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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA
GUERRIERA" CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT E SVILUPPATA DA R.J.STEWART E SULLA SERIE INTERNET "XENA
WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON" DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E
TNOVAN
Nonostante
sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA, questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo
di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti
del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia,
il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni)
e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati,
ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda. Dei
due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è
collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica
l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..."
riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al
termine di quella storia. La
scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not
Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione
della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più
semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet
della serie televisiva, scritto da Melissa Good. Radi
ciuffi d'erba crescono qua e là sui larghi gradini che portano all'ingresso
del tempio. La porta è aperta con la sua bocca oscura che sembra quasi
invitare ad entrare gli incauti che dovessero passarvi davanti. Ma
la Principessa Guerriera non ha il tempo di considerare i pericoli
che possono celarsi oltre quella soglia buia. I suoi pensieri sono
solo una confusa ridda di immagini che le attraversano la mente come
lampi che si susseguano uno dopo l'altro in una notte di tempesta
e, su tutti, avverte la morsa del panico che le stringe la gola. Mentre
oltrepassa le varie camere a cui la fiamma di isolate torce dona un
aspetto ancor più inquietante di quanto gli desse l'oscurità, sente
il suo respiro affannoso bruciargli nella bocca e nelle narici, finché
una luce più intensa delle altre gli appare sul fondo della lunga
fuga di stanze. Con un improvviso moto di speranza, Xena si lancia
verso di essa, stringendo nella mano la fredda elsa del pugnale di
cristallo, intorno al quale per la tensione le sue dita si sono quasi
rattrappite. Superata la soglia, resta per un istante immobile, mentre
la sua mente cerca di assimilare la vista che le si presenta. Olimpia,
la sua Olimpia, è distesa ai piedi dell'altare centrale, il
corpo abbandonato e gli occhi spalancati in una fissità che rammenta
troppo da vicino quella della morte. Con
un urlo soffocato, dimentica di ogni altra cosa,
Xena si getta verso la compagna e le si inginocchia accanto,
lasciando cadere inavvertitamente l'arma che fino a quel momento stringeva
convulsamente, senza neanche registrare il tintinnio dell'oggetto
che rotola sul pavimento fino alla parete più lontana. Abbracciando
il corpo della ragazza, Xena lo solleva cautamente fino a poggiarne
la testa sulla sua spalla, e le sue dita immediatamente corrono alla
vena sul collo. Una debole ma perfettamente percepibile pulsazione
sotto i polpastrelli, dissipa in parte il panico opprimente che le
spezza il respiro, ma dagli occhi immobili e senza espressione di
Olimpia non giunge alcun segnale di riconoscimento. "Olimpia! Olimpia!
Tesoro! Che hai? Che ti è successo?" La risata, che riecheggiando
sulle ampie pareti della stanza rimbomba alle sue spalle, la fa voltare
di scatto. Sulla soglia adesso c'è
un'alta figura di donna dai lunghi capelli scuri e scarmigliati e
con occhi altrettanto scuri da cui sembrano sprizzare le fiamme stesse
dell'averno. "Per tutti gli Dei
dell'Olimpo, Xena, o almeno per quei pochi, miserabili superstiti
rimasti in vita. Se la Xena che ricordo io, potesse vederti ora, ti
sputerebbe in faccia tutto il suo disprezzo." Un gelido manto sembra
scendere sullo sguardo della Principessa Guerriera, mentre fissa la
sua vecchia nemica. "Antinea. Che cosa
le hai fatto?" Stringendo al petto la
testa della sua compagna, solo in quel momento, Xena si rende conto
di aver perso il pugnale e il suo sguardo dardeggia per la stanza
intorno a lei. "Ma
guardati. Sei pietosa." La strega percorre il perimetro della
camera con passo strascicato portandosi accanto all'altare a non più
di dieci passi di distanza. "La Principessa Guerriera. La Distruttrice
di Nazioni. Non sei altro che un piagnucolante fagotto di rimorsi
e sensi di colpa. Per di più schiava d'amore di quella patetica parodia
di amazzone. Ma che ti ha fatto la tua puttanella per ridurti così,
eh?" Un'altra risata roca. "Oh, sì, scusa, dimenticavo che
avete... come dire... regolarizzato la vostra relazione. Ora
è la tua sposa. Molto commovente. Dimmi, Xena, come dovrei considerarla
adesso? La tua mogliettina... o il tuo maritino?" Ma Xena ode solo in superficie
le parole di Antinea. Il suo pensiero ruota esclusivamente intorno
al pugnale che ancora non riesce ad individuare e al peso morto del
corpo di Olimpia tra le sue braccia. Poi, improvvisamente un baluginìo
in fondo alla parete alle spalle della maga colpisce i suoi occhi.
Xena alza immediatamente lo sguardo su Antinea nel timore che se ne
sia accorta. Ma la strega sembra troppo occupata a godere della sua
vittoria per notare altro. "Beh, dopotutto non
ha più molta importanza." prosegue questa. "Visto che non
la vedrai mai più." E per la prima volta da
quando ha fatto il suo ingresso nel tempio, l'attenzione di Xena si
appunta interamente su di lei. "Che intendi dire?" "Dopotutto ti devo
dei ringraziamenti, Xena." E le labbra della maga si distendono
in un sorriso feroce. "L'ultima volta che mi hai... spedita
fuori da questo mondo, mi hai permesso di entrare in contatto
con entità, che mi hanno fatto comprendere finalmente le mie reali
potenzialità. Adesso sono molto più potente di quanto sia mai stata
prima, ma soprattutto mi sento molto più... creativa."
Tutta compresa nel suo
discorso, Antinea si sposta leggermente a destra, allontanandosi un
po' dall'altare. Ora Xena può chiaramente scorgere il pugnale di cristallo
che luccica al suolo a non più di una ventina di passi da lei. Con
cautela, depone sul gradino ai piedi dell'altare, il corpo di Olimpia
e la sua mano impercettibilmente si avvicina al chakram appeso
al fianco. "Da quando ti ho
incontrata per la prima volta, ho avuto un unico desiderio."
continua Antinea. "Un desiderio soltanto. Averti... accanto a
me nella conquista del mondo. Insieme saremmo state invincibili. Ma
tu... con queste tue ridicole smanie di redenzione e... per amore
di quella stupidella, hai rovinato tutto. Bene, so riconoscere una
sconfitta. Hai vinto, Xena. Non parteciperai alla spartizione delle
mie conquiste. Ormai con te ho chiuso. Non ho più bisogno di te. Per
questo, ti cancellerò per sempre dalla mia esistenza. Potrei semplicemente
distruggerti con un gesto della mano, ma non sarebbe una vendetta
abbastanza poetica. Oh, no. Ho in serbo molto di meglio. Manderò la
tua adorata Olimpia così lontana che non potrai mai più ritrovarla.
Cancellerò dalla sua mente ogni ricordo di te. Vagherai per l'eternità
alla ricerca vana del tuo amore perduto. Che ne dici, Xena? Ti avevo
detto che sono diventata creativa." Le ultime parole della
maga riecheggiano ancora sotto la volta della grande stanza, quando
un lampo scaturisce dalle sue mani e un gigantesco buco nero si apre
d'un tratto sotto il corpo privo di conoscenza di Olimpia, inghiottendolo
nel buio. "OLIMPIAAA!!!" La guerriera si getta
in avanti cercando in un disperato tentativo di afferrare la compagna,
ma le sue dita stringono il nulla e le sue stesse braccia sembrano
scomparire in una tenebra risucchiante a cui si sottrae istintivamente
con uno sforzo, ricadendo sulla schiena. Incredula, Xena contempla
lo spazio vuoto in cui solo pochi attimi prima giaceva la ragazza
e in cui vibra ancora un cerchio scuro che si sta riducendo a vista
d'occhio. Ma la sua mente reagisce alla velocità della luce e con
un urlo che le esplode in gola improvviso, la mano di Xena scatta
e il chakram sibila fulmineo verso la maga, mancandola di non
più di un dito e andando a conficcarsi nella parete dietro di lei.
Sorpresa, Antinea si volta e in quel momento con un balzo, la Principessa
Guerriera è oltre lei e in un'unica mossa afferra il pugnale e glielo
conficca nel petto. Questa volta è il turno di Antinea di fissare
lo sguardo incredulo sulla sua nemica. "Bentornata dal mondo
dei sogni." dice la voce gelida di Xena. "Questo pugnale
è forgiato dalla pietra di Cronos e annienterà per sempre te e ogni
tuo potere." Un vortice appare improvvisamente
alle spalle della maga, e il suo urlo ha il tempo di risuonare una
sola volta tra le pareti del tempio, prima di spezzarsi di colpo,
mentre il suo corpo ne viene risucchiato all'interno, scomparendo
in un attimo nel nulla. Ma Xena già non se ne cura più, e rimane per
qualche attimo immobile, a fissare il cerchio oscuro che sembra ancora
vibrare a livello del pavimento, ma il cui diametro adesso è ridotto
alle dimensioni di un braccio. Poi con un'improvvisa decisione afferra
il chakram ancora conficcato
nella parete, staccandolo d'un colpo. "Arrivo, Olimpia."
mormora e, con la sua arma stretta in pugno, si lancia nel buco nero
che si richiude un attimo dopo su di lei, lasciando la stanza nel
silenzio. Poi... Come aveva potuto dimenticare?
Come poteva anche il sortilegio più potente farle dimenticare una
cosa simile? Nelle giornate che erano trascorse dal loro ritorno,
la sua mente aveva scavato con pazienza, cercando ogni isolato barlume
di ricordo, finché la sua memoria era stata in grado di ricostruire
la maggior parte di quel passato che d'un tratto per lei acquistava
il sapore di un presente che si dipanava davanti ai suoi occhi facendole
rivivere con estrema chiarezza quei momenti di inesprimibile gioia. Il sole lentamente
sta portando a compimento il suo viaggio verso occidente. La luce
acquista la tonalità dorata che precede il tramonto. Xena sta salendo
la pedana contemporaneamente a lei ma dalla parte opposta e insieme
la percorrono fino a fermarsi di fronte l'una all'altra. La guerriera
è una visione da mozzare il fiato. La sua armatura, lucidata fin al
più piccolo dettaglio manda scintillìi ai raggi di quell'ultimo sole.
La pelle sui muscoli tesi luccica di quegli stessi unguenti profumati
che sono stati spalmati anche su di lei. I capelli sciolti lungo le
spalle sembrano un manto della più pregiata seta ed emananano una
luminosità che può sembrare impossibile su chiome così scure. Lei
teme che i suoi occhi non siano capaci di contenere in un solo sguardo
tanta abbagliante bellezza e concentra la sua attenzione sul volto
della sua compagna. Sulla sua espressione tranquilla e sul caldo sorriso
che legge negli occhi azzurri incollati nei suoi. La mano di Xena
si tende verso il suo viso e le sue dita passano lievemente tra i
suoi capelli biondi ancora corti e tuttavia lunghi abbastanza da poter
essere acconciati in tante piccole treccioline. A quel contatto, lei
sente un nodo formarlesi in gola, riuscendo appena a mascherarlo dietro
un sorriso. Adelia, negli abiti
da sacerdotessa, sale a sua volta sulla piattaforma con accanto due
amazzoni armate di lancia che giunte al centro si separano per porsi
ai fianchi di lei e di Xena. Poi Adelia prende le loro mani e comincia
a parlare rivolta alle altre amazzoni che assistono in gruppo ai piedi
della pedana. "Popolo
delle Amazzoni, come nella nostra tradizione siamo qui riunite per
testimoniare dell'unione di una nostra
sorella con la persona con la quale ha scelto di condividere la sua
vita, e unenedosi ad essa, renderla parte della Nazione
Amazzone." Il tono austero della
cerimonia non riesce a toglierle quel sorriso che pare esserlesi incancellabilmente
scolpito sul viso e che si riflette in quello sereno di Xena, i cui
occhi non hanno lasciato i suoi neanche per un attimo, mentre la voce
della sacerdotessa prosegue solenne. "Nella
nostra usanza, le due destinate ad unirsi dovranno superare un'ordalia,
una prova del dolore, perché conoscano il prezzo della loro unione." Un sordo rullo di tamburi
inizia in sottofondo. "Superare
il dolore e condividere sangue spillato. Questo è ciò che è richiesto
per sigillare il legame tra voi." Il rullo di tamburi
si fa più forte, mentre alcune amazzoni cominciano ad alzare un canto.
Lei emette un gran sospiro e fissa ancor più fortemente gli occhi
in quelli della compagna per trovare conforto nel suo sorriso sereno. "Di costume
dovremmo utilizzare il Sacro Pugnale, reliquia del nostro popolo.
Ma, dato che la vita di Xena si è intrecciata per lungo tempo con
quella delle Amazzoni, credo che sia giusto che questa cerimonia venga
sugellata con una lama che è parte
di lei." I tamburi ed il canto
si sono fermati. Tutti gli sguardi convergono su Xena, mentre lei
fa un passo avanti. Lo sguardo della guerriera ora è perplesso, incerta
su quello che lei abbia in mente. Fa per muovere la mano verso la
spada legata sulla schiena, ma lei l'arresta nel movimento. Quindi
prende il chakram che pende come sempre dal fianco della compagna
e con una leggera torsione del polso lo separa nelle sue due metà,
tendendone una a Xena e tenendo l'altra per sé. "Siamo
pronte." dice. "Prosegui." La sacerdotessa annuisce.
"Così sia." Il canto e i tamburi
riprendono. Lei e Xena sono di nuovo immobili l'una di fronte all'altra. "E' facile sopportare
il dolore che provochiamo a noi stessi." proclama Adelia. "Più
duro è provocarlo alla persona che amiamo. Questa è la prova richiesta.
Dovrete versare l'una il sangue dell'altra." Le amazzoni si sono
avvicinate e il rullo è divenuto più forte e più veloce. Ora quasi
tutte stanno cantando. Lei afferra saldamente
la sua metà del chakram, mentre porge l'altra mano a Xena. I loro
occhi non si lasciano. "Avanti."
dice ad alta voce. "Niente punti di pressione." aggiunge
poi, sussurrando, in modo che solo la sua compagna possa udirla. Vuole
vivere quell'esperienza fino in fondo. Lo sguardo di Xena
scintilla per un momento, poi continuando a fissarla, la guerriera
le prende la mano e spinge la lama arrotondata, aprendole un profondo
taglio al centro del palmo. Lei non sussulta nemmeno. I tamburi sono sempre
più forti, mentre Xena le tende la propria mano. "Tocca
a te." Lei tiene la mano di
Xena nella sua e posiziona la lama del chakram, esitando solo un istante
prima di affondarla nel palmo della compagna. Il sangue sgorga ora
da entrambe le mani. I tamburi sono assordanti. La folla di amazzoni
si è compattata intorno alla piattaforma, sembrando assai più nutrita
della scarsa quarantina rimasta. Lei solleva la mano
e afferra quella di Xena affinché i loro palmi si premano l'uno contro
l'altro, mescolando il loro sangue, mentre con l'altra riaccostano
le due metà del chakram finché sono di nuovo uno. Le amazzoni, continuando
a cantare, cominciano a danzare intorno a loro, circondandole, ma
lei e Xena non hanno occhi che l'una per l'altra. Si avvicinano ancora
di più e poi si immobilizzano, occhi negli occhi, mentre il mondo
intorno perde consistenza e la voce di Adelia sembra giungere da immense
distanze. "E così
due diventano una e il sangue di una straniera si unisce a quello
della Nazione Amazzone. Xena, che tu sia la benvenuta." La guerriera china
il viso verso quello della sua compagna, ora sua consorte, e le loro
labbra si fondono in un bacio profondo e dolcissimo, mentre dalle
loro mani ancora strettamente legate, il sangue continua a cadere. Il
movimento tra il fogliame scuote Olimpia dal suo sogno ad occhi aperti
e la ragazza volta velocemente la testa verso l'origine del rumore.
Un largo sorriso si distende sul suo volto quando scorge la familiare
figura che emerge dai cespugli. "Ehi. Trovato qualcosa?"
chiede. Con un lieve inarcarsi
di ciglia, Xena alza un braccio mostrando saldamente stretti nella
mano due conigli selvatici che pendono immobili per le lunghe orecchie. "Ne dubitavi?" Alla vista delle due prede
pronte per essere cucinate, il sorriso di Olimpia si allarga ulteriormente
e la ragazza si alza con un agile balzo dal giaciglio improvvisato. "Ravvivo il fuoco
e preparo lo spiedo." Xena posa i conigli a
terra e comincia a liberarsi della spada. "Vuoi dire che non
lo hai ancora fatto? Ti ringrazio per la fiducia." dice con un
sorrisetto. Olimpia nell'avvicinarsi
al piccolo fuoco accuratamente predisposto al centro del campo, le
lancia uno sguardo di rimprovero. "Lo sai che non è
così. E' che in questi ultimi giorni non faccio che pensare." Una leggera preoccupazione
tinge d'un tratto l'espressione di Xena. "Ma stai bene?" "Certo, sì, non è
niente." risponde Olimpia, mentre con mani esperte spezza e aggiunge
altri rametti alla fiamma che già si solleva più alta illuminando
la piccola radura circostante e riempiendo il suo viso e i suoi capelli
di riflessi arancioni. Poi la ragazza si ferma e si volta verso la
compagna che è occupata a scuoiare gli animali. "Solo, non riesco
a capire come sia possibile aver dimenticato tutto in quel modo. Xena,
ti rendi conto? Fino a pochi giorni fa non riuscivo a ricordare più
nulla di ciò che è accaduto dopo la tua..." Olimpia si blocca,
esitando sull'orlo di quella parola che non riesce a pronunciare.
"Insomma," prosegue
poi, riprendendo ad occuparsi del fuoco "non ricordavo più nulla
dell'Egitto, della battaglia con Lucifero..." Nuova esitazione.
"... del tuo ritorno e di tutto quello che ci è successo dopo,
compreso..." e qui i suoi occhi si riempiono di tenerezza mentre
il suo viso si tende in un sorriso fissando le fiamme che ora crepitano
allegramente "...il nostro matrimonio. C'era qualcosa... come
un muro... che mi impediva di rammentare quei momenti di felicità.
Mi restava addosso solo l'angoscia della tua perdita e il rimpianto
di non aver fatto tutto quello che potevo per impedirti di ... lasciarmi." Una lacrima scorre lungo
la guancia di Olimpia, acquistando riflessi iridescenti alla luce
adesso intensa che proviene dalla fiamma. "Non c'era nulla
che tu potessi fare, Olimpia. Era solo compito mio tornare da te,
capire che nel mio desiderio di redenzione, c'era forse più egoismo
di quanto ce ne fosse mai stato nella vita violenta che conducevo
prima di incontrarti." La mano di Xena le si
posa sulla spalla, mentre la guerriera lascia cadere accanto al fuoco
i due corpi sanguinolenti dei conigli pronti per lo spiedo. "E non so dirti come
sia possibile questo." dice, fissando i suoi occhi in quelli
della ragazza, voltati ora verso di lei. "Proprio come non so
dirti come sia possibile non avere idea di cosa ci sia successo tra
il momento in cui la maledizione di Antinea si è abbattuta su di noi
e il momento in cui ci siamo ritrovate in quella foresta." "Sai" dice Olimpia
con aria meditativa, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano
"a volte, mi pare di ricordare un volto, una voce, un nome forse,
ma non saprei dire se sono soltanto cose che mi immagino. E tu?"
chiede. "Può darsi. Qualcosa.
Ma non è che mi sia sforzata troppo." Poi, Xena prende il viso
di Olimpia tra le mani. "Dopotutto ciò che ricordo è tutto quello
che mi occorre sapere, e tutto quello che è davvero importante." Un sorriso complice passa
nei loro sguardi. "Davvero? Per esempio?"
chiede la ragazza con aria maliziosa. Xena senza parlare, avvicina
il viso a quello di lei e posa le proprie labbra sulle sue. Olimpia
risponde con trasporto al contatto. Il bacio si prolunga nel silenzio
circostante e quando le bocche, quasi con rammarico, si dividono,
gli occhi di Olimpia restano ancora per qualche attimo chiusi mentre
lei assapora ancora sulla bocca il sapore della compagna. "Oh, vedo."
dice, riaprendoli e lasciandoli incollati a quelli dell'altra, mentre
le sue braccia indugiano sui suoi fianchi e sulla sua schiena in una
carezza che non vorrebbe terminasse mai. Questa, ora se ne rendeva conto, era la cosa che
più le era mancata in quei mesi in cui Xena era morta e il suo spirito
soltanto camminava al suo fianco. Come aveva potuto pensare che potesse
bastarle? Non avvertire più quel calore quando la toccava o sentiva
le sue braccia avvolgerla. Non sentire più il battito di quel cuore,
quando la notte le dormiva accanto ed appoggiava la testa sul suo
petto e che le conciliava il sonno come nient'altro al mondo era in
grado di fare. Le dita di Xena percorrono
il profilo della compagna con delicatezza. "E ora basta, amore
mio." dice. "Basta rimorsi, rimpianti. Tutto ciò che conta,
adesso, siamo io e te, qui. Insieme." I loro sguardi restano
immersi ancora per qualche momento l'uno nell'altro, quando un sordo
brontolio spezza l'incantesimo. Olimpia sorride imbarazzata. "Ma a giudicare da
come borbotta il tuo stomaco" aggiunge Xena in tono ironico "direi
che anche quei due conigli pronti per essere arrostiti, hanno la loro
importanza." La risata delle due donne
risuona nel silenzio della notte. PRIMA PARTE: LA FORESTA (1) Jennifer Nella stanza debolmente
rischiarata dalle insegne luminose esterne, Jennifer Rowles si tira
lentamente su dal letto, avvolgendo il lenzuolo intorno al proprio
corpo. Lo sguardo spento, si passa una mano tra i capelli scuri, che
le ricadono lunghi sulle spalle, e a fatica spinge le gambe fuori,
mettendosi a sedere sul bordo e restando in quella posizione a fissare
il vuoto. Un improvviso calore lungo
la schiena, cinque dita morbide che scivolano lungo il suo collo finendo
in un braccio lungo e affusolato che le si avvolge intorno al torace,
ed un volto che si accosta al suo poggiandosi sulla sua spalla. Un
volto bello e incorniciato da una cascata di capelli biondi, due labbra
piene e sode che le depositano un leggero bacio sul collo. "Non so cosa cercassi
questa sera in me, ma ho come l'impressione che tu non l'abbia trovata."
le sussurra la donna all'orecchio. "Non è colpa tua."
La voce di Jennifer è bassa e roca, quasi senza vita. "Sono io.
Ti chiedo scusa. Evidentemente non sono il tipo adatto per questo
genere di cose." "Forse vuoi dire
che non sono io il tuo tipo." dice la donna, alzandosi e andando
verso la specchiera, incurante della sua nudità. "Perchè se invece
ti riferisci a quello che abbiamo appena fatto, ti assicuro che sei
perfettamente adatta, eccome." Mentre si spazzola i capelli,
la donna (Maledizione, se almeno riuscisse a ricordarne il nome!)
le lancia un'occhiata attraverso lo specchio, sorridendo. "No, anzi."
risponde Jennifer. "Tu sei quasi esattamente come volevo." Il suo sguardo, apparentemente
fisso sul viso che la guarda dallo specchio, è perso in realtà in
un'immagine che vi si sovrappone nella sua mente. "Hai il suo stesso
colore di capelli... di occhi. Perfino l'espressione del tuo viso
a tratti mi ricorda lei." "Ah." La donna
si volta verso Jennifer, continuando a spazzolarsi energicamente i
capelli. "Ecco il problema, allora. Ti ricordo la tua ex, eh?
Hai commesso un errore, tesoro." dice dirigendosi verso gli abiti
accuratamente posati su una sedia accanto al letto e cominciando ad
infilarsi la gonna. "Non bisogna mai ripercorrere il viale dei
ricordi. Devi darci un taglio deciso. Cercati una bruna con gli occhi
scuri, un tipo latino. Se vuoi potrei presentartene qualcuna io. Conosco
un paio di ragazze che farebbero al caso tuo." Jennifer la guarda con
amarezza, mentre le immagini della memoria svaniscono lentamente. "Lascia stare. Non
è il momento." "Ehi." La donna
finisce di rivestirsi, abbottonandosi la camicetta e, ancora a piedi
scalzi, si avvicina a Jennifer e le si siede accanto, posandole il
braccio intorno alle spalle. "Non devi lasciarti andare così.
Sei una persona deliziosa e una donna bellissima. Sai," aggiunge
con un sorriso "non vado con tutte quelle che incontro nei bar.
Non è giusto lasciarsi distruggere da una storia finita male. Dammi
retta. Domani sera, mettiti in tiro. Ti organizzo una seratina..." Ma la donna deve interrompersi,
perché Jennifer scoppia in un pianto dirotto, abbattendosi sul letto
e mordendo il lenzuolo nel tentativo di soffocare i singhiozzi. "Ehi, ehi, dài, non
fare così." La donna cerca di consolarla accarezzandole la testa.
"Chiunque sia quella stronza che ti ha ridotta in queste condizioni,
non ti meritava..." E fa per chinarsi su di
lei, quando il corpo riverso sul letto schizza all'improvviso all'indietro,
quasi facendola cadere a terra per la sorpresa. "ZITTAAA!!! STA'
ZITTA!! LEI E' MORTA!!!" urla con quanto fiato ha in gola
Jennifer afferrandole le braccia. La donna resta per qualche
secondo senza parole, fissando interdetta quegli occhi sgranati da
cui scendono lacrime copiose, quasi non accorgendosi di quelle dita
che la stringono con forza incredibile e di cui l'indomani si troverà
lividi bluastri come ricordo. "E' morta, capisci?"
dice adesso, quasi in un sussurro, Jennifer, allentando la presa e
riabbattendosi con la faccia sul cuscino, scossa dai singhiozzi, senza
neanche accorgersi dopo qualche istante del click soffocato
della porta che si richiude silenziosamente. E' passata circa un'ora,
quando finalmente Jennifer, ritrovata un po' di calma, si è decisa
ad alzarsi ed a prepararsi una tazza di caffè. La sua occasionale
compagna di una notte se ne è andata da chissà quanto. Lei non l'ha
neanche sentita uscire. Che
idiota che sei. I miei complimenti, Jennifer. Sei proprio una stupida.
Tirarti in casa una completa sconosciuta solo perchè... perchè...
oh, mio Dio! Con
un sospiro di esasperazione, afferra il bricco bollente e si versa
un'abbondante dose nella tazza. Quindi reggendola a due mani per riscaldarsi
al calore che ne emana, si dirige verso l'ampia poltrona accanto alla
finestra e si mette a sedere nella penombra del salotto, senza darsi
nemmeno la pena di accendere la lampada. Continua a ripensare a ciò
che è accaduto in quell'appartamento nelle ultime ore e non riesce
a crederci. Non può credere di avere davvero fatto... quello che ha
fatto. D'accordo, aveva bevuto forte. Forse anche più del solito.
Ma lasciarsi abbordare in un bar... Andiamo, non era da lei. Ma
non lo era davvero? Quanti gradini aveva già sceso nella scala della
dignità umana? Gli
ultimi mesi erano stati un lungo tunnel buio che lei aveva percorso
quasi inconsapevolmente in una specie di stato di perenne stordimento.
Dalla notte... da quella notte, tutto ciò che le era accaduto
intorno, le era parso nient'altro che un lungo, interminabile sogno
che appartenesse a qualcun altro. Di tanto in tanto, durante qualche
sprazzo di lucidità, il suo cervello le aveva lanciato segnali di
allarme sempre più preoccupati, ma questo non era servito ad impedire
che in rapida successione lei avesse cominciato a rivolgersi sempre
più spesso all'alcol, avesse dato le dimissioni dalla procura, tirando
un calcio a tutte le sue velleità di carriera, e infine avesse venduto
velocemente il suo vecchio appartamento, rimettendoci una barca di
quattrini, per trasferirsi in un buco ammobiliato, quasi alla periferia
della città e, a giudicare dallo spettacolo che offrivano le sue finestre
nei rari casi in cui le apriva, alla periferia della civiltà stessa. Ma
a lei non importava. A lei sembrava che più nulla fosse importante,
né il lavoro perso, né la carriera finita, e neanche la sua vita ridotta
ormai ad un cieco vagare tra la sua casa, il vicino supermercato,
quando il frigorifero urlava a squarciagola il suo desolante vuoto,
o l'ancor più vicino bar, dove saltuariamente, quando le serate diventavano
troppo oppressive e i ricordi troppo lancinanti, trovava un estremo
rifugio in mezzo al caotico andirivieni di personale e clienti. E
dove quella sera in particolare, il suo sguardo distratto era caduto
su una capigliatura bionda che scendeva liscia e morbida lungo una
schiena snella, avviluppata in una camicetta rossa di seta, e che
finiva quasi a toccare un sedere sodo che una corta gonna nera metteva
particolarmente in risalto. Si era trovata a rimirare quello spettacolo
quasi senza accorgersene, ipnotizzata dal colore di quei capelli,
un biondo grano che alla luce soffusa del locale appariva ancora più
morbido e seducente. Quella visione le aveva spalancato nella mente
immagini di un'altra capigliatura bionda, su una testa abbandonata
contro la sua spalla, capelli biondi che lei aveva accarezzato più
di una volta, avvertendone la morbidezza e la fresca fragranza... E d'un tratto, come in
risposta ad un ordine telepatico, attraverso una visione resa confusa
dalle lacrime che sentiva già radunarsi nei suoi occhi, aveva visto
la donna seduta su uno degli alti sgabelli accanto al bancone, voltarsi
e il suo sguardo puntare su di lei. Per un attimo, Jennifer
aveva avuto la sensazione netta che il mondo avesse cominciato a ruotarle
paurosamente intorno. Sensazione che adesso riteneva non disgiunta
dai tre whisky lisci che si era fatta. Ma in quel momento questa considerazione
così logica non l'aveva neanche sfiorata. L'unica cosa a cui riusciva
a pensare era che quelli che la stavano guardando erano gli occhi
di Joyce. Occhi dello stesso colore
azzurro cielo che aveva fissato per l'ultima volta sei mesi prima,
in quella notte maledetta di caos e di morte, tra le grida dei poliziotti
che cercavano di catturare Xena e le proprie urla mentre stringeva
disperata tra le braccia il suo corpo e cercava vanamente un ultimo
palpito di vita in quel viso immobile, sotto lo sguardo addolorato
di Sutherland. Jennifer era rimasta come
paralizzata per un lungo istante, mentre i suoi occhi sembravano incollati
a quelli della donna bionda, poi questa aveva sorriso e l'incantesimo
si era rotto. Era un bel sorriso, accompagnato da un'occhiata apprezzativa
nei suoi confronti, ma neanche per un attimo avrebbe potuto passare
per quello di Joyce. Tuttavia, quando la donna le si era avvicinata
e si era seduta al suo tavolo, qualcosa dentro di lei le aveva impedito
di elevare immediatamente il muro che la proteggeva costantemente,
e si era ritrovata a parlare con la sconosciuta. Era vero, vista da vicino
la donna non assomigliava affatto a Joyce, ma se isolava la sua attenzione
sugli occhi o sui capelli o sulle espressioni che prendeva il suo
viso quando rideva... forse... La donna le aveva detto
di chiamarsi... Rita... ecco, ora le sembrava di ricordare... o era
Lisa? Comunque non aveva aggiunto il cognome, né Jennifer aveva minimamente
pensato a chiederglielo. Rispondeva meccanicamente e a monosillabi
alle sue domande, senza mai perdere il contatto con quegli occhi per
mantenere il più possibile quell'illusione, mentre la donna le diceva
cose di cui non aveva conservato il minimo ricordo. Poi, sempre come
in un sogno, si era alzata subito imitata dall'altra, che non aveva
smesso un istante di sorridere durante il loro breve colloquio, e
insieme le due donne erano uscite dal locale. Del breve tragitto che
le separava dal suo appartamento aveva ricordi anche più confusi.
Rammentava vagamente di aver camminato al braccio di Rita o Lisa,
di aver salito i pochi gradini davanti all'ingresso e poi il rumore
della porta di casa che sbatteva dietro di loro. Ma, invece, ricordava
con estrema chiarezza l'amplesso che immediatamente dopo le aveva
travolte, anche se adesso stava cercando di non pensarci, di rimuovere
quei momenti di sconvolgente passione dalla sua memoria, con grande
imbarazzo e anche con un profondo senso di colpa. Perché la donna che aveva
tenuto tra le braccia quella sera, a cui aveva fatto e da cui si era
fatta fare cose di cui non si sarebbe mai pensata capace, nella sua
immaginazione era stata Joyce. Erano sue le labbra
che aveva baciato, sua la lingua che aveva sentito affannosamente
inseguire la propria, suoi i seni che aveva leccato, succhiato,
morso, e suoi gli umori caldi, amari e dolcissimi ad un tempo
che le avevano invaso la bocca e il respiro. Era venuta un numero
impressionante di volte ed ogni orgasmo le aveva fatto toccare nuove
vette di piacere inesplorate, finchè l'ultimo l'aveva lasciata svuotata
di ogni energia, con gli occhi spalancati a guardare il soffitto.
E così era rimasta per
un tempo che le era parso lunghissimo, avvertendo appena accanto a
sé il respiro regolare della sua occasionale amante, caduta spossata
in un sonno profondo ed evidentemente soddisfatto. Sul soffitto danzavano
le luci riflesse dei fari delle macchine che passavano sotto la finestra
e mentre Jennifer ne seguiva l'effetto ipnotico che lentamente la
conduceva a sua volta verso
il sonno, l'immagine del volto di Joyce che aveva mantenuto nella
sua mente fino a quel momento aveva cominciato a sbiadire. "Joyce, perdonami."
Aveva fatto appena in tempo a mormorare un attimo prima di essere
sommersa dalle tenebre di un momentaneo oblio. Perchè?
Se
lo chiede adesso, mentre sorseggia le ultime gocce di caffè in fondo
alla tazza. Perchè
le ho chiesto di perdonarmi? Pensava
forse di aver infangato la memoria di Joyce, rendendola protagonista
nella sua immaginazione di un rapporto sessuale con lei? O più semplicemente
riteneva di averla tradita, andando a letto con un'altra? Smettila! Non essere assurda. Dopotutto
aveva semplicemente lasciato che quell'impulso improvviso da cui si
era sentita travolgere la trascinasse fino in fondo, al cuore stesso
del suo desiderio inappagato e ormai non più raggiungibile. Si
era innamorata di Joyce dal primo momento in cui l'aveva vista, là
in quel letto di quell'anonima stanzetta d'ospedale, col suo sorriso
timido che le faceva accellerare i battiti e quegli occhi in cui si
leggeva la silenziosa disperazione di un'anima alla ricerca di qualcosa
che neanche lei stessa sapeva identificare. Solo che non l'aveva capito.
Forse non aveva voluto capirlo. Il suo cervello intriso di razionalità
e devozione al lavoro le aveva impedito di riconoscere che ciò che
provava per quella ragazza era amore. L'aveva rivestito di dovere
professionale, di altruismo, di un inconscio desiderio di rimediare
al dramma della morte di sua sorella aiutando un'altra ragazza in
difficoltà, perfino di sincera amicizia, e aveva ignorato, aveva voluto
ignorare la vera origine di quell'inspiegabile attrazione, e quando
finalmente se ne era resa conto, era troppo tardi. Il suo fragile
mondo di raziocinio e sicurezze fasulle si era letteralmente sciolto
a contatto con quello di Joyce. Quando la ragazza aveva recuperato
la sua vera identità, lei aveva capito di aver perso ogni possibilità
e di doversi rassegnare al suo ruolo di spettatrice in una storia
tanto grande da sfidare i limiti della mente umana. Aveva ingoiato
il suo dolore e si era adoperata per quanto le era possibile affinchè,
con l'assistenza del professor Sutherland, quella vicenda incredibile
trovasse il suo giusto epilogo. Ma non era andata così. Il
finale di quella storia era stato tutt'altro che giusto, e lei si
era trovata ad abbracciare un cadavere, un corpo che avrebbe voluto
stringere a sé in ben altre circostanze, caldo e morbido, mentre invece
si stava rapidamente raffreddando nella rigidità della morte. Ed era
tutta colpa sua. Ora lo capiva. Lo vedeva chiaramente. Il destino
le aveva offerto una possibilità, quella di salvare una vita umana
e al tempo stesso trovare uno scopo nella sua vita e lei se la era
lasciata sfuggire. Avrebbe dovuto infischiarsene del suo lavoro, infischiarsene
del professor Sutherland e di tutti i suoi discorsi deliranti e seguire
solo il suo istinto. Prendere Joyce e portarla via con sé. Se ne sarebbero
andate insieme da qualche parte, lontanissimo. Dove mai nessuno di
questo mondo o di una qualsiasi altra dimensione avrebbe mai potuto
trovarle. Là le avrebbe fatto dimenticare il suo passato, quello recente
e quello più remoto. Ecco, questo avrebbe dovuto fare. Ora, Joyce
sarebbe stata viva e felice insieme a lei e Xena avrebbe dovuto aspettare
la prossima reincarnazione per ricongiungersi con la sua anima gemella.
Niente di grave. Aveva già aspettato tanto, che problema poteva costituire
qualche decennio in più? Era questo, vero? Era
questo che le bruciava. Per questo in quel momento subito prima di
addormentarsi, quando le barriere dell'inconscio sono più labili,
le aveva chiesto perdono. Perdono di non aver capito prima di amarla,
perdono di non aver saputo proteggerla dal suo destino. Aveva chiesto
a Joyce di perdonarla, perchè da sola non ne sarebbe mai stata capace.
Lei aveva saputo solo lasciarsi andare alla deriva in quei mesi. Dopo
il funerale, si era astratta da tutto, dal suo lavoro, dalle sue conoscenze,
dalla sua vita. In quello squallido appartamentino di periferia aveva
messo una croce su se stessa e aveva iniziato la lunga penitenza a
cui si era condannata. In quel periodo aveva
tagliato fuori tutto il mondo. Non aveva allacciato il telefono nel
nuovo appartamento e il suo cellulare giaceva chissà dove, abbandonato
probabilmente sul fondo di qualche valigia che ancora non aveva aperto.
Era certa che in quei giorni di sepoltura volontaria, qualcuno l'avesse
chiamata, magari il professor Sutherland, e sapeva che se l'avesse
riacceso, avrebbe trovato la segreteria piena di messaggi preoccupati
per la sua salute, ma non le importava. Non era ancora pronta a che
il mondo esterno tornasse ad insinuarsi in quel suo piccolo buco che
si era scavata come rifugio. Non avrebbe sopportato di risentire una
sola voce o rivedere un solo volto che potesse associare alla morte
di Joyce. Non quello di Sutherland, con tutte le sue chiacchiere di
reincarnazioni e anime gemelle da cui si era lasciata stupidamente
irretire, non quello di Carruthers, l'amico, il compagno di tante
inchieste che all'ultimo l'aveva vigliaccamente tradita, e tantomeno
quello freddo e controllato di quel miserabile opportunista di Ballister.
Quello in cui si era presentata nel suo ufficio per sbattergli in
faccia le sue dimissioni, era l'unico giorno che ricordasse con piacere.
Non che il procuratore gli fosse apparso particolarmente mortificato
o dispiaciuto di vederla andarsene (anzi, l'impressione era stata
nettamente opposta), tuttavia la possibilità di poter esprimere a
quel verme tutto il suo odio e il suo disprezzo, aveva rappresentato
in quel momento per lei uno sfogo sia pur parziale alla rabbia e alla
frustrazione che sentiva dentro. "Lei si rende conto,
vero, di quello che sta facendo?" le aveva chiesto Ballister,
fissandola con quel suo sguardo gelido e vuoto. In quel momento, Jennifer
si era chiesta come fosse possibile che avesse lavorato con quell'uomo
per oltre due anni. Ora che lo guardava attentamente, si rendeva conto
che aveva visto sguardi più profondi e comunicativi sui banconi dei
pescivendoli al mercato. Come poteva aver stimato e rispettato quell'essere
ignobile che non aveva esitato, per i suoi meschini giochi politici,
a causare la tragedia che aveva distrutto due vite e annientato la
sua, e ora se ne stava lì, comodamente a sedere alla sua scrivania,
a fissarla con fredda indifferenza, pronunciando frasi di apparente
dissuasione che però l'espressione sul suo volto smentiva chiaramente? "Ci ho pensato a
fondo." aveva detto lei altrettanto gelidamente. "Non posso
continuare a lavorare per una persona che mi ha usata senza scrupoli
e che ritengo responsabile della morte di una mia amica." "Stia attenta a come
parla, Jennifer." l'aveva ammonita lui, alzandosi di scatto e
mostrando finalmente una parvenza di spontaneita nel suo atteggiamento
così sempre attentamente studiato. "Io rispetto il suo stato
d'animo e il suo dolore, ma questo non l'autorizza a sparare accuse
del genere." I loro occhi erano rimasti
fermi gli uni negli altri per alcuni secondi, ma Jennifer non aveva
abbassato i suoi di un solo millimetro ed alla fine era stato Ballister
a dover distogliere lo sguardo, dirigendosi all'ampia finestra del
suo ufficio, guardando fuori verso i grandi alberi del parco che si
potevano ammirare dalla sua posizione. "Inoltre mi permetta
di dirle che non capisco. Gettare alle ortiche una promettente carriera,
per cosa?" aveva sbottato, voltandosi di nuovo verso di lei.
"Per la morte di una ragazza che lei neanche conosceva, prima
che questa disgraziata faccenda iniziasse?" "Se non capisce da
solo, procuratore" aveva risposto lei, omettendo enfaticamente
il signore con cui si era sempre indirizzata a lui "non
ci sono speranze che possa farglielo capire io. Forse è questa la
differenza fra me e lei." Poi gli aveva voltato
le spalle e si era diretta verso l'uscita. "Riceverà le mie
dimissioni in giornata." aveva aggiunto senza più girarsi, chiudendo
la porta dietro di sé. Nel breve volgere di qualche
giorno aveva venduto il suo appartamento, che conteneva troppi ricordi
ed una stanza da cui nonostante le numerose mani di vernice, l'odore
del sangue non sembrava volersene andare, e si era trasferita nel
quartiere più lontano che fosse riuscita a trovare. Aveva anche pensato
di cambiare città, magari stabilendosi sulla costa occidentale, ma
poi per qualche ragione che neanche lei avrebbe saputo definire esattamente
aveva scartato l'ipotesi e optato per una zona periferica, e qui in
una palazzina di soli tre piani e senza portiere, si era chiusa nel
suo nuovo alloggio escludendo il resto del mondo, a misurarsi con
il proprio dolore. Era rimasta a letto per
tre notti e due giorni interi, con valigie e scatoloni pieni di roba
ancora da sistemare negli armadi e sugli scaffali, dando finalmente
fondo a tutte le emozioni e le sensazioni represse che altrimenti
minacciavano di rompere ogni argine facendola precipitare in chissà
quale abisso da cui difficilmente avrebbe potuto risalire. Aveva cercato
di entrare in contatto col suo io più profondo per sondarne
gli aspetti più nascosti, per capire quanto di questa nuova Jennifer,
che il suo sentimento per Joyce aveva rivelato, fosse disposta ad
accettare. Aveva pianto ogni lacrima che ancora le fosse rimasta e
all'alba del terzo giorno si era soffiata il naso un'ennesima volta,
appallottolando l'ultimo fazzolettino di carta e gettandolo nell'angolo
in cui, da qualche parte sotto una montagna di suoi fratelli, avrebbe
dovuto essere un cestino. Poi, si era alzata e con
passo lento si era trascinata fino al grande specchio alla parete.
L'immagine che questi le aveva rimandato, manteneva solo una vaga
somiglianza con quella che ricordava. I capelli lunghi e spettinati,
il viso pallido e privo di qualsiasi traccia di trucco, con due occhiaie
scure e profonde sotto palpebre arrossate dal pianto, il naso ridotto
ad un gonfio tumulo quasi violaceo dal continuo sfregare. Quindi,
senza un commento, si era chinata e aveva cominciato ad aprire uno
scatolone e a tirarne fuori il contenuto. Prima di sera, la maggior
parte del bagaglio era svuotata, abiti, molti libri e ogni altro effetto
avevano trovato una collocazione nella sua nuova casa. E la sua vita,
se ancora la si poteva definire così, una parvenza di normalità. Il denaro, che aveva accumulato
nel tempo grazie al suo tenore di vita moderato e ad alcuni giudiziosi
investimenti, le permetteva almeno di non doversi preoccupare delle
sue finanze e di poter rimandare, anche se non all'infinito, il momento
in cui avrebbe dovuto affrontare l'idea di cercarsi un nuovo impiego. I giorni si erano trascinati così, uno dopo l'altro. Il dolore
per la morte di Joyce non era scomparso ma si era almeno ridotto ad
una sorda fitta in fondo al cuore, pronto tuttavia a risorgere in
un qualunque momento, quando si fosse trovata a rievocare nella sua
mente anche solo per un attimo quel volto e quel sorriso, che aveva
potuto vedere poco, troppo poco. Come quella sera... Jennifer posa sul tavolo
vicino la tazza che teneva tra le mani da qualche minuto ormai vuota
e lancia un'occhiata distratta all'orologio digitale poggiato sugli
scaffali di una libreria semivuota (molti altri suoi libri sono nell'armadio
a muro ancora da sballare) che segna le 2:30. Soltanto? Ricorda con
chiarezza che quando è entrata nel bar erano da poco passate le nove.
La sua avventura nella trasgressione si riduceva davvero a questo?
Poche ore di sesso a denti stretti ed occhi chiusi, aggrappata ad
un sogno? Con un sospiro, appoggia
la testa all'alto schienale della poltrona, e ancora una volta quelle
parole (Perdonami,
Joyce) le
si disegnano nella mente, ma questa volta non si sofferma a pensare
sul perché le si siano ripresentate, mentre si sente nuovamente scivolare
tra le braccia di Morfeo. "Servizio di segreteria
telefonica. Il numero richiesto non è al momento raggiungibile. Lasciare
un messaggio dopo il segnale acustico." La
voce elettronica, fredda ed impersonale tace per qualche secondo,
per poi lasciare il posto al bip, cui segue il silenzio del
meccanismo di registrazione che attende le parole da incidere. Brian Croft attende a
sua volta, con la cornetta in mano, incerto se lasciare l'ennesimo
messaggio o riattaccare, poi si decide. "Dottoressa Rowles,
sono ancora Brian Croft dell'Inside View. La prego, mi richiami.
Ho bisogno di parlare con lei. Non è un'intervista, glielo giuro.
Il giornale non c'entra niente. E' una questione personale. Può trovarmi
a qualunque ora al numero che le ho lasciato." Con un sospiro di rassegnazione,
l'uomo riattacca il telefono. Ha perso il conto di quante telefonate
abbia già fatto in quegli ultimi giorni, sempre senza risultati. Il
cellulare della Rowles è continuamente staccato. A questo punto dubita
che l'oggetto delle sue ricerche abbia mai ascoltato uno solo dei
suoi messaggi. E la fama del giornale per cui lavora certamente non
aiuta in quel senso. Sempre fissando l'apparecchio
telefonico, si appoggia all'indietro contro l'ampio schienale della
poltrona girevole, passandosi distrattamente una mano sulla barba
ispida sulle guance e sul collo, mentre il suo sguardo si alza verso
la parete di fronte a lui, dove decine di articoli ritagliati fanno
mostra di sé, appesi con puntine e pezzi di nastro adesivo. Nonostante
l'ora notturna, o mattutina, comunque la si volesse giudicare, oltre
la porta erano udibili i rumori di una redazione attiva, in attesa
delle prime bozze di stampa della rivista che da lì a poche ore sarebbe
stata distribuita in tutte le edicole della città e poi di tutta la
nazione. Brian si alza e si avvicina
alla parete, fissando la sua attenzione su un ritaglio in particolare.
Sulla destra vi campeggia il volto di una bella donna sorridente e
dall'aria sicura, con i capelli scuri e gli occhi chiari, il cui azzurro,
che lui ricorda così bene, si perde però totalmente nell'uniforme
bianco e nero della foto. Accanto, un titolo a caratteri rosso sangue
invade parzialmente l'immagine stessa, sovrapponendovisi. La nostra collega trovata morta sulla soglia di casa, il corpo crivellato
di proiettili. La polizia si trincera dietro i "no comment". Cosa ci
nascondono? |
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