Con
tutta la mia anima
di
Manuela
Prima
parte
- 1 -
"Salut
!" "Bonjour !" "Je t'adore !" "Tu es
unique !" .
Parigi è una città bellissima. Calda, accogliente, forte
e dolce, dolcissima... anche se faceva un freddo cane, i miei fans
se ne stavano sotto la finestra dell’hotel ad urlare a squarciagola
il mio nome, quelle dolci frasi, ad inneggiare striscioni in cui mi
esprimevano tutto il loro calore ed il loro affetto... era una sensazione
indescrivibile, bellissima, stupenda.
Ma io non riuscivo a provare neppure un briciolo di gratitudine per
loro. L'unico sentimento che mi attanagliava l'anima era il rimorso,
il senso di colpa.
Perché ?
Forse perché ero una cantante con all'attivo ben due album
di canzoni stupende, che avevano venduto milioni di copie in tutto
il mondo e non avevo scritto neppure un testo di mio pugno.
Forse perché avevo puntato tutto sulla mia immagine di donna
sexy, che gioca con gli uomini e che con un solo schiocco di dita
li ha tutti ai suoi piedi (e in questo le donne di oggi ci sguazzavano
come i porci nel fango) e io non ero affatto così, tutt'altro.
Forse perché mi guardavo allo specchio al mattino e vedevo
solo una donna di trent'anni, carina, brava, dietro cui si nascondeva
una inguaribile e famelica bestia, che si nutriva di un nettare proibito...
la cocaina.
Si. Sono una tossica. Com'è che mi sono ritrovata a questo
punto ?
Neanche lo so. Ricordo solo che un giorno stavo seduta sul pavimento
del cesso di una discoteca a fumare uno spinello e che il giorno seguente
ero in una suite d'albergo, chissà dove, a sniffare una striscia
di coca, col trucco disfatto, gli occhi rossi... ed una stupida sensazione
di soddisfazione dentro.
Non
so né com'è iniziata...né com'è che sono
qui oggi. Ma forse... posso tentare di ricostruire il tutto... no
?
Avevo dodici anni. Ero una bimba normale. Capelli castani, occhi chiari,
innamorata della scuola, assetata di cultura, oserei dire. Vivevo
a Parigi con mia madre, Heléne. Avevo anche una migliore amica,
Marie, a cui ero davvero molto legata.
Stavo tornando a casa dopo la scuola, proprio con Marie. Il venerdì
pomeriggio sua madre tornava tardi e non le piaceva lasciarla a casa
da sola, così la lasciava venire a casa mia. Anche mia madre
lavorava, anche io stavo da sola, ma io, al contrario di Marie, ero
abituata a stare da sola. Ero una bambina molto responsabile.
Mia madre mi aveva insegnato da subito a rimboccarmi le maniche ed
a combattere, a lavorare... ero una bimba forte. Indipendente.
Entrammo in casa.
"Marie, accendi il televisore. Adesso inizia 'Fame' ".
Era il nostro programma preferito. Io sognavo di cantare e di diventare
famosa, Marie sognava di fare la ballerina, anche se ultimamente il
suo sogno di danzatrice era offuscato da quello di diventare medico...adoravamo
Leroy, il ballerino di colore... Santo Cielo, lui era veramente sexy
! Anche se, a volte, si comportava come un sovversivo… ed era
proprio per questo che mi piaceva così tanto, per il fatto
di essere ribelle.
I miei gusti in fatto di uomini, seppure virtuali, la diceva già
lunga sul mio futuro.
Entrai in cucina per prendere la frutta e fare merenda... e trovai
mia madre.
Era sbronza. Stava cercando di infilarsi una siringa in un punto preciso
del braccio, ma senza successo. Ubriaca com'era...
"Tesoro", esclamò quando mi vide, con quella voce
barcollante.
Rimasi a guardarla per alcuni istanti.
“Mamma, cosa stai facendo ?”, chiesi.
Ero preoccupata, ma anche interdetta… non capivo.
“Non dovresti essere al lavoro ?”, chiesi ancora.
Lei mi guardò… sembrava che la sua mente fosse da un’altra
parte.
“La mamma sta male, Denise”, mi disse.
Mi accucciai vicino a lei e la guardai. Aveva gli occhi rossi, era
sudata… e puzzava d’alcol.
“Chiamo il medico, mamma ?”, le chiesi.
“No… no, il medico non serve… tu puoi aiutarmi,
amore…” .
La guardai… e lei mi porse la siringa.
“Devi aiutarmi ad infilarla nella vena… così starò
bene, amore” .
Sgranai gli occhi. Avevo paura degli aghi.
“No, mamma, io non posso farlo… non so come …”
“ Ti guido io… tranquilla…” .
mi diede la siringa in mano. Strinse forte l’elastico che si
era messa attorno al braccio… e d’un tratto vidi apparire
una vena, blu.
La mamma mi prese la mano… ma io tremavo, le avrei fatto di
sicuro del male… potevo romperle l’ago nel braccio, potevo
…
Iniziai a piangere.
“Non sei buona a niente”, mi disse poi la mamma.
Mi tolse la siringa dalla mano.
“Vattene via, stupida !”, disse ancora.
Mi alzai in piedi.
“Denise… ma che succede ?”.
Marie mi aveva sentita piangere e stava venendo da me.
La mamma si infilò la siringa nella vena… e si fece da
sola l’iniezione.
Poi sospirò, soddisfatta.
“Ecco come si fa”, mi mormorò.
Marie assistette alla scena con me.
“Che succede, Denise ?”, mi chiese, sconvolta.
Io stavo ancora singhiozzando. C’ero rimasta male… la
mamma non mi trattava mai così.
All’improvviso si alzò in piedi e corse in bagno.
La sentimmo vomitare e poi… sentimmo un tonfo sordo.
Marie mi prese la mano e strinse forte.
Ogni volta che aveva paura faceva così, mi prendeva la mano
e stringeva… e io le sorridevo, la guardavo e le dicevo :’Tranquilla.
Andrà tutto bene’ .
Avrei voluto farlo anche allora, ma… non ci riuscii.
Non riuscivo a muovermi, ero paralizzata… avevo paura, una paura
dannata…
“Mamma ?”, chiamai, timidamente.
Marie mi guardò. I suoi bellissimi occhi marroni erano spalancati.
E trasudavano paura.
Mi feci coraggio… ed entrai in bagno.
La prima cosa che vidi fu… sangue. Una pozza di sangue vicino
al wc.
E poi…
“Mamma !” .
Mia madre era sdraiata a terra, svenuta o forse già morta,
con una vistosa ferita sul capo, da cui grondava tutto quel sangue…
Marie venne da me non appena mi sentì urlare.
E quando vide quell’orribile spettacolo… mi prese tra
le sue braccia e mi strinse forte a sé.
“Devo chiamare il medico”, le dissi.
Corsi al telefono e chiamai un’ambulanza. Poi corsi fuori e
chiamai la mia vicina di casa, la signora Seigne.
Appena mi sentì urlare corse in giardino…
“Denise, cara, che succede ?”, chiese in francese stretto.
“Corra, la prego, la mamma sta male, sta male… la prego
…” .
Piangevo ed urlavo. Urlavo e piangevo… ero come impazzita.
La signora Seigne corse subito in casa… e non appena vide quello
spettacolo.. chiuse la porta del bagno.
“Denise, tu e Marie dovete restare qui, va bene ?”, disse.
Era anche lei sconvolta.
“Ho chiamato l’ambulanza”, le dissi.
E lei mi sorrise, teneramente.
“Sei stata bravissima, tesoro… ora siediti e resta con
Marie, va
bene ?” .
Annuii… era l’unica cosa che potevo fare.
- 2 -
I
paramedici arrivarono dopo pochissimi minuti e corsero in bagno, la
signora Seigne fece loro strada.
Io e Marie eravamo sedute in salotto… spettatrici impotenti
di quell’orribile spettacolo…
Provavo un turbinio di emozioni in quel momento, ognuna confusa nell’altra.
Paura. Rabbia. Ansia.
Ad un certo punto sospirai, abbassando gli occhi. Cercavo di allentare
la tensione.
Marie mi sfiorò la mano. Era come se avessi espresso in quell’unico
sospiro tutto quel che avevo dentro… e lei lo avesse compreso.
Così.
Senza dire una parola.
“E’ morta” .
E’ l’unica frase che ricordo. I paramedici vennero da
me, mi dissero un sacco di cose sulla mamma, su come se n’era
andata… tutte cose che io sentivo, ma che non comprendevo, perché
sapevo che lei non c’era più.
Sapere come era morta non me l’avrebbe ridata indietro.
Poi si misero a parlare con la signora Seigne.
Qualcuno chiamò il “dipartimento dei servizi sociali”,
qualcuno chiamò la polizia…ed in pochi minuti mi ritrovai
circondata di sconosciuti.
Una donna un po’ austera venne da me. Mi guardò, seria.
“Come ti chiami ?”, chiese.
La squadrai. Avevo gli occhi ancora umidi… la vedevo distorta.
“Denise”, risposi con un filo di voce.
La donna lo annotò su di un taccuino.
“Sei figlia unica ?”, chiese ancora.
“Si”, risposi.
Annotò anche questo.
Marie mi si avvicinò.
“Hai dei parenti ancora in vita ?”.
I miei occhi si erano persi nel vuoto. Perché… perché
quella donna era in casa mia ? Cosa voleva… cosa voleva sapere,
perché mi faceva tutte quelle domande ?
Mi guardai attorno. C’erano alcuni poliziotti in casa, che frugavano
nei cassetti. E loro che ci facevano ? Cosa volevano ? Perché
stavano frugando nella mia casa ?
Scattai in piedi.
“Cosa state facendo ?”, urlai.
Tutti mi fissarono.
“Uscite di qui, subito !” .
“Denise, calmati, okay ?”, disse la donna austera.
La fissai.
“Fuori di qui. Via !”.
Ero fuori di me.
Marie mi poggiò una mano sulla spalla.
“Denise… lo devono fare” .
Ricominciai a piangere. E Marie mi abbracciò.
L’interrogatorio
era ricominciato. Solo che stavolta il tutto avveniva fuori, in giardino…
davanti ad una tazza fumante di cioccolato caldo.
“Non ho alcun parente. Siamo solo io…” .
Mi guardai attorno.
“.. eravamo solo… io e la mamma”, mi corressi.
Lei non c’era più, neppure fisicamente. L’avevano
portata all’obitorio per farle l’autopsia… per sapere
di che cosa era morta.
“E’ caduta”, avevo ripetuto alla polizia e Marie
aveva confermato.
Loro ci avevano guardate ed avevano annuito, non troppo convinti.
Credevano ci fosse qualcosa, sotto… e forse era per quello che
frugavano nei cassetti della casa.
Non so… non sapevo bene cosa stesse succedendo.
“Denise, prendi le tue cose. Stanotte devi venire con me”,
mi disse la donna austera.
La fissai. Il mio terrore stava aumentando.
“Perché ?”, chiesi timidamente.
“Non puoi restare qui”.
Guardai Marie. Stava mettendo nel suo zaino i libri.
“Posso dormire a casa della mia amica Marie”, dissi.
La donna scosse la testa.
“Non si tratta di una cosa provvisoria. Ti porto in un posto
dove resterai… per un po’ di tempo” .
Non poteva essere… non poteva succedere proprio a me…
“Un orfanotrofio ?”, chiesi.
La donna mi guardò, seria.
“Si chiama istituto”, rispose.
“Il fatto che abbia un nome diverso non vuol dire che sia un
luogo migliore”, risposi a tono.
La donna mi lanciò un’occhiata stupita. Eh no, non aveva
davanti una bambina sprovveduta…
“Bello o brutto, quel posto sarà la tua casa per un po’
di tempo”, concluse alzandosi in piedi.
“E se io non volessi venirci ?”, chiesi.
Mi rivolse un sorriso. Ma non era un sorriso amico.
“Ti dovrei trascinare con la forza”, rispose.
“Ma so che non ce ne sarà bisogno”.
Si congedò da me per andare a parlare con la polizia.
Mi voltai verso Marie. Si stava guardando attorno, intimorita da tutte
quelle persone…
“Hey”, le dissi avvicinandomi.
Si voltò di scatto e mi sorrise.
“Hey”, mormorò a sua volta.
Rimanemmo a fissarci, in silenzio, per alcuni minuti.
Sarei rimasta così per sempre, se avessi potuto… Marie
era la persona più importante della mia vita. Avevo sempre
fatto tutto con lei, i compiti, la strada per andare e tornare da
scuola, le recite, i corsi di danza, i problemi economici, le prime
cotte per i ragazzi…tutto.
Sempre assieme.
E ora la dovevo lasciare… per sempre.
“Quella donna…”, tentai di iniziare.
Mi bloccai. Ma dovevo dirglielo.
“Deve portarmi via. In un… istituto”.
Marie spalancò gli occhi.
“No, tu puoi venire da me, la mia mamma sarà felice di
averti ! Puoi stare con noi, non ci sono problemi…”.
Sapevo che avrebbe reso tutto più difficile.
“Marie…”, dissi.
Ci guardammo.
“Non posso stare con voi. Devo… stare in quel posto per
un bel po’. Voi non potete tenermi” .
Abbassai gli occhi.
Marie scosse la testa. Stava per scoppiare a piangere.
“Vado a prendere le mie cose”.
Non volevo, non potevo vederla piangere…
Salii in camera mia. Presi il mio zaino, quello che usavo per le gite
scolastiche che duravano due giorni… ci infilai dentro un po’
di roba. Maglioni, jeans, biancheria… e gli album fotografici.
Ne avevo due.
Uno con le mie foto assieme a mamma ed a papà… di lui
ne avevo solo due. Non sapevo bene chi fosse mio padre, non lo avevo
visto spesso. La mamma diceva sempre che… lui era un poco di
buono. Che non ci voleva bene.
Io non ci credevo. Lui mi amava molto e se mi fosse successo qualcosa
sarebbe venuto a prendermi di corsa.
Forse, dopo aver saputo della morte della mamma, sarebbe venuto all’istituto
a prendermi e mi avrebbe portata casa sua, dove viveva adesso. Forse
si era risposato ed avrei trovato dei fratelli o delle sorelle ad
attendermi… chissà.
L’altro album era pieno di foto mie e di Marie. Eravamo amiche
del cuore dall’età di tre anni. Eravamo inseparabili
e lo erano anche le nostre mamme, da sempre.
A volte la domenica uscivamo tutte assieme per andare a fare un picnic…
e giocavamo tutte assieme a pallavolo, scherzavamo… ci divertivamo
un sacco.
Avevo molte foto di questi momenti… e decisi di portarle con
me. magari i avrebbero reso un po’ più sopportabile la
permanenza in quell’inferno.
Ancora non l’avevo visto… ma non mi era difficile immaginarlo.
-
3 -
“Ciao,
Marie”.
Eravamo agli addii. Non avrei mai pensato che sarebbe arrivato quel
momento… ero sicura che avrei passato la mia vita vicino a Marie,
che avremmo condiviso le nostre esperienze, proprio come era successo
alle nostre mamme… e invece, adesso… la dovevo lasciare.
Ci guardammo a lungo negli occhi.
Era come se volessimo fotografare ogni più piccolo ed insignificante
dettaglio dei nostri volti nelle nostre menti, per poterlo ricordare
e farci forza nei momenti più brutti e difficili…
“Ti scriverò”, mi disse.
Sapevo che non lo avrebbe fatto.
“E io ti risponderò”, le risposi.
Ma sapevo che neppure io le avrei scritto.
Ci prendemmo per mano. E poi ci stringemmo in un lungo, lunghissimo
abbraccio.
“Voglio darti una cosa, Denise”.
Marie si tolse dal polso il braccialetto d’argento che le aveva
regalato il padre prima di morire e me lo porse.
“Tienilo”, disse.
“No, Marie, è l’unico ricordo che hai di tuo padre
! Non posso accettarlo…” .
Ma lei non sentì storie. Mise il braccialetto nel palmo della
mia mano e la chiuse.
“Così ti ricorderai per sempre di me”, disse.
Le sorrisi… avevo gli occhi che stavano per scoppiare in lacrime.
Volevo dirle che non avevo bisogno di un braccialetto per ricordarmi
di lei, che sarebbe rimasta sempre nel mio cuore… ma non ci
riuscii.
“Appena uscirò verrò a cercarti. Ce ne andremo
da qui, andremo… a Londra e… inizieremo una vita lì”
.
Ci sorridemmo. Ma presto le risa lasciarono il posto alle lacrime.
Le porsi un anello… lo portavo da poco tempo, lo avevo preso
dal portagioie di mamma, quello che lei aveva gettato nell’immondizia,
perché conteneva tutte cose che le aveva regalato mio padre
e che per lei non contavano niente…
“Questo è l’anello di fidanzamento dei miei”,
dissi a Marie.
“E’ una cosa molto preziosa… e voglio che la tenga
tu” .
Lei sorrise e lo prese.
“Denise”, tuonò la donna austera.
Era il momento di andare.
Guardai Marie per un’ultima volta. L’abbracciai e le dissi
che le volevo bene.
Poi mi staccai da lei e corsi verso la donna austera, salii in auto
e partimmo alla volta di St. Michèle, tutto senza mai voltarmi
indietro.
Se lo avessi fatto, mi sarei gettata dall’auto in corsa…
mi sarei ammazzata pur di rimanere vicino a Marie.
Parigi
era strana, quel giorno. C’era pochissima gente in giro. Il
cielo era di un colore particolare, un rosso opaco… sembrava
uscito da una foto d’epoca.
Tutto andava molto lentamente, le nuvole, le macchine, la gente…
Le cose cambiarono un po’ quando arrivammo alla periferia della
città. C’ero stata un paio di volte quando ero più
piccola, con Marie e le nostre mamme, avevamo fatto delle gite in
campagna… ci eravamo divertite.
Il cielo era azzurro. Ma di un azzurro limpido, chiaro… quasi
irreale. Era bellissimo. E l’aria profumava di… mirtilli
e more. Lì attorno c’erano decine di frutteti…
La donna austera era concentrata nella guida. Non avevamo aperto bocca
da quando eravamo salite in auto.
“Hai sentito parlare di St. Michèle ?”, esordì
poi lei.
La guardai per un breve istante, poi tornare a fissare il niente assoluto
davanti a me.
“Si”, risposi in un soffio.
“Probabilmente ti hanno fatto un quadro un po’ troppo
severo”, proseguì.
Stava cercando di indorarmi la pillola ? Niente ormai poteva stravolgermi.
Mia madre era morta davanti ai miei occhi, avevo dovuto abbandonare
la mia casa, la mia migliore amica e stavo per andare a vivere in
un orfanotrofio… c’era già un frattura netta e
profonda, in me. E non poteva esserci nient’altro a farmi sentire
peggio.
“Non c’è così tanta severità, sai
?”, proseguì.
Si vociferava che le suore fossero crudeli, cattive e molto severe,
che usassero ancora le punizioni corporali, che fosse proibito uscire
fuori dal cortile dell’istituto, che fosse proibito vivere al
di fuori da quelle quattro mura.
Ma non me ne importava nulla, quel giorno. Avrebbero potuto picchiarmi,
insultarmi, torturarmi… non mi avrebbero fatta star peggio di
come già stavo. Avevo un vuoto dentro, una specie di buco che
mi attraversava e dal quale passava solo aria gelida. Non provavo
emozioni, non provavo niente.
Non avevo paura di quel che mi attendeva a St. Michèle.
Semplicemente, non me ne importava.
Non guardavo avanti, ma indietro, ad una vita che mi mancava, che
era stata mia fino a poco prima e che avevo perso in poco meno di
una manciata di minuti.
Sbagliando.
-
4 -
St.
Michèle era una struttura imponente. Si estendeva su di una
superficie enorme, era una specie di complesso di edifici molto belli
ed eleganti.
Era impossibile pensare o credere che proprio in una di quelle numerose
stanze le suore impartissero l’educazione attraverso punizioni
che andavano aldilà delle punizioni “classiche”
… sembrava tutto così… normale…
“Lei è suor Matilde”.
La donna austera mi introdusse ad una suora piuttosto anziana, col
viso rugoso e serio, serissimo.
“Bonjour”, dissi, educatamente.
Lei mi fece un cenno di assenso con la testa e poi la donna austera
mi fece sedere su di una panca di legno, dura, che stava ad un lato
dell’immenso corridoio, mentre lei parlò, in modo confidenziale,
con la suora.
Mi guardai attorno: c’erano dipinti di Cristo che stava morendo,
soffrendo, circondato dai suoi discepoli sparsi su tutte le pareti…
era un istituto di suore, che cosa diavolo potevo aspettarmi !
Era un ambiente triste, malinconico e molto severo… che cosa
diavolo ci facevo lì ? Avevo solo dodici anni. Dodici.
“Denise ?”, mi appellò la suora.
Scattai in piedi come un perfetto soldatino e mi avvicinai a lei.
“Seguimi. Ti mostro la tua stanza” .
La donna austera abbassò gli occhi, non mi salutò. Forse
faceva parte del suo lavoro, forse era proprio così che ci
si doveva comportare quando si lasciavano un bambino o una bambina
in un istituto di suore… non si doveva guardare per regolamento…
o forse per non soffrire ?
La suora mi guidò attraverso il lungo corridoio, su per le
scale, fino ad introdurmi in una stanza immensa, una camerata.
Ai lati della stanza si stendevano lunghe file di letti… dodici
da una parte e dodici dall’altra, tutti rigorosamente rifatti,
precisi.
Ma la stanza era… fredda, impersonale.. e sebbene ci fossero
tutti quei letti, era … semplicemente vuota. Orrendamente vuota.
“Questo sarà il tuo letto”, disse la suora avvicinandosi
ad un giaciglio, il decimo.
Vi poggiai sopra la mia valigia. Era un incubo. Dovevo svegliarmi
prima di impazzire del tutto.
“Sistema le tue cose in questo cassettone e poi indossa la divisa
che sta in quell’armadio”, proseguì.
“Tra quindici minuti esatti ti aspetto nel mio ufficio, a piano
terra. Ti porterò nella tua classe” .
E rimasi lì, da sola.
- 5 -
La
divisa mi cadeva a pennello. Sembrava che fosse stata cucita apposta
per me. Lo dico perché me la sentivo bene addosso, non per
altro… non c’era neppure uno specchio in quello stanzone.
Mi aggiustai per bene… e poi scesi nell’ufficio di suor
Matilde.
“Le regole sono semplici”, recitò dalla sua sedia
di pelle marrone un po’ consumata.
Io me ne stavo in piedi dall’altra parte della scrivania. Non
ero stata invitata a sedermi.
“Si va a scuola, si pranza, si studia, ci si ritrova per il
rosario del pomeriggio e poi si cena. E si va letto molto presto.
Non si esce alla sera, non si incontrano persone al di fuori dell’istituto,
non si conoscono ragazzi”.
Marcò bene quest’ultima frase e mi fissò…
chissà che cosa pensava, chissà chi diamine credeva
fossi… non riusciva a capire che ero solo una bambina di dodici
anni a cui era morta la madre poche ore prima… neppure riusciva
a capire il mio dolore, magari non lo concepiva, perché è
questo che la religione cristiana dice, no ? Si nasce e si muore,
non c’è spazio per nient’altro e si soffre perché
si deve soffrire, si devono espiare così i nostri peccati di
esseri mortali ed imperfetti…. Una cosa mi sfuggiva allora e
mi sfugge ancora adesso. Una bambina di dodici anni quali peccati
può avere mai commesso per essere punita a quel modo ?
Ancora oggi, a distanza di anni, una risposta non l’ho trovata.
“Ti è tutto chiaro, Denise Emily ?” .
Un getto di lacrime mi salì prepotente agli occhi. Mia madre
mi chiamava Denise Emily quando mi sgridava. Nessuno mai, a parte
lei, mi aveva chiamata così.
Fu una prova tangibile, inconfutabile, che la mamma era davvero andata
via.
Per sempre.
“Si”, risposi con quel poco fiato che mi rimaneva in gola.
“E’ tutto chiaro”.
La suora continuò a fissarmi, seria e severa.
“Molto bene. Se ti atterrai a queste semplicissime regole, sono
certa che andremo d’accordissimo” .
Certo. Evviva la democrazia.
“Questa
è Denise Emily Doubois, la vostra nuova compagna” .
Mi introdusse in una classe di ragazze tutte all’apparenza uguali,
strette nelle loro uniformi e attente a scrivere quel che la suore
insegnante stava spiegando.
“Lei è suor Heléne” , disse suor Madeline.
L’insegnante mi sorrise.
“Benvenuta”, disse.
Sorrisi a mia volta, un sorriso debole, ma istintivo.
“Grazie”, mormorai.
“Scegli un banco e siediti” .
Mi sentivo estremamente imbarazzata ed avevo paura di quelle ragazze
sconosciute.
Percorsi il breve spazio che intercorreva tra le due file di banchi,
sotto l’attento sguardo freddo e scostante delle scolare, convinta
che non ce ne sarebbe stata neppure una disposta ad accogliermi accanto
a sé.
Ed invece…
“Vieni, qui c’è un posto libero” .
Una buffa ragazza con gli occhiali e le lentiggini, l’apparecchio
ai denti ed una lunga treccia, mi sorrise e mi invitò a sedere
vicino a lei.
Diede un’occhiata alle altre ragazze che non avevano fatto il
suo stesso gesto e tornò a sorridermi.
“Mi chiamo Lizzy”, disse, con una “S” un po’
traballante, che la rendeva ancora più buffa e simpatica.
“Molto lieta”, dissi.
“Siamo a pagina 22. Suor Heléne sta spiegando Omero”,
disse Lizzy.
Annuii e presi il mio libro.
Suor Madeline uscì dalla classe e suor Heléne tornò
a spiegare.
-
6 -
“Questa
è una scuola molto rigida, ma se ti ci abitui non è
poi così male”.
Eravamo a tavola e Lizzy mi stava spiegando i pro ed i contro dell’istituto.
Forse non era così terribile, almeno non quanto lo era quella
specie di cibo che ci avevano proposto…era insapore, gommoso
e… schifoso.
“Posso chiederti perché sei qui ?”, dissi poi.
Lizzy abbassò gli occhi.
“Perché è così brutta e noiosa che i suoi
non la volevano tra i piedi per non sfigurare con gli amici ed i loro
bellissimi figli” .
Una voce adulta e ben impostata si intromise nel nostro colloquio.
Mi voltai.
Era una ragazza mora, bella, devo dire, con i lineamenti molto marcati,
la pelle olivastra e due occhi marroni, grandi e lucenti.
“Ciao. Sei nuova ?”, mi chiese, tendendomi la mano.
“Io mi chiamo Julianne Lenoir”
Lizzy aveva ancora la testa bassa.
“Perché non le chiedi scusa ? Mi sembra che glielo devi”,
dissi.
La ragazza spalancò gli occhi, Lizzy mi fissò, incredula.
Sembrava che avessi bestemmiato.
“Non credo di dovere nulla a nessuno, io”, disse.
Era così presuntuosa e prepotente… in quel momento l’avrei
presa a schiaffi.
Successivamente… lo feci. Beh, diventammo acerrime nemiche.
Lei usava chiamarmi… ‘la paladina dei deboli’, perché
ero mia abitudine schierarmi dalla parte dei nuovi arrivati, essere
gentile con loro, proprio come Lizzy lo era stata con me quel primo
giorno.
“Beh, in questo caso neppure io credo di doverti niente”,
le dissi.
E tornai a parlottare con Lizzy.
Sentii Julianne allontanarsi poco dopo, ferita nel suo orgoglio di
leader, seguita dalle sue fedelissime discepole… in quelle poche
ore là dentro mi era chiara una cosa : o stavi con lei o contro
di lei, non c’erano mezze misure.
Tutte quelle che stavano con lei godevano di una protezione speciale,
ma avevano anche il dovere di rispettare alcune regole… diventare
le sue schiavette.
Non ero mai stata la schiavetta di nessuno, io. e non intendevo iniziare
proprio ora.
“Perché le hai risposto così ?”, mi chiese
Lizzy.
“Perché odio i prepotenti e gli arroganti e lei ne sembra
la Regina”, risposi inghiottendo un boccone di quella pappa
schifosa.
“Te la sei messa contro, lo sai vero ?”, mi disse ancora
Lizzy.
Sembrava spaventata.
“Non credo di essere la sola”, risposi.
“No, ma sei una delle poche. E nessuna sa tenerle testa, quindi
finiscono tutte per soccombere alle sue … prepotenze”
.
Dio mio… ma dove diavolo ero capitata ?
“Anche tu ?”, le chiesi.
Lei non rispose. Tornò ad abbassare la testa.
“Le faccio i compiti di matematica ogni venerdì”
, disse poi.
Sospirai. Non era certo di queste cose che avevo voglia, in quel momento.
Volevo solo… studiare, farmi i fatti miei e … e sperare
che il tempo passasse il più in fretta possibile per tornare
dalla mia migliore amica, che mi mancava come l’aria.
“Beh, ho una bella notizia per te”, esordii poi.
Lizzy mi fissò.
“Da questo venerdì non dovrai più farglieli. Si
cambia vita” .
Lizzy spalancò così tanto occhi e bocca, che credetti
che la lingua le cadesse nel piatto.
“Fidati”, le dissi, prima che potesse ribattere.
Vi
risparmierò tutti quanti i dettagli delle stupide lotte tra
me e Julianne… dico solo che … beh, quel venerdì
Lizzy non le fece i compiti. E neppure il venerdì successivo,
né quello dopo.
Le cose tra di noi si inasprirono moltissimo. Ero l’unica che
le teneva testa. E che sapeva il fatto suo.
Studiavo, facevo i compiti, i lavori che mi assegnavano le suore –
ci insegnavano anche alcuni lavoretti domestici e non per sapercela
cavare, una volta fuori di lì – ed ero eccellente, in
ogni cosa.
E avevo dato il via ad una nuova corrente, quella delle persone che
se ne stanno per fatti propri. E funzionava molto bene.
A Julianne non andava giù il fatto che io fossi… in un
certo senso migliore di lei, ecco, e mi dava sempre addosso. Ma in
fondo non era cattiva, o meglio, lo era, ma perché le circostanze
della vita l’avevano resa tale.
Sua madre l’aveva abbandonata all’Istituto di Saint Michele
appena due ore dopo la nascita e poi non si era più fatta viva.
Non aveva una sua foto, non sapeva chi fosse. E la stessa cosa valeva
per suo padre. Non lo aveva mai visto. Non aveva parenti, non aveva
nessuno che l’avesse amata. Era nata a e cresciuta circondata
da indifferenza. Ed era più che logico che ripagasse tutti
coloro che le stavano attorno con la stessa moneta: odio e disprezzo.
Ma non potevo farmi intimidire. Chi era lei e perché mai i
suoi problemi esistenziali dovevano sovrastare i miei ?
Ero cambiata e sarei cambiata ulteriormente, nel tempo che seguì.
Era … una logica conseguenza di quella vita. Ero più
seria, più severa con gli altri e con me stessa, ero tremendamente
dura, irrobustita dagli avvenimenti, e molto determinata. Determinata
a non combinare nessuna cazzata, a non fare neppure un errore che
mi lasciasse restare là dentro dopo il compimento dei diciotto
anni.
Ma…
beh, un giorno accadde qualcosa, qualcosa che ricorderò per
il resto della mia vita.
Stavo riordinando le divise nella lavanderia – era il mio turno
per stirare – ed ero come al solito completamente assorta nel
mio lavoro. Ad un tratto, però, sentii qualcosa che mi fece
sobbalzare.
Musica.
Non era musica da chiesa, non era suor Micaela che suonava l’organo
e si esercitava per la messa di domenica… era una musica diversa,
che non sentivo più da tantissimo tempo… era …
rock.
Iniziai a guardarmi attorno, spaventata ed incuriosita da quei suoni
così belli e forti, determinati … mi avvicinai ad alcune
ceste di vimini, dove tenevamo i panni da stirare, le spostai e dietro
…
“Oddio !”.
Charlotte se ne stava lì, seduta ad ascoltare musica.
“Mi hai fatto prendere un colpo !”, disse ancora.
“Che ci fai lì ?”, chiesi.
“Non lo vedi ? Ascolto musica con questa radiolina” .
Non eravamo grandi amiche, ma a volte parlavamo, anche se del più
e del meno.
“Non mi risulta che qui dentro siano permesse le radioline”,
dissi sedendomi vicino a lei.
Charlotte sorrise.
“Infatti la ascolto di nascosto. Me l’hanno data giù
al pub”, disse.
“Al pub ?”, chiesi di rimando.
“Sccccc “, esclamò lei.
Si guardò attorno, guardinga.
“Parla piano. Qui anche le mura hanno le orecchie”, sussurrò
poi.
“Quale pub ?”, chiesi sottovoce.
“Quello che c’è giù in città. Non
l’hai visto quando ti hanno portata qui ?”.
Ripensai al giorno in cui mia madre era morta. La mia casa era stata
invasa da poliziotti, gente estranea … poi quella donna mi aveva
portata via. Dalla mia casa, da mia madre.. e da Marie.
“Non ci ho fatto caso”, risposi.
“Ma poi come fai ad andare … al pub ?”, chiesi piano.
“Qui siamo sorvegliate a vista “.
Charlotte sorrise di nuovo e si alzò di scatto. Corse verso
la parete opposta, dove c’era una grande cassettiera che usavamo
per la biancheria nuova.
“Dammi una mano”, disse.
Mi alzai e la aiutai a spostare il pesante mobile, tanto quanto bastava
per mostrare un grosso buco sul muro, coperto da un lenzuolo, che
dava sul cortile.
Guardai Charlotte, poi di nuovo il buco.
“Come diamine avete fatto ?”, chiesi.
“E’ stato semplice”, disse.
“I ragazzi giù al pub ci hanno dato una mano. Abbiamo
messo il sonnifero nel brodo delle sorelle e sono cadute in un pesante
sonno. I ragazzi hanno portato la loro attrezzatura ed hanno fatto
questo bel buco sulla parete”, concluse fiera.
Io ero ancora incredula.
“Per fortuna sulla parete esterna ci sono quelle piante che
coprono il foro, altrimenti a quest’ora ci avrebbero già
scoperte” ,disse.
Il foro era stato fatto ad arte, in un punto stupendamente strategico
dell’edificio. C’erano due querce ultra centenarie che
con le loro fronde coprivano tutta la parete esterna, buco compreso.
“E la sera esci di qui e vai in città … a piedi
?”, chiesi.
Era lontana.
“No !”, esclamò Charlotte ridendo.
“Qui fuori c’è una bicicletta, quella di suor Serena.
In tre ci andiamo bene”, disse.
“In tre ?”, esclamai.
“Una sul sellino, una sulla canna e un’altra sul portapacchi
dietro. Siamo diventate equilibriste”, commentò ironica.
Mi sembrava di vedere quel posto per la prima volta in vita mia.
“Tu non sei mai stata fuori di qui ?”, mi chiese.
“No. Neppure sapevo di questi piccoli segreti”, risposi.
”Se vuoi una sera posso portarti. Devo però accordarmi
con Julianne. E’ lei che gestisce le uscite, qui dentro”,
disse Charlotte.
“Come tutte le altre cose”, aggiunsi io.
“Io non so che cosa ti abbia fatto e non mi voglio intromettere,
ma credo che faresti meglio a fartela amica. Non farai vita qua dentro,
avrai tutto e tutti contro”, mi consigliò saggiamente
Charlotte.
“Perché dovrei farlo ?”, chiesi.
“Perché è meglio per te. La vita qua dentro può
essere molto crudele e difficile”, rispose.
“Non credo di poter andare oltre questa soglia di sofferenza
e solitudine”, ribattei tornando a stirare.
Charlotte raccolse le sue cose, nascose la radiolina nel raggiseno
e spostò il mobile fino a ricoprire il foro nella parete.
“Ho sentito dire che qua dentro picchiano la gente”, disse
prima di andarsene.
“Tutte leggende, Charlotte. Se ti comporti come vogliono, la
vita qua dentro è sopportabile”, risposi.
Stavo stirando le uniformi.
“Devo dire a Julianne che vuoi uscire ?”, mi chiese poi.
“No. Non mi interessa. Comunque grazie delle informazioni”
, dissi sorridendo.
Esitò un attimo poi disse :
“Non ci tradirai con le suore, vero ?” .
Era preoccupata.
Le sorrisi.
“Io e te non ci siamo mai viste”, risposi.
La vidi sospirare, sollevata.
-
7 –
Ciò
non toglie però che mi fossi incuriosita e non poco dopo quelle
scottanti rivelazioni e che ne volevo sapere di più.
Mi rivolsi alla persona che in quell’inferno mi era più
vicina : Lizzy.
“Hey, ti devo parlare”.
Affrontai l’argomento un mattino in mensa, durante l’ora
del pranzo.
“Che ne sai della storia del pub e delle uscite notturne ?”,
chiesi.
Lizzy per poco non si strozzò col boccone di cibo che aveva
in gola. Tossì rumorosamente, io le porsi dell’acqua.
“Ti sembra un argomento di cui discutere in una stanza così
affollata ?”, fu la sua risposta.
“Voglio saperne di più. Charlotte mi ha incuriosita molto”,
dissi, tentando di inforchettare quell’orribile pezzo di carne
molto simile ad un frammento di copertone.
“Lei ti ha parlato di … questa cosa ?”, sussurrò
Lizzy.
“Si. L’altro giorno era in lavanderia e casualmente siamo
entrate in argomento. Tu ne sai qualcosa ?”, chiesi ancora.
Lizzy si guardò attorno, con l’aria sospettosa che aveva
avuto anche Charlotte qualche giorno prima e poi si avvicinò
a me.
“Gestisce tutto Julianne”, sussurrò.
“E’ lei che forma i gruppi per andare al pub” .
Masticò lentamente il boccone.
“Al massimo possono uscire tre - quattro persone per sera. Prendono
la bicicletta e vanno in paese. Se piove prendono il furgoncino di
suor Celades e vanno in paese”.
La fissai.
“E se le suore se ne accorgono ?”, chiesi.
“Quando piove e le ragazze vogliono uscire mettono del sonnifero
nel cibo delle sorelle. Così quando vanno a dormire cadono
come massi e non sentono niente” , sussurrò piano.
Annuii.
“Sei mai uscita, Lizzy ?”, domandai a bruciapelo.
Dopo un momento di esitazione, lei annuì.
“Si, a volte si”, disse.
Mi stupii molto della sua rivelazione.
“Ho anche un ragazzo”, aggiunse.
Spalancai gli occhi e sorrisi.
“Sul serio ?”, chiesi.
Lizzy si imbarazzò
“E perché non mi hai mai detto niente ?” .
Mi sentivo un po’ esclusa ed emarginata. In fondo eravamo amiche,
molto amiche.
“Non lo so …”, rispose.
“Julianne ha imposto il divieto di fiatare, vero ?”, intuii.
Lei annuì.
Continuammo a mangiare in silenzio. Ma l’idea mi era oramai
balenata in testa e già le parole mi erano salite nella bocca
… e se ne uscirono prima che me ne accorgessi.
“Se io volessi uscire senza farne parola con Julianne ?”
.
Lizzy mi fissò.
“Non si può !”, esclamò sconvolta.
“Se Julianne lo venisse a sapere …” “Io non
ho paura di lei” , dissi secca.
“Dovresti saperlo, oramai” .
Con questa frase la zittì.
“Possiamo farlo stasera, se vuoi”, disse poi.
Sorrisi.
“Sii pronta per mezzanotte e mezza”, concluse.
La
mia prima uscita … ero nervosa, emozionata e dubbiosa. Stavo
facendo la cosa più giusta ? O volevo solo sfidare Julianne
? Mi stavo mettendo nei casini ? Non avevo idea di cosa mi aspettasse
e del luogo in cui mi sarei ritrovata. Ma oramai ero in ballo e dovevo
ballare.
Il controllo di mezzanotte ci trovò in camera. Mi alzai senza
far rumore dopo poco e mi incontrai con Lizzy nella lavanderia. Indossavo
dei pantaloni ed un maglione vecchi, mentre Lizzy era vestita con
jeans, camicetta e giacca scamosciata.
“Dove diamine hai preso questi abiti ?”, le chiesi sgranando
gli occhi.
“Li ho comprati … ma lascia perdere. Tu piuttosto…
non puoi venir vestita così. Fa freddo e poi nel locale ti
guarderebbero tutti in modo strano. Tieni, metti questi, dovrebbero
andarti bene” .
Mi porse dei jeans ed un maglione nero, molto bello.
Li indossai. Ero un’altra persona. Stavo benissimo ! Ero …
diversa. Più donna.
“Sei perfetta”, fu il commento di Lizzy.
Estrasse dalla tasca dei jeans un piccolo oggetto di plastica, lo
aprì e ne estrasse un mini pennellino. Me lo avvicinò
al viso ed io mi ritrassi.
“Sta’ tranquilla !”, esclamò lei.
“Va tutto bene. Voglio solo truccarti un po’”, disse.
La lasciai fare. Mentre mi truccava mi accorsi di non conoscerla poi
così bene come credevo. Insomma, la Lizzy che conoscevo io
era imbranata, secchiona, timorosa … e adesso avevo davanti
una maga del travestimento, che si stava adoperando per trasformare
il mio aspetto fisico.
“Sei un’altra”, mi disse ad operazione conclusa.
Mi porse un piccolo specchietto dove mi guardai. Stentai a riconoscermi
!
Avevo gli occhi più grandi, o almeno così mi sembravano,
la bocca più carnosa e più rossa, colorata con un rossetto
non troppo forte … e le mie guance erano più rosa, più
… sensuali. Ero una donna. E lo ero da chissà quanto
tempo, oramai, ma solo quella sera, dopo essermi truccata e cambiata
me ne resi davvero conto.
Fu una specie di choc, di rivelazione, che mi aprì gli occhi
su quel che volevo davvero dalla vita. Non volevo più essere
quella dolce ragazzina ubbidiente, che si impegna in tutto quel che
fa e non da’ spago a provocazioni o ad altre distrazioni.
Volevo essere come le altre. Volevo vivere le mie emozioni, seguire
i miei istinti … affrontare le mie paure e realizzare i miei
sogni.
“Okay. Siamo pronte per andare, adesso” , decretò
Lizzy.
Spostammo il pesante mobile, passammo attraverso il buco e ci facemmo
strada tra le fronde degli alberi all’esterno.
Raggiungemmo la bicicletta e Lizzy mi fece salire sulla canna, lei
iniziò a pedalare.
Era freddo, ma avevo i vestiti di Lizzy e non badai più di
tanto all’aria fredda che mi tagliava il viso.
La città era deserta e silenziosa. Mi guardai attorno, ma non
riuscii a riconoscere nessuno di quei posti. Niente mi era familiare,
mentre Lizzy sembrò essere perfettamente a proprio agio. Si
destreggiava benissimo tra le piccole vie poco trafficate e conosceva
bene i piccoli vicoli maleodoranti.
Arrivammo dopo circa quindici minuti ad una piazzetta affollata di
ragazzi che fumavano e bevevano a bordo delle loro macchine e delle
loro vespe.
Lizzy si fermò vicino al pub, posò la bicicletta da
una parte e mi disse di seguirla.
I ragazzi che erano all’entrata si voltarono a guardarci …
beh, più che altro mi sembrava che guardassero me, la cosa
mi infastidì moltissimo.
Lizzy se ne accorse e mi sorrise, mentre entravamo nel pub.
“Sei a disagio ?”, chiese.
“Un po’ “, risposi.
Lei continuò a sorridere.
“Devi solamente farci l’abitudine. Passerà, vedrai”,
mi rassicurò.
Dall’esterno si sentiva una forte musica jazz ed una bellissima
voce che cantava. La cosa mi incuriosì ed affascinò
tantissimo.
Il pub era grande. C’era un’atmosfera molto intima, luci
soffuse, all’entrata, mentre spostandosi verso la parte più
interna, verso il bancone, la luce si faceva più forte. In
quel buio il barista non avrebbe potuto preparare le bevande richiestegli
!
Mentre mi guardavo attorno, curiosa e spaventata, allungai una mano
per toccare Lizzy e chiederle chi fosse il cantante sul palco, ma
lei non era vicino a me.
Mi voltai di scatto, presa dal panico. Era il mio unico punto di riferimento
là dentro. Mi sentii persa.
La notai poco più in là, avvinghiata ad un ragazzo alto
con i capelli corti, che la stringeva a sé e la baciava con
molta passione.
Mi sentii a disagio. Sola ed imbarazzata, davvero. Mi guardai attorno
di nuovo, stranita.
Tutti ballavano e bevevano, parlavano, ridevano … ed io mi sentivo
… una figurina fuori posto. Mi avvicinai al bancone, tra uno
spintone e l’altro ed incrociai lo sguardo del barista che,
indaffarato, preparava tutte le bevande richiestegli dai clienti.
Mi lanciò un paio di sorrisi e di occhiate. Io contraccambiai
con un breve e poco compromettente sorriso, poi tornai a guardare
Lizzy.
Stava ancora baciando il suo ragazzo … cavolo, ma quanto fiato
avevano nei polmoni ???
“Posso servirti qualcosa ?”.
Ci misi un po’ prima di capire che quella frase era diretta
a me.
Mi voltai lentamente verso il bancone e mi ritrovai lo sguardo del
barista davanti agli occhi.
Stava sorridendo.
“Dici a me ?”, chiesi poi, cadendo dalle nuvole.
Lui scoppiò a ridere.
“Scusami”, dissi arrossendo.
“E’ che … “ .
“E’ la prima volta che vieni qui, vero ?”, mi chiese
ancora.
Annuii.
“Si. Sono venuta con … Lizzy”, dissi, cercando la
mia amica tra la folla.
“Sei del Saint Michèle ?”, mi chiese stupito.
“Si”, risposi timidamente.
“Tu conosci la mia amica ?”, chiesi da perfetta provinciale.
Lui annuì ed iniziò ad armeggiare con un bicchiere.
“Certo. Conosco molte delle tue compagne”, aggiunse.
Mi servì un bicchiere con un succo di frutta.
“Spero che ti piaccia”, disse.
Servì un altro cliente e poi un altro ancora.
Sorseggiai il succo di frutta mentre lo osservavo … in realtà
me lo stavo mangiando con gli occhi, era davvero bellissimo …
e soprattutto era l’unico uomo che avessi mai visto e con cui
avessi mai avuto un contatto così ravvicinato. Era anche questo
che lo rendeva così speciale.
Era alto e magro, castano, con due occhi verdi profondi ed un sorriso
disarmante.
Mi sarebbe piaciuto approfondire il discorso con lui, ma … cosa
potevo dire ? Come potevo farmi notare ? Ero ignorante in materia
e non potevo buttarmi alla cieca, non volevo fare brutte figure…
mi piaceva. Mi faceva battere il cuore, anche se lo conoscevo da pochissimi
minuti.
Gironzolai
un po’ per il locale. Lizzy aveva continuato a sbaciucchiare
il suo ragazzo da quando eravamo entrate. Quando il cantante riprese
a cantare, tornai a sedermi al bancone per ascoltarlo. Aveva una voce
così calda ed emozionante … senza neppure accorgermene,
iniziai a cantare anche io, facendo una specie di contro canto ritardato.
Ripetevo le parole del cantante, perché non le conoscevo. In
Istituto era assolutamente vietato ascoltare qualsiasi tipo di musica
che non fosse da chiesa …
“Hey !”, sentii esclamare alle mie spalle.
Sussultai per lo spavento e mi voltai di scatto.
Il barista mi stava sorridendo. Di nuovo.
“Mi hai fatto prendere un colpo”, esclamai.
“Scusami. E’ che non volendo ho sentito la tua voce. Mi
piace molto, te la cavi bene”, disse.
Sorrisi.
“Grazie, sei molto gentile”, risposi cortese.
Ci scambiammo un’occhiata strana … attorno a noi c’erano
decine di persone, ma era come se ci fossimo solo noi due in quella
stanza … era tutto così bello e delicato …
“Tu canti ?”, chiese ancora.
“Nel coro dell’Istituto”, risposi.
“Al di fuori di quell’ambito hai mai cantato ?”,
chiese ancora.
“No. prima … quando mia madre era ancora viva …
cantavo con lei e con la mia amica Marie”, aggiunsi, tornando
con malinconia e tristezza a quei bellissimi momenti.
Abbassai lo sguardo. La tristezza mi assalì. Ma il giovane
barista … mi aiutò a venirne fuori.
“E ora non lo fai più ?”, chiese ancora.
Tornai a guardarlo.
“Una ragazzina di sedici anni che sta in un istituto di suore
e che canta il rock non è esattamente quello che si definisce
una “saggia pecorella”, non credi ?” , chiesi poi.
Scoppiammo a ridere. Forte, avevo fatto ridere un ragazzo ! Wow …
mi sentii così bene in quel momento.
“Sei molto simpatica”, disse poi.
E lui era tremendamente sexy.
Mi stavo ambientando, stavo … facendo amicizia con lui, stavo
familiarizzando con l’ambiente e mi sentivo sempre più
a mio agio, sempre più serena, tranquilla … era una bella
sensazione, erano anni che non la provavo … in quel momento
pensai a Marie, a quel che stava facendo, a quello che aveva realizzato
… mi chiesi se mi pensava, se … le mancavo come lei mancava
a me …
“Dobbiamo andare, ora” .
Lizzy mi arrivò alle spalle e mi colpì sulla schiena.
“Dobbiamo andare” , disse.
La fissai.
“Hey, sei ancora viva ?”, chiesi ironica.
“Se le suore o quel mostro di Julianne si svegliano e danno
l’allarme siamo nei guai. In grossi guai” , ribadì.
Mi guardai attorno. Mi dispiaceva lasciare quel bel posto proprio
ora che mi stavo adeguando … ma dovevo farlo.
Sorrisi al barista.
“Dobbiamo andare”, dissi.
Il suo splendente sorriso lasciò il posto ad un’espressione
triste.
“Di già ?”, chiese .
Annuii.
Ci lanciammo un’occhiata molto eloquente.
Estrassi alcuni franchi dalla tasca.
“Che cos’hai intenzione di fare ?”, chiese poi.
“Pagare il succo di frutta che ho bevuto prima”, risposi.
Sorrise.
“Non pensarci nemmeno”, disse, bloccando le mie mani che
armeggiavano nel portafogli con le sue.
“Offre la casa” , disse.
Sorrise.
“Non sono abituata ad avere delle cose in regalo. Vorrei sdebitarmi
in qualche modo”, dissi.
Pensai subito che avrei dovuto tenermi quelle parole nella bocca.
Dopo averle pronunciate credetti che mi avrebbe chiesto in cambio
delle cose strane, tipo … un bacio, una toccatina … sesso
…
Lui annuì, alla mia richiesta e pensò per alcuni istanti
a quel che poteva chiedermi in cambio.
L’attesa non fu lunga, ma ugualmente estenuante, per me.
“Vorrei … mi farebbe molto piacere se una di queste sere,
tu … cantassi. Magari non davanti a tutti questi sfigati”,
concluse sorridendo poi.
“Mi piacerebbe molto”, aggiunse.
“Che ne sai che merito davvero tutta questa attenzione ?”,
chiesi.
Mi guardò di traverso.
“Intuito”, rispose.
“Dai, andiamo” .
Lizzy mi prese per un braccio e mi trascinò via.
“Come ti chiami ?” , mi urlò il barista mentre
mi allontanavo contro la mia volontà.
“Emily !”, urlai.
“E tu ?”, chiesi a mia volta.
Lui mi ripose, ma col caos che c’era nel locale non lo sentii.
“E che diamine, potevi aspettare un momento ?”, urlai
a Lizzy, liberandomi dalla sua presa, una volta fuori dal locale.
“Non farti strane idee”, mi disse mentre ci avvicinavamo
alla bicicletta.
“Quello ci prova con tutte”, aggiunse salendo sulla bici.
Io la guardai, seria.
“Sali”, mi intimò.
Mi avvicinai, riluttante.
“E tu che ne sai ?”, chiesi.
“Lo so e basta. Sali, dai, altrimenti rischiamo grosso”.
Salii sulla canna della bici e tornammo in Istituto.
“Come si chiama ?”, chiesi ancora a Lizzy, mentre spostavamo
il mobile per coprire il buco nella parete.
“Paul”, rispose riluttante.
“Ma te lo ripeto, non farti strane idee … non è
una bella persona”, aggiunse.
Non detti troppo peso alle sue parole. Cavolo, quel ragazzo mi piaceva
e tanto anche … e non avevo intenzione di farmi influenzare
dalle sue opinioni.
Quando entrai nella stanza, le mie compagne dormivano profondamente.
Nessuno sembrava essersi accorto della nostra uscita.
Mi infilai nel letto e cercai di prendere sonno, ma fu inutile. Continuavo
a pensare a Paul e come chiudevo gli occhi il suo viso mi appariva
davanti … e mi sentivo così strana … volevo che
lui mi guardasse, che mi baciasse, che mi toccasse … volevo
essere sua e volevo che lui fosse mio.
Neppure conoscevo bene cosa volessero dire queste cose che pensavano,
ma … sentivo dentro di me l’esigenza, il bisogno di essere
sfiorata dalle sue mani … volevo appartenere a qualcuno. A lui.
Mi trovai d’improvviso trasformata … i lavori che svolgevo
dalle suore, l’essere brava e lo stare per fatti miei non contava
più niente. Erano cose marginali, superflue … quello
che contava era solo quello che desideravo io.
Paul .