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I giorni dell’amore e della gloria

Di IPPOLITA

PARTE IV ROM/ALT

Ogni allusione a persone o avvenimenti reali è soltanto casuale.

"Si è soli con tutto ciò che si ama"(Novalis)

LA NOSTALGIA E IL VIAGGIO.

"Durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me

non dico che fosse come la mia ombra

mi stava accanto anche nel buio

non dico che fosse come le mie mani e i miei piedi

quando si dorme si perdono le mani e i piedi

e io non perdevo la nostalgia nemmeno durante il sonno

durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me

non dico che fosse fame o sete o desiderio

del fresco nell’afa o del caldo nel gelo

era qualcosa che non può giungere a sazietà

non era gioia o tristezza non era legata

alle città alle nuvole alle canzoni ai ricordi

era in me e fuori di me

durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me

e del viaggio nulla mi resta se non quella nostalgia.

(Nazim Hikmet)

Angelica rimandò la partenza di un altro giorno, desiderava visitare la tomba di Lele e
quella di suo padre per un ultimo saluto.

L’aria del mattino quell’ultima settimana di Settembre era particolarmente dolce, la donna sospirò profondamente, al cimitero ebraico in quel momento non c’era nessuno, Angelica si fermò davanti al piccolo monumento, sopra un nome e due date: Samuele Sereni 3 Ottobre 1907-10 Agosto 1938, giù i versi del salmo 23: "Anche se andassi per la valle dell’ombra
della morte

Di nulla avrei paura

Perché tu resti al mio fianco

Il tuo bastone mi dà sicurezza".

La foto del giovane era un suo primo piano, lo sguardo profondo e mansueto, un sorriso
appena accennato, tutto faceva indovinare una persona vivace, intelligente e appassionata, l’uomo migliore che si potesse incontrare."Dove sarai adesso?" pensò

la vedova. Da bambina i preti le dicevano che i morti in realtà si addormentano nel
Signore in attesa della resurrezione, ma c’era anche un’altra versione che affermava

che i buoni andavano in Paradiso, a godere nell’eterna gioia, i cattivi precipitavano giù, all’inferno tra le anime dannate dove erano tormentati dai diavoli con atroci supplizi eternamente mentre quelli così-così, cioè la stragrande maggioranza della gente sostava
al Purgatorio donde sarebbero potuti ascendere al Paradiso grazie alle preghiere e alle
messe in suffragio dei vivi. Angelica si sentiva confusa, non riusciva a credere pienamente
a nessuna di tutte queste storie, lei sperava che il suo Lele in qualche modo percepisse i
suoi sentimenti, tutto il suo rimpianto, tutta la sua sofferenza, tutto il suo amore per lui
ancora intatto. "La morte, ha detto qualcuno, è non essere più visti".Un anno prima della scomparsa del marito aveva perduto suo padre, il professore Gerolamo Biancaspina,
studioso dell’età antica, con particolare riferimento alla civiltà greca, archeologo di grande fama, candidato al nobel per la scienza per la scoperta nei pressi di Alessandria D’Egitto
del papiro rosso e di quello

azzurro di Xena ove si testimoniava, in modo inoppugnabile, dell’esistenza della mitica guerriera. Ma poi, stranamente, il professore aveva messo in sordina le sue scoperte,
asserendo che quelle pergamene non erano state scritte originariamente da Gabriella di Potidea, la poetessa amica e compagna di Xena, ma più verosimilmente, potevano

essere l’opera più tarda di un aedo dalla fantasia eccentrica e sbrigliata che si era divertito
a raccontare favole incredibili e un poco pruriginose, chissà, forse per noia o per la voglia di prendersi gioco dei posteri. Questo suo apparente incomprensibile comportamento gli era costato il nobel, non solo, ma anche il biasimo di tutta la comunità intellettuale e
scientifica del mondo accademico, perfino il suo matrimonio era entrato in crisi.
Due anni dopo Gerolamo Biancaspina morì d’infarto a Roma, la settimana successiva alla
fine della sua traduzione dei papiri.

Un rumore improvviso distolse la donna dai suoi pensieri, un singhiozzo, un gemito, si
voltò, accanto a lei una signora anziana in ginocchio piangeva la fine immatura della figlia,
ad Angelica vennero in mente alcuni versetti del Vangelo di Luca "Ecco verranno giorni nei
quali si dirà: beate le donne che non possono avere bambini, quelle che non hanno mai allattato. Allora la gente dirà ai monti: franate su di noi e alle colline "nascondeteci".

Con un brivido si allontanò tristemente. La sosta alla tomba del padre fu breve ma
altrettanto carica di emozioni. La figura di Gerolamo Biancaspina, siciliano colto e
affascinante, idolo dei suoi allievi che lo ascoltavano come un oracolo, le suggeriva qualche affinità con i grandi sapienti del passato, come Empedocle di Elea, scienziato, guaritore
e mago, Eraclito o lo stesso Socrate, creature carismatiche e misteriose scese nell’Ade con
un segreto in qualche maniera irriducibile e incomunicabile. Il sarcofago del padre era
custodito all’interno di una cappella abbastanza vasta, la tomba di famiglia che il
professore Biancaspina si era premurato di far costruire abbastanza presto, Angelica la
trovava inutilmente grandiosa: nuda e solenne come un mausoleo

medioevale le dava un grande senso di solitudine e di timore provando ogni volta che vi si recava un preciso desiderio di scappare a cui si opponeva solamente la pietas filiale. Aveva terminato le sue preghiere, meglio, la sua conversazione affettuosa con il padre, quando
uno strano involucro attirò la sua attenzione: giaceva ai piedi del sarcofago come se fosse stata negletta o dimenticata una borsina nera tutta chiusa. Angelica la raccolse, era di seta nera, toccandola si poteva sentire il suo contenuto, qualcosa di duro e circolare, l’aprì, ne
tirò fuori uno strano oggetto, un cerchio metallico piatto, di una lega sconosciuta disegnato
su entrambe le circonferenze con una "greca" rossa circoscritta da linee blu, lettere
dell’alfabeto greco vergavano nomi e forse un motto che sul momento lei non riuscì a
decifrare, al centro stava l’impugnatura, sinuosa, serpentiforme segnata da linee dorate,

che però non toccò. Rimise l’oggetto nella sua custodia, era sicuramente lo strumento più inusuale e inquietante che avesse mai visto, si ripromise di osservarlo con maggiore calma
in una situazione più agevole.

Uscì dalla cappella, prese la via del ritorno, all’improvviso le era venuta la voglia
struggente di riabbracciare i suoi bambini, Ester e...il gatto Achille.

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Il motore rombava furioso, Il guidatore, il conte Valerio Sanzio, si sentiva piuttosto nervoso e scontento, l’automobile nera procedeva speditamente pur sobbalzando sulle stradine strette e sinuose che portavano al paese. Valerio, podestà di Montesangioioso, avrebbe fatto volentieri a meno di quell’appuntamento dal notaio

Aristide De Carolis: già immaginava le facce dei convenuti il genere di conversazione che stavano tenendo, e , soprattutto, l’umore temibile della sua legittima consorte: la dottoressa Anna Xennakis Sanzio. Ma c’era da assolvere quel fastidioso dovere e non poteva ormai tirarsi indietro. Valerio era un bell’uomo sui quaranta anni, alto, corporatura muscolosa e prestante, i suoi occhi scuri acuti e irrequieti spiccavano su un viso dai tratti orgogliosi d’antico eroe romano, la sua l’espressione abituale era, tuttavia, quella di un uomo alquanto tronfio e assolutamente insoddisfatto di tutto e di tutti. Il podestà discendeva da una delle famiglie più nobili, ricche e potenti dell’Italia centrale; possedeva due castelli nel viterbese, uno nei pressi di Urbino più, ovviamente il palazzo avito, diverse erano le tenute e i terreni agricoli. A Montesangioioso aveva dovuto accontentarsi di una costruzione del tardo ottocento piuttosto massiccia e vistosa che denunciava la volgarità ineluttabile del signorotto cui era appartenuta, ma, poco male, questo era il massimo che quella cittadina sperduta gli aveva potuto offrire. Nello studio del notaio, frattanto, la situazione non poteva essere più incandescente, il ritardo di Valerio e l’assenza di sua moglie stavano esasperando gli animi dei signori Lazzaro ed Emilia Pellicanò oltre che della loro figliola trentacinquenne, la professoressa Ginevra Pellicanò. I tre si agitavano sulle poltroncine di cuoio verde su cui il premuroso Aristide li aveva fatti accomodare, in maniera sempre più scomposta accusandosi reciprocamente di superficialità e lanciando sguardi torvi al povero DeCarolis che non faceva altro che alzarsi, sedersi dalla sua scrivania chiedendo a tutti se volevano qualcosa da bere, e chiamare a gran voce il suo giovane di studio Amilcare chiedendogli se per caso dalla balconata della stanza accanto non vedesse spuntare qualcuno.

"Eccolo, eccolo, è il conte, è il conte"gridò Amilcare.

"Alla buonora, si è degnato di ricordarsi del suo impegno!" Esclamò Lazzaro, bassotto, di mezza età, semi calvo, occhiali da miope e occhiacci da barbagianni. Le due donne

assentirono in silenzio mentre De Carolis sembrava avere un pacco molto incomodo

tra le gambe. Valerio entrò con una certa fretta, il suo vestito "principe di galles" sembrava un poco stropicciato e il fazzoletto bianchissimo che fuoriusciva dal taschino

anteriore della sua giacca pendeva come una margherita appassita, la sua espressione era più che mai solenne e seccata "sbrighiamoci perché ho molti altri impegni stamane". Ginevra gli andò incontro con uno slancio che si scontrò con l’ostentata freddezza di Valerio nei confronti dell’intera situazione."Veramente manca ancora sua moglie" si permise di far notare il notaio, a quell’osservazione scoppiò un putiferio."Lo fa apposta, per mettere degli ostacoli, per gelosia, è il suo stile!"-disse Ginevra livida.

"E’ cattiveria pura e semplice, anzi, egoismo!"Esclamò a sua volta Lazzaro inviperito. "Non vuole arrendersi all’evidenza, adesso l’eredità dei Sanzio appartiene anche a nostro nipote, il piccolo Ettore, è giusto che sia così!" aggiunse con tono stridulo Emilia, alta e ossuta. "E’ giusto, è giusto" dicevano tutti ad alta voce, tranne Valerio che avrebbe voluto essere a caccia di coccodrilli piuttosto che in quella stanza. "Silenzio, silenzio"impose Aristide maneggiando nervosamente carte e cartacce, che cosa vuoi?" disse rivolgendosi ad Amilcare che cercava da un pezzo di richiamare la sua attenzione. "C’è che è arrivata la reverenda madre, suor Caterina". A quel nome tutti

tacquero. Suor Caterina era la superiora del convento delle Francescane che si occupavano dei bambini orfani e abbandonati, era una creatura al di sopra delle parti, ritenuta quasi una santa dal popolo, godeva della stima di tutti i cittadini di Montesangioioso, persino i tedeschi la rispettavano. Fece il suo ingresso. Era una donna ancora giovane, il suo viso era dolce ma risoluto, gli occhi neri splendevano di una luce particolare che conferiva grazia e amabilità a tutta la sua fisionomia, snella

e scattante dava l’impressione di una persona che non ha tempo da perdere perché il male incalza e non gli si deve dare tregua. "Anna non può essere qui oggi, all’ospedale hanno bisogno di lei, ma io ho l’incarico di dirvi che lei è d’accordo sulla decisione del conte e che verrà a firmare appena possibile". Suor Caterina disse questo con voce ferma e tranquilla. A questo punto tutti sembravano più calmi. Il notaio recitò le disposizioni testamentarie con cui il conte Valerio Sanzio e sua moglie Anna stabilivano che il patrimonio, a parte alcuni beni particolari, alla loro morte sarebbe stato suddiviso in parti uguali tra i figli Alessandra, Filippo, Cesare ed il piccolo Ettore nato dal conte e dalla signorina Ginevra Pellicanò. Dopo questo ufficio i convenuti si separarono, Valerio prese la sua macchina con una certa fretta, i Pellicanò scesero in silenzio mentre la reverenda madre si apprestò a ritornare in convento. Ginevra, riuscì a trovarsi faccia a faccia con Valerio:" Sei soddisfatta adesso?" Le sussurrò l’uomo.

"Di che cosa, della vostra graziosa concessione? Tua e di tua moglie?" Ginevra, bruna, sottile, grandi occhi nocciola, viso magro ma intenso, capelli neri lunghi, lucidi e soffici portati sulle spalle con grazia disinvolta, sembrava molto sofferente per l’atteggiamento evasivo e glaciale di Valerio . "Verrò presto a trovare Ettore"

"Sarebbe ora sono quasi due mesi che non ti vede. Lo sai, il bambino ti adora"

Valerio fece un cenno compiaciuto con la testa, poi entrò in macchina e sparì in una nuvola di polvere. Ginevra rimase a guardare senza riuscire a formulare pensieri coerenti. Si sentiva una capitata per caso in una festa che non le appartiene.

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I preparativi per la partenza ormai erano terminati. Angelica, sola nella sua stanza da letto, la stessa che aveva condiviso con Samuele, ripassava con lo sguardo ogni angolo di quello spazio che l’aveva vista tra le braccia del suo uomo. Appassionate e dolci emozioni l’avevano resa forte e felice e adesso, invece, sentiva un vuoto insopportabile invadere il suo cuore come un’acqua limacciosa e nera un giardino incantato. Andare via, era necessario per salvare i suoi ricordi, per salvare la sua vita e quella dei suoi figli. Le valigie, i pacchi con i suoi libri, le ultime cose, tutto era pronto, allineato nel corridoio, con l’ineluttabilità di un destino già scelto. Natalie e Daniele erano davanti a lei, così piccoli, così seri, i cappottini nelle braccia, silenziosi, con gli occhi abbassati a controllare che non mancasse niente dei loro oggetti preferiti. Giunse Ester portando il trasportino del gatto, lì dentro Achille soffiava iroso ma impotente. Quel micio era stato l’ultimo regalo di Gerolamo alla figlia e ai nipotini, per niente al mondo se ne sarebbero separati. Gli ultimi abbracci, gli ultimi baci, le ultime raccomandazioni, poi arrivò il sor Cesare con la moglie per aiutarli a scendere le valigie. Chissà perché, pensava Angelica, i momenti precedenti le partenze sono così lunghi, così interminabili come un’agonia, e poi, velocemente, ciò che resta sembra inghiottito dal nulla, come se non fosse mai esistito. Per strada il vetturino li aspettava

impaziente, erano un po’ in ritardo, ma a quell’ora, nel primo pomeriggio le strade erano vuote, sarebbero arrivati in tempo lo stesso. La carrozza si avviò dapprima lentamente, poi, il cavallino prese il ritmo con sicurezza e l’andatura si fece sostenuta, un trotto melodioso come il suono di cento nacchere. Angelica guardava a ritroso le strade sparire dalla sua visuale: il lungotevere, le strade che l’avevano vista correre con Samuele che l’inseguiva gridando il suo nome e lì sopra c’era il Pincio, quante volte aveva guardato il panorama mozzafiato della città Eterna mentre il suo amore la stringeva e si baciavano senza pensare a niente soltanto a loro stessi e al loro domani.

Ora soltanto una sperduta nostalgia le stringeva la gola, l’afferrava al petto le solleticava gli occhi di lacrime calde e brucianti. I bambini la guardavano in silenzio, anche loro si sentivano smarriti, la giovane donna strinse le labbra, cercò di farsi forza, per i suoi figli aveva deciso di continuare a vivere e sempre per loro due doveva resistere alla strana angoscia che prepotentemente stava per impossessarsi di lei. Stoicamente aveva voluto che Ester rimanesse a casa. Il sor Cesare aveva insistito per accompagnare la famigliuola alla stazione. Angelica gliene fu riconoscente. Si sentiva piccola, avrebbe voluto suo padre vicino, ma la presenza dell’omone le diede un certo conforto. Arrivarono alla stazione. Qui, sventolava, in alto, sul pennone dell’ingresso il drappo nazista: campo rosso, circonferenza bianca e al centro, come un orribile ragno, la svastica nera. Ai lati della porta centrale stavano due fascisti armati tutti neri, ma non sembravano particolarmente minacciosi, fumavano e ridevano, si girarono vedendola passare, era molto carina, non passava inosservata:"Guarda che pupa!"

"Aho, ma che te ne vai?" Il sor Cesare li fulminò con uno sguardo, Angelica passò con i bambini cercando un facchino, ne trovò uno che accorse di malavoglia con il suo carrettino sbilenco. La gente era carica di fagotti, non c’era troppa confusione, quà e là si vedevano soldati tedeschi salire e scendere dai treni, sembravano quasi dei turisti, senonchè si muovevano con l’andatura dei padroni della situazione, prendevano di petto le persone senza quasi guardarle e senza chiedere permesso, le urtavano così, semplicemente, come se urtassero un pilone o un bagaglio, indifferenti .Arrivarono al loro treno. Salirono i bagagli. Il sor Cesare portò dei giornali e due bottiglie d’acqua, i bambini si sistemarono subito, il trasportino con Achille, che ora sembrava rassegnato alla sua sorte, fu messo su uno dei sedili, erano in seconda classe, perciò sarebbero stati abbastanza tranquilli. Lo scompartimento era vuoto, perciò la madre e i figli si accomodarono bene, quello accanto era occupato da una coppia d’anziani, forse marito e moglie che stavano a guardare fuori in silenzio. Dopo gli ultimi saluti il treno si mosse. Si stavano lasciando Roma alle spalle. Angelica sentì

freddo anche se la giornata era abbastanza mite. Passarono alcune ore e i bambini cominciarono ad avere appetito. Erano partiti alle quindici, adesso erano le diciotto. Il treno si fermò ad una stazioncina. Alcune persone scesero, altre ne salirono. I bambini addentarono i tramezzini al prosciutto, Angelica preferì un frutto, il viaggio in treno le metteva sete. Una ragazza bionda, vestita elegantemente di azzurro, ben truccata, molto bella e con un’espressione sorridente si affacciò allo scompartimento. Portava una piccola valigia di cuoio marrone e sul braccio sinistro un soprabito bianco.

"Scusate c’è un posto per me?" al cenno d’assenso la giovane si accomodò, poteva avere al massimo ventisette o trenta anni, i suoi occhi erano di un azzurro intenso e luminoso, ispirava simpatia da tutti i pori. "Nel vagone accanto ci sono dei signori che fumano il sigaro, e io non sopporto quel fumo mi sento svenire, mi chiamo Vanessa Benvenuti e voi?"-"Sono Angelica Biancaspina Sereni e questi sono Natalie e Daniele

i miei bambini, ah, siete seduta accanto ad Achille!" "Chi è?"- "Il nostro gatto, rispose a sorpresa la bambina, si chiama così perché lo ha battezzato il nonno"-"lui è un eroe,

aggiunse convinto, Daniele, acchiappa anche i topi grossi, quelli che fanno paura anche ai cani!"-"Se è così ne avrà di lavoro a Montegioioso"- rispose divertita Vanessa.

"Siete di lì?" chiese Angelica. "Certo, io insegno Ginnastica al liceo classico Dante Alighieri". "Ma davvero? Io sono una tua collega, prenderò il posto del professore Macabbei, che è andato in pensione l’anno scorso!". Vanessa si mostrò particolarmente felice dell’incontro fortuito. Tirò fuori da un pacchetto dei piccoli pezzi di cioccolato e li offrì alla piccola comitiva. Angelica pensò che aveva dato del tu alla ragazza senza nemmeno rifletterci, ma le era venuto così spontaneo e naturale che non era riuscita a trattenersi. Vanessa le sorrise-"Mi sembra di averti già visto da qualche altra parte ma non ricordo dove"-"Anch’io ho avuto la stessa impressione per questo ti ho immediatamente dato del tu"- le rispose con la stessa simpatia Angelica.

I bambini cominciarono a sonnecchiare. Angelica guardò fuori dal finestrino. Il sole stava tramontando, si chiedeva quanto mancasse ancora per arrivare a destinazione, di nuovo un fiotto di nostalgia le colpì il petto, senza volerlo le scappò un piccolo lamento. "Che ti succede?" Chiese premurosamente Vanessa.-Niente è che sono un poco stordita, mi piacerebbe arrivare prima di notte"- Se è per questo, e non ci sono altre fermate alle dieci di stasera, massimo alle undici arriveremo a Montesangioioso dove si gode del buon vino, del buon pane e.... del buon riposo!"-"Il preside della scuola, Adone Bellassai, mi ha scritto di non preoccuparmi, il bidello capo in persona mi verrà a prendere" mormorò Angelica mentre
l’altra si tratteneva dal ridere. "Vedrai che sagoma ti apparirà davanti, comunque non
temere, troverai brava gente, magari un pò ruspante ma di cuore". Il treno fischiò, aumentò l’andatura,
questo sembrò di ottimo auspicio ai viaggiatori.




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