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MUST GO Ho sempre scritto fan fiction che, per lo più, sono state sempre cestinate...chissà perché poi. Beh per impedirmi di fare lo stesso questa volta ho deciso di pubblicare a capitoli questa storia che -credetemi- non so ancora come continuare nel particolare. Quindi per qualunque suggerimento, critica, o comunque per qualunque cosa, mi contatti all'indirizzo e-mail. Ringrazio BaschVonRosemburg per la gentile partecipazione e ricordo che i personaggi di Xena e Gabrielle appartengono ai rispettivi autori. Capitolo secondo
Improvvisamente sentì il bisogno di correre da lei, tornare sui suoi passi e dirle scusami, Gabrielle, non si possono fuggire i sentimenti. Scusami se anch’io ho paura qualche volta. Un passo dopo l’altro arrivò lontano, forse in un prato, forse in una landa desolata, ma in quel momento non avrebbe saputo dirlo con certezza. Voltò il capo e guardò indietro: il bosco la osservava arcigno e non si mosse un filo di vento eppure sentì chiaramente una mano invisibile costringerla a voltare le spalle, sui suoi passi. Alzò il volto verso il cielo e il sole di mezzo giorno le oscurò lo sguardo. Cadde in ginocchio sul terreno, strinse la terra con le dita e si ripeté mille volte che quella fosse la cosa giusta da fare. La cosa giusta. La cosa giusta. Ma non vi credette mai davvero -neanche per un misero istante. Finalmente si alzò, asciugò gli occhi lucidi con il dorso della mano. Corse come il vento, indietro dove aveva lasciato lei, e si disse che non avrebbe dovuto abbandonarla in questo modo -era una fanciulla, sola in un bosco pieno di briganti-, si disse che se le fosse successo qualcosa sarebbe stata unicamente colpa sue e non si sarebbe perdonata. Mai, neanche nella morte, nemmeno nell’oblio. L’avrebbe inseguita con lo sguardo. L’avrebbe cercata in ogni angolo sperduto del suolo, celandosi ai suoi occhi e vegliando su di lei come uno spettro nelle notti. Solo per difenderla. Solo affinché si abitui a stare senza di me. Perché io non ci sarò un giorno e quel giorno lei dovrà vivere una nuova vita. Con dei bambini, con un uomo che le dia tutto l’amore che non potrò mai darle io, con i suoi poemi che -mi dispiace, mi dispiace- non ho letto mai.
Riprese la sua asta e riprese il cammino. Eppure... eppure qualcosa le sussurrò che lei non fosse lontana e che avrebbe dovuto cercarla e si convinse che sarebbe riuscita a trovarla e allora l’avrebbe legata a sé -per sempre. Fin oltre la morte. Sentì delle voci nei pressi di una parete rocciosa. Lo sapeva, lo sapeva che non avrebbe dovuto avvicinarsi! Ma si avvicinò ugualmente. Vide un gruppo di uomini, tre, no, cinque uomini, due erano indietro e confabulavano tra loro mentre gli altri si incuneavano fra le rocce portando dei sacchi sulle spalle. “Briganti” pensò subito. <<Tachistos sei sicuro che sia il posto giusto?>> <<Lo è, fidatevi, dovrebbe esserci una insenatura nelle rocce. Nasconderemo l’oro lì e poi verremo a riprenderlo quando smetteranno di cercarci>> Cinque uomini vestiti da contadini, uno doveva essere il capo. Era più giovane degli altri, gli occhi scurissimi e i capelli non ancora grigi come quelli dei suoi compagni. Indicò un punto poco lontano nella parete di roccia e subito gli altri corsero nella direzione da lui indicata, si guardarono l’uno con l’altro e sorrisero. <<Capo hai ragione, c’è spazio sufficiente per nascondere tutto l’oro che vogliamo!>> disse il più vecchio venendogli incontro. <<Bene, dì a Dioco e agli altri di nascondere il bottino dietro una roccia in modo che nessuno possa vederlo>> <<Come vuoi capo, ma quando torneremo a riprenderlo?>> <<Non lo so ancora, per questo vi chiedo di essere prudenti, se ci vede qualcuno siamo spacciati>> Gabrielle arretrò sentendo le sue parole, rendendosi conto di essere sola, di essere vulnerabile, di essere una donna, di essere quasi del tutto incapace di difendersi. Devo andarmene, pensò, devo andarmene subito. Devo ritrovare la mia amica, devo dirle che questi anni trascorsi insieme sono stati i più importanti della mia vita. Devo starle accanto, semplicemente, e non devo pretendere nulla da lei perché non ne sono stata autorizzata. Devo...-Ah!- Inciampò in un sasso. Tachistos voltò il capo nella sua direzione. E in quell’istante esatto, si rese conto di trovarsi nel attimo in cui il destino prende il sopravvento sulla vita, sulla volontà e su ogni altra forza dell’universo. Destino. Destino infausto. Bastardo. Destino che immola l’uomo quanto egli meno se lo aspetta, che sopraggiunge all’improvviso suturando la trama degli imperscrutabili disegni che tesse nelle notti. Quella volta il fato folle che Xena fosse lontana, che Gabrielle fosse da sola, che dei briganti scegliessero proprio quel bosco per nascondere il loro lurido bottino. E mentre le sue spalle toccarono il suolo e i suoi occhi guardavano in alto le fronde degli alberi si rese conto che non sarebbe sopravvissuta. Un uomo si avvicinò e la vide. -È una fanciulla- sussurrò e poi si voltò verso il suo capo e gli fece cenno di avvicinarsi. Il giovane arrivò correndo e la guardò con i suoi occhi neri mentre Gabrielle sapeva già cosa avrebbe detto e per qualche motivo non ebbe paura. Tachistos cosa ne facciamo, qualcuno disse, ma a lei non importò perché non avrebbe saputo battersi contro cinque uomini armati, senza di lei. Pensò alla sua donna e si disse che non l’avrebbe più rivista -mai più- e ancora una volta maledisse il tempo che scorre veloce, troppo veloce e inganna facendo credere ai poveri esseri che popolano l’universo di avere infinite occasioni e poi. All’improvviso. Non rimane che il nulla. <<Uccidetela. Non possiamo fare altro>> Avrebbe voluto combattere. Avrebbe voluto alzarsi da quel letto di foglie morte, afferrare il bastone che aveva lasciato cadere e combattere per la propria vita. Eppure non seppe far altro che pensare a lei. Ai suoi poemi che lei non avrebbe letto mai, alla famiglia che -con quella donna, con la sua donna- non avrebbe mai potuto costruire. Immaginò una casa in riva al lago e un attimo prima che quell’uomo si chinasse su di lei, le parve quasi di scorgere la figura della sua amica intenta a pescare, china sull’acqua, evanescente, come se la guardasse attraverso una finestra impolverata. Rivide per un attimo il suo sorriso e pensò solo: ti amo. Fece per alzarsi: cadde. Provò a prendere l’asta: le scivolò fra le dita. Ma non ebbe paura. Poi sopraggiunse l’inverno e la notte.
Il lago baluginò in lontananza piatto e luminoso più di uno specchio. Senti lo stormire delle foglie e l’improvviso alzarsi del vento la impaurì e per un momento credette di trovarsi in bilico tra la realtà e l’orlo di un presagio. Il mondo parve una superficie statica, immobile, senza sole, senza luce e si disse che no, non dovrebbe essere così. Non era mai così prima, non lo era mai quando c’era lei. Appoggiò la schiena al tronco di un albero e chiuse gli occhi un istante prima di rivolgerli dove c’era l’aveva lasciata, addormentata su pelle ed erba, sui propri capelli e pensò che l’avrebbe guardata nei suoi occhi splendidi un ultima volta e poi sarebbe tornata nuovamente indietro. Anzi, no. No. Non l’avrebbe abbandonata ma l’avrebbe scortata su quel sentiero sino al limitare della foresta e anche oltre, senza mostrarsi mai. Fino a quando avesse smesso di invocare il suo nome la notte e fosse diventata una donna nuova, più forte, piena di altri sogni e di infinite speranze. E poi. Apri gli occhi
e non la vide. <<Per gli Dei. Ti prego. Ovunque tu sia aspetta
che io arrivi. Aspettami.>> Sentì un grido e fu sicura
che quella fosse la sua voce. Corse veloce, e il vento le sferzò
il viso. Le gambe si graffiarono nei cespugli di rovi, il sudore le
imperlò la fronte, il sangue tuonò nelle orecchie: avrebbe
pianto, potendo. |
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