
-Allora, che gliene è parso?
Lo psichiatra sembra riflettere un attimo, prima di rispondere.
-Beh, non c'è dubbio che quella poverina ne abbia passati di brutti momenti, ma è di fibra forte. Abbastanza da poter sopportare l'esperienza.
Il sospiro di sollievo di Sutherland a quelle parole è chiaramente udibile.
-Quindi sosterrà la seduta? - chiede.
-Se dipende da me, si. - risponde Irving, accettando con un sorriso la tazza fumante che Jennifer gli porge.
-Le ha raccontato dei suoi sogni? - chiede la donna.
-Un po' vagamente. Ma devo dire di non aver insistito troppo. Sembra che la cosa le procuri angoscia e non volevo crearle più stress del necessario.
-Che cosa ne pensa?
-Beh, non ho molti elementi su cui basarmi. Potrebbe trattarsi di un messaggio del suo subconscio, di un lontano ricordo che in qualche modo ha sepolto e che ritorna sotto una forma, diciamo, mediata. Non saprei, è difficile dirlo così di primo acchito. Comunque la cosa non dovrebbe pesare più di tanto, visto che è antecedente al trauma di cui dobbiamo occuparci.
-Ma i suoi sogni sono cambiati dopo questo. - insiste Jennifer - Ha avuto incubi terrificanti. Ha parlato e camminato nel sonno. E a volte si esprime in lingue che non può conoscere.
Mentre parla,Jennifer coglie con la coda dell'occhio, uno sguardo d'avvertimento lanciatole da Sutherland.
-Via, via, dottoressa - interviene questi - sono sicuro che è proprio il trauma dovuto all'aggressione che non riesce a ricordare a causarle questi problemi, e se riusciremo, cioè se il professor Irving riuscirà a farglielo rivivere in maniera liberatoria, Joyce ne trarrà un grande giovamento.
Jennifer tace, mentre Irving la guarda perplesso.
-Un momento. - dice - Cos'è questa storia delle lingue sconosciute?
Nervosamente Sutherland guarda Jennifer e poi si volta verso la finestra dando loro le spalle. Sotto lo sguardo inquisitore di Irving, Jennifer resta un momento indecisa, poi parla.
-Le ho già detto che quando la vedemmo la prima volta, pensammo che fosse straniera perché nel sonno parlava una lingua che non riuscivamo a decifrare. E' successo ancora, e sempre in coincidenza con sogni o incubi.
-Siete riusciti a capire che lingua è? - chiede Irving, rivolgendosi anche a Sutherland, ancora apparentemente interessato al panorama fuori dalla finestra.
- Greco arcaico. O così l'ha definita il professore. - dice Jennifer senza esitazioni.
-Volete dire che quella ragazza si è espressa nel sonno in una lingua morta da secoli? - chiede Irving con uno sguardo di rimprovero. - Non pensa che fosse opportuno mettermene al corrente, Sutherland?
Il professore si volta, guardandolo un po' imbarazzato.
-Mi scusi. Non volevo nasconderle qualcosa. Ma temevo che se le avessi parlato di queste cose, avrebbe potuto rifiutare di occuparsene.
Irving non risponde, aggirandosi per la cucina con le mani in tasca, pensieroso.
-Questo cambia la situazione? - chiede Jennifer.
-Teoricamente no. - risponde lo psichiatra. - Ma è certo che in questa storia esistono elementi di cui non ero a conoscenza. Per cui, è bene agire con maggior cautela. D'accordo. - dice - E' ora di occuparsi della nostra paziente. Voi due sarete presenti. Se vedrà intorno a sé dei volti amici sarà più a suo agio. Però prima una cosa.
Jennifer e Sutherland che stavano avviandosi, si bloccano.
-C'è altro che dobbiate dirmi, prima di cominciare? - chiede Irving, fissandoli severo.

 





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