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IDENTITA`SEPOLTA


ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SULLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

Xena and all characters and names related are owned by and copyright © 1995,1996,1997,1998,1999,2000,2001 by MCA Television/Universal Studios.

VENTIQUATTRESIMO CAPITOLO

La mezz'ora seguente è la più concitata degli ultimi giorni. Mentre Jennifer cerca freneticamente di mettersi in contatto con Carruthers, senza successo ("Il tenente non è in ufficio. Posso esserle utile io?" risponde più volte in maniera querula e irritante il suo assistente, evitando però di dire dove si trovi, e al telefonino, una voce automatica, e ancor più irritante, ripete che "l'utente non è al momento raggiungibile"), sulla strada si sente la sirena di un ambulanza in arrivo, seguita da quella di un paio di pattuglie della polizia che frenano rumorosamente davanti all'edificio, con gran sbattere di portiere e uomini che si precipitano all'interno. Il professor Sutherland che ha seguito tutto dalla finestra, si volta verso Jennifer ancora occupata al telefono.
-Guardi, - dice - non è quello il tenente?
Jennifer corre alla finestra, appena in tempo per scorgere l'inconfondibile stempiatura di Carruthers scomparire oltre la porta a vetri.
-Lei non si muova di qui. Joyce è sola. Io scendo. Vado a vedere cosa è successo e torno subito.
E senza dare a Sutherland neanche il tempo di rispondere, la donna esce di corsa, dirigendosi verso l'ascensore.


Nella strada la sensazione di attività poliziesca in corso è ancora più forte. Il folto gruppo di curiosi che si sta ammassando intorno all'ambulanza e alle macchine della polizia, è tenuto rigidamente a distanza da un paio di agenti nerboruti con minacciosi manganelli appesi al fianco. Attraverso la porta a vetri semiaperta, Jennifer intravede il tenente a colloquio con un uomo che a prima vista non riesce a identificare, ma che avvicinandosi riconosce per il portiere dello stabile. D'improvviso un braccio si frappone tra lei e la scena.
-Mi dispiace, signora, non si può passare.
Uno dei due poliziotti, un uomo sulla quarantina, alto e robusto, le sbarra la strada, cortesemente ma con fermezza.
-Sono Jennifer Rowles, dell'ufficio del Procuratore. Vorrei parlare con il tenente Carruthers.
Evidentemente spiazzato dalla dichiarazione, l'agente che l'aveva considerata solo una curiosa, resta per un attimo interdetto, forse chiedendosi se non si tratti di uno scherzo, poi decidendo di non correre rischi, abbassa il braccio.
-Un momento, - dice - aspetti qui.
L'uomo si allontana dirigendosi verso il tenente che è ora sulla soglia del palazzo ancora in colloquio con il portiere. Appena il poliziotto gli si rivolge, Carruthers alza lo sguardo verso di lei e le fa cenno di avvicinarsi. Poi congeda il portiere e prende Jennifer sottobraccio entrando nell'edificio.
-Che cosa è successo? - fa la donna.
-Un casino. - risponde il tenente, proprio mentre dall'ascensore esce una barella con due infermieri e quello che evidentemente è un medico, trasportando un uomo col volto tumefatto e una pesante fasciatura alla testa. Il gruppetto esce con passo affrettato, dirigendosi verso l'ambulanza che pochi secondi dopo riparte a sirene spiegate.
-E' uno dei poliziotti che avevo messo a controllare la Bowers. Stamattina spettava a lui salire sul tetto. - spiega Carruthers - Quando il suo collega non l'ha visto scendere alla fine del turno, ha cercato di chiamarlo per radio ma non ha ricevuto risposta. Allora ha avvisato in centrale ed è salito a controllare. Lo ha trovato disteso davanti alla porta interna che dà sul tetto. Qualcuno l'ha colpito più volte, alla testa e al volto e anche da qualche altra parte, credo.
-Ce la farà?
-Credo di si. Ha ripreso conoscenza mentre il dottore lo visitava. Ha la testa dura, evidentemente.
-Ha visto chi è stato?
-No. Il primo colpo, quello che gli ha fatto perdere i sensi, l'ha ricevuto alle spalle, dice, e poi l'aggressore si è divertito a lasciargli qualche ricordino.
-Bowers?
Jennifer osa appena pronunciare il nome.
-L'ho pensato anch'io, ma non è detto. Il portiere mi diceva che talvolta, approfittando della sua assenza, per commissioni, a sentir lui, qualche vagabondo o ladruncolo si è introdotto nel palazzo in passato, e quindi non è da escludere che possa trattarsi di un caso del genere.
-Ma quale vagabondo o ladruncolo pesterebbe a sangue un uomo, addirittura un poliziotto? Tu ci credi?
-Non molto, ma me lo auguro. - risponde il tenente, fissandola. - Altrimenti potrebbero essere guai seri. L'aggressore, chiunque sia, gli ha portato via la pistola. Te lo immagini cosa potrebbe fare un pazzoide come Bowers con una pistola?
Jennifer lo guarda senza parlare.
-Ora faremo qualche riscontro. L'uomo che l'ha aggredito non portava guanti, pare. Rileveremo qualche impronta e traccia di sangue e le confronteremo con quelle nell'appartamento di Bowers. E se collimeranno - dice Carruthers, calcando sulle parole perché Jennifer capisca bene, - andrò io stesso a parlare con il Procuratore perché ti tolga il caso.
-Cosa? - chiede Jennifer, quasi senza fiato dalla sorpresa.
-Ci puoi scommettere. Non ho nessuna intenzione di far visita al tuo cadavere steso su un lettino d'obitorio. Questa cosa ci sta sfuggendo di mano e non è possibile lasciarla in carico ad una semplice psicologa, sia pur in gamba e determinata come te. - aggiunge l'uomo in risposta ad un'occhiata fulminante della donna.
-Ah, ah. - risponde sardonica Jennifer con aria furiosa. - Cos'è, la carota dopo il bastone? Per me puoi rivolgerti anche al Presidente in persona, ma se credi che lascerò Joyce da sola, mi conosci male.
-Ma che c'è, - sbotta di rimando Carruthers, cercando di tenere la voce sotto controllo con uno sforzo, - vi siete fidanzate voi due? Ascolta, a me non interessa affatto cosa farai con lei, quando questa storia sarà finita. Per me potete anche ritirarvi insieme ad allevare polli nel Wisconsin, ma lo farai appunto dopo che sarà finita. Adesso sta diventando troppo pericoloso.
-Ascolta tu, brutto babbeo. - sibila minacciosamente Jennifer, fissando negli occhi il tenente con uno sguardo gelido. - Io sono l'unica persona di cui quella povera ragazza possa fidarsi. Vuoi continuare con le tue stupide insinuazioni? Credi che sia innamorata di lei? E va bene, e se lo fossi? Ma comunque questo non c'entra assolutamente niente. L'unica cosa che conta è che io voglio aiutarla, mi capisci? Voglio aiutarla! Non lo faccio per la carriera, anzi, me la sto sputtanando! E non lo faccio per la fama o per la sete di conoscenza. Lo faccio per lei, unicamente per lei. Perché sento che è giusto, perché sento che deve essere fatto ed è quello che farò! Muovi pure le tue pedine, se vuoi, e io muoverò le mie, ma ti assicuro che niente, mi hai sentito? NIENTE, mi impedirà di restarle vicina!
E con queste parole, Jennifer volta le spalle ad un Carruthers totalmente interdetto e se ne va.


Nel tragitto che la separa dal suo appartamento, il cervello della donna continua a girare come una trottola intorno a ciò che ha appena detto, anzi praticamente urlato, in faccia al tenente.
Credi che sia innamorata di lei? E va bene, e se lo fossi?
"Ho detto proprio così? Dio," pensa "che mi ha preso? E' la prima volta che ammetto con me stessa quello che provo per Joyce e lo faccio quasi gridando davanti a testimoni? Se prima Carruthers pensava che avessi perso la testa, adesso ne sarà sicuro. E poi che pedine posso muovere, se il Procuratore decidesse di togliermi il caso? Divento ogni giorno più stupida e stavolta forse ho davvero rovinato tutto."
Rientrando in casa, Jennifer si accorge a malapena della presenza di Sutherland che appena la sente arriva di corsa, tutto affannato come un cane festante al rientro del padrone.
-Cosa c'è? Cosa è successo? - le chiede ansioso.
-Eh? No, niente d'importante. Un… un incidente. - risponde la donna.
-Un incidente? E quelle macchine della polizia?
Jennifer esita un momento mentre la sua mente lavora alacremente alla ricerca di una storia plausibile.
-Ehm, si, - dice poi - il ferito, l'infortunato è un poliziotto. Uno di quelli che era di guardia qui sotto. Deve essere caduto battendo la testa e i suoi colleghi hanno creduto ad un aggressione.
Il professore la fissa per qualche secondo. Poi si lascia cadere sul divano.
-Insomma, Jennifer, - dice - per chi mi prende? Vogliamo smettere di giocare a nascondino? Quell'uomo è stato aggredito, vero?
-Ah, io giocherei a nascondino? - scatta come una molla la donna. - E lei? Che racconta soltanto le cose che le convengono, che tesse le sue tele usando le persone a suo piacimento? Che razza di gioco fa lei?
Poi la tensione nervosa troppo a lungo trattenuta esplode e Jennifer scoppia in un pianto dirotto. Sutherland le si avvicina, ma la donna respinge con rabbia la mano che lui le ha posato sulla spalla.
-Mi lasci stare, per favore. E la prego, se ne vada adesso. - dice.
-Senta, Jennifer, lei è molto provata. Forse un po' d'aria di campagna le farebbe bene. Perché lei e Joyce, non venite per un po' da me? Io ho una villetta fuori città, è piccola, ma ha tutti i conforts. Io non ci vado quasi mai e…
Jennifer, il viso ancora bagnato di lacrime, gli si rivolta contro, con veemenza interrompendolo bruscamente.
-Ma certo! Per lei sarebbe l'ideale, vero? Avrebbe la sua "esca" addirittura in casa, da poter controllare completamente. Beh, se lo scordi!
-Ma no, io non… - tenta di ribattere il vecchio.
-Per favore! Se ne vuole andare? In questo momento non ho voglia di discutere, né con lei né con nessun altro!
Il professore si alza lentamente, muovendosi a piccoli passi verso la porta.
-Capisco. - dice - Mi creda, non c'erano secondi fini nella mia proposta, anche se posso comprendere che non sia facile da credere dopo ciò che le ho detto. Ma ci pensi su. Soprattutto se quello che è accaduto qui di fronte è in relazione a Joyce. Neanche questo posto potrebbe essere più sicuro per lei. Arrivederci. Spero di risentirla presto. E l'anziano docente scompare oltre la porta.


Nel salottino, ormai regna l'oscurità della sera. Jennifer, sola, seduta in poltrona, si versa ancora un po' di whisky liscio e si adagia contro lo schienale, sorseggiandolo. Non saprebbe dire neanche lei da quanto è lì. Subito dopo che Sutherland se ne è andato, lei si era accertata che Joyce stesse bene (e soprattutto che non avesse sentito nulla della loro conversazione) e dopo aver preparato un pasto leggero per tutte e due, rapidamente consumato in cucina, quasi senza parlare, perse ognuna nei propri pensieri, era rimasta lì a sedere e a bere, mentre Joyce, forse avvertendo lo stato di tensione nell'aria, aveva preferito ritirarsi in camera. Poco dopo dal citofono, gli uomini del turno di notte, l'avevano avvisata del loro arrivo. Jennifer aveva chiesto loro del collega ferito, ma i due non avevano saputo risponderle. Carruthers non si era fatto vivo, ma neanche lei aveva cercato di rintracciarlo. Ancora le risuonano nelle orecchie le parole che gli aveva urlato. Ma in questo momento, non le interessa sapere che reazione possa aver avuto il tenente alla sua sfuriata e neanche i provvedimenti che potrebbero essere presi nei suoi riguardi. Perfino l'inquietante aggressione del poliziotto, anche se la preoccupa, non è al centro dei suoi pensieri. Per ora, l'unica cosa che li occupa è la sua dichiarazione nei confronti di Joyce. Perché l'ha fatta? E' davvero così? E' veramente innamorata di lei? Eppure, nonostante le dicerie che circolano in ufficio, lei non si è mai accorta di avere pulsioni di quel genere. Certo, gli uomini non l'hanno mai interessata troppo, ma se per questo, non ha mai provato particolare attrazione neppure per le donne. Ha sempre creduto che l'unica cosa che fosse in grado di assorbirla totalmente fosse il suo lavoro. Ma allora, come spiegare ciò che ha provato fin dal primo momento per Joyce? Come mai basta un suo sguardo, un suo sorriso per accelerarle i battiti del cuore? Perché quando la vede triste o la sorprende a piangere, smarrita in sogni che non comprende, l'impulso ad abbracciarla e tenerla stretta a sé, diventa più forte di qualunque altra cosa? Se questo non è amore, cos'è? Perché oggi, da quando è tornata a casa dopo la sparata a Carruthers, non è quasi mai riuscita a guardarla negli occhi o a parlarle? Di cosa ha avuto timore? Di sentire forse nel suo cuore la conferma alle sue sensazioni?
Quasi senza accorgersene, Jennifer si versa dell'altro whisky e fa per berlo. Ma la sua mano blocca il bicchiere a pochi millimetri dalle labbra.
-No, - dice a se stessa con un sorriso amaro, - no. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un'ex-consulente della Procura alcolizzata.
Si alza e va a versare il contenuto del bicchiere nel lavabo.
-E per di più lesbica di ritorno. - aggiunge, mentre guarda il liquido rosato che scompare nel tubo di scarico. Poi, sciacquato il bicchiere, lo asciuga e lo ripone nella credenza. Si passa una mano ancora umida tra i capelli, scostandoli dal viso e si arresta là, in mezzo alla cucina, a guardarsi intorno senza riuscire a vedere assolutamente nulla, completamente presa dalle sue meditazioni. Lo squillo del cellulare, rimasto sul tavolo, non lo sente quasi. Solo dopo qualche istante, mentre l'insistente suoneria continua a mandare il suo richiamo, Jennifer torna alla realtà e si precipita a prendere l'apparecchio.
-Ehi, ti sei calmata?
La voce di Carruthers ha il solito tono ironico. Jennifer l'accoglie con sollievo.
-Si, George, - risponde lei - scusami. Sono una stupida. Non so neanch'io perché ti ho detto quelle cose.
-Lasciami indovinare. Forse perché sono vere? Ferma, ferma, - si affretta ad aggiungere subito il tenente, - non ricominciamo. In fondo io e te non siamo molto diversi. Abbiamo entrambi il viziaccio di fare i riservati quando dovremmo confidarci e di dire tonnellate di sciocchezze quando invece sarebbe più saggio tacere.
-Già, credo che tu abbia ragione. Ci sono novità?
-Niente. Qualche impronta l'abbiamo trovata, ma troppo confuse per rendere accettabile qualunque confronto. Ducanne, il poliziotto aggredito, se la dovrebbe cavare in un mesetto o poco più. Ha perso tre denti e ha due costole fratturate, oltre ad un numero imprecisato di contusioni. Al buon Bowers, evidentemente, mancano molto le battute quotidiane sulla sua mogliettina.
-Allora, sei proprio convinto che sia stato lui?
-E chi vuoi che sia stato? Aggrediscono un poliziotto che è di guardia a sua moglie, a due passi da dove lei si trova attualmente e con la stessa tecnica di pestaggio sistematico che lui ha già ampiamente sperimentato. Mi ci giocherei lo stipendio di tutto l'anno.
-Ma se è così, perché non ha tentato niente contro Joyce?
-Il nostro amico è suonato, ma non è scemo. Deve aver notato un certo via vai da casa tua, e avrà preferito rimandare ad un'occasione più favorevole.
Jennifer, che ha colto l'allusione nelle parole di Carruthers, fa finta di nulla.
-Ma ora, sapendo che è armato, non pensa che staremo più in guardia?
-Quel Bowers deve avere un ego grande quanto un grattacielo. Evidentemente ritiene di poterci fregare quando vuole e per la verità, finora c'è riuscito, anche se mi secca ammetterlo.
-Cosa pensi di fare?
-Cosa vuoi che faccia? Almeno questa storia convincerà i capoccioni a mantenere la sorveglianza. Un poliziotto aggredito non li mette mai di buon umore e faranno di tutto per acchiapparlo. Tu, dal canto tuo, cerca di stare attenta. Lascia il meno possibile sola la tua amica e tieni gli occhi aperti.
-Allora non pensi di farmi togliere il caso? - chiede Jennifer con tono casuale.
-Dopo la tua filippica di oggi? Sarei pazzo. Come cercare di strappare a una tigre il suo cucciolo. - ridacchia Carruthers. - E forse con la tigre avrei più chances.
Jennifer sente come se un enorme macigno le fosse stato tolto dallo stomaco.
-Grazie, George. Te ne sono davvero grata. E' molto importante per me. - dice.
-A un patto, però. - aggiunge il tenente.
-Che patto? - chiede Jennifer perplessa.
-Che quando voi due vi sposerete, non dimentichiate di invitarmi al ricevimento.
E con una grande risata, Carruthers riattacca, lasciando la donna a fissare l'apparecchio con aria esasperata.


Il carro carico di tronchi d'albero tagliati ed appuntiti all'estremità corre sempre più velocemente, privo di guida, verso di lei. Ormai solo pochissima distanza la separa da una morte orribile, ma le sue gambe non vogliono saperne di muoversi e lei fissa la fine che le si avvicina totalmente immobile, inebetita. Anche la voce disperata che le grida di buttarsi giù, che chiama il suo nome le sembra giungerle da una distanza infinita. D'un tratto, un colpo secco sotto le ginocchia costringe le sue gambe a piegarsi e il suo corpo crolla pesantemente a terra, solo pochi attimi prima che il carro le passi sopra, andandosi a schiantare contro la parete di roccia dietro di lei.


Nella stanza, Joyce addormentata si agita senza pace, girandosi e rigirandosi nel suo letto, mentre la sua gola emette incessantemente suoni inarticolati.


Ora il suo corpo galleggia nell'aria. Fiamme rosse ed ardenti lo circondano. Ma non sono fiamme protettive. Dita di fuoco percorrono tutto il suo essere, penetrandole nella mente, nella sua intimità. Un calore oscuro e malvagio la invade, bruciandole l'anima, ma lasciandole le carni illese. Poi, improvvisamente quel fuoco prodigioso che la sosteneva sul vuoto, si ritira e lei comincia a cadere verso un pozzo senza fondo. Un urlo le si forma in gola, ma due braccia sicure e vigorose l'afferrano e un attimo dopo è al sicuro oltre l'abisso.


Il sudore impregna ormai il cuscino. I capelli di Joyce ne sono zuppi, mentre dietro le sue palpebre serrate, le immagini del sogno le invadono la mente.


Un momento di pace. Il suo corpo è rilassato. I suoi occhi sono chiusi, ma in qualche modo è come se le sue percezioni fossero ampliate come non mai. Riesce a sentire suoni lontanissimi, quasi a vedere con capacità che neanche sospettava, mentre dietro di lei una voce, "la voce", le sussurra nell'orecchio.
"Olimpia… non ascoltare solo i suoni… ascolta anche quello che è dietro i suoni…"


Gli occhi di Joyce si spalancano nel buio. Il nero uniforme intorno a lei, le impedisce di trovare un punto di riferimento che le permetta di capire chi è, dove si trova e per qualche istante la sua mente smarrita vaga nel nulla, alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi.
Olimpia.
Questa volta quel nome l'ha udito e la voce era così reale che le pare ancora lì con lei.
Non ascoltare solo i suoni…ascolta anche quello che è dietro i suoni…"
Ma che vuol dire? Che significa? Joyce, lentamente si tira su, mentre il suo cervello ricostruisce a strati la propria identità.
Olimpia.
Perché quel nome le echeggia nelle orecchie, così vicino, così familiare, e perché qualcosa la disturba nel profondo nel rammentare la voce che l'ha pronunciato?
La sua mano corre istintivamente verso la piccola sveglia accanto al letto. Le lancette debolmente fosforescenti segnano le quattro e trenta del mattino. Joyce si alza, ancora tutta confusa e va ad aprire le tapparelle della finestra. Le luci di una città ancora addormentata penetrano nella stanza. Ma i suoi occhi non vedono il panorama dalla finestra, le sue orecchie non odono i rumori che provengono dalla strada. Tutta la sua concentrazione è ancora sul residuo di sogno (sogno?) che l'ha accompagnata nel risveglio.
-Io sono Joyce Randall - dice a se stessa a voce alta, - ho ventitre anni e sono nata a Milford, Pennsylvania, il 25 giugno 1979. Io sono
(Olimpia)
Joyce Randall, ho ventitre anni e sono
(non ascoltare solo i suoni)
nata a Milford, Pennsylvania, il
(ascolta anche quello che è dietro i suoni)
25 giugno 1979. Io sono
(Olimpia)
Il suono ripetuto di quel nome nella sua mente fa saltare definitivamente ogni suo strenuo tentativo di ancorarsi alla realtà.
-CHI SEIII?? CHI SEIIII??? PERCHE' MI FAI QUESTO??? - urla con quanto fiato ha in gola, con le mani nei capelli, gli occhi dilatati, camminando freneticamente, quasi correndo su e giù per la stanza, ed è così che la trova Jennifer richiamata dalle grida. Appena vede la sua amica sulla soglia, Joyce le corre incontro e le getta le braccia al collo, mentre un respiro rantolante la scuote tutta. Jennifer la stringe a sua volta, profondamente allarmata dallo stato in cui la vede.
-Joyce, tesoro, che c'è, cosa ti succede? Calmati.
-Jennifer, - singhiozza la ragazza sulla sua spalla, - sto impazzendo! Sto impazzendo!
-No, no, amore mio, no. Cerca di calmarti e spiegami che cosa ti è accaduto. - le dice Jennifer, con la voce più bassa che le sia possibile, nel tentativo di tenere sotto controllo le fitte di paura che la percorrono. La scosta delicatamente da sé e la riaccompagna a sedere sul letto. Appena sedute, Joyce le posa di nuovo la testa sulla spalla e scoppia in un pianto dirotto.
-Io non lo so cosa mi sta succedendo, Jen. Ho fatto un sogno, credo, e ho sentito quella voce. Ma era così reale, Jen, così reale.
-Ricordi cosa ti ha detto?
Attraverso la stoffa della sua vestaglia, la domanda di Joyce giunge soffocata, ma chiara.
-Chi è Olimpia, Jen?
Il sussulto che ha Jennifer è tale, che Joyce solleva la testa e la guarda perplessa.
-Hai già sentito questo nome? - chiede. - Tu sai chi è? Cercando di mantenere un atteggiamento più neutro possibile, che impedisca a Joyce di capire quanto quel nome l'abbia colpita, Jennifer le sorride nella speranza di rassicurarla.
-No… no, non mi pare.
La ragazza la fissa ancora per qualche istante, un po' dubbiosa, poi si abbatte col volto tra le mani.
-E' quella voce che l'ha detto. - dice poi, asciugandosi il viso e tirandosi indietro i capelli. - Mi pare di sentirla ancora.
-Cosa ha detto esattamente? Te lo ricordi?
Joyce tira su col naso, e poi con un tono di voce ancora un po' rotto dai singhiozzi, risponde.
-Ha detto: "Olimpia
, ascolta anche quello che è dietro i suoni." Oh, Jen, ma che significa? Che può voler dire?
Jennifer guarda fisso davanti a sé, pensierosa, cercando di evitare di incrociare le sguardo dell'amica.
-Non lo so, tesoro. Non ne ho idea.


-Dottoressa Rowles. - Il tono della voce del professor Sutherland è attenta e desta, nonostante l'ora ed esprime tutto il suo sollievo nel risentirla. - Devo confessarle che non mi aspettavo che mi richiamasse così presto. Naturalmente, mi fa molto piacere.
-Sì, me lo immagino. - risponde Jennifer, con un pizzico di sarcasmo. - Ma l'ho dovuta chiamare, sta succedendo qualcosa di nuovo.
Il professore ascolta in silenzio, mentre la donna gli racconta ciò che è appena accaduto.
-Mi ripeta ancora una volta quello che ha detto. Il più esattamente possibile.
-Professore, ma gliel'ho già detto almeno due volte. - risponde esasperata Jennifer.
-Lo so, mi scusi, ma volevo appuntarmelo. Dunque?
-Beh, mi pare che le sue parole esatte siano state più o meno: "Olimpia, non ascoltare solo i suoni, ma anche quello che c'è dietro". Professore, Joyce è sconvolta. Inoltre, credo che i suoi piani stiano per andare a gambe all'aria. Lei adesso ricorda e comprende ciò che le dice quella voce nei sogni.
-Sì, è così. - risponde Sutherland. - Joyce sta ricordando sempre di più, anche se ancora non se ne rende totalmente conto. Credo che la sua identità stia per riemergere. Se è d'accordo, potrei venire da voi…
-Meglio di no. - l'interrompe Jennifer, un po' più bruscamente di quanto avrebbe voluto. - Credo che la polizia cominci a sospettare qualcosa. Oggi il tenente mi ha fatto delle allusioni a proposito del via vai in casa mia, e preferirei che la sua parte in questa storia restasse nota solo a noi, almeno per ora.
-Su questo sono perfettamente d'accordo con lei. - acconsente il professore. - Allora mi faccia il favore di non lasciare mai la sua amica. Neanche per poco. La personalità di Olimpia sta riprendendo possesso di lei e su Xena questo funzionerà come lo zenith sull'ago della bussola. Queste ore potrebbero essere determinanti e non possiamo abbassare la guardia proprio adesso. E, ricordi, qualunque cosa succeda, mi chiami immediatamente.
Jennifer spenge il cellulare e si sporge dalla porta della cucina, guardando verso il divano dove giace distesa Joyce. La ragazza non ha più voluto tornare a letto e la psicologa l'ha portata in salotto, convincendola a fatica almeno a distendersi, prima di telefonare a Sutherland, cercando di non farsi sentire. Ora, dalla sua posizione, le sembra che Joyce respiri regolarmente e ha gli occhi chiusi. Probabilmente si è riassopita. Facendo meno rumore possibile, Jennifer entra in salotto e va a sedersi sulla poltrona accanto a lei.
Sembra che Joyce si sia proprio riaddormentata, nel sonno tranquillo che segue sempre i suoi sogni più inquietanti. Gli occhi chiusi, la bocca piccola, lievemente aperta a mostrare il candore dei denti, il viso dai tratti regolari incorniciato dai capelli biondi sulla pelle rosea.
"Dio, come è bella." pensa Jennifer, guardandola. "Anzi, no, di più. C'e una specie di luce in lei che risplende anche nei momenti peggiori. Qualche minuto fa, era disperata, piangeva, eppure questa aura inspiegabile la circondava anche in quel momento. Mio Dio, Joyce, ma chi sei?
La mano della donna si tende quasi indipendentemente dalla sua volontà verso il viso addormentato e le dita carezzano lievemente la gota, spingendosi fino a sfiorare le labbra, mentre la testa si china sopra di lei.
Joyce emette un piccolo gemito e Jennifer, come spaventata dal proprio gesto, ritira velocemente la mano. Ma la ragazza non dà segni di risveglio e torna al suo sonno sereno, mentre lei considera costernata quello che stava per fare.
-Oddio, stavo per… stavo per… E' a questo che mi sono ridotta? Ad approfittare di una giovane donna addormentata?
Sconvolta dai suoi pensieri, Jennifer è troppo presa per avvertire il rumore alla porta finestra del salotto, e quando se ne rende conto è troppo tardi. L'inequivocabile freddo tocco della canna di una pistola puntata alla nuca, è l'ultima cosa che sente prima che un forte colpo di taglio sul collo le faccia perdere i sensi.


VENTICINQUESIMO CAPITOLO


Circa sei ore prima, mentre una Jennifer confusa e inquieta si apprestava ad affrontare una notte anche più agitata di quanto si aspettasse, la signorina Dorothy Webb, sorella e, ormai irrimediabilmente, compagna di vita di Joseph Webb, stava uscendo come ormai le capitava regolarmente da mesi, alla ricerca del fratello. In realtà, la ricerca in sé non era mai troppo difficoltosa. Suo fratello alternava le sue serate tra i due o tre bar che erano poco distanti da casa, per cui in capo ad una decina di minuti, era ragionevolmente sicura di riuscire a trovarlo. La vera difficoltà consisteva nel convincerlo ad abbandonare il locale di turno e seguirla a casa. A quell'ora, calcolava, Joseph doveva essersi fatto almeno una decina di bicchieri e, ammesso che fosse ancora in grado di muoversi, era sicuramente tutt'altro che disposto a farlo.
Dorothy lavorava da quasi vent'anni come segretaria in un ufficio immobiliare, e nonostante da ragazza fosse stata niente affatto disprezzabile, una natura timida ed introversa, unita ad un destino bieco e senza pietà, l'aveva fatta ritrovare alle soglie della mezza età, nubile e rassegnata a restarlo. Otto anni prima il fratello, rimasto prematuramente vedovo, le aveva chiesto di poter venire a vivere da lei, visto che la casa che aveva diviso per oltre un decennio con sua moglie (un'unione che non era stata benedetta dall'arrivo di un figlio), gli sembrava ora triste e malinconica.
Joseph era sempre stato il suo beniamino. Più giovane di lei di un anno, da ragazzi erano stati molto uniti così Dorothy, ormai la sua unica parente in vita, l'aveva accolto nella sua casa dove entrambi avevano trascorso gli ultimi dieci anni tenendosi compagnia. Lui era un buon meccanico e con il loro lavoro erano riusciti a tirare avanti più che dignitosamente.
Ma poi, Joseph aveva cominciato a bere, a giocare ed a tornare sempre più tardi la sera. E quella di andarlo a cercare prima che si ubriacasse troppo per ritrovare la strada di casa, per Dorothy era diventata una consuetudine. Così come stava facendo quella sera.
Uscendo dal palazzo, aveva notato la solita macchina parcheggiata davanti. Quelli dovevano essere poliziotti, si era detta fin dalla prima volta che l'aveva vista. Forse erano lì per quella psicologa che lavorava in Procura che abitava accanto al suo appartamento. Certo che quella donna era strana. Aveva sentito dire che insieme a lei c'era un'altra persona, ma lei non l'aveva mai vista, anche se di notte, le era parso di sentire delle grida, nonostante il loro palazzo possedesse pareti insonorizzate.
Dorothy era passata velocemente accanto all'automobile, lanciando un rapido sguardo ai due uomini all'interno. Chissà se tutto questo c'entrava niente con l'incidente accaduto proprio quel giorno nell'edificio di fronte, si era chiesta, ma poi era passata oltre, dicendosi che in fondo non erano fatti suoi.
Proprio mentre pensava così, Dorothy aveva girato l'angolo del palazzo e aveva scorto in lontananza un uomo che procedeva con passo strascicato nella sua direzione. All'inizio non ci aveva fatto caso più di tanto, ma man mano che la sagoma si avvicinava, la donna aveva cominciato a notare con sorpresa che l'uomo indossava un impermeabile e un cappello molto simili a quelli che portava sempre Joseph. Non solo, al collo teneva avvolta una sciarpa somigliante, se non identica, a quella del fratello e teneva le mani sepolte nelle tasche proprio come faceva sempre lui. Dorothy era rimasta un attimo interdetta. Quell'uomo era vestito come Joseph, atteggiato come Joseph, ma non era Joseph. Su questo non poteva ingannarsi. Quando si vive per tanti anni accanto a una persona, l'istinto finisce per riconoscerne l'aspetto e le movenze anche da lontano, prima ancora che ci riescano gli occhi. Con passo improvvisamente incerto, Dorothy aveva continuato per la sua strada, guardando di sottecchi l'uomo che si faceva sempre più vicino. Non era Joseph, certo, ma quegli abiti, quel cappello… Troppe volte glieli aveva sfilati, puliti, rimessi nell'armadio e parevano proprio gli stessi.
Con un brutto presentimento nel cuore, era arrivata ormai ad incrociare la strada dello sconosciuto e vedendo che non accennava a spostarsi per lasciarla passare, stava già per scansarlo e passare oltre, quando la mano di lui era scattata fuori dalla tasca e l'aveva afferrata per un braccio, con forza.
-Chi è? Che vuole? - aveva chiesto subito lei, fissando per la prima volta il viso che fino ad allora era rimasto seminascosto dal cappello calato e dalla sciarpa a mezza bocca.
-Che succede, piccola? - aveva sibilato lo sconosciuto con un ghigno. - Non riconosci più il tuo fratellino?
E contemporaneamente, l'altra mano le aveva puntato contro il fianco la dura canna di una pistola.


Joyce, all'inizio, quasi non capisce dove si trovi. Si guarda intorno. Il buio è quasi assoluto. E' distesa su un divano, non nel suo letto. E attorno a lei riconosce faticosamente le poltrone e l'arredamento del salottino di Jennifer, alla debolissima luce proveniente dalla porta socchiusa sull'atrio.
-Jennifer? - chiama. Ora comincia a ricordare. Ha avuto un incubo, uno dei soliti, forse peggiore dei soliti, e l'amica è corsa in suo aiuto e poi l'ha accompagnata fino al salotto. Ma dov'è ora?
Con la testa che le gira lievemente, Joyce si alza e comincia a dirigersi verso la luce che viene da oltre la porta.
E' in quel momento che nel silenzio che la circonda, il suo udito avverte qualcosa.
Qualcosa di così lieve, così leggero che a cose normali lei stessa si chiederebbe come abbia fatto a sentirlo. Ma in questo momento, Joyce è puro istinto. Il suo cervello non pensa, reagisce. E quello che sente è un respiro, un respiro leggero, quasi trattenuto, ma perfettamente udibile ai suoi sensi divenuti affinatissimi.
Non ascoltare solo i suoni, ma anche quello che è dietro i suoni.
Il movimento alla sua destra nel buio della stanza è quasi impercettibile, ma quando sente un braccio avvinghiarlesi intorno al collo, la sua reazione è fulminea. Il gomito destro scatta all'indietro e colpisce con violenza al fegato l'assalitore, e un attimo dopo, liberatasi dalla stretta, il suo corpo agisce istintivamente e fa ruotare il braccio sopra la testa, scaraventando l'uomo oltre lei, sul pavimento, in un gran fracasso di mobili e soprammobili rovesciati.
-Troia fottuta! - urla l'uomo in terra. Dolore, sorpresa e rabbia esplodono tutte insieme in quel grido e il suo braccio scatta ad afferrarle la caviglia. Ma ancora una volta con una velocità incredibile, Joyce evita la presa e contemporaneamente colpisce al volto l'uomo, a piede nudo, ruotando la gamba. Questi, che si stava rialzando, ricade nuovamente e il suo viso viene illuminato dalla luce proveniente dall'atrio.
Joyce esita solo un attimo nel fissare gli occhi sul volto insanguinato di Mark Bowers, suo marito, ma quell'attimo le è fatale.
Con lo sguardo allucinato di un folle, Mark punta la pistola contro Joyce e preme il grilletto. Lo sparo nella piccola stanza rimbomba come una cannonata e la ragazza scivola al suolo senza un grido.
-Questa volta t'ho presa, bastarda! - urla trionfante Mark e fa per puntare ancora l'arma verso il corpo esanime della moglie.
Ma in quel momento, come un maglio, una figura si scaraventa nella stanza attraverso la finestra, mentre schegge di vetro, come proiettili volano dappertutto. Con un prolungato grido di battaglia, la figura compie una perfetta capriola e rimbalza in piedi di fronte all'uomo.
Mark ha appena il tempo di fissarla sbalordito, che una spada ruota nell'aria e la sua pistola cade in terra con ancora la mano stretta intorno al calcio. E un secondo dopo, anche la sua testa, con la bocca spalancata in un urlo muto vola via, andandosi a schiantare contro la parete opposta. Quel che resta del corpo ricade pesantemente in un lago di sangue.
Ma prima ancora che il cadavere abbia toccato il suolo, la donna con la spada si china sollecita su Joyce e la sua mano ne solleva delicatamente la testa, mostrando la larga ferita alla tempia.
In quel momento, gli occhi di Joyce si riaprono e il suo volto coperto di sangue si stende in un sorriso affaticato.
-Xena. - sussurra, poi le palpebre ricadono e il corpo si abbatte su un fianco.

 





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