IDENTITA`SEPOLTA
ROMANZO DI A. SCAGLIONI
BASATO
SULLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"
CREATA
DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT
E
SVILUPPATA DA R.J.STEWART
Xena
and all characters and names related are owned by and copyright ©
1995,1996,1997,1998,1999,2000,2001 by MCA Television/Universal Studios.
SESTA
PARTE: RIUNIONE
VENTISETTESIMO
CAPITOLO
Il
tenente Carruthers sta percorrendo i corridoi dell'ospedale ancora
deserto a quell'ora del mattino. Anche questa notte è riuscito
a dormire pochissimo. Le lancette del grande orologio da parete nella
sala d'aspetto, davanti al quale è appena passato, gli hanno
confermato la precisione del suo Rolex d'oro, uno dei pochi lussi
che si sia concesso nella sua vita: le cinque e cinquanta del mattino.
Sono passate poco più di ventiquattro ore dalla morte di Mark
Bowers e dalla brutta avventura di Jennifer e della sua amica e il
tenente ha da poco esaminato il referto del medico legale e i rapporti
della scientifica sui rilievi fatti nell'appartamento della psicologa.
Appena girato l'angolo del corridoio che conduce alla stanza di Joyce,
Carruthers vede il cuscino e la coperta abbandonati sul divanetto.
Proprio in quel momento, un'addetta alle pulizie sbuca dall'angolo
opposto con un secchio e uno spazzolone in mano.
-Scusi, - chiede il tenente, - ha visto una signora che dormiva qui?
-Chi è lei? Che fa qui? - chiede a sua volta la donna, diffidente.
- Non si può entrare a quest'ora.
-Sono della polizia, non si preoccupi. - risponde Carruthers estraendo
il distintivo. - Allora, l'ha vista?
-No, - dice l'inserviente, continuando a guardarlo con sospetto -
ho visto solo il cuscino e la coperta. Credevo che li avesse dimenticati
l'infermiera.
-Da quanto è qui?
-Dieci minuti, un quarto d'ora. Perché?
-E non ha visto nessuno?
-No, come glielo devo dire? Adesso, mi scusi, ma ho da fare
E la donna fa per rimettersi al lavoro, quando la porta delle toilettes
si apre e Jennifer ne esce con un asciugamano.
-Sono qui, George. - dice, asciugandosi la testa.
-Ma che ha fatto? - chiede l'inserviente, guardandola. - E' tutta
bagnata!
-Mi spiace, volevo rinfrescarmi. Credo di aver fatto un disastro.
Non sono abituata a lavarmi così. - si scusa, sorridendo, Jennifer.
La donna apre la porta e guarda dentro.
-Gesù, - esclama, - ma questa è un'inondazione. - E
scompare dietro la porta a soffietto, continuando ad imprecare. -
E lascia anche la finestra aperta
- sono le ultime parole distinguibili
prima che la porta si richiuda del tutto.
-Che ti è successo? - domanda Carruthers.
-Niente. - risponde Jennifer, gettando l'asciugamano in un carrello
su una catasta di altri asciugamani e lenzuola sporchi. - Una nottataccia.
Una delle tante, ormai. - Poi, lo guarda con aria stanca. - Che ci
fai qui, a quest'ora?
-Ho avuto i risultati della scientifica. Sui bordi della finestra
e sul davanzale hanno trovato delle impronte insanguinate. Non corrispondono
a quelle di nessuno degli abitanti della casa, e neanche a quelle
del morto. Le ho fatte passare in archivio, ma ancora nulla.
-Questo significa che non siamo più sospettate? - chiede Jennifer,
sarcastica.
-Eddài, Rowles, non rigirare il coltello. Mi dispiace, ma certe
volte sei così irritante che me le strappi di bocca.
-Ah, così sono anche irritante? Hai finito, o tieni in serbo
qualche altro insulto?
-Senti, non so tu, ma io sono troppo stanco per ricominciare a litigare.
Nelle ultime due notti, avrò dormito sì e no tre ore.
- Il tono di Carruthers è vicino all'esasperazione. - Sono
passato solo perché mi dispiaceva per come mi ero comportato
e volevo almeno rassicurarti su questo aspetto. Ho messo alla frusta
il reparto e fatto l'alba per aspettare questi risultati, e comincio
ad averne piene le scatole.
-Che mi dici dell'autopsia? - chiede la psicologa, come se neanche
avesse sentito. Evidentemente il tono del poliziotto non l'ha commossa
più di tanto. Sconfortato il tenente tira fuori dalla tasca
un foglio e lo scorre velocemente.
-La morte è stata immediata. Un colpo secco con un arma da
taglio pesante e affilata, alla base del collo. Un lavoro da esperti.
Altrettanto si può dire per il colpo che gli ha mozzato la
mano, che comunque ha preceduto quello mortale. Inoltre sul cadavere
sono stati rilevati numerosi lividi, effetti di colpi subiti poco
prima della morte. Questa volta la nostra "amazzone", c'è
andata pesante.
Nella mente di Jennifer risuonano le parole di Joyce.
Abbiamo lottato e io l'ho scaraventato a terra, Jen. L'ho sconfitto.
-Sai se i giornali ne sono al corrente? - chiede.
-Vuoi scherzare? - risponde il tenente, rimettendosi il foglio in
tasca. - Sono stato bene attento a che nulla trapelasse.
-Non così attento. - dice, quasi tra sé, Jennifer.
-Che vuoi dire?
-Ieri sera, Cheryl Cooper è venuta qui.
-Cosa?
-Il suo servizio informazioni è molto efficiente, devo ammetterlo.
Sapeva tutto, George.
-Quella maledetta scribacchina! - tuona il tenente. - Cosa ti ha detto?
-Niente di particolare. Ci teneva solo a farci sapere che ha tutto
sotto controllo e a ricordarmi il nostro accordo.
-Credi che pubblicherà qualcosa?
-No, credo di no. Non le conviene, per ora. Ma adesso, è più
importante che mai che nessun altro abbia il minimo sentore della
faccenda.
-Toglierò personalmente la pelle, centimetro per centimetro,
a chiunque dei miei si lasci sfuggire una sola parola.
-Mi raccomando, George.
-Stai tranquilla. E tu, che farai?
-Ancora non lo so. - risponde Jennifer con un sospiro. - Dovrò
trovare un nuovo alloggio per Joyce, quando la dimetteranno.
-Adesso, non ho più pretesti per mantenere la sorveglianza.
- dice il tenente. - Mi spiace, ma devo togliere gli uomini.
-Fai pure. Ci arrangeremo da sole. - risponde lei.
Con un rapido, quasi imbarazzato, cenno di saluto, Carruthers si congeda
e mentre i suoi passi risuonano ormai in lontananza, nei corridoi
silenziosi, Jennifer fissa nel vuoto pensierosa.
-Jen, andiamo via di qui, ti prego.
Nella voce di Joyce, il tono d'implorazione è evidentissimo.
La ragazza si è svegliata da poco da una notte agitata, nonostante
i sedativi. L'infermiera ha dovuto rifarle la medicazione, parzialmente
staccata dai movimenti nel sonno, e gli occhi di Joyce, arrossati
e stanchi dal pianto e dal poco riposo, fissano quelli di Jennifer.
La psicologa è quasi a disagio sotto quello sguardo, nel quale
avverte una determinazione nuova.
-Non puoi andartene, è pericoloso. - risponde, cercando di
farla ragionare. - Hai una brutta ferita alla testa. Ti è stata
richiusa appena ieri, e oggi vorranno farti degli esami.
-Non possono trattenermi qui contro la mia volontà. Mi sento
abbastanza forte, Jen, posso camminare. Ho già provato.
-Joyce, non credo che sia una buona idea. E comunque dove potremmo
andare? Il mio appartamento ha i sigilli, ma non ci tornerei per niente
al mondo, in tutti i casi.
Joyce la guarda, sorridendole con dolcezza.
-Mi dispiace, ti ho proprio rovinato la vita, eh?
-Tu? - dice Jennifer, sedendosi accanto a lei e prendendole la mano.
- Non rinuncerei a uno solo dei minuti vissuti con te in questi giorni.
Joyce abbassa gli occhi, un po' imbarazzata dall'intensità
dello sguardo dell'amica.
-Jen, io
ecco, io
- esita.
-Lo so, non preoccuparti. - risponde Jennifer, ingoiando a fatica
un nodo alla gola. - Beh, se hai deciso, sarà meglio avvertire
i medici. Dovrai firmare i documenti di assunzione di responsabilità.
Sei proprio sicura?
-Sì.
Davanti a quella risposta netta, decisa, Jennifer si ferma quasi,
a guardare con attenzione Joyce.
-Perche` mi guardi così? - chiede lei.
-Sei cambiata. Non so dirti in che modo, ma sei cambiata. - Poi, con
un sospiro, la psicologa si alza e si dirige alla porta. - Bene, forse
ho un'idea su cosa potremmo fare.
-Jen. - la chiama la voce di Joyce alle sue spalle.
-Sì?
-Lei era qui stanotte.
-Chi? - chiede Jennifer, perplessa.
-Lo sai chi. - risponde Joyce.
Jennifer torna sui suoi passi e si avvicina al letto.
-Non l'ho davvero vista, ma neanche sognata, se è questo che
stai per chiedermi. - dice Joyce, anticipando la domanda nei suoi
occhi. - Ma so che era qui. L'ho sentita. Chiamava Olimpia. Chiamava
il mio nome. E' qui per me, Jen, è tornata per me.
Jennifer allunga una mano a carezzarle il viso, su cui le lacrime
sono tornate a scorrere.
-Sì, Joyce. - le dice. - Ha sentito il richiamo del tuo cuore.
-Professore, ricorda la sua offerta di ospitare Joyce e me nella sua
casa di campagna?
Col cellulare all'orecchio, Jennifer passeggia nervosamente nel corridoio,
davanti alla stanza di Joyce.
-Certamente, mia cara. Ma mi pareva di aver capito che la cosa non
incontrasse la sua approvazione.
"Non incontrasse la mia approvazione?" pensa la donna, quasi
divertita. "Il professore è un maestro di eufemismi. L'ho
praticamente sbattuto fuori di casa."
-Diciamo che sono successe alcune cose che mi hanno fatto riconsiderare
il tutto con nuovi occhi. - risponde poi.
-Spero che non sia accaduto nient'altro a quella povera ragazza. Ne
ha già passate tante.
La voce di Sutherland suona quasi sincera.
-E' una storia un po' lunga. - taglia corto Jennifer. - Potremo parlarne
dettagliatamente in seguito. Ora, vorrei solo che ci mettessimo d'accordo
su come fare per venire da lei.
-Ma naturalmente verrò io a prendervi, sempre che non preferiate
servirvi della polizia.
-La polizia ha interrotto il servizio di sorveglianza. - dice Jennifer.
-Davvero? - chiede Sutherland, perplesso. - Come mai?
-Come le dicevo, professore, è una storia lunga. Allora, va
bene, se viene a prenderci lei.
-D'accordo. Arrivo immediatamente.
-Aspetti. Non siamo a casa mia. Dovrà venire al Memorial Hospital.
Dall'altra parte della linea, il professore tace per qualche secondo.
-Ma allora, è davvero successo qualcosa. Joyce sta bene? -
chiede infine.
-Sì, abbastanza. - Jennifer esita ancora un attimo, poi si
decide. - Lei adesso ricorda tutto, professore.
Nuova lunga pausa, poi la voce di Sutherland risuona di nuovo, con
una evidente nota di eccitazione.
-Vuol dire
di Xena, e di se stessa?
-Sì. Dice che sente la presenza di Xena, che la sente vicina.
-Straordinario. Straordinario. - mormora Sutherland, quasi parlasse
a se stesso.
-Credevo che lei preferisse che la condizione di amnesia si protraesse.
- dice Jennifer.
-Sarebbe stato meglio, sì, - confessa il professore - ma, in
fondo, ripensandoci, va bene anche così. Pensi, Jennifer, potremo
farci raccontare cose e avvenimenti morti da secoli e li conosceremo
per bocca di una donna che li ha vissuti. Mi dica, la sua personalità
è cambiata?
-E' difficile a dirsi. - risponde Jennifer, riflettendo. - Apparentemente
è sempre la stessa Joyce. Tenera, dolce e smarrita come i primi
giorni che l'ho conosciuta, ma dentro di lei c'è qualcosa di
nuovo. Ricorda quella luce di cui le parlavo? Ora sembra più
forte, più decisa.
-Olimpia era più che una poetessa e una guerriera. - dice Sutherland.
- Ha detto bene. Era una fonte di luce per Xena. Le ha permesso di
liberarsi del suo lato oscuro, di diventare la donna che era destinata
a diventare, abbandonando per sempre la via di morte che percorreva.
Per certi aspetti, si può dire che fossero l'una per l'altra
come le due facce di una stessa medaglia, come lo "yin"
e lo "yang" della tradizione cinese.
-L'eterno dualismo tra le tenebre e la luce. - dice Jennifer.
-Esattamente. Nell'iconografia cinese sono illustrati come un cerchio
diviso da una specie di "S" allungata, ad interpretare come
due aspetti così opposti formino un'unica cosa. Un'unica anima.
Buon Dio, dottoressa, sono quasi commosso dall'emozione.
-Dà anche a me i brividi. - confessa Jennifer. - Professore,
dobbiamo fare l'impossibile perché si incontrino.
-Sì. Tutta la mia vita, tutte le nostre esistenze sono state
forse tese a questo unico scopo. - La voce di Sutherland pare vibrare
con particolare enfasi. - Dobbiamo riuscirci. Non la perda di vista,
Jennifer. Sarò da lei tra pochissimo.
Come era prevedibile, la decisione di Joyce di lasciare l'ospedale
solleva non poche obiezioni sia da parte dei medici che l'avevano
curata che del primario stesso, probabilmente più preoccupati
di non essere coinvolti nelle possibili conseguenze legali di eventuali
postumi della ferita della loro paziente, che non da reali timori
sulla sua salute, ma messi di fronte all'irrevocabile decisione di
Joyce, e fattele firmare tutti i documenti a garanzia della totale
responsabilità della paziente stessa, al personale non resta
che dimetterla.
Il viaggio in taxi in compagnia del professor Sutherland viene fatto
nel quasi completo silenzio. Infatti, dopo che la psicologa ha raccontato
gli ultimi avvenimenti al vecchio (che però a Jennifer sembra
davvero sinceramente preoccupato per la ragazza, spingendola a chiedersi
se per caso non sia stata un po' troppo frettolosa nei giudizi), i
tre si calano in un mutismo carico solo dei loro pensieri.
Joyce, in apparenza poco interessata al paesaggio che le scorre davanti,
sembra intenta e concentrata su un mondo interiore che pare assorbirla
completamente in quelle ultime ore; Jennifer, che non la perde d'occhio
un attimo, cercando in ogni sua più piccola espressione del
viso o dello sguardo, di sondarne le sensazioni; il professore, dal
canto suo, che pure continua a guardare Joyce con quel senso di meraviglia
che potrebbero avere nello sguardo coloro che si trovassero finalmente
a contemplare una prova dell'esistenza di Dio, non perde però
occasione di lanciare occhiate alla strada alle loro spalle, specialmente
in coincidenza delle ampie curve che una volta usciti dalla città,
li portano sempre più ad inoltrarsi nella campagna.
Una ventina di minuti più tardi, ad un cenno del professore,
il taxi imbocca un sentierino che termina davanti ad una bella casetta
su due piani, circondata da un ampio giardino alberato e da un muretto.
Dopo aver scaricato le valigie che contengono i loro effetti personali
più indispensabili, giudiziosamente preparate da Jennifer al
momento del ricovero di Joyce, Sutherland fa strada alle due donne,
salendo i pochi gradini del porticato.
-Eccoci arrivati. - fa il professore, frugandosi in tasca alla ricerca
della chiave.
-E' deliziosa. - dice Joyce, che almeno momentaneamente pare aver
interrotto il suo contatto con quel mondo interiore.
-Davvero magnifica. - le fa eco Jennifer, realmente ammirata dal bel
paesaggio che la circonda.
-Si stenta a credere che a pochi passi da una delle metropoli più
caotiche del mondo, possano esistere simili paradisi, - dice Sutherland
- eppure è così. Siate le benvenute nella dimora dei
miei ultimi giorni.
Sotto gli sguardi perplessi di Jennifer e Joyce, il vecchio apre la
porta e le invita ad entrare.
-Non guardatemi così. Non avrei potuto scegliere di meglio
per il mio ormai scarso futuro.
-Lei non è tanto vecchio, professore. - dice Joyce, sorridendogli.
-Il cielo la ricompensi per questa sua affermazione, mia cara. - risponde
Sutherland, con un sospiro. - Ma purtroppo, so bene che non è
così e quando la mia ora verrà, beh, non riesco ad immaginare
un miglior palcoscenico per la mia ultima recita. Ma bando alle tristezze.
Ora, andate a rinfrescarvi, - dice l'anziano docente, quasi spingendole
per la scala che porta al piano superiore, - mettetevi a vostro agio,
e poi ci faremo una bella chiacchierata.
La casa del professor Sutherland, che da fuori aveva tanto destato
l'ammirazione di Joyce e Jennifer, all'interno si era dimostrata all'altezza
della prima impressione.
Il piano terra era costituito da due ampie sale ben illuminate da
grandi finestre che davano sul giardino, mentre al piano superiore
si trovavano le camere da letto, tre, quella del professore e le due
per le sue ospiti. Anche queste grandi e arredate con semplicità
e buon gusto.
Nella sua stanza, Joyce è a sedere, immobile davanti allo specchio,
quando due leggeri colpi risuonano alle sue spalle.
-Avanti.
Jennifer entra, sorridendole e richiude la porta.
-Come va? Davvero niente male come sistemazione, eh?
Joyce le rimanda il sorriso nel riflesso dello specchio.
-Stavo pensando che ho cambiato più case in queste ultime settimane
che non in tutto il resto della mia vita. - dice.
-Già. - risponde Jennifer, avvicinandosi e posandole le mani
sulle spalle da dietro. I loro occhi continuano a fissarsi attraverso
lo specchio. - E' stato un periodo convulso, ma forse siamo alla fine.
Joyce si volta e le afferra la mano.
-Pensi che mi troverà ancora, Jen? Forse non è stata
una buona idea andarsene dall'ospedale.
-Lei ti ha già trovata, Joyce. - dice Jennifer, chinandosi
a guardarla negli occhi. - Voi due siete una cosa sola, ormai è
chiaro, e niente riuscirà a tenervi separate.
La sua voce ha una strana nota di tristezza e Joyce non può
fare a meno di notarla.
-Sembra quasi che ti dispiaccia. - dice piano.
-Io sono tua amica, - risponde Jennifer - ti voglio bene e non posso
evitare di aver paura per te.
Joyce non dice nulla e si limita a continuare a fissarla.
-Dài, fai presto. - dice Jennifer, scuotendosi. - Il professore
ci aspetta giù. Io ti precedo.
La donna fa per andare verso la porta, poi si ferma, senza voltarsi,
con la mano sulla maniglia.
-Joyce?
-Sì?
Col viso sempre voltato nella direzione opposta e la mano stretta
intorno alla fredda maniglia di ottone, Jennifer resta immobile.
-Tu cosa provi per lei?
La domanda resta sospesa nell'aria, mentre la ragazza osserva nello
specchio la schiena dell'amica.
-L'hai detto tu. - risponde. - Noi siamo una cosa sola.
Con uno scatto secco, la mano di Jennifer abbassa la maniglia e apre
la porta.
-Ci vediamo giù. - mormora, uscendo.
Il professor Sutherland è nella grande stanza a destra, scendendo
le scale, quella adibita a sala da pranzo, e quando Jennifer entra,
lo trova che cammina nervosamente su e giù, ogni tanto gettando
occhiate attraverso la grande vetrata che dà sul giardino.
-Professore, - chiede la donna - posso chiederle perché è
così agitato?
-Mmh? Oh, è lei. - risponde lui distrattamente. - Agitato?
Non particolarmente, direi.
-Andiamo. Per tutto il viaggio, non ha fatto che guardarsi alle spalle.
Di cosa ha paura?
Il professore distoglie la sua attenzione dalla finestra e si volta
verso di lei.
-Beh, se devo essere sincero, mi preoccupa un po' il fatto che la
polizia abbia tolto la sorveglianza.
-E perché mai? Joyce non corre più pericoli. Suo marito
è morto.
-Jennifer, - fa Sutherland, scuotendo la testa, - non riesco a credere
che lei sia così ingenua. Ma davvero, crede che la polizia
avesse messo due uomini a sorvegliare la sua amica solo per proteggerla
dal marito? Forse, all'inizio, ma mi creda, non è stato quello
l'unico scopo. No, più ci penso e più ritengo che loro
vogliano Xena, o l'Amazzone, come la chiamano.
Jennifer lo fissa sorpresa.
-Ma anche se fosse, ragione di più per mantenere la sorveglianza,
non crede?
-E chi le dice che non sia così? La verità, mia cara,
è che il suo amico tenente non si fida più di lei. Ha
capito che in qualche modo, c'è una connessione tra Joyce e
la guerriera armata di spada, e ha capito anche che su di lei non
può più contare, e così ha deciso di preparare
una trappola per l'Amazzone, utilizzando Joyce come esca e di riflesso
lei. Secondo me, è così che stanno le cose. Sa, non
mi stupirei che agisse su ordine del Procuratore.
Jennifer resta un attimo pensierosa, ma piano piano l'ipotesi di Sutherland
comincia a penetrarle nella mente.
-Fin dall'inizio, - prosegue il professore - mi era parso che la polizia
e la Procura si comportassero in maniera piuttosto strana in questa
faccenda. Da una parte, la polizia impegna diversi uomini nella protezione
di una povera ragazza senza particolari santi in paradiso, dal suo
violento marito e dall'altra il Procuratore stesso affida ad una semplice
psicologa, non si offenda, la prego, la possibile testimone, se non
addirittura indiziata, di un delitto. No, non tornava. Quella gente
non ama molto i giustizieri privati e devono aver rapidamente catalogato
l'Amazzone in questa categoria. Lei e Joyce siete state usate. Naturalmente
sono ben lungi anche solo dall'immaginare la verità.
-Che stupida sono stata. - dice Jennifer, amaramente, quasi parlando
tra sé. - E pensare che mi sentivo anche un po' lusingata dalla
fiducia che il Procuratore mi dimostrava. Avrei dovuto capirlo da
sola. Bella psicologa che sono. - La donna va a sua volta verso la
finestra e guarda fuori. - Quel bastardo di Ballister! Così
ha ottenuto di mantenere il segreto con la stampa e di evitarsi cattiva
pubblicità. Mi dispiace di averla coinvolta, professore.
-Non si preoccupi, io sono più che felice di essere stato coinvolto,
invece, e insieme cercheremo di far naufragare i loro piani.
-Ci può scommettere. - sibila decisa Jennifer.
In quel momento, alle loro spalle risuona un passo familiare e i due
si voltano mentre Joyce fa il suo ingresso nella stanza.
-Mia carissima ragazza, - esclama il professore, cerimonioso come
al solito, abbandonando in un attimo il suo atteggiamento preoccupato
e andandole incontro - entri, si accomodi. Posso offrirle qualcosa?