IDENTITA`SEPOLTA
ROMANZO DI A. SCAGLIONI
BASATO
SULLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"
CREATA
DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT
E
SVILUPPATA DA R.J.STEWART
Xena
and all characters and names related are owned by and copyright ©
1995,1996,1997,1998,1999,2000,2001 by MCA Television/Universal Studios.
SECONDA
PARTE: "TORNA DA ME"
SESTO CAPITOLO
-Tenente, ho la risposta che stava cercando.
Seduto alla sua scrivania, intento alla lettura di alcuni incartamenti,
Carruthers alza la testa e guarda il suo giovane assistente, il sergente
Andrew Lloyd, che gli sta tendendo un foglio.
-Puoi farmene una sintesi, figliolo? Ho gia` abbastanza cartaccia
da esaminare.
-Si, certo. Allora, - legge ad alta voce il sergente - Roland "Rolly"
Arzunian, 28 anni, razza bianca, americano ma di origine armena. Tre
condanne per stupro e rapina a mano armata, sospettato in almeno altri
tre casi, ma assolto per insufficienza di prove. Due condanne le ha
scontate insieme al suo degno compare Jerome Bixby, pace all'anima
sua, e anche altre volte e` stato coinvolto nei "lavoretti"
dell'amico. Da qualche giorno, forse tre, forse di piu`, risulta scomparso.
Nei soliti ritrovi non ricordano di averlo visto di recente.
Lloyd smette di leggere e guarda il suo superiore, in attesa.
-Tre giorni, eh? - mormora Carruthers. - I tempi corrisponderebbero.
Il Tenente resta a meditare per un po', poi si scuote.
-OK, Lloyd, diamoci da fare. Battete anche tutta la citta` se necessario,
ma voglio quell'uomo qui al piu` presto possibile. Muoviti.
Il giovane poliziotto esce velocemente, dopo un rapido cenno d'assenso
e il tenente si appoggia allo schienale della poltrona.
"Si, tornerebbe." pensa "Bix e il suo socio trovano
la ragazzina e pensano di spassarsela un po', ma le cose vanno diversamente.
Bix resta ferito e l'altro, come si chiama?" Carruthers allunga
la mano per prendere il foglio che il sergente gli ha lasciato sulla
scrivania. "Arzunian, che razza di nome, se la svigna coi capelli
ritti in testa, senza lasciare tracce. Per tornare, torna, ma che
diavolo sara` successo in quello stramaledetto vicolo?"
Jennifer Rowles si sveglia di soprassalto. Non sa cosa l'ha riportata
alla coscienza. Automaticamente il suo sguardo si sposta sulle cifre
fosforescenti dell'orologio digitale accanto al letto. Le quattro
e trentadue della notte.
Resta un po' cosi`, con gli occhi aperti nel buio della sua camera,
a fissare un soffitto che intravede a malapena. Poi, si decide e si
alza. E` inutile rimanere a letto, aspettando invano il ritorno del
sonno. Sa per esperienza che l'indomani sarebbe uno straccio, distrutta
da ore di dormiveglia. Tanto vale, quindi, non insistere e accontentarsi
di quelle poche ore di sonno profondo che e` riuscita a farsi.
Poco dopo, con una tazza di caffe` bollente in mano, si siede nella
piccola cucina del suo appartamento. A vederlo, non sembrerebbe proprio
l'appartamento di una psicologa collaboratrice della Procura dello
Stato. Un soggiorno, una stanza da letto, la piccola cucina che le
fa anche da sala da pranzo e il bagno. Tutto qua. Uguale a milioni
di altri appartamenti abitati da gente con un reddito sicuramente
piu` basso del suo. Lei potrebbe permettersi di meglio, ma non le
e` mai importato. Fin da quando si e` trasferita nella metropoli da
Norwich, il paese della sua infanzia e adolescenza, ha sempre evitato
i quartieri alti e lussuosi. Certamente retaggio della sua famiglia
che le ha inculcato il concetto di come tutto il superfluo non sia
altro che uno spreco, e nella famiglia Rowles lo spreco e` sempre
stato considerato come la peste. Cio` anche dovuto al fatto che le
condizioni economiche dei suoi genitori, durante la sua infanzia,
erano tutt'altro che floride. La bottega di suo padre bastava appena
a tirare avanti, e sua madre, dopo la nascita della seconda figlia,
aveva avuto gravi problemi di salute. Non era piu` stata in grado
di alzarsi dal letto, ed era morta quando Jennifer aveva appena nove
anni e la sua sorellina quattordici mesi.
Jennifer aveva quindi fatto a Janice, quasi da seconda madre, nonostante
la giovane eta`. Il padre che doveva occuparsi della bottega, l'aveva
subito responsabilizzata e con l'assistenza di una vicina di casa
cosi` gentile da rendersi immediatamente disponibile ad aiutarli (e
che anni dopo sarebbe diventata la loro matrigna) era riuscita ad
avere cura della piccola.
Col passare del tempo, si era destreggiata bene anche nello studio
e nonostante le incombenze domestiche, era orgogliosamente arrivata
fino all'universita` dove aveva conseguito una laurea in psicologia,
con indirizzo criminologico, a soli ventiquattro anni. A quel punto,
approfittando delle nuove nozze del padre, si era trasferita nella
citta`, dove aveva iniziato il praticantato come assistente in cliniche
psichiatriche e finalmente, circa due anni prima, era entrata a far
parte dello staff del Procuratore come psicologa.
Il lavoro le piaceva molto e questo l'aveva distratta dalle vicende
familiari dei suoi. Finche` un bel giorno, si era vista arrivare sua
sorella sulla porta di casa.
Janice si era fatta proprio una bella ragazza. Jennifer che non la
vedeva da qualche anno, se non in fotografia, era rimasta sorpresa
dalla trasformazione. Snella, mora come lei, ma con lunghi capelli,
al contrario dei suoi che portava sempre corti, occhi verdi, pareva
pronta per entrare nel mondo della moda o dello spettacolo, e quello
era proprio il suo intento come le fece capire. Le aveva chiesto di
ospitarla per un po', mentre trovava lavoro. Pareva cosi` sicura di
se`, certa di sfondare. Lei aveva cercato in qualche modo, di spiegarle
che non sarebbe stato facile, che le agenzie di casting, quelle serie,
rigurgitavano di belle ragazze disposte a tutto pur di arrivare, ma
Janice non aveva sentito ragioni.
L'aveva ancora presente cosi` davanti agli occhi, col suo sorriso
sicuro e neanche due mesi dopo era stata costretta a riconoscere quello
stesso viso, bianco e immobile, su un tavolo d'obitorio.
Era rimasta coinvolta in una rissa in una discoteca e un pugno, probabilmente
neanche diretto a lei, le aveva fracassata la tempia, uccidendola
sul colpo.
Jennifer ricordava i giorni successivi come un lungo incubo. L'arrivo
di suo padre e della matrigna per riprendersi il cadavere che sarebbe
stato sepolto nel cimitero del paese, il loro dolore soffuso di muto
rimprovero nei suoi confronti, per non avere avuto la forza di farle
capire che i suoi progetti l'avrebbero distrutta ("E voi, allora?"
ricordava di aver pensato gonfia di rancore, Jennifer), il funerale.
Era stata felice di rituffarsi nel lavoro, appena era stato possibile.
Da allora, non aveva piu` visto i suoi. A Natale si scambiavano formali
biglietti d'auguri, ed era tutto. Qualche mese prima, suo padre aveva
avuto un leggero infarto, ma quando lei nonostante un periodo di lavoro
molto intenso, si era offerta di andare a trovarlo, lui stesso le
aveva detto di non preoccuparsi, che si era rimesso benissimo e che
non c'erano problemi.
E cosi` non era andata, provando dentro di se` un certo colpevole
sollievo.
Piu` volte in quei mesi, mentre si seppelliva di pratiche e rapporti,
in fondo ai suoi pensieri un piccolo tarlo aveva fatto sentire il
rumore dei suoi dentini. Forse c'era qualcosa di vero nel rimorso
che avvertiva nel profondo della sua coscienza. Forse avrebbe dovuto
prendere Janice e rispedirla il giorno stesso dai suoi, senza neanche
darle il tempo di parlare. Certo, si sarebbe fatta odiare per tutta
la vita, ma almeno l'avrebbe avuta una vita. Forse si sarebbe salvata.
Forse. O forse no. Sarebbe stato tutto inutile, un'altra vocina le
sussurra nel cervello. Il nostro destino e` segnato, dice, la convinzione
che abbiamo di essere arbitri della nostra esistenza e` solo un'illusione.
Tutto e` scritto, tutto e` predestinato e niente ci e` possibile fare
per cambiarlo. Ma in realtà`, Jennifer si chiede se quella
vocina non sia solo un modo per sgravarsi la coscienza da quel sottile
senso di colpa cui non riesce a sottrarsi.
Jennifer si scuote dai suoi pensieri, sorseggia le ultime gocce di
caffe` ormai quasi freddo in fondo alla tazza e guarda fuori dalla
finestra il debole chiarore di un'alba ormai imminente. Il grande
orologio a muro della cucina segna le cinque e cinquanta. E` rimasta
piu` di un'ora a sedere davanti alla tazza di caffe`, immersa nei
ricordi senza rendersene conto. L'ora piu` buia della notte, la chiamano,
quella che precede l'alba, l'ora dei suicidi, perche` e` statisticamente
provato che la maggior parte vengano commessi proprio in quell'ora.
Il momento in cui la depressione tocca i livelli piu` bassi, le paure
piu` profonde ci assalgono e l'animo umano rasenta la follia.
-Al diavolo, stai diventando morbosa. - dice a voce alta a se` stessa
per farsi coraggio, sciacquando la tazza e riponendola sullo scaffale.
- Ormai cio` che e` stato e` stato, e non sara` martirizzandomi che
la riportero` in vita o che cancellero` i dubbi nella mia testa. Posso
invece cercare di fare in modo che cose del genere non succedano piu`.
Non permettero` che un'altra povera ragazza finisca i suoi giorni
su un tavolo da obitorio. Non se potro` evitarlo.
Forse Carruthers ha ragione. Lei vede in Joyce un modo di riscattare
le sue colpe, vere o presunte che siano, di sottrarre una giovane
che puo` avere l'eta` che avrebbe avuto Janice se fosse vissuta, a
un destino altrettanto tragico. Ma e` davvero cosi`, o c'e` di piu`?
Jennifer pensa con un sorriso alle chiacchiere che avevano cominciato
a girare su di lei in ufficio, quando aveva gentilmente ma con fermezza,
respinto le avances di un paio di suoi colleghi. Una bella donna di
trent'anni a cui non interessano gli uomini. La conclusione era facile
da immaginare. Era vero, non c'erano uomini nella sua vita anche se
non era certo una vergine, ma questi erano solo fatti suoi e non aveva
intenzione di condividerli con un branco di curiosi in vena di morbosità`.
La loro opinione in proposito non la interessava, e non era certo
questo pensiero a svegliarla spesso nel cuore della notte. Che parlassero
pure. Chissa` come si sarebbero scatenati con questa storia della
ragazza aggredita, soprattutto quando avessero appreso che lei utilizzava
addirittura le sue ferie per occuparsene.
Pensare a Joyce e agli strani avvenimenti che la riguardavano e` riuscita
finalmente a distoglierla dai suoi crucci. L'indomani mattina, anzi
tra poche ore, si sarebbe recata all'ospedale per trasferirla nella
casa che le era stata assegnata, e la`, in un ambiente protetto e
rassicurante, spera davvero di rimuovere gli ultimi blocchi della
ragazza e di riuscire a farle ricordare cosa e` accaduto.
E` questo in fondo, di cui Joyce ha piu` bisogno: protezione e affetto.
Tutto cio` che le e` mancato con suo marito. Nessuna donna dovrebbe
passare cio` che e` capitato a lei. E` ora che la vita la risarcisca.
Glielo deve. E attraverso lei risarcira` tante altre povere ragazze.
Come Janice.
Quando Jennifer arriva all'ospedale, trova Joyce gia` pronta ad attenderla.
Il poliziotto che ha sempre sorvegliato la ragazza durante il suo
ricovero, l'aiuta a scendere, insieme ad un infermiera fino alla macchina.
Una volta fuori dall'edificio, Jennifer stessa la sorregge, per non
nuocere alla caviglia ancora fasciata, per farla sedere nell'abitacolo.
Joyce appare ancora un po' confusa, dispensa sorrisi un po' tirati
ma sinceri, a tutte quelle persone che si prodigano ad aiutarla, poco
abituata evidentemente a ricevere tante attenzioni.
Dopo un tragitto abbastanza breve, ma interminabile per Jennifer,
che da un po' e` perseguitata da un insistente quanto fastidiosa impressione
di sentirsi osservata, l'auto fa il suo ingresso nel giardinetto di
una casetta a due piani, poco oltre la periferia della citta`.
Appena scese dalla vettura, Jennifer lancia un'occhiata alla ragazza
e nonostante i mille pensieri che le affollano la testa, non reprime
un sorriso nel notarne l'aria stupefatta alla vista della casa che
avrebbe dovuto ospitarla nei giorni a seguire.
-Non ti chiedo neanche se ti piace. - dice, mentre l'altra continua
a fissare ammirata la villetta, a bocca spalancata.
Sistemata una ancora disorientata Joyce nella sua stanza, la psicologa
telefona subito a Carruthers.
-C'e` qualcosa che non va? - chiede subito il tenente, nel sentire
lo strano tono di voce della donna.
-Niente di definito, ma e` da stamattina che ho la netta impressione
di essere sorvegliata.
-E lo sei. Una nostra auto non vi ha mai perse di vista.
-Si`, forse e` questo, ma ti dispiace chiamare i tuoi uomini e chiedergli
se hanno notato qualcosa di strano? Qualunque cosa.
-Beh, se cosi` fosse, avrebbero dovuto gia` dirmelo, non credi?
-Per favore, George.
-D'accordo, d'accordo, non temere. Comunque credo che la tua pupilla
possa dormire sonni tranquilli. Probabilmente non e` mai stata cosi`
al sicuro in vita sua.
Jennifer glissa sul tono ironico nella voce di Carruthers e sta per
salutarlo, quando il poliziotto ne richiama l'attenzione.
-Ehi, quasi mi dimenticavo. Non devi piu` preoccuparti per il riconoscimento
di Bixby. I capi hanno deciso che e` inutile, vista la corrispondenza
degli indizi gia` in nostro possesso.
-Meglio cosi`.
-Ma non e` detto che non dovremo farlo per il secondo presunto aggressore.
-Sapete chi e`?
-Forse, ma prima dobbiamo trovarlo.
-La raccomandazione resta la stessa, George. Massima cautela.
-Tranquilla. Ci sentiamo.
Jennifer spenge il cellulare, e si avvicina all'ampia vetrata guardando
fuori. In realtà`, ripensandoci non e` solo dal mattino che
una specie di sesto senso, le manda segnali d'allarme, ma prima troppo
occupata a sistemare le cose per il trasferimento di Joyce, non se
ne era resa conto. Tuttavia deve cancellarsi dal volto le preoccupazioni.
Joyce deve stare tranquilla, e` gia` abbastanza frastornata, senza
che lei le aggiunga le sue paranoie.
- Allora, che te ne pare? - esordisce con un sorriso, entrando nella
camera da letto dove gia` si e` sistemata la ragazza.
-E` stupenda. - risponde lei, ancora con gli occhi spalancati ad ammirare
l'arredamento semplice ma elegante della stanza. - Non ho mai abitato
in una casa cosi` bella.
-Beh, non e` l'hotel Ritz, ma cerchiamo di trattare bene i nostri
"clienti".
-Hai detto che questa casa la usate per i testimoni a rischio?
-Gia`, quei poveretti hanno gia` abbastanza problemi. Hanno almeno
il diritto a un certo comfort.
-Ci saranno delle misure di sicurezza, allora?
-In realta`, non tantissime. E` un po' che non viene piu` usata e
la maggior parte dei dispositivi e` stata smontata, ma tutti i vetri
al pianoterra sono a prova di proiettile.
-Beh, penso che mi accontentero`. - dice Joyce, sorridendo, poi si
volta verso a guardarla con un'espressione incuriosita.-Jennifer?
-Si`?
-Perche` fai tutto questo per me?
-Non sono io. - cerca di schermirsi lei - E` la Procura.
La ragazza scuote il capo lentamente.
-Non credo.
Jennifer abbassa gli occhi, un po` imbarazzata.
-Bene, io finisco di sistemare le ultime cose, e poi chiacchieriamo
un po`, se ti va.
Joyce annuisce, e Jennifer esce dalla stanza, sentendosi addosso il
suo sguardo.
Nel salottino al piano terra, il sole del primo pomeriggio, passando
attraverso le ampie finestre protette da vetri a prova di proiettile,
va a cadere sul pavimento in legno, coperto da un grande tappeto.
L'arredamento, come in tutto il resto della casa, e` stato studiato
nei dettagli per mettere subito a proprio agio gli ospiti. Comode
poltrone e divani sono disposti lungo le pareti in una sequenza interrotta
da un grande mobile a scaffali, pieno di libri e video, con al centro
un televisore collegato ad un impianto hi-fi dotato di apparecchio
DVD di ultimo modello. Nel mezzo della stanza un tavolo basso e un
piccolo ma fornitissimo mobile bar.
Seduta su un divano, Joyce appare turbata, mentre Jennifer alla finestra
sta guardando nel giardino, come per accertarsi che i poliziotti di
guardia siano effettivamente al loro posto. Voltandosi, la psicologa
si accorge dell'evidente emozione di Joyce.
-Mi dispiace, - dice andandole a sedere accanto, - non volevo sconvolgerti.
-No, non importa, non preoccuparti. Ultimamente mi capita spesso.
A volte anche nel sonno. Mi sveglio e scopro di avere il viso bagnato
di lacrime
- Joyce esita, poi termina la frase - senza neanche
sapere perche`.
-Fai ancora quei sogni?
-Si`, ma non me li ricordo mai. E` tutto cosi` confuso. Ma parlami
ancora di te. - Cambia velocemente discorso la ragazza. - Cosa hai
fatto dopo la morte di tua sorella?
-Mi sono ributtata nel lavoro con ancora piu` energia di prima. Forse
cercavo solo di dimenticare il piu` in fretta possibile.
-E ci sei riuscita?
Jennifer sorride amaramente.
-Non troppo, ma continuo a tentare.
Joyce la guarda con occhi ancora lucidi.
-Allora e` per questo che lo fai? Occuparti di me, intendo. Vuoi riscattarti
dalle colpe per la morte di Janice?
Jennifer la fissa sorpresa nel sentire mettere in parole i propri
pensieri piu` riposti.
-Diamine, Joyce, - risponde con un po` di disagio, - vuoi rubarmi
il mestiere?
Joyce resta in silenzio, e Jennifer si alza tornando a guardare dalla
finestra.
-Me lo sono chiesta, ma in fondo non credo che sia per questo. - risponde.
- Io voglio aiutarti, Joyce. Voglio sinceramente aiutarti, e cercare
di aiutare quanta piu` gente mi sara` possibile nella vita. Perche`
questo e` il mio lavoro e a me piace.
-Capisco, - mormora Joyce, quasi soprappensiero, - si`, capisco. C'era
qualcuno che diceva le stesse
- e s'interrompe. Jennifer, colpita
dallo strano tono di voce, si volta e vede Joyce con lo sguardo perso
nel vuoto. In ansia, le si avvicina, toccandole un braccio.
-Joyce, stai bene?
La ragazza, al tocco si scuote e la fissa come se non la riconoscesse.
Ma mentre due lacrimosi le scendono lungo le gote, dice qualcosa che
Jennifer non riesce a capire.
-Come? Cosa dici, Joyce?
Ma il momento e` passato, e lo sguardo della giovane ritorna normale.
-Che c'e`? - chiede.
-Dimmelo tu. Sembrava quasi che dormissi ad occhi aperti. Cosa hai
detto?
-Ho parlato?
Jennifer la guarda. Joyce sembra sincera.
"Mio Dio," pensa, "forse la situazione e` piu` grave
di quello che credevo."
-Non lo so, - risponde, - mi e` parso che pronunciassi un nome, ma
non sono riuscita a capire. Non te lo ricordi?
Ora il terrore e` palese negli occhi della ragazza.
-No, Jen, non mi ricordo. Cosa succede? Sono pazza?
-No, no, piccola. - le dice Jennifer, abbracciandola per rassicurarla.
- Sei solo passata attraverso l'inferno. E` normale che tu sia sottosopra.
- "Ma non che ti addormenti ad occhi aperti durante una conversazione."
le sussurra all'orecchio la solita vocina maligna - Hai solo bisogno
di riposo. Vieni, - dice, aiutandola ad alzarsi dal divano, - adesso
ti accompagno nella tua camera.
-Jen, non te ne andare. - L'implorazione nella voce di Joyce e` commovente.
- Ho paura. Non puoi trasferirti anche tu qui?
La risposta le esce di bocca ancor prima che il concetto le si sia
formato completamente nel cervello.
-Va bene, Joyce. Resto.
Poco dopo, Jennifer esce dalla stanza di Joyce. La ragazza si e` calmata
un po' e adesso sembra riposare abbastanza tranquilla. Jennifer scende
nel soggiorno e va sedersi sul divano piu` ampio. Poi, sistemando
su un bracciolo uno dei cuscini, vi si distende, fissando il soffitto
presa dai suoi pensieri. Cio` che e` accaduto prima proprio in quella
stanza, l'ha colpita. Fino ad allora aveva considerato i sonni agitati
di Joyce e lo strano atteggiamento assente che assumeva di tanto in
tanto, come una conseguenza dell'aggressione e dello stato di stress
in cui aveva vissuto in quei giorni, ma ora comincia a temere che
possa esserci qualcosa di piu`. Joyce non mentiva dicendo di non ricordare
cio` che aveva appena detto. I suoi occhi erano troppo spaventati
e sinceri perche` non fosse cosi`. E allora, cosa le stava accadendo?
E che lingua era quella in cui si era espressa? Le era parso che pronunciasse
un nome, ma proprio non era riuscita ad afferrarlo, tanto lo aveva
detto piano. Jennifer chiude gli occhi, cercando con la memoria di
rivedere i movimenti labiali di Joyce, tentando di riconoscervi un
suono, una parola che possa avere un senso, ma senza successo. Ed
e` in quel momento che le torna in mente. Nel marasma di quelle ultime
ore, l'aveva quasi dimenticato. Appena ricoverata, quando era ancora
sotto sedativi, Joyce aveva gia` parlato nel delirio post-traumatico
in una strana lingua, al punto che loro, non avendola ancora identificata,
avevano pensato che fosse straniera. La psicologa si concentra con
ancora piu` forza. Lei era li`, l'ha sentita parlare nell'incoscienza,
e` possibile che fosse la stessa frase, lo stesso nome (se era un
nome) che aveva pronunciato poco prima? Come esserne certi? Eppure,
ripensandoci, a Jennifer pare di riconoscere il suono, a un tempo
secco e dolce di quella parola. E il pianto? Per sua stessa ammissione,
Joyce si sveglia spesso piangendo. E ora che ci pensa, in quelle frasi
sussurrate, incomprensibili, non si avverte forse uno straziante tono
di disperazione?
"Va bene, ora basta," si dice Jennifer con risolutezza,
"altrimenti finirai per farti suggestionare anche tu. Piuttosto,
se devo rimanere qui, sara` bene che mi organizzi. Domattina stessa,
andro` a casa a prendere un po` delle mie cose. In fondo e` un bene,
se rimarro` sul posto. Ci saranno meno probabilità` che qualcuno
possa seguirmi."
Perche` quella sensazione non l'ha mai lasciata. L'idea insistente
e fastidiosa di avere sempre qualcuno alle spalle che l'osserva.
Tutta assorta in queste riflessioni, Jennifer quasi senza rendersene
conto, comincia a scivolare nel sonno. Nella sua mente sovraffollata,
pensieri reali e immagini oniriche si sovrappongono. Il pianto di
Joyce, le sue lacrime che cadendo si colorano di rosso, rosso come
il sangue fuoriuscito dal polso mozzato di Bixby, sangue che scorre
come un piccolo fiume fino a raggiungere una mano che giace sul terreno
sudicio di un vicolo, mentre altre gocce colano da una lama affilata,
la lama di una grossa spada stretta in un pugno forte e vigoroso che
finisce pero` in un braccio femminile. E su tutto, quelle strane parole
pronunciate in una lingua arcaica che la voce di Joyce ripete continuamente,
ossessivamente, ancora, e ancora
E d'un tratto, Jennifer e` sveglia. Perche` la voce che credeva frutto
del sogno e` li` con lei. Joyce e` sulla soglia del salotto. I suoi
occhi sono aperti, ma cio` che vedono non appartiene a questo mondo.
Il suo viso e` inondato da un pianto che non riesce a contenere. E
le sue labbra ripetono incessantemente una stessa frase.
Una crisi di sonnambulismo. Jennifer, ancora un po' stordita dal sonno,
fa per avvicinarlesi, ma poi si ferma. Una nuova idea l'ha colpita.
In silenzio si avvicina all'impianto hi-fi e mette in funzione il
registratore. La cassetta gia` presente all'interno, comincia a girare,
mentre le parole di Joyce vengono fissate sul nastro. Appena in tempo,
perche` un attimo dopo, la ragazza crolla di schianto e Jennifer riesce
per miracolo ad afferrarla prima che vada a battere la testa contro
lo spigolo di un mobile. Joyce sta ancora dormendo, ma il suo respiro
sembra regolare. Jennifer la stende sul divano e resta a guardarla.
Poi, si avvicina al registratore, lo spegne ed estrae la cassetta.
La sua e` stata un'idea improvvisa. Quelle che di solito si rivelano
le migliori. Forse presto uno dei misteri di quella incredibile storia
potra` trovare una spiegazione.