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Morire
e rinascere in un solo istante
di Joy Per qualunque cosa… cristina.calio@tiscali.it
Era sola, una ragazza bionda dagli occhi verdi incredibilmente espressivi, era sola seduta su una roccia guardando il tramonto. Teneva una mano davanti alla bocca, mentre con l’altra stringeva un cerchio metallico straordinariamente affilato, macchiato del sangue delle sue stesse membra, derrata su quell’oggetto, che tanto voleva significare per lei e per la sua, ormai inutile, esistenza. Olimpia, era questo il nome della fanciulla, guardava il tramonto, mentre silenziose lacrime le rigavano il viso, per un dolore ben più forte di quello che le squarciava la mano. Non riusciva a trattenersi, non poteva smettere di piangere, aveva perso troppo per riuscire ad andare avanti, per tornare a sorridere di nuovo come un tempo, quel tempo trascorso con la persona che più al mondo amava, quella con cui desiderava percorrere il resto della sua esistenza, cantandone le gesta con innumerevoli parole.
Il cielo diventava sempre più scuro, mentre il sole, come era successo tempo prima anche in Giappone, scomparve, emanando un ultimo, nostalgico bagliore. Solo allora Olimpia, destandosi da quel torpore che la avvolgeva, si accorse, guardando in basso del profondo taglio che le lacerava la mano, ormai completamente bagnata di sangue. Stranamente però, non lasciò l’affilato oggetto, al contrario, in uno scatto di rabbia lo strinse ancora più forte. Non sapeva perché, ma voleva, doveva farsi del male, come per punirsi di un crimine che invece non aveva commesso. Solamente quando il terreno sotto di lei fu completamente bagnato di sangue, lasciò la presa, la sua mano destra era completamente dilaniata, le faceva davvero un gran male, si alzò, e la immerse completamente nel ruscello che, dietro di lei scorreva silenzioso. Fasciò la mano ferita con delle bende e, essendo già sera si apprestò ad accendere il fuoco. Raccolse la legna con la sola forza della mano sinistra mentre l’altra le ricadeva stancamente a fianco, le bende inzuppate di sangue. Faceva fresco ormai la sera e nel suo giaciglio non c’era più nessuno che la stringesse al petto pronto a scaldarla, avvicinandola dolcemente a se, sussurrandole parole dolci, baciandola sulla fronte di tanto in tanto. Sdraiata sotto quelle ruvide e pesanti coperte, riusciva quasi a sentire il suo calore, il calore della sua amata che, in quelle fredde notti la trattava affettuosamente come fosse una bambina.
Si svegliò che era notte fonda e per quanto volesse non riuscì più ad addormentarsi; troppi pensieri vagavano nella sua mente sconvolta, avrebbe dovuto riposarsi doveva rimettersi in viaggio, l’indomani, doveva informare la povera Eve dell’accaduto. Non riusciva ad immaginare nulla… cosa avrebbe fatto? Cosa avrebbe provato in quel momento? Sarebbe riuscita a consolare la ragazza? Avrebbe sostenuto il suo sguardo colmo di lacrime, di mostrandosi forte, riuscendo a trattenersi dal piangere a sua volta? Guardò il cielo: “Come posso Xena, come posso dire ad Eve che sei morta… come potrò dirle che non potrà abbracciati ancora una volta per il resto della sua esistenza… ti prego dammi la forza” sussurrò mentre lottava per trattenere le lacrime.
Non aveva dormito più di due ore quella notte… l’alba era così lontana..
Decise di alzarsi, ma non per rimettersi in viaggio, mancava pressappoco un giorno di cammino dal luogo in cui secondo un mercante, alloggiava la predicatrice, così essa veniva chiamata. Saltò in piedi e si diresse verso il ruscello, dove acceso un piccolo fuoco con le ceneri ancora calde del precedente, prese l’occorrente per cominciare a scrivere. Olimpia, infatti, era anche questo, un’abile poetessa, da molto non componeva versi, perché troppo impegnata a vestire i panni della guerriera che lei sapeva, non le sarebbero mai appartenuti completamente. Fissava la pergamena. Rimase a lungo in quello stato aspettando un cenno qualcosa che l’ispirasse. Infine, quasi senza accorgersi del gran male che aveva alla mano, cominciò a scrivere. Sembrava… era come se qualcuno le suggerisse come continuare, le sussurrava all’orecchio le belle parole che lettera dopo lettera, verso dopo verso, cominciavano a prendere forma di una stupenda poesia. Lesse e rilesse più volte il suo lavoro, quelle dolci parole bagnate del suo stesso pianto.
Era la prima volta che dopo aver letto una poesia, non riuscisse a decifrarne ella stessa il suo significato, non sapeva da dove venissero, quelle parole così straordinariamente dolci, ma contemporaneamente strazianti e piene di rancore verso il mondo, malinconiche e velate di un odio represso.
Il sole stava per sorgere, non sapeva quanto tempo fosse rimasta in trance a guardare la luna, in ogni caso non doveva essere affatto poco, non le era mai successa una cosa del genere,non aveva mai scritto versi così straordinariamente difficili da interpretare, per lei, che sempre voleva scavare a fondo nelle parole, percependone anche i lati più nascosti e intimi che racchiudevano all’interno della loro corazza. Comunque ormai era tardi, e rendendosi conto di essere tremendamente infreddolita, smise di fissare la pergamena, che dopo aver arrotolato depose nella sua sacca. Si alzò e promettendo a se stessa che al più presto la avrebbe riletta, si mise in cammino. Era straziante camminare da sola, specialmente in boschi cosi fitti e bui, non nascondeva di aver paura, ma una volta rivolto il pensiero al suo chakram, così affilato e tagliente, si rese conto che nessuno avrebbe potuto farle del male. Era la cosa più importante che aveva, non solo perché era un incredibile oggetto di difesa ma anche perché era l’unica cosa che ancora la legava alla sua principessa guerriera, la sua bellissima Xena, a tutti i sogni e le promesse fatte insieme, a quei lunghi viaggi alla ricerca di creature alle quali donare il loro aiuto.
Tutto era silenzioso intorno a lei, non c’era anima viva, si sentiva come fosse sola al mondo e non potendo farne a meno come ormai le accadeva spesso, scoppiò a piangere. “Perché mi hai lasciata sola Xena, non posso vivere senza di te, senza i tuoi occhi azzurri che mi guardano, senza le parole che mi sussurravi all’orecchio prima che mi addormentassi…non voglio stare da sola” disse la fanciulla singhiozzando mentre crollava a terra sfinita.
Il vento che muoveva le fronde degli alberi, nel frattempo si faceva sempre più intenso.
La testa le faceva un dolore lancinante, gli occhi le bruciavano, si sentiva la febbre, cosa non estremamente insolita visto che aveva passato la notte in pieno autunno, sola, senza una coperta sulle spalle che la tenesse al caldo. “Come sono stata stupida” sussurrò a se stessa barcollando, mentre senza forze camminava reggendosi ai tronchi degli alberi. Doveva aver marciato molto in quello stato, il sole non filtrava più tra le foglie e col calare della sera, l’aria si faceva sempre più fresca. Doveva sbrigarsi non poteva trascorrere la notte, in un bosco così fitto e inospitale, per di più con la febbre molto alta. “Dai Olimpia, sei o non sei un’amazzone?” disse a se stessa la giovane per farsi coraggio. La ragazza, infatti, per quanto potesse sembrare timida e indifesa, era stata una delle più stimate regine amazzoni di tutti i tempi.
Il sole era ormai calato, ma non poteva ancora fermarsi, non ancora, sudata e rossa in viso a causa della temperatura ormai altissima, doveva uscire da quel bosco che, a ogni passo si faceva più rado. Dopo circa un ora, la poetessa si trovò fuori, in una grande radura, circondata da alberi da frutto ormai spogli di tutti i loro abiti. Fu allora che Olimpia si ricordò di non aver ancora mangiato, ma stanca per il lungo viaggio ed estremamente provata dalla febbre, preparò un giaciglio e coprendosi con una pesante coperta si addormentò.
Era davvero bella quella immensa radura, a primavera, così piena di verde e di farfalle che svolazzavano armoniose da un fiore all’altro… “…e con tutta la forza di cui era capace si scagliò su quell’ uomo dagli occhi iniettati di rosso sangue, e con balzo degno del più nobile dei felini, lo spinse a terra, tremante, con la sola forza di invocare pietà… che ne pensi… ti piace? Domandò il bardo speranzosa dopo aver richiuso la pergamena. “E come potrebbe non piacermi…balzò degno del più nobile dei felini… diventi sempre più brava vedo, cara la mia poetessa!” rispose Xena con un sorriso, mentre la giovane sorrideva a sua volta compiaciuta. Era tutto cosi bello alla vista della giovane amazzone, si sarebbe persa per ore ed ore a guardare il mare dei suoi occhi accarezzandole dolcemente il viso. Ad un tratto però tutto si fece buio, le farfalle avevano smesso di volare, pioveva a dirotto, mentre il corpo della sua donna privato ella testa, si trovava appeso ad un albero, oscillando ai lievi movimenti del vento. Olimpia si svegliò di scatto, piangeva, quasi non riusciva a respirare, doveva davvero stare molto male, ogni singolo nervo era contratto dal dolore, ma se pur debole com’era, decise di rimettersi in viaggio; forse sarebbe riuscita a trovare qualcuno in grado di darle una mano.
Camminava con la sola forza di volontà, doveva arrivare da Eve il prima possibile, voleva abbracciare la sola persona che in quel momento poteva capirla. Era notte, faceva freddo, ovunque solo il canto dei grilli, il cielo era stellato e la luna la guardava dall’alto, pronta a guidarla in quel suo momento di profonda debolezza. Finalmente dopo alcune ore di cammino, si ritrovò nel villaggio dove sperava si trovasse Eve. Il sole non accennava ancora a voler sorgere, non c’era anima viva in giro, camminò per un paio di minuti alla ricerca di qualcuno che potesse condurla dalla ragazza, fino a quando, vedendo il bagliore di una luce entrò in quella che doveva essere una locanda. Il proprietario era un uomo basso e magro, dall’apparenza sveglia e astuta, con i capelli bianchi, se pur sembrasse ancora molto giovane. Il bardo accorgendosi della presenza di qualcuno, anche se non riuscendo a distinguere i lineamenti a causa della febbre e al semi buio in cui era immersa la stanza, si avvicinò al bancone e, con voce molto roca disse: “Sono una forestiera, mi chiamo Olimpia da Potidea, puoi dirmi dove trovare una fanciulla di nome Eve?” L’uomo resto fermo a guardare la ragazza per qualche istante, era veramente moto bella anche se con le occhiaie e gli occhi lucidi d febbre. “Eve? La predicatrice?” disse l’uomo ancora intento a fissare Olimpia “Si, certo che la conosco, alloggia proprio in questa locanda…alle scale la prima a destra, non puoi sbagliare” “Grazie tante” disse la fanciulla che, mentre si avviava su per le scale fu fermato dall’uomo che preoccupato le disse: “Olimpia…è meglio se ti riposi un pò non hai davvero un bel aspetto…” a queste parole il bardo si limitò ad annuire, pensava a come dire a Eve quello che era successo, anche se sapeva che se pur addolcita, la notizia, sarebbe comunque risultata terribile, spaventosamente terribile, a quella ragazza che aveva amato come fosse sua figlia, all’unica persona per la quale valeva ancora la pena vivere. Dopo un tempo che parve interminabile, si fermò alla porta, non sapeva cosa fare, prese coraggio e in fine bussò più volte fino a quando la porta si apri rivelando una Eve ancora visibilmente assonnata. “Olimpia sei tu… cosa ci fai qui?” disse la giovane, abbracciando la sua amica “Ma tu stai bollendo devi avere la febbre, vieni stenditi a letto…”, aggiunse sciogliendo l’abbraccio. “Evi” disse l’amazzone con tono incredibilmente serio. “Tua madre” riprese dopo una breve pausa, ma fu subito interrotta dalla ragazza che nel frattempo la spingeva a letto. “Mia madre… dove l’ hai lasciata… come mai non è con te?” “Evi tua madre…” disse Olimpia prendendole la mano, non riuscendo a trattenere una lacrima. “Ci ha lasciati… mi-mi dispiace tanto…” disse infine abbassando lo sguardo, non era riuscita a essere forte, gli occhi le bruciavano e la testa le faceva incredibilmente male. “Co-cosa?” sussurrò la ragazza portandosi una mano alla bocca, non riusciva a credere, tutto le sembrava così irreale e distante, sua madre non poteva davvero essere morta… “Si è…si è sacrificata per salvare quarantamila anime, in Giappone, non molto tempo fa…” disse Olimpia sempre più pallida, mentre non riusciva più a trattenersi dal piangere. La giovane non era preparata alla notizia, non disse nulla fino a quando in preda allo sconforto scoppiò a piangere sulla spalla della sua amica, che nel frattempo era sempre più debole, ma adesso non c’era tempo per lei; doveva consolarla, doveva dire qualcosa per rassicurarla; ma alla fine sentendo che le forze la abbandonavano perse conoscenza fra le braccia di Eve.
Si svegliò che era giorno fatto, Eve le sedeva accanto, le stringeva la mano, non aveva chiuso occhio per tutta la notte, era rimasta a vegliarla e ad infonderle coraggio, anche in quei momenti in cui tutto sembrava perduto. “Olimpia… ti sei svegliata, come ti senti?” “Meglio sono solo un pò stanca…” le rispose l’amazzone con un sorriso. “Hai avuto una brutta crisi sta notte, temevo di poter perdere anche te” disse mentre i suoi occhi si velavano di lacrime, “Sto bene tranquilla” aggiunse, “Ho pianto tanto questa notte e adesso sono felice di averti ancora qui”, disse abbracciando l’amazzone che la guardava preoccupata. “Eve…” fece Olimpia, ma fu fermata dalla ragazza, che scioltasi dall’abbraccio le fece segno di non parlare. “Beh, credo tu abbia fame vado a prenderti qualcosa da mangiare, aspettami qui e non provare ad alzarti”. Detto questo uscì dalla stanza, mentre la poetessa rimaneva sola, perfettamente consapevole di cosa passava nella testa della sua Eve; la conosceva ormai da molto tempo, sapeva che voleva apparire forte per evitarle altre sofferenze, sapeva tutto di lei, anche i più intimi pensieri, quelli che non avrebbe mai confessato, che solo una madre poteva conoscere. Infatti, Olimpia, era questo per Eve, come una seconda madre, solo gli dei sapevano quanto amore avrebbe dato a quella ragazza, quella piccola creatura che aveva visto nascere, se solo il destino non le avesse divise.
Si mise a sedere guardando fuori dalla finestra, lo sguardo perso nel vuoto, i lucidi occhi verdi, che guardavano il cielo coperto di nuvole senza vederlo; sembrava che da un momento all’altro potesse piovere, quel tempo così malinconico e scuro rifletteva del tutto il suo stato d’animo, infelice e distrutto che nessuno, anzi, solo una persona avrebbe potuto sollevare. Passò alcuni minuti avvolta nel più totale silenzio, quando ad un tratto senti degli urli provenire dal piano di sotto invocare il suo nome. “OLIMPIA, OLIMPIA AIUTO!” Olimpia nonostante fosse ancora debole, infilò l’armatura, prese i says e il chakram e con un calcio aprì la porta. Sfortunatamente arrivò troppo tardi: di Eve non c’era traccia. “Eve!” urlò la guerriera guardandosi in torno, notando la gente spaventata e il disordine che si riversava su ogni cosa. “L’ hanno portata via… ferma non puoi fare niente” disse un uomo trattenendola per un braccio, “Cos’ è successo…cosa vogliono da quella ragazza?” “Beh, qui sanno tutti che lei è la figlia di Xena famigerata principessa guerriera…” “E con questo?”disse Olimpia “non possono rapirla solo perché è la figlia Xena, o…” fu costretta a fermarsi: l’uomo la interruppe. “Xena ha ucciso il loro capo uno spietato signore della guerra di nome Anemone e adesso loro, guidati da suo figlio Duke, vogliono vendetta” spiegò l’uomo come fosse la cosa più naturale del mondo. “Già…vendetta…” sussurrò fra se l’amazzone notando che la notizia della morte della sua amica non si era ancora diffusa. “Sai dove possono averla portata?”domandò la ragazza fissando l’uomo con i suoi occhi stanchi. “Al loro covo, si trova subito fuori paese, in una fortezza costruita sopra la collina…ma ti avverto di non farti illusioni, non credo sia ancora viva e se entri nel loro rifugio dubito grandemente che riuscirai ad uscirne…” La fanciulla si limitò ad annuire portando una mano alla fronte diventata sempre più calda. Salì le scale, doveva preparare tutto, doveva trovare Eve, dovevano andare insieme ad Anfiopoli per salutare la grande guerriera un ultima volta…doveva salvarla anche a costo della vita. Era pronta ad uscire, prese la sacca e solo allora si ricordò della sua poesia, quella che non era ancora riuscita a comprendere pienamente, quella che più di tutte le apparteneva. Srotolò la pergamena e lesse, sapeva che non aveva molto tempo, ma doveva capire doveva trovare quel coraggio che da sola le mancava. Rimase molto tempo a fissare il foglio, quando improvvisamente tutte le sembrò chiaro, straordinariamente chiaro. Pianse e pianse ancora, rileggendo quella opera che racchiudeva tutto il suo amore, tutto l’amore che aveva condiviso con la sua Xena. Si fermò a lungo su questo particolare, quello che le aveva riempito la vita, dorante quei bagli caldi e quelle notti di luna piena unite in una sola anima, indissolubilmente legate dalla vita e dal destino.
Sapeva adesso cosa doveva fare quei versi ne erano la prova. Era tutto scritto su quel foglio, lo stesso che solo poco tempo prima era bianco e inutile, freddo come la morte. Strinse la pergamena al cuore e continuò a piangere.
Doveva avere di nuovo la febbre molto alta quando s’incamminò verso la fortezza del nemico. Pioveva a dirotto, mentre Olimpia, barcollando vistosamente, continuava imperterrita per la sua strada, incredibilmente calma, convinta che sarebbe riuscita a salvare la sua bambina. Arrivò dopo un paio di minuti proprio come l’uomo le aveva detto ai piedi di quella fortezza così grande e così notevolmente protetta. Sganciò il chakram dalla cintura, lo lanciò in modo non molto preciso contro le guardie, che non sapendo come difendersi, si trovarono a terra ferite e privi di conoscenza. Entrò nella fortezza, si ritrovò in un lungo corridoio e, messo fuori combattimento un soldato, entrò in una grande stanza rettangolare. Il luogo era illuminato da grandissimi candelabri, al centro si trovava un enorme tavolo imbandito, con delle sedie tutt’intorno, i muri erano grezzi e l’ambiente non di certo dei più puliti. Fu allora che proprio di fronte a lei scorse qualcuno, cercò a fatica di metterlo a fuoco, e infine si accorse che era un giovane alto e muscoloso dai capelli corti e castani, non poteva vederlo in viso le dava le spalle e sembrava stesse parlando con qualcuno, qualcuno che non poteva vedere a causa del buio, ma bastò sentirgli dire una parola, per riconoscere la voce di Eve, fortunatamente ancora viva ma legata al muro con pesanti catene. Non aveva altra scelta: doveva attaccare quel misterioso individuo che a qualche passo da lei continuava a parlare non essendosi accorto della ragazza che in quel momento prese i says e gli si avventò contro. Il guerriero proprio all’ultimo momento si accorse di Olimpia, si volto di scatto e la colpì e, prima che la ragazza avesse il tempo di tentare qualunque cosa, si ritrovo a terra dolorante, sofferente per il terribile colpo inferto al suo stomaco. “Olimpia, Olimpia scappa… non puoi fare niente e troppo forte, non preoccuparti per me…” disse Eve che aveva assistito alla scena, con gli occhi spalancati per lo stupore. “Ti libererò Evi” sussurrò a se stessa mentre si rialzava barcollando. “Felice di conoscerti bella fanciulla” disse l’uomo chinandosi con falsa galanteria. “Non chiamarmi fanciulla, sono solo una guerriera per te…sono venuta per riportare Eve a casa e ti consiglio di lasciarla andare se non vuoi fare una brutta fine” dichiarò la ragazza fissando l’uomo nei suoi occhi castani e lucenti, “Non ti permetterò di farle del male” “Huuu! Sto morendo di paura” asserì il ragazzo con una finta smorfia di spavento sguainando la spada. L’ amazzone non sopportava essere derisa in questo modo e, nonostante avesse la febbre, si gettò con rabbia con l’uomo che con meraviglia continuava a fissarla. Colpì il signore della guerra più e più volte, che però riuscì a tenersi in piedi e, stanco di subire sferro un potente pugno in viso alla ragazza che incapace di sostenersi cadde a terra sanguinante. Olimpia tuttavia non si diede per vinta, si rimise in piedi e, asciugandosi il sangue che le scendeva copioso dal labbro inferiore, attacco nuovamente, la vista annebbiata per via della febbre. “No, non sarà così facile Duke, non riuscirai a sconfiggermi così presto…” “Sei forte bambina, mi piaci… davvero!” aggiunse vedendo la faccia di della poetessa, ancora una volta pronta ad attaccare. “NON SONO UNA BAMBINA!” gridò la ragazza e, gettandosi contro l’uomo che aveva abbassato la guardia lo colpi in volto con un calcio, un potente calcio che lo fece cadere a terra. “E no bambina…chi ti a dato questa confidenza?” “Ma come sei spiritoso…” Olimpia aveva finalmente capito: la sua grande sicurezza gli sarebbe stata fatale, vero che era molto più forte di lei ma teneva bassa la guardia e in più non era poi così veloce. Si sentiva debole ma nonostante questo si caricò in corpo di tutta la forza che aveva, si diresse velocemente verso l’uomo, finse un calcio e poiché era pronto a pararlo si fermò di scatto e, con una mossa fulminea lo colpì allo stomaco con i says. Il ragazzo cadde a terra svenuto, perdendo sangue dalla profonda ferita che Olimpia gli aveva inferto. La ragazza rimase immobile a fissarlo per qualche secondo, per poi dirigersi, verso Eve che aveva assistito al combattimento con gli occhi sgranati per lo stupore. “Olimpia…” sussurrò la ragazza mentre la sua amica rompeva con il Chakram le robuste catene che la tenevano inchiodata al muro. “Eve… come stai…ti hanno fatto del male? Le chiese l’amazzone stringendo a se la ragazza. “Sto bene non preoccuparti…tu invece…stai scottando devi avere di nuovo la febbre molto alta” le rispose la giovane sciogliendo quel caldo abbraccio “Tranquilla, non mi sento poi così male…la cosa importante è che sono riuscita a liberarti… non so cosa avrei fatto se t’avessi persa…” disse Olimpia con le lacrime agli occhi. “Non ci pensare…ti prego…” Non riuscì a finire la frase, un gruppo di guerrieri proprio in quel momento, accorsero nella stanza e, vedendo il loro capo a terra sanguinante, attaccarono l’amazzone, mentre Eve, alle sue spalle era completamente in capace di muoversi. Olimpia si destreggiava bene in combattimento, ma erano davvero troppi per lei, incredibilmente tanti, non avrebbe mai potuto farcela con cinque guerrieri che la attaccavano contemporaneamente, sempre più rabbiosi nel vedere i loro compagni che di tanto in tanto cadevano a terra, tramortiti. Ad un tratto però alla giovane venne un’idea: prese il Chakram lo lanciò e tutti e cinque si ritrovarono a terra in un mare di sangue.
Era tutto finito, si asciugò le fronte sudata con una mano, mentre si girava per incontrare lo sguardo di Eve. Proprio in quel momento però vide qualcosa che le gelò il sangue nelle vene Duke, sanguinate e pallido, si stava alzando, afferrando il suo pugnale pronto a lanciarlo contro una terrorizzata Eve. “TI UCCIDERO’ PREDICATRICE!” urlò “E POI APPENDERO’ IL TUO CADAVERE DOVE TUA MADRE POSSA VEDERLO!” Olimpia rimase immobile, mentre le parole della sua poesia le attraversavano la mente: -morire rivivendo negli occhi dell’altra morire e rinascere in un solo istante…- Si…adesso aveva capito…era tutto così straordinariamente chiaro…sapeva esattamente cosa doveva fare… “NOOOO!” urlo e mentre il signore della guerra lanciava il pugnale si mise in mezzo lasciando che quell’affilatissima lama le penetrasse in corpo, trafiggendola al posto di Eve. Sentiva un dolore fortissimo all’addome, non riusciva più a respirare, abbassò gli occhi e vide il coltello penetrato fino al manico nella sua carne. “Sì ti ho salvata Eve” bisbigliò quasi impercettibilmente la ragazza mentre con un sorriso poi tramutato in una smorfia di dolore sfilò il coltello dal suo corpo e, con uno sforzo immane lo conficcò nel petto del suo nemico, che senza emettere un suono cadde a terra, privo di vita. Olimpia sanguinava abbondantemente, era sempre più pallida e mentre cadeva fra le braccia di Eve le disse: “S-sei viva… ci sono riuscita…” sussurrò la ragazza accarezzandole il viso. La predicatrice non riusciva a parlare era terrorizzata, aveva visto per un attimo la morte in quel pugnale, quel pugnale che la sua amica aveva fermato col suo stesso sangue, col suo stesso corpo. “Olimpia!” riuscì a dire piangendo stingendole la mano “Ti…ti voglio bene Eve…è stato bello conoscerti… sono…sono molto fiera di quello che sei diventata…e anche tua madre lo è…” “Non parlare Olimpia… riposa…non puoi abbandonarmi anche tu…no!” piangeva senza ritegno, mentre sentiva il polso di olimpia farsi sempre più debole… “Eve…io non ti abbandonerò mai, ti voglio troppo bene… sei…sei come una figlia per me” A queste parole la predicatrice non poté trattenersi dal stringerla più forte, baciandola sulla fronte, rimproverandosi di non poter fare niente per lei, se non guardarla mentre la sua vita lentamente ma inesorabilmente scivolava via… “N-nella mia sacca… ci sono le ceneri di tua m-madre…voglio…voglio che le porti ad Anfiopoli…insieme alle mie e…e poi…una pergamena…ti prego tienila tu…so…so…che capirai…addio…ti voglio bene Eve……… La fanciulla chiuse gli occhi, non c’era più battito, non respirava, solo un sorriso era quello che rimaneva di lei…quello che veramente ritraeva la vera Olimpia…
“NO…NO OLIMPIA…PERCHÉ…perché…” Pianse e pianse ancora per molto tempo, stringendo a se la ragazza, quella ragazza che per salvarla aveva rinunciato alla sua vita, quella che aveva voluto bene come fosse sua madre, quella che ormai l’aveva abbandonata per sempre, lasciandola sola ad affrontare il mondo… Improvvisamente le tornarono in mente le parole che aveva detto Olimpia prima di andarsene; si asciugò gli occhi, e raggiungendo la borsa che si trovava a terra, sul freddo suolo di quel maledetto palazzo, guardò dentro. Conteneva una piccola ulna nera…capì subito cosa fosse… “Mamma” sussurrò. Solo allora si ricordò della pergamena quella pergamena a cui Olimpia teneva tanto,quella che, voleva tenesse lei, la prese e dopo averla srotolata con cura cominciò a leggere:
Scende impetuosa l’acqua del fiume, travolge la vita stessa.
Tenebre che inondano Il mondo soffio spento di vita.
Ti prego, dolce amore, lascia che liberi la tua anima; guardiamo insieme il tramonto.
guardiamo il sole morire e rivivendo negli occhi dell’altra morire e rinascere in un solo istante.
Olimpia
Lanciò un’ultima occhiata alle parole di Olimpia e stringendo la pergamena al petto disse: “ho capito Olimpia…siate felici adesso…” si interruppe un momento,poi alzando lo sguardo al cielo “vivrai per sempre nel mio cuore…ti voglio bene…” |
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