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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

E SULLA SERIE INTERNET "XENA WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON"

DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E TNOVAN

 

Nonostante sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA,  questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia, il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni) e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati, ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda.

Dei due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..." riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al termine di quella storia.

La scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet della serie televisiva, scritto da Melissa Good.

Capitolo I - parte prima

Parte seconda

Prima...

Radi ciuffi d'erba crescono qua e là sui larghi gradini che portano all'ingresso del tempio. La porta è aperta con la sua bocca oscura che sembra quasi invitare ad entrare gli incauti che dovessero passarvi davanti. Ma la Principessa Guerriera non ha il tempo di considerare i pericoli che possono celarsi oltre quella soglia buia. I suoi pensieri sono solo una confusa ridda di immagini che le attraversano la mente come lampi che si susseguano uno dopo l'altro in una notte di tempesta e, su tutti, avverte la morsa del panico che le stringe la gola. Mentre oltrepassa le varie camere a cui la fiamma di isolate torce dona un aspetto ancor più inquietante di quanto gli desse l'oscurità, sente il suo respiro affannoso bruciargli nella bocca e nelle narici, finché una luce più intensa delle altre gli appare sul fondo della lunga fuga di stanze. Con un improvviso moto di speranza, Xena si lancia verso di essa, stringendo nella mano la fredda elsa del pugnale di cristallo, intorno al quale per la tensione le sue dita si sono quasi rattrappite. Superata la soglia, resta per un istante immobile, mentre la sua mente cerca di assimilare la vista che le si presenta.

Olimpia, la sua Olimpia, è distesa ai piedi dell'altare centrale, il corpo abbandonato e gli occhi spalancati in una fissità che rammenta troppo da vicino quella della morte.

Con un urlo soffocato, dimentica di ogni altra cosa,  Xena si getta verso la compagna e le si inginocchia accanto, lasciando cadere inavvertitamente l'arma che fino a quel momento stringeva convulsamente, senza neanche registrare il tintinnio dell'oggetto che rotola sul pavimento fino alla parete più lontana.

Abbracciando il corpo della ragazza, Xena lo solleva cautamente fino a poggiarne la testa sulla sua spalla, e le sue dita immediatamente corrono alla vena sul collo. Una debole ma perfettamente percepibile pulsazione sotto i polpastrelli, dissipa in parte il panico opprimente che le spezza il respiro, ma dagli occhi immobili e senza espressione di Olimpia non giunge alcun segnale di riconoscimento.

"Olimpia! Olimpia! Tesoro! Che hai? Che ti è successo?"

La risata, che riecheggiando sulle ampie pareti della stanza rimbomba alle sue spalle, la fa voltare di scatto.

Sulla soglia adesso c'è un'alta figura di donna dai lunghi capelli scuri e scarmigliati e con occhi altrettanto scuri da cui sembrano sprizzare le fiamme stesse dell'averno.

"Per tutti gli Dei dell'Olimpo, Xena, o almeno per quei pochi, miserabili superstiti rimasti in vita. Se la Xena che ricordo io, potesse vederti ora, ti sputerebbe in faccia tutto il suo disprezzo."

Un gelido manto sembra scendere sullo sguardo della Principessa Guerriera, mentre fissa la sua vecchia nemica.

"Antinea. Che cosa le hai fatto?"

Stringendo al petto la testa della sua compagna, solo in quel momento, Xena si rende conto di aver perso il pugnale e il suo sguardo dardeggia per la stanza intorno a lei.

"Ma guardati. Sei pietosa." La strega percorre il perimetro della camera con passo strascicato portandosi accanto all'altare a non più di dieci passi di distanza. "La Principessa Guerriera. La Distruttrice di Nazioni. Non sei altro che un piagnucolante fagotto di rimorsi e sensi di colpa. Per di più schiava d'amore di quella patetica parodia di amazzone. Ma che ti ha fatto la tua puttanella per ridurti così, eh?" Un'altra risata roca. "Oh, sì, scusa, dimenticavo che avete... come dire... regolarizzato la vostra relazione. Ora è la tua sposa. Molto commovente. Dimmi, Xena, come dovrei considerarla adesso? La tua mogliettina... o il tuo maritino?"

Ma Xena ode solo in superficie le parole di Antinea. Il suo pensiero ruota esclusivamente intorno al pugnale che ancora non riesce ad individuare e al peso morto del corpo di Olimpia tra le sue braccia. Poi, improvvisamente un baluginìo in fondo alla parete alle spalle della maga colpisce i suoi occhi. Xena alza immediatamente lo sguardo su Antinea nel timore che se ne sia accorta. Ma la strega sembra troppo occupata a godere della sua vittoria per notare altro.

"Beh, dopotutto non ha più molta importanza." prosegue questa. "Visto che non la vedrai mai più."

E per la prima volta da quando ha fatto il suo ingresso nel tempio, l'attenzione di Xena si appunta interamente su di lei.

"Che intendi dire?"

"Dopotutto ti devo dei ringraziamenti, Xena." E le labbra della maga si distendono in un sorriso feroce. "L'ultima volta che mi hai... spedita fuori da questo mondo, mi hai permesso di entrare in contatto con entità, che mi hanno fatto comprendere finalmente le mie reali potenzialità. Adesso sono molto più potente di quanto sia mai stata prima, ma soprattutto mi sento molto più... creativa."

Tutta compresa nel suo discorso, Antinea si sposta leggermente a destra, allontanandosi un po' dall'altare. Ora Xena può chiaramente scorgere il pugnale di cristallo che luccica al suolo a non più di una ventina di passi da lei. Con cautela, depone sul gradino ai piedi dell'altare, il corpo di Olimpia e la sua mano impercettibilmente si avvicina al chakram appeso al fianco.

"Da quando ti ho incontrata per la prima volta, ho avuto un unico desiderio." continua Antinea. "Un desiderio soltanto. Averti... accanto a me nella conquista del mondo. Insieme saremmo state invincibili. Ma tu... con queste tue ridicole smanie di redenzione e... per amore di quella stupidella, hai rovinato tutto. Bene, so riconoscere una sconfitta. Hai vinto, Xena. Non parteciperai alla spartizione delle mie conquiste. Ormai con te ho chiuso. Non ho più bisogno di te. Per questo, ti cancellerò per sempre dalla mia esistenza. Potrei semplicemente distruggerti con un gesto della mano, ma non sarebbe una vendetta abbastanza poetica. Oh, no. Ho in serbo molto di meglio. Manderò la tua adorata Olimpia così lontana che non potrai mai più ritrovarla. Cancellerò dalla sua mente ogni ricordo di te. Vagherai per l'eternità alla ricerca vana del tuo amore perduto. Che ne dici, Xena? Ti avevo detto che sono diventata creativa."

Le ultime parole della maga riecheggiano ancora sotto la volta della grande stanza, quando un lampo scaturisce dalle sue mani e un gigantesco buco nero si apre d'un tratto sotto il corpo privo di conoscenza di Olimpia, inghiottendolo nel buio.

"OLIMPIAAA!!!"

La guerriera si getta in avanti cercando in un disperato tentativo di afferrare la compagna, ma le sue dita stringono il nulla e le sue stesse braccia sembrano scomparire in una tenebra risucchiante a cui si sottrae istintivamente con uno sforzo, ricadendo sulla schiena.

Incredula, Xena contempla lo spazio vuoto in cui solo pochi attimi prima giaceva la ragazza e in cui vibra ancora un cerchio scuro che si sta riducendo a vista d'occhio. Ma la sua mente reagisce alla velocità della luce e con un urlo che le esplode in gola improvviso, la mano di Xena scatta e il chakram sibila fulmineo verso la maga, mancandola di non più di un dito e andando a conficcarsi nella parete dietro di lei. Sorpresa, Antinea si volta e in quel momento con un balzo, la Principessa Guerriera è oltre lei e in un'unica mossa afferra il pugnale e glielo conficca nel petto. Questa volta è il turno di Antinea di fissare lo sguardo incredulo sulla sua nemica.

"Bentornata dal mondo dei sogni." dice la voce gelida di Xena. "Questo pugnale è forgiato dalla pietra di Cronos e annienterà per sempre te e ogni tuo potere."

Un vortice appare improvvisamente alle spalle della maga, e il suo urlo ha il tempo di risuonare una sola volta tra le pareti del tempio, prima di spezzarsi di colpo, mentre il suo corpo ne viene risucchiato all'interno, scomparendo in un attimo nel nulla. Ma Xena già non se ne cura più, e rimane per qualche attimo immobile, a fissare il cerchio oscuro che sembra ancora vibrare a livello del pavimento, ma il cui diametro adesso è ridotto alle dimensioni di un braccio. Poi con un'improvvisa decisione afferra il chakram  ancora conficcato nella parete, staccandolo d'un colpo.

"Arrivo, Olimpia." mormora e, con la sua arma stretta in pugno, si lancia nel buco nero che si richiude un attimo dopo su di lei, lasciando la stanza nel silenzio.

Poi...

Come aveva potuto dimenticare? Come poteva anche il sortilegio più potente farle dimenticare una cosa simile? Nelle giornate che erano trascorse dal loro ritorno, la sua mente aveva scavato con pazienza, cercando ogni isolato barlume di ricordo, finché la sua memoria era stata in grado di ricostruire la maggior parte di quel passato che d'un tratto per lei acquistava il sapore di un presente che si dipanava davanti ai suoi occhi facendole rivivere con estrema chiarezza quei momenti di inesprimibile gioia.

Il sole lentamente sta portando a compimento il suo viaggio verso occidente. La luce acquista la tonalità dorata che precede il tramonto. Xena sta salendo la pedana contemporaneamente a lei ma dalla parte opposta e insieme la percorrono fino a fermarsi di fronte l'una all'altra. La guerriera è una visione da mozzare il fiato. La sua armatura, lucidata fin al più piccolo dettaglio manda scintillìi ai raggi di quell'ultimo sole. La pelle sui muscoli tesi luccica di quegli stessi unguenti profumati che sono stati spalmati anche su di lei. I capelli sciolti lungo le spalle sembrano un manto della più pregiata seta ed emananano una luminosità che può sembrare impossibile su chiome così scure. Lei teme che i suoi occhi non siano capaci di contenere in un solo sguardo tanta abbagliante bellezza e concentra la sua attenzione sul volto della sua compagna. Sulla sua espressione tranquilla e sul caldo sorriso che legge negli occhi azzurri incollati nei suoi. La mano di Xena si tende verso il suo viso e le sue dita passano lievemente tra i suoi capelli biondi ancora corti e tuttavia lunghi abbastanza da poter essere acconciati in tante piccole treccioline. A quel contatto, lei sente un nodo formarlesi in gola, riuscendo appena a mascherarlo dietro un sorriso.

Adelia, negli abiti da sacerdotessa, sale a sua volta sulla piattaforma con accanto due amazzoni armate di lancia che giunte al centro si separano per porsi ai fianchi di lei e di Xena. Poi Adelia prende le loro mani e comincia a parlare rivolta alle altre amazzoni che assistono in gruppo ai piedi della pedana.

"Popolo delle Amazzoni, come nella nostra tradizione siamo qui riunite per testimoniare dell'unione di una  nostra sorella con la persona con la quale ha scelto di condividere la sua vita, e  unenedosi ad essa, renderla parte della Nazione Amazzone."

Il tono austero della cerimonia non riesce a toglierle quel sorriso che pare esserlesi incancellabilmente scolpito sul viso e che si riflette in quello sereno di Xena, i cui occhi non hanno lasciato i suoi neanche per un attimo, mentre la voce della sacerdotessa prosegue solenne.

"Nella nostra usanza, le due destinate ad unirsi dovranno superare un'ordalia, una prova del dolore, perché conoscano il prezzo della loro unione."

Un sordo rullo di tamburi inizia in sottofondo.

"Superare il dolore e condividere sangue spillato. Questo è ciò che è richiesto per sigillare il legame tra voi."

Il rullo di tamburi si fa più forte, mentre alcune amazzoni cominciano ad alzare un canto. Lei emette un gran sospiro e fissa ancor più fortemente gli occhi in quelli della compagna per trovare conforto nel suo sorriso sereno.

"Di costume dovremmo utilizzare il Sacro Pugnale, reliquia del nostro popolo. Ma, dato che la vita di Xena si è intrecciata per lungo tempo con quella delle Amazzoni, credo che sia giusto che questa cerimonia venga sugellata con una lama che è  parte di lei."

I tamburi ed il canto si sono fermati. Tutti gli sguardi convergono su Xena, mentre lei fa un passo avanti. Lo sguardo della guerriera ora è perplesso, incerta su quello che lei abbia in mente. Fa per muovere la mano verso la spada legata sulla schiena, ma lei l'arresta nel movimento. Quindi prende il chakram che pende come sempre dal fianco della compagna e con una leggera torsione del polso lo separa nelle sue due metà, tendendone una a Xena e tenendo l'altra per sé.

"Siamo pronte." dice. "Prosegui."

La sacerdotessa annuisce. "Così sia."

Il canto e i tamburi riprendono. Lei e Xena sono di nuovo immobili l'una di fronte all'altra.

"E' facile sopportare il dolore che provochiamo a noi stessi." proclama Adelia. "Più duro è provocarlo alla persona che amiamo. Questa è la prova richiesta. Dovrete versare l'una il sangue dell'altra."

Le amazzoni si sono avvicinate e il rullo è divenuto più forte e più veloce. Ora quasi tutte stanno cantando.

Lei afferra saldamente la sua metà del chakram, mentre porge l'altra mano a Xena. I loro occhi non si lasciano.

"Avanti." dice ad alta voce. "Niente punti di pressione." aggiunge poi, sussurrando, in modo che solo la sua compagna possa udirla. Vuole vivere quell'esperienza fino in fondo.

Lo sguardo di Xena scintilla per un momento, poi continuando a fissarla, la guerriera le prende la mano e spinge la lama arrotondata, aprendole un profondo taglio al centro del palmo. Lei non sussulta nemmeno.

I tamburi sono sempre più forti, mentre Xena le tende la propria mano.

"Tocca a te."

Lei tiene la mano di Xena nella sua e posiziona la lama del chakram, esitando solo un istante prima di affondarla nel palmo della compagna.

Il sangue sgorga ora da entrambe le mani. I tamburi sono assordanti. La folla di amazzoni si è compattata intorno alla piattaforma, sembrando assai più nutrita della scarsa quarantina rimasta.

Lei solleva la mano e afferra quella di Xena affinché i loro palmi si premano l'uno contro l'altro, mescolando il loro sangue, mentre con l'altra riaccostano le due metà del chakram finché sono di nuovo uno.

Le amazzoni, continuando a cantare, cominciano a danzare intorno a loro, circondandole, ma lei e Xena non hanno occhi che l'una per l'altra. Si avvicinano ancora di più e poi si immobilizzano, occhi negli occhi, mentre il mondo intorno perde consistenza e la voce di Adelia sembra giungere da immense distanze.

"E così due diventano una e il sangue di una straniera si unisce a quello della Nazione Amazzone. Xena, che tu sia la benvenuta."

La guerriera china il viso verso quello della sua compagna, ora sua consorte, e le loro labbra si fondono in un bacio profondo e dolcissimo, mentre dalle loro mani ancora strettamente legate, il sangue continua a cadere.

Il movimento tra il fogliame scuote Olimpia dal suo sogno ad occhi aperti e la ragazza volta velocemente la testa verso l'origine del rumore. Un largo sorriso si distende sul suo volto quando scorge la familiare figura che emerge dai cespugli.

"Ehi. Trovato qualcosa?" chiede.

Con un lieve inarcarsi di ciglia, Xena alza un braccio mostrando saldamente stretti nella mano due conigli selvatici che pendono immobili per le lunghe orecchie.

"Ne dubitavi?"

Alla vista delle due prede pronte per essere cucinate, il sorriso di Olimpia si allarga ulteriormente e la ragazza si alza con un agile balzo dal giaciglio improvvisato.

"Ravvivo il fuoco e preparo lo spiedo."

Xena posa i conigli a terra e comincia a liberarsi della spada.

"Vuoi dire che non lo hai ancora fatto? Ti ringrazio per la fiducia." dice con un sorrisetto.

Olimpia nell'avvicinarsi al piccolo fuoco accuratamente predisposto al centro del campo, le lancia uno sguardo di rimprovero.

"Lo sai che non è così. E' che in questi ultimi giorni non faccio che pensare."

Una leggera preoccupazione tinge d'un tratto l'espressione di Xena.

"Ma stai bene?"

"Certo, sì, non è niente." risponde Olimpia, mentre con mani esperte spezza e aggiunge altri rametti alla fiamma che già si solleva più alta illuminando la piccola radura circostante e riempiendo il suo viso e i suoi capelli di riflessi arancioni. Poi la ragazza si ferma e si volta verso la compagna che è occupata a scuoiare gli animali.

"Solo, non riesco a capire come sia possibile aver dimenticato tutto in quel modo. Xena, ti rendi conto? Fino a pochi giorni fa non riuscivo a ricordare più nulla di ciò che è accaduto dopo la tua..." Olimpia si blocca, esitando sull'orlo di quella parola che non riesce a pronunciare.

"Insomma," prosegue poi, riprendendo ad occuparsi del fuoco "non ricordavo più nulla dell'Egitto, della battaglia con Lucifero..." Nuova esitazione. "... del tuo ritorno e di tutto quello che ci è successo dopo, compreso..." e qui i suoi occhi si riempiono di tenerezza mentre il suo viso si tende in un sorriso fissando le fiamme che ora crepitano allegramente "...il nostro matrimonio. C'era qualcosa... come un muro... che mi impediva di rammentare quei momenti di felicità. Mi restava addosso solo l'angoscia della tua perdita e il rimpianto di non aver fatto tutto quello che potevo per impedirti di ... lasciarmi."

Una lacrima scorre lungo la guancia di Olimpia, acquistando riflessi iridescenti alla luce adesso intensa che proviene dalla fiamma.

"Non c'era nulla che tu potessi fare, Olimpia. Era solo compito mio tornare da te, capire che nel mio desiderio di redenzione, c'era forse più egoismo di quanto ce ne fosse mai stato nella vita violenta che conducevo prima di incontrarti."

La mano di Xena le si posa sulla spalla, mentre la guerriera lascia cadere accanto al fuoco i due corpi sanguinolenti dei conigli pronti per lo spiedo.

"E non so dirti come sia possibile questo." dice, fissando i suoi occhi in quelli della ragazza, voltati ora verso di lei. "Proprio come non so dirti come sia possibile non avere idea di cosa ci sia successo tra il momento in cui la maledizione di Antinea si è abbattuta su di noi e il momento in cui ci siamo ritrovate in quella foresta."

"Sai" dice Olimpia con aria meditativa, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano "a volte, mi pare di ricordare un volto, una voce, un nome forse, ma non saprei dire se sono soltanto cose che mi immagino. E tu?" chiede.

"Può darsi. Qualcosa. Ma non è che mi sia sforzata troppo."

Poi, Xena prende il viso di Olimpia tra le mani. "Dopotutto ciò che ricordo è tutto quello che mi occorre sapere, e tutto quello che è davvero importante."

Un sorriso complice passa nei loro sguardi.

"Davvero? Per esempio?" chiede la ragazza con aria maliziosa.

Xena senza parlare, avvicina il viso a quello di lei e posa le proprie labbra sulle sue. Olimpia risponde con trasporto al contatto. Il bacio si prolunga nel silenzio circostante e quando le bocche, quasi con rammarico, si dividono, gli occhi di Olimpia restano ancora per qualche attimo chiusi mentre lei assapora ancora sulla bocca il sapore della compagna.

"Oh, vedo." dice, riaprendoli e lasciandoli incollati a quelli dell'altra, mentre le sue braccia indugiano sui suoi fianchi e sulla sua schiena in una carezza che non vorrebbe terminasse mai. Questa, ora se ne rendeva conto, era la cosa che più le era mancata in quei mesi in cui Xena era morta e il suo spirito soltanto camminava al suo fianco. Come aveva potuto pensare che potesse bastarle? Non avvertire più quel calore quando la toccava o sentiva le sue braccia avvolgerla. Non sentire più il battito di quel cuore, quando la notte le dormiva accanto ed appoggiava la testa sul suo petto e che le conciliava il sonno come nient'altro al mondo era in grado di fare.

Le dita di Xena percorrono il profilo della compagna con delicatezza.

"E ora basta, amore mio." dice. "Basta rimorsi, rimpianti. Tutto ciò che conta, adesso, siamo io e te, qui. Insieme."

I loro sguardi restano immersi ancora per qualche momento l'uno nell'altro, quando un sordo brontolio spezza l'incantesimo. Olimpia sorride imbarazzata.

"Ma a giudicare da come borbotta il tuo stomaco" aggiunge Xena in tono ironico "direi che anche quei due conigli pronti per essere arrostiti, hanno la loro importanza."

La risata delle due donne risuona nel silenzio della notte.

PRIMA PARTE: LA FORESTA

(1) Jennifer

Nella stanza debolmente rischiarata dalle insegne luminose esterne, Jennifer Rowles si tira lentamente su dal letto, avvolgendo il lenzuolo intorno al proprio corpo. Lo sguardo spento, si passa una mano tra i capelli scuri, che le ricadono lunghi sulle spalle, e a fatica spinge le gambe fuori, mettendosi a sedere sul bordo e restando in quella posizione a fissare il vuoto.

Un improvviso calore lungo la schiena, cinque dita morbide che scivolano lungo il suo collo finendo in un braccio lungo e affusolato che le si avvolge intorno al torace, ed un volto che si accosta al suo poggiandosi sulla sua spalla. Un volto bello e incorniciato da una cascata di capelli biondi, due labbra piene e sode che le depositano un leggero bacio sul collo.

"Non so cosa cercassi questa sera in me, ma ho come l'impressione che tu non l'abbia trovata." le sussurra la donna all'orecchio.

"Non è colpa tua." La voce di Jennifer è bassa e roca, quasi senza vita. "Sono io. Ti chiedo scusa. Evidentemente non sono il tipo adatto per questo genere di cose."

"Forse vuoi dire che non sono io il tuo tipo." dice la donna, alzandosi e andando verso la specchiera, incurante della sua nudità. "Perchè se invece ti riferisci a quello che abbiamo appena fatto, ti assicuro che sei perfettamente adatta, eccome."

Mentre si spazzola i capelli, la donna (Maledizione, se almeno riuscisse a ricordarne il nome!) le lancia un'occhiata attraverso lo specchio, sorridendo.

"No, anzi." risponde Jennifer. "Tu sei quasi esattamente come volevo."

Il suo sguardo, apparentemente fisso sul viso che la guarda dallo specchio, è perso in realtà in un'immagine che vi si sovrappone nella sua mente.

"Hai il suo stesso colore di capelli... di occhi. Perfino l'espressione del tuo viso a tratti mi ricorda lei."

"Ah." La donna si volta verso Jennifer, continuando a spazzolarsi energicamente i capelli. "Ecco il problema, allora. Ti ricordo la tua ex, eh? Hai commesso un errore, tesoro." dice dirigendosi verso gli abiti accuratamente posati su una sedia accanto al letto e cominciando ad infilarsi la gonna. "Non bisogna mai ripercorrere il viale dei ricordi. Devi darci un taglio deciso. Cercati una bruna con gli occhi scuri, un tipo latino. Se vuoi potrei presentartene qualcuna io. Conosco un paio di ragazze che farebbero al caso tuo."

Jennifer la guarda con amarezza, mentre le immagini della memoria svaniscono lentamente.

"Lascia stare. Non è il momento."

"Ehi." La donna finisce di rivestirsi, abbottonandosi la camicetta e, ancora a piedi scalzi, si avvicina a Jennifer e le si siede accanto, posandole il braccio intorno alle spalle. "Non devi lasciarti andare così. Sei una persona deliziosa e una donna bellissima. Sai," aggiunge con un sorriso "non vado con tutte quelle che incontro nei bar. Non è giusto lasciarsi distruggere da una storia finita male. Dammi retta. Domani sera, mettiti in tiro. Ti organizzo una seratina..."

Ma la donna deve interrompersi, perché Jennifer scoppia in un pianto dirotto, abbattendosi sul letto e mordendo il lenzuolo nel tentativo di soffocare i singhiozzi.

"Ehi, ehi, dài, non fare così." La donna cerca di consolarla accarezzandole la testa. "Chiunque sia quella stronza che ti ha ridotta in queste condizioni, non ti meritava..."

E fa per chinarsi su di lei, quando il corpo riverso sul letto schizza all'improvviso all'indietro, quasi facendola cadere a terra per la sorpresa.

"ZITTAAA!!! STA' ZITTA!! LEI E' MORTA!!!" urla con quanto fiato ha in gola Jennifer afferrandole le braccia.

La donna resta per qualche secondo senza parole, fissando interdetta quegli occhi sgranati da cui scendono lacrime copiose, quasi non accorgendosi di quelle dita che la stringono con forza incredibile e di cui l'indomani si troverà lividi bluastri come ricordo.

"E' morta, capisci?" dice adesso, quasi in un sussurro, Jennifer, allentando la presa e riabbattendosi con la faccia sul cuscino, scossa dai singhiozzi, senza neanche accorgersi dopo qualche istante del click soffocato della porta che si richiude silenziosamente.

E' passata circa un'ora, quando finalmente Jennifer, ritrovata un po' di calma, si è decisa ad alzarsi ed a prepararsi una tazza di caffè. La sua occasionale compagna di una notte se ne è andata da chissà quanto. Lei non l'ha neanche sentita uscire.

Che idiota che sei. I miei complimenti, Jennifer. Sei proprio una stupida. Tirarti in casa una completa sconosciuta solo perchè... perchè... oh, mio Dio!

Con un sospiro di esasperazione, afferra il bricco bollente e si versa un'abbondante dose nella tazza. Quindi reggendola a due mani per riscaldarsi al calore che ne emana, si dirige verso l'ampia poltrona accanto alla finestra e si mette a sedere nella penombra del salotto, senza darsi nemmeno la pena di accendere la lampada. Continua a ripensare a ciò che è accaduto in quell'appartamento nelle ultime ore e non riesce a crederci. Non può credere di avere davvero fatto... quello che ha fatto. D'accordo, aveva bevuto forte. Forse anche più del solito. Ma lasciarsi abbordare in un bar... Andiamo, non era da lei.

Ma non lo era davvero? Quanti gradini aveva già sceso nella scala della dignità umana?

Gli ultimi mesi erano stati un lungo tunnel buio che lei aveva percorso quasi inconsapevolmente in una specie di stato di perenne stordimento. Dalla notte... da quella notte, tutto ciò che le era accaduto intorno, le era parso nient'altro che un lungo, interminabile sogno che appartenesse a qualcun altro. Di tanto in tanto, durante qualche sprazzo di lucidità, il suo cervello le aveva lanciato segnali di allarme sempre più preoccupati, ma questo non era servito ad impedire che in rapida successione lei avesse cominciato a rivolgersi sempre più spesso all'alcol, avesse dato le dimissioni dalla procura, tirando un calcio a tutte le sue velleità di carriera, e infine avesse venduto velocemente il suo vecchio appartamento, rimettendoci una barca di quattrini, per trasferirsi in un buco ammobiliato, quasi alla periferia della città e, a giudicare dallo spettacolo che offrivano le sue finestre nei rari casi in cui le apriva, alla periferia della civiltà stessa.

Ma a lei non importava. A lei sembrava che più nulla fosse importante, né il lavoro perso, né la carriera finita, e neanche la sua vita ridotta ormai ad un cieco vagare tra la sua casa, il vicino supermercato, quando il frigorifero urlava a squarciagola il suo desolante vuoto, o l'ancor più vicino bar, dove saltuariamente, quando le serate diventavano troppo oppressive e i ricordi troppo lancinanti, trovava un estremo rifugio in mezzo al caotico andirivieni di personale e clienti. E dove quella sera in particolare, il suo sguardo distratto era caduto su una capigliatura bionda che scendeva liscia e morbida lungo una schiena snella, avviluppata in una camicetta rossa di seta, e che finiva quasi a toccare un sedere sodo che una corta gonna nera metteva particolarmente in risalto. Si era trovata a rimirare quello spettacolo quasi senza accorgersene, ipnotizzata dal colore di quei capelli, un biondo grano che alla luce soffusa del locale appariva ancora più morbido e seducente. Quella visione le aveva spalancato nella mente immagini di un'altra capigliatura bionda, su una testa abbandonata contro la sua spalla, capelli biondi che lei aveva accarezzato più di una volta, avvertendone la morbidezza e la fresca fragranza...

E d'un tratto, come in risposta ad un ordine telepatico, attraverso una visione resa confusa dalle lacrime che sentiva già radunarsi nei suoi occhi, aveva visto la donna seduta su uno degli alti sgabelli accanto al bancone, voltarsi e il suo sguardo puntare su di lei.

Per un attimo, Jennifer aveva avuto la sensazione netta che il mondo avesse cominciato a ruotarle paurosamente intorno. Sensazione che adesso riteneva non disgiunta dai tre whisky lisci che si era fatta. Ma in quel momento questa considerazione così logica non l'aveva neanche sfiorata. L'unica cosa a cui riusciva a pensare era che quelli che la stavano guardando erano gli occhi di Joyce.

Occhi dello stesso colore azzurro cielo che aveva fissato per l'ultima volta sei mesi prima, in quella notte maledetta di caos e di morte, tra le grida dei poliziotti che cercavano di catturare Xena e le proprie urla mentre stringeva disperata tra le braccia il suo corpo e cercava vanamente un ultimo palpito di vita in quel viso immobile, sotto lo sguardo addolorato di Sutherland.

Jennifer era rimasta come paralizzata per un lungo istante, mentre i suoi occhi sembravano incollati a quelli della donna bionda, poi questa aveva sorriso e l'incantesimo si era rotto. Era un bel sorriso, accompagnato da un'occhiata apprezzativa nei suoi confronti, ma neanche per un attimo avrebbe potuto passare per quello di Joyce. Tuttavia, quando la donna le si era avvicinata e si era seduta al suo tavolo, qualcosa dentro di lei le aveva impedito di elevare immediatamente il muro che la proteggeva costantemente, e si era ritrovata a parlare con la sconosciuta.

Era vero, vista da vicino la donna non assomigliava affatto a Joyce, ma se isolava la sua attenzione sugli occhi o sui capelli o sulle espressioni che prendeva il suo viso quando rideva... forse...

La donna le aveva detto di chiamarsi... Rita... ecco, ora le sembrava di ricordare... o era Lisa? Comunque non aveva aggiunto il cognome, né Jennifer aveva minimamente pensato a chiederglielo. Rispondeva meccanicamente e a monosillabi alle sue domande, senza mai perdere il contatto con quegli occhi per mantenere il più possibile quell'illusione, mentre la donna le diceva cose di cui non aveva conservato il minimo ricordo. Poi, sempre come in un sogno, si era alzata subito imitata dall'altra, che non aveva smesso un istante di sorridere durante il loro breve colloquio, e insieme le due donne erano uscite dal locale.

Del breve tragitto che le separava dal suo appartamento aveva ricordi anche più confusi. Rammentava vagamente di aver camminato al braccio di Rita o Lisa, di aver salito i pochi gradini davanti all'ingresso e poi il rumore della porta di casa che sbatteva dietro di loro. Ma, invece, ricordava con estrema chiarezza l'amplesso che immediatamente dopo le aveva travolte, anche se adesso stava cercando di non pensarci, di rimuovere quei momenti di sconvolgente passione dalla sua memoria, con grande imbarazzo e anche con un profondo senso di colpa.

Perché la donna che aveva tenuto tra le braccia quella sera, a cui aveva fatto e da cui si era fatta fare cose di cui non si sarebbe mai pensata capace, nella sua immaginazione era stata Joyce.

Erano sue le labbra che aveva baciato, sua la lingua che aveva sentito affannosamente inseguire la propria, suoi i seni che aveva leccato, succhiato, morso, e suoi gli umori caldi, amari e dolcissimi ad un tempo che le avevano invaso la bocca e il respiro. Era venuta un numero impressionante di volte ed ogni orgasmo le aveva fatto toccare nuove vette di piacere inesplorate, finchè l'ultimo l'aveva lasciata svuotata di ogni energia, con gli occhi spalancati a guardare il soffitto.

E così era rimasta per un tempo che le era parso lunghissimo, avvertendo appena accanto a sé il respiro regolare della sua occasionale amante, caduta spossata in un sonno profondo ed evidentemente soddisfatto. Sul soffitto danzavano le luci riflesse dei fari delle macchine che passavano sotto la finestra e mentre Jennifer ne seguiva l'effetto ipnotico che lentamente la conduceva  a sua volta verso il sonno, l'immagine del volto di Joyce che aveva mantenuto nella sua mente fino a quel momento aveva cominciato a sbiadire.

"Joyce, perdonami." Aveva fatto appena in tempo a mormorare un attimo prima di essere sommersa dalle tenebre di un momentaneo oblio.

Perchè?

Se lo chiede adesso, mentre sorseggia le ultime gocce di caffè in fondo alla tazza.

Perchè le ho chiesto di perdonarmi?

Pensava forse di aver infangato la memoria di Joyce, rendendola protagonista nella sua immaginazione di un rapporto sessuale con lei? O più semplicemente riteneva di averla tradita, andando a letto con un'altra?

Smettila!  Non essere assurda.

Dopotutto aveva semplicemente lasciato che quell'impulso improvviso da cui si era sentita travolgere la trascinasse fino in fondo, al cuore stesso del suo desiderio inappagato e ormai non più raggiungibile.

Si era innamorata di Joyce dal primo momento in cui l'aveva vista, là in quel letto di quell'anonima stanzetta d'ospedale, col suo sorriso timido che le faceva accellerare i battiti e quegli occhi in cui si leggeva la silenziosa disperazione di un'anima alla ricerca di qualcosa che neanche lei stessa sapeva identificare. Solo che non l'aveva capito. Forse non aveva voluto capirlo. Il suo cervello intriso di razionalità e devozione al lavoro le aveva impedito di riconoscere che ciò che provava per quella ragazza era amore. L'aveva rivestito di dovere professionale, di altruismo, di un inconscio desiderio di rimediare al dramma della morte di sua sorella aiutando un'altra ragazza in difficoltà, perfino di sincera amicizia, e aveva ignorato, aveva voluto ignorare la vera origine di quell'inspiegabile attrazione, e quando finalmente se ne era resa conto, era troppo tardi. Il suo fragile mondo di raziocinio e sicurezze fasulle si era letteralmente sciolto a contatto con quello di Joyce. Quando la ragazza aveva recuperato la sua vera identità, lei aveva capito di aver perso ogni possibilità e di doversi rassegnare al suo ruolo di spettatrice in una storia tanto grande da sfidare i limiti della mente umana. Aveva ingoiato il suo dolore e si era adoperata per quanto le era possibile affinchè, con l'assistenza del professor Sutherland, quella vicenda incredibile trovasse il suo giusto epilogo. Ma non era andata così.

Il finale di quella storia era stato tutt'altro che giusto, e lei si era trovata ad abbracciare un cadavere, un corpo che avrebbe voluto stringere a sé in ben altre circostanze, caldo e morbido, mentre invece si stava rapidamente raffreddando nella rigidità della morte. Ed era tutta colpa sua. Ora lo capiva. Lo vedeva chiaramente. Il destino le aveva offerto una possibilità, quella di salvare una vita umana e al tempo stesso trovare uno scopo nella sua vita e lei se la era lasciata sfuggire. Avrebbe dovuto infischiarsene del suo lavoro, infischiarsene del professor Sutherland e di tutti i suoi discorsi deliranti e seguire solo il suo istinto. Prendere Joyce e portarla via con sé. Se ne sarebbero andate insieme da qualche parte, lontanissimo. Dove mai nessuno di questo mondo o di una qualsiasi altra dimensione avrebbe mai potuto trovarle. Là le avrebbe fatto dimenticare il suo passato, quello recente e quello più remoto. Ecco, questo avrebbe dovuto fare. Ora, Joyce sarebbe stata viva e felice insieme a lei e Xena avrebbe dovuto aspettare la prossima reincarnazione per ricongiungersi con la sua anima gemella. Niente di grave. Aveva già aspettato tanto, che problema poteva costituire qualche decennio in più?

Era questo, vero? Era questo che le bruciava. Per questo in quel momento subito prima di addormentarsi, quando le barriere dell'inconscio sono più labili, le aveva chiesto perdono. Perdono di non aver capito prima di amarla, perdono di non aver saputo proteggerla dal suo destino. Aveva chiesto a Joyce di perdonarla, perchè da sola non ne sarebbe mai stata capace. Lei aveva saputo solo lasciarsi andare alla deriva in quei mesi. Dopo il funerale, si era astratta da tutto, dal suo lavoro, dalle sue conoscenze, dalla sua vita. In quello squallido appartamentino di periferia aveva messo una croce su se stessa e aveva iniziato la lunga penitenza a cui si era condannata.

In quel periodo aveva tagliato fuori tutto il mondo. Non aveva allacciato il telefono nel nuovo appartamento e il suo cellulare giaceva chissà dove, abbandonato probabilmente sul fondo di qualche valigia che ancora non aveva aperto. Era certa che in quei giorni di sepoltura volontaria, qualcuno l'avesse chiamata, magari il professor Sutherland, e sapeva che se l'avesse riacceso, avrebbe trovato la segreteria piena di messaggi preoccupati per la sua salute, ma non le importava. Non era ancora pronta a che il mondo esterno tornasse ad insinuarsi in quel suo piccolo buco che si era scavata come rifugio. Non avrebbe sopportato di risentire una sola voce o rivedere un solo volto che potesse associare alla morte di Joyce. Non quello di Sutherland, con tutte le sue chiacchiere di reincarnazioni e anime gemelle da cui si era lasciata stupidamente irretire, non quello di Carruthers, l'amico, il compagno di tante inchieste che all'ultimo l'aveva vigliaccamente tradita, e tantomeno quello freddo e controllato di quel miserabile opportunista di Ballister. Quello in cui si era presentata nel suo ufficio per sbattergli in faccia le sue dimissioni, era l'unico giorno che ricordasse con piacere. Non che il procuratore gli fosse apparso particolarmente mortificato o dispiaciuto di vederla andarsene (anzi, l'impressione era stata nettamente opposta), tuttavia la possibilità di poter esprimere a quel verme tutto il suo odio e il suo disprezzo, aveva rappresentato in quel momento per lei uno sfogo sia pur parziale alla rabbia e alla frustrazione che sentiva dentro.

"Lei si rende conto, vero, di quello che sta facendo?" le aveva chiesto Ballister, fissandola con quel suo sguardo gelido e vuoto.

In quel momento, Jennifer si era chiesta come fosse possibile che avesse lavorato con quell'uomo per oltre due anni. Ora che lo guardava attentamente, si rendeva conto che aveva visto sguardi più profondi e comunicativi sui banconi dei pescivendoli al mercato. Come poteva aver stimato e rispettato quell'essere ignobile che non aveva esitato, per i suoi meschini giochi politici, a causare la tragedia che aveva distrutto due vite e annientato la sua, e ora se ne stava lì, comodamente a sedere alla sua scrivania, a fissarla con fredda indifferenza, pronunciando frasi di apparente dissuasione che però l'espressione sul suo volto smentiva chiaramente?

"Ci ho pensato a fondo." aveva detto lei altrettanto gelidamente. "Non posso continuare a lavorare per una persona che mi ha usata senza scrupoli e che ritengo responsabile della morte di una mia amica."

"Stia attenta a come parla, Jennifer." l'aveva ammonita lui, alzandosi di scatto e mostrando finalmente una parvenza di spontaneita nel suo atteggiamento così sempre attentamente studiato. "Io rispetto il suo stato d'animo e il suo dolore, ma questo non l'autorizza a sparare accuse del genere."

I loro occhi erano rimasti fermi gli uni negli altri per alcuni secondi, ma Jennifer non aveva abbassato i suoi di un solo millimetro ed alla fine era stato Ballister a dover distogliere lo sguardo, dirigendosi all'ampia finestra del suo ufficio, guardando fuori verso i grandi alberi del parco che si potevano ammirare dalla sua posizione.

"Inoltre mi permetta di dirle che non capisco. Gettare alle ortiche una promettente carriera, per cosa?" aveva sbottato, voltandosi di nuovo verso di lei. "Per la morte di una ragazza che lei neanche conosceva, prima che questa disgraziata faccenda iniziasse?"

"Se non capisce da solo, procuratore" aveva risposto lei, omettendo enfaticamente il signore con cui si era sempre indirizzata a lui "non ci sono speranze che possa farglielo capire io. Forse è questa la differenza fra me e lei."

Poi gli aveva voltato le spalle e si era diretta verso l'uscita.

"Riceverà le mie dimissioni in giornata." aveva aggiunto senza più girarsi, chiudendo la porta dietro di sé.

Nel breve volgere di qualche giorno aveva venduto il suo appartamento, che conteneva troppi ricordi ed una stanza da cui nonostante le numerose mani di vernice, l'odore del sangue non sembrava volersene andare, e si era trasferita nel quartiere più lontano che fosse riuscita a trovare. Aveva anche pensato di cambiare città, magari stabilendosi sulla costa occidentale, ma poi per qualche ragione che neanche lei avrebbe saputo definire esattamente aveva scartato l'ipotesi e optato per una zona periferica, e qui in una palazzina di soli tre piani e senza portiere, si era chiusa nel suo nuovo alloggio escludendo il resto del mondo, a misurarsi con il proprio dolore.

Era rimasta a letto per tre notti e due giorni interi, con valigie e scatoloni pieni di roba ancora da sistemare negli armadi e sugli scaffali, dando finalmente fondo a tutte le emozioni e le sensazioni represse che altrimenti minacciavano di rompere ogni argine facendola precipitare in chissà quale abisso da cui difficilmente avrebbe potuto risalire. Aveva cercato di entrare in contatto col suo io più profondo per sondarne gli aspetti più nascosti, per capire quanto di questa nuova Jennifer, che il suo sentimento per Joyce aveva rivelato, fosse disposta ad accettare. Aveva pianto ogni lacrima che ancora le fosse rimasta e all'alba del terzo giorno si era soffiata il naso un'ennesima volta, appallottolando l'ultimo fazzolettino di carta e gettandolo nell'angolo in cui, da qualche parte sotto una montagna di suoi fratelli, avrebbe dovuto essere un cestino.

Poi, si era alzata e con passo lento si era trascinata fino al grande specchio alla parete. L'immagine che questi le aveva rimandato, manteneva solo una vaga somiglianza con quella che ricordava. I capelli lunghi e spettinati, il viso pallido e privo di qualsiasi traccia di trucco, con due occhiaie scure e profonde sotto palpebre arrossate dal pianto, il naso ridotto ad un gonfio tumulo quasi violaceo dal continuo sfregare. Quindi, senza un commento, si era chinata e aveva cominciato ad aprire uno scatolone e a tirarne fuori il contenuto.

Prima di sera, la maggior parte del bagaglio era svuotata, abiti, molti libri e ogni altro effetto avevano trovato una collocazione nella sua nuova casa. E la sua vita, se ancora la si poteva definire così, una parvenza di normalità.

Il denaro, che aveva accumulato nel tempo grazie al suo tenore di vita moderato e ad alcuni giudiziosi investimenti, le permetteva almeno di non doversi preoccupare delle sue finanze e di poter rimandare, anche se non all'infinito, il momento in cui avrebbe dovuto affrontare l'idea di cercarsi un nuovo impiego.

I giorni si erano  trascinati così, uno dopo l'altro. Il dolore per la morte di Joyce non era scomparso ma si era almeno ridotto ad una sorda fitta in fondo al cuore, pronto tuttavia a risorgere in un qualunque momento, quando si fosse trovata a rievocare nella sua mente anche solo per un attimo quel volto e quel sorriso, che aveva potuto vedere poco, troppo poco. Come quella sera...

Jennifer posa sul tavolo vicino la tazza che teneva tra le mani da qualche minuto ormai vuota e lancia un'occhiata distratta all'orologio digitale poggiato sugli scaffali di una libreria semivuota (molti altri suoi libri sono nell'armadio a muro ancora da sballare) che segna le 2:30. Soltanto? Ricorda con chiarezza che quando è entrata nel bar erano da poco passate le nove. La sua avventura nella trasgressione si riduceva davvero a questo? Poche ore di sesso a denti stretti ed occhi chiusi, aggrappata ad un sogno?

Con un sospiro, appoggia la testa all'alto schienale della poltrona, e ancora una volta quelle parole

(Perdonami, Joyce)

le si disegnano nella mente, ma questa volta non si sofferma a pensare sul perché le si siano ripresentate, mentre si sente nuovamente scivolare tra le braccia di Morfeo.

(2) Croft

"Servizio di segreteria telefonica. Il numero richiesto non è al momento raggiungibile. Lasciare un messaggio dopo il segnale acustico."

La voce elettronica, fredda ed impersonale tace per qualche secondo, per poi lasciare il posto al bip, cui segue il silenzio del meccanismo di registrazione che attende le parole da incidere.

Brian Croft attende a sua volta, con la cornetta in mano, incerto se lasciare l'ennesimo messaggio o riattaccare, poi si decide.

"Dottoressa Rowles, sono ancora Brian Croft dell'Inside View. La prego, mi richiami. Ho bisogno di parlare con lei. Non è un'intervista, glielo giuro. Il giornale non c'entra niente. E' una questione personale. Può trovarmi a qualunque ora al numero che le ho lasciato."

Con un sospiro di rassegnazione, l'uomo riattacca il telefono. Ha perso il conto di quante telefonate abbia già fatto in quegli ultimi giorni, sempre senza risultati. Il cellulare della Rowles è continuamente staccato. A questo punto dubita che l'oggetto delle sue ricerche abbia mai ascoltato uno solo dei suoi messaggi. E la fama del giornale per cui lavora certamente non aiuta in quel senso.

Sempre fissando l'apparecchio telefonico, si appoggia all'indietro contro l'ampio schienale della poltrona girevole, passandosi distrattamente una mano sulla barba ispida sulle guance e sul collo, mentre il suo sguardo si alza verso la parete di fronte a lui, dove decine di articoli ritagliati fanno mostra di sé, appesi con puntine e pezzi di nastro adesivo. Nonostante l'ora notturna, o mattutina, comunque la si volesse giudicare, oltre la porta erano udibili i rumori di una redazione attiva, in attesa delle prime bozze di stampa della rivista che da lì a poche ore sarebbe stata distribuita in tutte le edicole della città e poi di tutta la nazione.

Brian si alza e si avvicina alla parete, fissando la sua attenzione su un ritaglio in particolare. Sulla destra vi campeggia il volto di una bella donna sorridente e dall'aria sicura, con i capelli scuri e gli occhi chiari, il cui azzurro, che lui ricorda così bene, si perde però totalmente nell'uniforme bianco e nero della foto. Accanto, un titolo a caratteri rosso sangue invade parzialmente l'immagine stessa, sovrapponendovisi.

CHERYL COOPER ASSASSINATA!

Poco più in basso, in caratteri leggermente più piccoli, ma non meno evidenti:

La nostra collega trovata morta sulla soglia di casa, il corpo crivellato di proiettili. La polizia si trincera dietro i "no comment".

Cosa ci nascondono?





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