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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA
GUERRIERA" CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT E SVILUPPATA DA R.J.STEWART E SULLA SERIE INTERNET "XENA
WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON" DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E
TNOVAN
Nonostante
sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA, questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo
di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti
del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia,
il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni)
e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati,
ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda. Dei
due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è
collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica
l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..."
riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al
termine di quella storia. La
scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not
Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione
della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più
semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet
della serie televisiva, scritto da Melissa Good. (44) Croft "Ehi tu!
Che diavolo fai lì, immobile come un salame!? Fai sgombrare quella
gente! Qui non siamo in tv! Ericmann, dico a te!" L'agente Eddie
Ericmann ci mette qualche secondo a rendersi conto che il sergente
sta parlando con lui, e come risvegliatosi da uno stato ipnotico,
osserva il suo superiore tornare indietro verso il centro della scena,
dove illuminato a sprazzi dai lampeggianti delle autopattuglie, in
mezzo alle molte gambe dei detectives e dagli uomini del coroner,
è visibile un corpo sdraiato e solo parzialmente coperto da un grande
lenzuolo che qualcuno misericordiosamente gli ha steso sopra. Con uno sforzo,
Ericmann volta le spalle a quello spettacolo e si dirige verso il
capanello di persone che si è formato in fondo al vicolo e che commentano
a voce alta tra loro l'accaduto. "Forza,
gente, non c'è niente da vedere. Tornatevene a casa." "Tornaci
tu, bello. Io è la prima volta che vedo un morto ammazzato dal vero,
e non me lo perdo di certo." La risposta
è arrivata dal gruppetto più folto a ridosso dell'ingresso del vicolo
ed è subito sottolineata dalle risate sguaiate di quatto o cinque
giovincelli. Ingoiando il nervosismo, Ericmann afferra il manganello
che gli pende dalla cintura, e giudicando, che quella vista possa
essere abbastanza intimidatoria, comincia a spingere la gente indietro. "Forza,
allontanatevi. Non costringetemi a ripeterlo." Dal gruppetto
arriva un'altra salace battuta, coperta da una nuova salva di risate,
che impediscono al poliziotto di comprenderla, ma la linea che si
accalca ora lungo il marciapiede opposto alla scena del crimine, arretra
di qualche passo, e ritenendo di potersi accontentare, Ericmann si
limita a rimanere nella sua posizione, badando che il manganello sia
ben in vista nella sua mano. Lui è al suo
secondo morto invece. In realtà, sarebbero tre, ma il primo non contava,
dato che si trattava di un novantenne ritrovato nel suo appartamento,
defunto per infarto da una settimana, grazie alla segnalazione di
alcuni vicini che avevano cominciato a sentire strani odori passando
davanti alla sua porta. Neanche quello era stato un bellissimo spettacolo,
ma la morte naturale toglieva pathos alla cosa. Un omicidio
invece era tutta un'altra faccenda. Era per questo che si era arruolato
nella polizia. Un giorno sarebbe toccato a lui, starsene in mezzo
ai suoi colleghi detectives a fare domande e distribuire incarichi,
e qualcun altro avrebbe avuto invece il compito di tenere lontani
i curiosi. Il suo primo
omicidio era stato il risultato di una violenta lite coniugale. Il
marito aveva perso la testa e aveva colpito con tutta la sua forza
la moglie, mandandola a sbattere con la testa contro un pesante tavolo
con il ripiano di cristallo. Il cristallo era andato completamente
in frantumi e così la testa della poveretta. Quella volta era stato
proprio lui a stendere il lenzuolo sul cadavere. Lo aveva fatto, serrando
la bocca, aspettandosi che la vista di tutto quel sangue e materia
cerebrale sparsi sul pavimento gli provocassero qualche effetto sgradevole,
ma non era successo. Aveva solo notato come la testa sfondata dalla
parte della nuca della donna, somigliasse ad un melone spaccato esattamente
nel mezzo e vi aveva steso su il lenzuolo senza evidenti esitazioni.
Questo lo aveva definitivamente convinto di avere la stoffa per quel
mestiere. La cosa era piaciuta anche al sergente che, come era venuto
a sapere, non aveva mancato di riportarla al suo superiore notando
come il ragazzo, nonostante fosse lì da non più di due mesi
aveva già mostrato una notevole dose di sangue freddo. Stavolta però
era diverso. E lo si capiva anche dal modo in cui si agitavano i capi.
Quando al distretto era scattato l'allarme, si era parlato prima di
una rissa tra due vagabondi ubriachi finita male, poi di qualcuno
che avesse aggredito la vecchia Rose per derubarla (di cosa?) uccidendola
incidentalmente, e infine che fosse stata ammazzata da un cliente
che non voleva pagare. Ma nessuna delle tre gli pareva convincente.
La vecchia
Rose gli era simpatica. A volte gli capitava di passare da quel vicolo,
tornando a casa o in qualche giro di ronda e qualche volta le aveva
anche allungato una moneta o una bottiglia di birra. E lui era evidentemente
simpatico a lei, visto come lo guardava, ma... oh, no. No davvero.
La sola idea gli faceva attorcigliare le viscere. Però sapeva che
c'era chi ci andava e in un paio di occasioni aveva scorto la mendicante
far entrare nel suo tugurio il cliente di turno. Ma chi mai poteva
uccidere una povera vecchia inoffensiva come Rose per non pagarle
una prestazione con un paio di dollari o una bottiglia di pessimo
liquore? E allora? Un
maniaco, forse. Sì, certo, la cosa gli pareva molto più probabile.
Uno di quegli schizzati che si divertono a cospargere di benzina e
a dare fuoco ai barboni addormentati sulle panchine, che questa volta
se l'era presa con quella disgraziata, e magari dopo essersi fatto
fare un lavoretto, l'aveva sgozzata. E probabilmente anche i pezzi
grossi la pensavano così. Ecco la ragione di tutta quella agitazione.
Un maniaco in libertà nel proprio distretto non fa piacere a nessuno.
Ma chiunque fosse non sarebbe stato facile trovarlo, a meno che non
si fosse fatto prendere la mano dal suo vizio e ci fosse ricaduto.
Nei libri di criminologia che divorava, Ericmann aveva letto di molti
serial killers, ma pochi di loro erano stati individuati dalla
polizia in seguito ad un serrato lavoro investigativo. Per lo più,
la soluzione era arrivata per un errore commesso dall'assassino e
quasi sempre si era trattato di un omicidio di troppo. Certo che se
era come pensava lui, la percentuale di maniaci in città stava aumentando
in maniera preoccupante. Prima quella pazza con la spada che si credeva
Wonder Woman (anche se non ricordava che l'eroina dei fumetti
e della tv utilizzasse spade, ma solo il suo fedele lazo acchiappacattivi),
poi il rapitore di bambini, e adesso questo... "Ehi,
Eddie." Il richiamo
arriva improvviso e per un attimo, Ericmann resta perplesso sulla
direzione da cui gli sia giunto, poi tra il gruppo di persone che
negli ultimi minuti, attirate dalla calca e dalle luci, si è notevolmente
irrobustito, si fa largo una figura familiare. "Ciao,
Croft. Che ci fai qui?" Il giornalista
si sottrae a fatica all'assembramento di gente e si avvicina al poliziotto
con un sorriso. "Niente
di particolare. Sono uscito dall'ufficio per fare una passeggiatina
e prendere una boccata d'aria, ma sembra che sia inciampato in qualcosa.
Che è successo?" "Una passeggiatina?"
chiede Ericmann, fingendo di non aver sentito la domanda. "Il
tuo giornale è ad almeno venti isolati da qua. Un po' lunga come passeggiata,
no?" "Avevo
alcune cose su cui riflettere e devo aver perso un po' la cognizione
del tempo e delle distanze. Ma non mi hai risposto. Chi hanno fatto
fuori?" "E neanche
ti risponderò." Ericmann getta un'occhiata alle sue spalle per
assicurarsi che il sergente stia continuando a parlare con gli altri
ufficiali. "Se mi vedono parlarti, finisco all'ufficio scartoffie
per un mese." "Andiamo,
Eddie, siamo amici noi due, no? Facciamo così, quando stacchi?" Ericmann getta
un'altra occhiata nervosa dietro di sé. "Avrei
già dovuto farlo da almeno un paio d'ore. Immagino che quando avranno
portato via il cadavere, mi lasceranno libero." "D'accordo.
Allora io sarò ad aspettarti da Freddie. Ti ricordi dov'è,
vero?" "Non faccio
più la ronda, Croft, ma non ho dimenticato le strade della città." "Bene,
ci vediamo lì, allora. A più tardi." Il poliziotto
esita un momento, guardandosi ancora alle spalle. "Ascolta,
Croft, io non so..." comincia, girandosi di nuovo verso di lui,
o almeno verso il punto in cui era un attimo prima, perché senza neanche
dargli il tempo di rispondere, il giornalista è già scomparso tra
la folla. (45) Carruthers Il capitano
Carruthers dà l'ennesima occhiata all'orologio, in piedi sotto il
portone di casa, guardando nervosamente verso l'angolo della strada
da cui si aspetta di veder spuntare da un momento all'altro l'auto
che Price ha mandato a prenderlo. Una giornata come quella non poteva
avere altro epilogo. E pensare che quando era uscito dal distretto
quel pomeriggio aveva davvero pensato che qualche divinità mossa a
pietà verso di lui avesse deciso di dare una sterzata positiva alle
ore più deprimenti che stava vivendo da molti mesi a questa parte. Quando aveva
visto il nome di Jennifer apparire sul display del cellulare
gli era parso che un insperato raggio di sole fosse improvvisamente
apparso nella sua fosca giornata e le parole di lei avevano in parte
confermato quella sensazione. Ripensandoci, non si erano detti poi
cose particolari, ma a lui in quel momento erano parse fondamentali. "Senti,
George" gli aveva detto "volevo scusarmi per prima. Non
intendevo dirti quelle cose." "Non hai
nulla da scusarti." aveva risposto lui. "Capisco benissimo.
Non avrei dovuto..." "No, stammi
a sentire." l'aveva interrotto lei. "Se dobbiamo collaborare
a questa faccenda, è meglio se seppelliamo l'ascia di guerra." Allora non
aveva rigettato la sua proposta. Voleva ancora collaborare con lui.
Per un solo folle attimo, Carruthers aveva sentito la voglia di mettersi
a fischiettare. "Si, certo."
Aveva risposto invece, cercando di tenere sotto controllo quell'improvvisa
esuberanza. "E non
parliamo più di tutta quella... storia." "Giuro
che non ne farò più parola." "Bene."
aveva poi detto lei, dopo un lungo momento di silenzio. "Allora,
volevo dirti che per quanto riguarda la questione del..." altra
esitazione "...cannibalismo, rituale o no che sia, credo che
dovremmo avvalerci della consulenza di qualcuno." "Certo,
sicuro, chiunque tu voglia." Aveva subito acconsentito lui. "Hai
già in mente chi?" "Forse
sì, ma prima dovrò parlarne con la persona in questione. Volevo solo
sapere se avevi obiezioni." "Nessuna.
Assolutamente. Consulta chi vuoi." "D'accordo.
Allora, ti farò sapere. Ci sentiamo." Ci aveva messo
un buon mezzo minuto, prima di rendersi conto che Jennifer non era
più in linea. Era rimasto immobile con il cellulare stretto in pugno,
quasi incredulo. Dopo la scenata di quella mattina non avrebbe mai
osato sperare in una cosa simile, ma mentre lentamente tornava sulla
terra (Ma che diavolo mi sta succedendo?) e procedeva con lo
sguardo assente verso la sua auto, il mondo materiale aveva ripreso
possesso dei suoi pensieri, ricordandogli che qualche obiezione avrebbe
dovuto averla. Innanzitutto aveva trascurato di informare Jennifer
che il caso non era più suo, o almeno non dipendeva più solo da lui.
Beh, in realtà quella mattina era passato per dirgli proprio quello.
Anche se allora non ne era ancora sicuro, la vedeva come una prospettiva
più che probabile. Ma poi con quella sua scena patetica e la reazione
di lei non ci aveva neanche più pensato. E ora questa idea del consulente.
I consulenti si fanno pagare bene. E lui avrebbe già dovuto spiegare
ai suoi superiori l'ingaggio di Jennifer Rowles. Ma al diavolo!
Al momento era troppo contento per la telefonata inaspettata della
donna. Avrebbe detto di sì a qualunque sua richiesta. (No, davvero,
cosa mi succede?) Ai suoi capi e al procuratore avrebbe pensato
a tempo debito e chissà magari insieme al conto avrebbe potuto consegnargli
anche l'assassino. Con questo
pensiero in mente ed un sorriso inconsapevole sulla faccia, si era
messo al posto di guida e aveva girato la chiave dell'accensione,
scoprendo che se la sua giornata no si era presa qualche minuto
di pausa, l'intervallo era già terminato. Molto gentilmente
l'uomo del carroattrezzi l'aveva scaricato davanti a casa. Nessun
problema, gli aveva detto, tanto sono di strada. Così a
occhio non sapeva dirgli cosa potesse avere la sua vettura, ma il
giorno dopo avrebbe potuto passare dall'officina per la diagnosi e
il preventivo. Carruthers l'aveva guardato allontanarsi con la sua
fedele Ford, ed era stato in quel momento che aveva ricevuto
la seconda telefonata. E adesso, senza
neanche essere riuscito a mettere piede nel suo appartamento, è lì
ad aspettare l'auto della polizia che non arriva, ribollendo nell'attesa,
mentre il suo cervello almanacca le ipotesi, cercando di convincersi
che quello che è successo sia solo una coincidenza, un'assurda, anche
incredibile coincidenza, ma niente più di questo, altrimenti... Proprio in
quel momento, un bolide bianco e blu, con una sgommata poderosa, appare
all'angolo e in un attimo si arresta con gran stridere di freni davanti
a lui. "Mi spiace
per il ritardo, capitano." dice l'agente alla guida, aprendogli
contemporaneamente lo sportello della vettura. "Ma è l'ora di
punta e il sergente mi ha detto di non mettere la sirena." "Lascia
perdere le scuse." risponde bruscamente Carruthers, montando
a bordo. "Cerchiamo di muoverci, piuttosto, e prendi per la Broad.
E' un po' più lunga, ma non rischiamo di restare imbottigliati." E il rumore
della portiera sbattuta si fonde con lo stridìo dei pneumatici, mentre
l'auto riparte. Non mi ci abituerò
mai, pensa Carruthers, mentre guarda
il volto pallido e immobile nella morte della vecchia Rose. Il pallore
innaturale, alla luce dei rari lampioni e dei fari delle autopattuglie,
creano un contrasto disturbante con il rosso brunito del sangue sul
suolo, che circonda la testa della morta e sul cui punto d'origine,
il largo squarcio slabbrato sotto il mento, il poliziotto preferisce
non soffermarsi. La donna ha gli occhi spalancati e la rigidità cadaverica
le ha già cominciato a paralizzare i muscoli facciali, fissando la
bocca sdentata in una specie di ghigno, ma sul suo viso non vi è traccia
di paura o sorpresa. La morte cancella ogni emozione, checchè ne dicano
gli scrittori o i registi di cinema e tv. Con un sospiro,
il capitano si alza dalla sua posizione accosciata e si raddrizza
un po' a fatica. "Da quanto
è morta?" chiede al sergente Price, in piedi accanto a lui, senza
neanche guardarlo. "Da meno
di due ore. Il coroner non può essere più preciso per adesso.
Deve essere accaduto poco dopo il suo rilascio. E comunque non avevamo
alternative, senza una denuncia." Carruthers
non commenta le parole dell'altro. "Chi l'ha
trovata?" "Un commesso
di Sorrentino. Dice che era venuto a gettare della spazzatura
e l'ha vista distesa qui in un lago di sangue. Ci ha chiamati subito." Carruthers
getta un'occhiata agli alti contenitori della nettezza urbana che
circondano il piccolo spazio intorno all'abitazione della mendicante. "Sì, lo
so." dice subito il sergente, prevenendo la sua osservazione.
"Ho già controllato. L'apertura dei cassonetti è dall'altra parte
rispetto alla posizione del cadavere e non si può vedere nulla, a
meno che non si sia alti almeno due metri e mezzo." "Cosa
che non credo riguardi il nostro testimone, vero?" dice il capitano
con un lieve sorrisetto. "Direi
proprio di no. A malapena arriva al metro e sessanta." ribatte
Price con un altro sorriso a mezza bocca. "Comunque l'ho trattenuto.
Pensavo che volesse fargli qualche domanda." Carruthers
lo guarda. "Io non
coordino più le indagini, ne sei al corrente?" "L'ho
sentito dire, ma credo che la cosa non divenga esecutiva prima di
domani, e d'altronde" aggiunge il sergente, con un lampo d'ironia
negli occhi "questo che c'entra? Quella poveretta è stata sicuramente
ammazzata in una lite tra barboni per il possesso di una mezza bottiglia
o da qualche cliente che non voleva pagare." "Certamente."
risponde Carruthers, avviandosi al fianco del poliziotto più giovane,
verso l'auto di pattuglia sul cui sedile posteriore si poteva scorgere
un ometto intento a sorbire una bevanda calda, con lo sportello aperto
ed un agente accanto a lui. "Hai fatto
avvertire il procuratore?" chiede ancora il capitano. "Per cosa,
per la morte di una mendicante? E poi credo che sia a quella cena
di beneficenza del Lion's. Era su tutti i giornali stamattina." "Molto
giusto." dice Carruthers, gettandogli un'occhiata in tralice.
"Sai che non farai mai carriera, vero?" "Non sono
ambizioso." risponde Price, con lo sguardo fisso davanti a sé. "Meglio
per te." "Si chiama..."
avvicinandosi alla macchina con l'uomo seduto dietro, il sergente
tira fuori il taccuino e gli dà una rapida scorsa. "...Rajid
Bashti, quarantadue anni, di origine siriana, naturalizzato americano.
Ha moglie e tre figli, vive qui da dieci anni e da due lavora da Sorrentino." "Ok."
dice Carruthers. "Sentiamo cos'ha da raccontarci." L'uomo vedendoli
arrivare si alza con ancora il bicchiere di plastica fumante in mano. "Sergente"
chiede "quanto ancora devo restare? Mia moglie sarà preoccupata." "Ci sbrighiamo
subito, signor... Bashti, vero?" Carruthers gli si rivolge con
un sorriso cordiale, invitandolo con la mano a risedersi nell'auto,
mentre lui vi entra a sua volta, montando dalla parte opposta, e Price
si posiziona sulla portiera, appoggiandosi in piedi allo sportello
e congedando con uno sguardo il poliziotto di guardia. Bloccato tra
i due uomini, il testimone li guarda alternativamente con atteggiamento
sempre più irrequieto. "Allora"
esordisce Carruthers, sempre con un largo sorriso rassicurante sulle
labbra "mi racconti esattamente come è andata, e potrà tornarsene
dalla sua famiglia." "Ma io
ho già raccontato tutto al sergente e all'altro poliziotto, prima
di lui." Bashti si esprimeva in un buon inglese, anche se un
po' faticoso, dovuto probabilmente al fatto che sceglieva accuratamente
le parole prima di pronunciarle. "Sì, ma
al capitano piace interrogare i testimoni di prima mano." dice
Price, chinandosi verso l'interno della vettura. "Gli ripeta
quello che ha detto a me." Continuando
a guardare i due uomini con aria preoccupata, Bashti dà una sorsata
al caffè che tiene in mano, e poi si decide. "Come
ho già detto" comincia, sottolineando il già con particolare
enfasi "stavo smontando dal lavoro e ne ho approfittato per portare
il sacco dei rifiuti sul retro, come faccio quasi sempre, e quando
sono arrivato lì, ho visto la donna morta e allora sono corso a chiamarvi." "Mmh."
mormora Carruthers, pensoso. "Lei conosceva la vittima, signor
Bashti?" "Oh, io...
no, voglio dire sì, ma solo di vista." "La vedeva
spesso?" "Beh...
sa com'è, abitava, cioè viveva proprio dietro il supermercato..." "E quindi,
quando lei usciva dal lavoro..." "Beh,
qualche volta, la vedevo..." "Certo.
Lei quanto è alto, signor Bashti?" L'improvvisa
e inattesa domanda lascia per un attimo interdetto l'uomo. "Mi...
mi scusi?" "Non importa.
Potrebbe venire un attimo con noi?" Sempre più
confuso, Bashti, gli occhi spalancati come due fanali, ora muove continuamente
la testa dall'uno all'altro dei suoi interlocutori, tanto da somigliare
a uno di quei pupazzi caricati a batterie. "Ma...
ma, io non capisco..." dice, quasi in lacrime e con il labbro
che gli trema incontrollabilmente. "Io non fatto nulla."
L'emotività cominciava ad avere ragione anche del suo inglese così
attentamente controllato. "Non ha
nulla da temere, signor Bashti." gli sorride ancora rassicurante
Carruthers, mentre il sergente lo prende per il braccio, costringendolo
gentilmente ma con fermezza ad uscire dall'abitacolo. "Vogliamo
solo accertarci di una cosa." Con l'ometto
tremante come una foglia tra loro, i due poliziotti avanzano verso
la scena del delitto, andandosi a fermare davanti alla fila di cassonetti. "Va bene,
signor Bashti" dice il capitano, guardandolo, senza più tracce
di sorriso "adesso ci descriva esattamente tutte le sue mosse
da quando è uscito dal supermercato." Troppo intimorito
per poter ribattere, l'uomo indica l'angolo della strada, senza riuscire
a spiccicare parola. "Vuol
dire che è venuto di là? E poi?" "Io...
io sono arrivato qui." Lo sforzo del pover'uomo per cercare di
parlare in modo corretto nonostante la situazione era almeno da ammirare.
"E... ho gettato la spazzatura... nel cassonetto." "E allora?" "E allora...
l'ho vista e sono corso a..." "Lei si
trovava esattamente in questo punto?" "Sì...
Sì, tutti i giorni, io..." "E cosa
vede in questo momento?" L'uomo si guarda
intorno smarrito. "Io sono
almeno dieci centimetri più alto di lei, signor Bashti, e vedo solo
la sommità della cassa da imballaggio che quella poveretta chiamava
casa. Tu sei più alto di me, cosa vedi Bob?" "Poco
di più." risponde Price. "Vedo la parte superiore della
porta, o quello che è, ma nient'altro." "Esattamente."
dice Carruthers, voltandosi a guardare il testimone con studiata lentezza.
"E' proprio questo il punto. Da qui nessun uomo di statura normale,
e men che meno lei, potrebbe scorgere un cadavere steso al suolo.
Quindi come ha fatto a vederlo?" "Io...
Io..." Ora Bashti sembrava proprio sull'orlo di una crisi isterica.
"Io non fatto niente... NIENTE!" Carruthers
afferra l'uomo per un braccio, lanciando un'occhiata al gruppo di
curiosi che ancora staziona all'ingresso del vicolo. "Riportiamolo
in macchina." dice al sergente. "Credo che il signor Bashti
abbia qualche confidenza da farci." Alla fine,
dopo una mezz'oretta di pianti e proteste d'innocenza da una parte,
e neanche tanto larvate minacce di trascorrere una notte in guardina
in stato di fermo per sospetto omicidio dall'altra, erano riusciti
a farglielo ammettere. Bashti si era recato da Rose per una delle
sue prestazioni speciali, ma non era il solo, aveva sostenuto
con forza, molti impiegati di Sorrentino e anche altri uomini
del vicinato erano suoi clienti abituali, e sapevano che con una bottiglia
di liquore o qualche moneta potevano procurarsi un diversivo che
non avrebbero mai osato chiedere alle loro mogli. Ma quando era arrivato,
Rose era già distesa a terra immersa nel suo stesso sangue, morta
stecchita, e lui era scappato, come se avesse avuto il diavolo alle
calcagna (Curiosa analogìa, aveva pensato Carruthers, ricordando
le parole della barbona durante l'interrogatorio), e questa era tutta
la verità. Bashti lo aveva giurato sulla testa dei figli, e che non
avesse più potuto vederli se non era così. L'ometto pareva proprio
troppo spaventato per non aver detto davvero tutto quello che sapeva,
e quindi dopo essersi consultati con uno sguardo, i due poliziotti
lo avevano lasciato andare, con l'ingiunzione di presentarsi il giorno
dopo al distretto per firmare la testimonianza, inseguiti dalle sue
preghiere di non dire niente a sua moglie o ne sarebbe morto di vergogna. "Allora,
che cosa ne pensa?" gli aveva chiesto Price, una volta congedato
l'agitatissimo Bashti. "Poco,
per adesso." aveva risposto Carruthers. "Aspettiamo i rilievi
della scientifica. Avete trovato l'arma del delitto?" "Forse.
Abbiamo trovato dei frammenti di una bottiglia sporchi di sangue a
pochi passi dal cadavere. Ma questo non vuol dire molto. Quella sventurata
deve aver schizzato sangue tutto intorno per un bel po', ma se quella
è davvero l'arma del delitto dovrebbero esserci tracce di tessuti
umani sul bordo tagliente. E potrebbe voler dire anche un'altra cosa." "Che forse
l'omicidio è nato da un impulso del momento e che l'assassino non
era venuto per uccidere." conclude per lui il capitano. "Già.
Ma questo non escluderebbe comunque nessuna strada." aggiunge,
con un sospiro, il sergente appoggiandosi con la schiena alla macchina. "Senza
considerare la coincidenza di una testimone del ritrovamento delle
prove di un delitto che viene assassinata subito dopo." "Un po'
grossa da mandar giù, eh?" "Infatti.
Beh, credo che non ci sia altro che possa fare per stasera."
dice Carruthers, stiracchiandosi. Quella lunga e stressante giornata
stava davvero cominciando a pesargli. "Compila il rapporto, ma
non fare il mio nome per il momento." "D'accordo.
Buona notte, capitano." Con un rapido cenno di saluto, Price
si allontana per dare le necessarie disposizioni per la rimozione
del cadavere. Ragazzo in
gamba, pensa Carruthers, allontanandosi
a sua volta nella direzione opposta. Uno che fa poche domande e
capisce al volo le situazioni. Ormai anche
il gruppo di curiosi si era notevolmente assottigliato e resistevano
solo pochi ragazzi che speravano evidentemente di riuscire a dare
un'occhiata sia pur da lontano al cadavere mentre veniva trasportato
via. Il poliziotto li supera senza neanche guardarli. Non ha chiesto
un'auto per tornare a casa. Ha voglia di fare quattro passi per schiarirsi
le idèe e rilassarsi un po'. Avrebbe pensato l'indomani a cosa fare
con Ballister. Se come credeva
questo delitto aveva a che fare con gli infanticidi, il procuratore
avrebbe voluto la sua testa per non averlo informato, ma d'altro canto,
per ora non vi erano elementi inconfutabili che portassero in quella
direzione. Tutt'altro. L'apparente casualità dell'omicidio, la probabile
arma improvvisata, e l'ambiente in cui si muoveva la vittima indirizzavano
decisamente altrove, e quindi perché mai lui avrebbe dovuto mettere
in relazione le due cose? Era probabilmente solo una delle tante vittime
di una metropoli violenta. Naturalmente
lui sapeva che non era così, ma tutto sommato, stava scoprendo,
l'eventuale reazione di Ballister lo lasciava indifferente. Quanto
mancava alle elezioni? Sei mesi, gli sembrava. E per il procuratore
non tirava decisamente una buona aria, per quante cene di beneficienza
fosse disposto a partecipare. Un altro bastoncino tra le ruote del
potente carro politico di Ballister. E forse tra non molto, i fatti
avrebbero potuto smentirlo e anche i bravi ragazzi come Price avrebbero
potuto fare la carriera che meritavano. Se lo augurava di cuore. (46) Xena e
Olimpia "Alexi!
Apri questa dannata porta prima che la butti giù a calci!" Il fragoroso
bussare scuote violentemente la porta rischiando di far saltare i
cardini e provocando preoccupanti scricchiolii nel vecchio legno.
Alexi accorre, facendo scorrere il pesante catenaccio che ne assicura
la chiusura, e immediatamente un'Olimpia che si regge in piedi a stento
precipita all'interno, quasi crollando sotto il peso del carico che
porta sulle spalle. Ma la ragazza, fradicia di sudore e tremante in
tutti i muscoli per la fatica riesce miracolosamente a mantenere l'equilibrio
e solo dopo aver fatto alcuni faticosi passi verso il tavolo e avervi
depositato sopra con le sue ultime forze e con tutta la delicatezza
possibile il corpo di Xena, si lascia cadere esausta su una sedia. "Olimpia,
ma cosa...? E'... E'...?" Alexi è troppo
sorpreso anche solo per riuscire a completare la frase, e guarda costernato
il volto immobile della guerriera, apparentemente priva di conoscenza
che ora giace completamente abbandonata sul piano di quercia. "No."
risponde Olimpia alla domanda inespressa del giovane. Poi, ancora
con il fiato corto e il sudore che le gocciola copiosamente sulla
fronte, si alza a sondare i punti vitali sul corpo della compagna
come per assicurarsi fino in fondo della veridicità della sua affermazione. "No."
ripete poi con un innegabile sospiro di sollievo. "Ma per un
momento ho temuto proprio di averla... Ma lei ha la testa dura, vero?"
aggiunge con un sorriso depositandole un leggero bacio sulla fronte. "Ma cosa
è successo?" riesce finalmente a dire Alexi, avvicinandosi. "Non so
cosa risponderti." dice Olimpia, prendendo tra le mani il volto
di Xena e aprendole le palpebre come le ha insegnato tante volte la
compagna, per scrutarne le pupille. "Ma sembra soltanto svenuta.
Anche se non credo che sia stato solo per il mio colpo." "Il tuo...?
Vuoi dire che sei stata tu a...?" Alexi sembrava
nuovamente incapace di arrivare in fondo ad una domanda coerente. "Ora non
ho il tempo di spiegarti. Portami dell'acqua fredda e uno straccio.
Presto." Come un automa,
Alexi sempre con lo sguardo fisso sulle due donne, si dirige verso
una mensola alla parete e presane una caraffa piena e immersovi un
fazzoletto lo tende ad Olimpia. La ragazza strizza il tessuto nel
pugno e girata la testa di Xena nell'altra direzione lo applica delicatamente
tra la nuca e il collo della compagna dove adesso è nettamente visibile
un livido scuro e sanguinolento. "Numi
dell'Olimpo." mormora Alexi vedendolo. "Non ho
avuto scelta." dice Olimpia, quasi come parlando a se stessa.
"Non avevo tempo di calibrare il colpo o calcolare il punto da
colpire. Volevo solo impedirle di uccidermi." Poi, finalmente
sembra tornare cosciente del giovane accanto a lei e lo guarda. Nei
suoi occhi, Alexi scorge chiaramente tracce di lacrime trattenute
a fatica. "Oh, Alexi, dovevi vederla. Pareva impazzita. Urlava
frasi senza senso e menava colpi a casaccio con la spada..." E' allora che,
voltandosi a guardarla, Alexi si accorge del taglio insanguinato che
Olimpia mostra un po' più in alto del seno sinistro. "Olimpia,
tu sei ferita." "Non è
niente. E' solo un graffio. Ma se non fossi stata lesta a spostarmi..." "Olimpia!" Il nome, quasi
un'invocazione erompe all'improvviso dalle labbra della guerriera,
mentre riapre gli occhi di scatto, guardandosi intorno apparentemente
incapace di connettere logicamente ciò che vede. Poi posa lo sguardo
in quelli spalancati dalla preoccupazione dell'altra e come d'incanto
quell'aria di confusa paura e smarrimento sul suo viso si scioglie
in un sorriso sollevato. "Sono
qua." le sussurra la compagna prendendole la mano tra le sue.
"Come ti senti?" "Molto
meglio, adesso." mormora Xena, cercando di tirarsi su, ma Olimpia
la trattiene per le spalle. "Aspetta.
Non alzarti subito. Hai preso una brutta botta alla testa. E' meglio
se resti distesa ancora per un po'. Ti ricordi cosa è successo?" "Molto
confusamente." dice Xena, alzandosi comunque con cautela e mettendosi
a sedere sul bordo del tavolo. "Credo di aver trovato la tana
di quella cosa." "La Bestia?
Ti sei imbattuta nel suo rifugio?" interviene Alexi, e la donna
alza gli occhi su di lui, come se si fosse resa conto solo in quel
momento della sua presenza. "E' molto pericoloso avvicinarvisi
senza la giusta preparazione." "Già,
me ne sono accorta." commenta piattamente la guerriera. "Comunque
mi sembra che sia tutto a posto, anche se ho la testa che gira come
una trottola. E ne ha tutte le ragioni" prosegue, tastandosi
delicatamente la nuca "a giudicare da questo bernoccolo che ho
sulla zucca. La tua... Bestia, sarà anche invisibile, ma picchia duro." "Veramente..."
comincia Olimpia, a voce così bassa che Xena la ode appena, fissandola
interrogativamente. "Sì?"
chiede, notando l'improvviso rossore che ha le invaso il volto. "Sono
stata io a colpirti." risponde infine Olimpia, abbassando lo
sguardo. "Tu?!?" L'espressione
sul viso di Xena è talmente sorpresa da risultare quasi comica, pur
in quel momento drammatico, e nel guardare bene la compagna, la guerriera
si accorge finalmente del suo stato, della ferita sul seno e che le
sue armi, la spada e il chakram, pendono adesso ai fianchi
della ragazza. "Ho l'impressione
che tu abbia parecchie cose da dirmi." dice. Xena aveva
ascoltato senza interrompere il racconto di Olimpia, scrutandone sul
volto, insieme spaventata e affascinata, le espressioni che assumeva
di volta in volta mentre rievocava i momenti in cui rimasta sola all'aperto
a meditare dopo che Alexi si era ritirato in casa, aveva all'improvviso
avvertito il richiamo misterioso, inquietante, ma ormai così familiare
del loro legame psichico che le aveva comunicato l'angoscia e il terrore
nel cuore e nella mente della compagna come non aveva mai sentito
prima. Poi, in distanza nel silenzio della foresta notturna le era
parso di udire dei rumori, delle urla e ne aveva seguite le tracce
nel buio, fidando solo nelle sue orecchie e nel suo istinto, come
le aveva insegnato Xena, e l'aveva trovata, mentre urlante parole
incomprensibili ruotava la spada intorno a sè, colpendo con furia
cieca tutto ciò che la circondava, sventrando la corteccia degli alberi,
staccandone di netto i rami più bassi. Terrorizzata a sua volta nel
vederla in quello stato e non riuscendo a capire cosa le stesse succedendo,
Olimpia aveva cercato di avvicinarla, di calmarla, ma Xena come impazzita
le si era scagliata contro, tirando fendenti nella sua direzione,
uno dei quali aveva rischiato di mozzarle un braccio e un'altro era
arrivato ad un soffio dal decapitarla, finché non aveva capito che
non aveva alternative e afferrato uno dei pesanti rami che la spada
di Xena aveva tagliato, era corsa a nascondersi dietro un albero,
approfittando del momento giusto per colpirla e metterla in condizioni
di non nuocere. Dopodichè, liberatala dal pesante fodero con la spada,
che si era legata alla vita assicurandovi anche il chakram perché
non si perdessero nel tragitto, si era caricata il corpo della compagna
sulle spalle ed era corsa con tutta la velocità che le consentivano
le gambe ed il peso che portava, verso la casa di Alexi. "Avrei
potuto ucciderti." Lo sguardo
negli occhi di Xena mostrava un tale orrore alla sola idea, che Olimpia
si siede accanto a lei sul giaciglio della loro stanza. Alexi le aveva
lasciate sole col pretesto di preparare alcune pozioni lenitive per
eliminare il gonfiore sulla testa della guerriera e anche qualcosa
per permettere a tutti di dormire un po', ma in realtà Olimpia sospettava
che dopo la chiacchierata che c'era stata tra loro, il giovane si
sentisse imbarazzato alla sua presenza, ed ancor più se insieme a
lei c'era Xena. "Ehi."
le dice accarezzandole il braccio. "Non è colpa tua. Non eri
in te, è chiaro." "La cosa
non cambia i fatti, Olimpia." risponde Xena con un'espressione
sul viso in cui si dibattono dolore, vergogna e rabbia. "Quella... quella cosa mi ha ridotta ad una specie di burattino
incapace di ragionare, e con la massima facilità. E questo è un rischio
che non posso permettermi." "Che vuoi
dire?" "Non capisci?
Come posso combatterla, se le è bastato infilarmi nella mente un paio
di immagini per ridurmi in
quello stato?" Xena si abbatte con un sospiro, distendendosi
sul letto. Incurante della
porta socchiusa e di Alexi che sente armeggiare nella stanza accanto,
evidentemente intento a mescolare le erbe mediche adatte e pestarle
nel mortaio, Olimpia le si distende accanto poggiando la testa sul
suo cuscino preferito, la morbida spalla della sua compagna. "Mi basterà
avvicinarmi e potrei nuovamente essere una facile preda per lei." "La Principessa
Guerriera, una facile preda?" Olimpia solleva per un attimo
la testa per guardare Xena in viso, aggrottando le sopracciglia. "Sei
sicura che stiamo parlando della stessa persona?" Con un sorriso,
un po' tirato ma spontaneo, Xena accarezza il capo della ragazza,
spingendolo nuovamente contro di lei e stringendola a sé. "Dico
sul serio, Olimpia. E se mi facesse credere che tu sia Antinea o Callisto?
Potrei attaccarti, ferirti gravemente o... peggio." Appoggiandosi
su un gomito, Olimpia si tira su, fissando Xena con preoccupazione. "Andiamo,
non ti sembra di esagerare? In fondo non è la prima volta che ci troviamo
in circostanze del genere, no? Ti ha solo colta di sorpresa, Xena.
Eri stanca, tesa e ha avuto buon gioco. Ma la prossima volta, sapremo
cosa aspettarci. E poi" aggiunge adagiandosi di nuovo sul corpo
della compagna "se avessi bisogno di un buon colpo in testa,
sai che puoi sempre contare su di me." Questa volta
è una risatina sincera, quella che Olimpia sente provenire da Xena,
subito soffocata da un gemito. "Ouch!
Ti prego, non farmi ridere. Fa ancora un male cane." Ridacchiando
a sua volta, Olimpia accarezza una guancia della guerriera e le deposita
un bacio sull'altra. "Tu aspettami
qui." le dice. "Io vado a vedere che sta combinando Alexi
di là. Se aspettiamo che si decida a bussare, faremo giorno." Più tardi,
con una tazza fumante di tisana in mano, a sedere sul pagliericcio
che faceva loro da letto, era stato il turno di Xena di raccontare
quello che le era capitato e come fosse arrivata in mezzo alla foresta,
dove Olimpia l'aveva trovata in preda ad un'apparente crisi di follia,
di cui però adesso sembrava non fossero rimaste tracce se non in un
lievissimo tremore alla mano che reggeva la bevanda, rilevabile solo
dall'occhio ormai espertissimo della ragazza nel notare ogni minimo
dettaglio che riguardasse la compagna. "E non
hai mai avuto il minimo dubbio?" chiede chinandosi in avanti
sulla sua sedia verso Xena. A poca distanza da lei, in piedi appoggiato
alla parete, c'è anche Alexi, ma il giovane da quando Olimpia l'ha
convinto ad entrare nella stanza con lei non ha praticamente detto
una parola e non si è neanche unito a loro per una tazza della tisana
che ha preparato. "Nessuno.
Sembrava che non fossi più in grado di formulare un pensiero coerente."
risponde la guerriera. "L'unica cosa che riuscivo a pensare era
che tu eri in pericolo e che dovevo correre da te." "Descrivimi
di nuovo che cosa hai avvertito esattamente." "E' difficile
a dirsi. So solo che un attimo prima stavo benissimo e con le orecchie
tese a cogliere ogni frase del colloquio tra Acros e il suo scagnozzo
e un attimo dopo ero piegata in due a vomitare sul portico della sua
casa." "Non credi
che possano avertiti sentita?" "Chissà?"
risponde Xena riponendo la tazza ormai vuota sul tavolo vicino. "Forse.
Come ho detto in quel momento non riuscivo a fare altro che pensare
a te e al pericolo in cui ti trovavi." "Sembra
che quell'essere, dèmone o mostro che sia, sia molto bravo a individuare
i punti deboli dei suoi avversari." mormora Olimpia lanciandole
un sorriso dolce, prima di rituffare il viso nella sua tazza. "Tu che
ne dici Alexi?" chiede poi, rivolgendosi al giovane taciturno
accanto a lei. "Quella cosa ha mai dato prova di poteri di questo
tipo?" "Beh,
è certo che può proiettare il suo pensiero e la sua volontà al di
fuori della caverna in cui vive." risponde l'uomo, recedendo
finalmente dal suo testardo mutismo e incrociando le braccia sul petto,
in un atteggiamento che ad Olimpia è già divenuto familiare. "Quindi
è probabile che in qualche modo abbia sondato la mente della tua amica
e abbia capito quanto tiene a te, agendo di conseguenza." La tua amica. Era la prima volta da quanto
ricordasse Olimpia, che Alexi si riferiva così a Xena. Ed era stata
solo una sua impressione o il giovane aveva caricato di una certa
enfasi l'appellativo? Lascia stare, si era detta. Non è il momento. "Sbaglio
o avevi detto che dopo un attacco respinto come quello di ieri, sarebbe
rimasto inattivo per parecchio tempo?" chiede Xena a sua volta,
fissando l'uomo con il solito gelo nello sguardo. "L'avevo
detto infatti" risponde Alexi, guardandola con altrettanta freddezza.
"Ma la morte di Aristis ha scompigliato le carte, e adesso non
sono più in grado di dire cosa possa o non possa fare." Quindi
si lascia cadere su uno sgabello con aria stanca e affranta. "Mi
dispiace di essere una tale delusione per voi." "Ehi." Olimpia si alza e va ad accosciarsi
accanto a lui, poggiandogli una mano sulla spalla. "Non prendertela
così. Xena non intendeva dire niente. Vero?" chiede gettando
uno sguardo ammonitorio alla compagna, che si limita a borbottare
un già tra i denti, fissando il soffitto. "Hai perso tuo
padre da poche ore. E' normale che tu sia sconvolto e scombussolato.
E ti chiedo scusa per averti detto quelle cose prima." Nessuno dei
due scorge lo sguardo interrogativo che si disegna negli occhi di
Xena, mentre la guerriera prende mentalmente nota della cosa, riproponendosi
di informarsi in merito più tardi. "Ma adesso
direi di lasciare le nostre questioni personali e di cercare di dare
un quadro d'insieme a questa brutta faccenda." conclude Olimpia
guardando Alexi e Xena alternativamente. Con un lieve
senso di colpa negli occhi la guerriera fissa a sua volta la compagna
e immediatamente l'espressione del suo viso si addolcisce. "Hai ragione."
mormora, poi si rivolge all'uomo. "Scusami, Alexi, non volevo
sembrare brusca." "Non importa."
risponde questi, senza che però l'aria di tristezza che gli permea
il volto si disperda completamente. "Sono sopravvissuto ai trattamenti
di mio padre. Le tue osservazioni in confronto sono latte e miele." "Bene."
dice Olimpia con un sorriso soddisfatto. "Ora pensiamo alle cose
importanti. Adesso almeno sappiamo per certo che la tua idea su Acros
era giusta, Xena. Quell'individuo disgustoso è coinvolto in questa
storia." "Non che
avessi molti dubbi in proposito." ribatte Xena. "Restava
solo da stabilire se era manovrato dal... beh, chiamiamolo dèmone,
per ora, in mancanza di una migliore definizione, o agiva per tornaconto
personale..." "Credo
tutt'e due." s'intromette d'improvviso Alexi, attirando su di
sé l'attenzione di entrambe le donne. "Quella cosa... il dèmone,
credo che agisca sui sentimenti e sugli istinti delle persone. Aumentando
le paure, come ha fatto con te, Xena, o solleticando l'avidità e la
sete di potere in individui come Acros. Insomma riportando in superficie
il peggio che normalmente teniamo celato nella nostra anima. Talvolta
mi è capitato di pensare che l'atteggiamento così duro di mio padre
verso di me, fosse in qualche modo ispirato da lui. Che in
qualche modo ne alimentasse gli istinti peggiori nascosti dentro di
lui. Quelli della prevaricazione e della presunzione." "Ma tuo
padre lo combatteva." Olimpia lo guarda perplessa "Come
poteva esserne succube al tempo stesso?" "Non ho
detto questo, Olimpia, ma la mente umana è uno strano ed oscuro luogo
dove viaggiare. Per combattere il suo nemico, mio padre è dovuto entrare
in contatto con lui, più di chiunque altro e quindi restando esposto
ai suoi pensieri, alle sue lusinghe..." "Alle
sue tentazioni." mormora Xena, alle loro spalle, provocando
la contemporanea rotazione di due sguardi verso di lei. "Forse
la definizione di dèmone è più azzeccata di quanto pensiamo." La frase pronunciata
dalla guerriera resta sospesa nella stanza a lungo, mentre le tre
persone presenti si guardano. "Pensi
a Lucifero?" chiede infine Olimpia, rompendo quell'improvviso
silenzio quasi insopportabile. "Credi che ci sia in qualche modo
lui dietro tutto questo?" "Non lo
so" risponde Xena, dopo qualche attimo di riflessione, scuotendo
lievemente la testa "ma non credo. Mi pare un piano troppo vago,
improvvisato, quasi casuale, per il novello signore degli inferi.
No, lui si sente una specie di grande condottiero delle schiere infernali.
Il giorno che deciderà di vendicarsi lo farà in pompa magna, alla
testa del suo esercito di dèmoni, non in questa maniera."
"E poi
c'è una cosa." aggiunge Olimpia, quasi come esprimendo un pensiero
privato ad alta voce. "Se quell'essere è tanto potente da entrare
nella mente e nei pensieri della gente servendosene contro di loro,
come mai non l'ha fatto anche con me? Avrebbe potuto confondere anche
me, avrebbe potuto costringerci a combattere l'una contro l'altra
e magari indurci a ucciderci a vicenda. Eravamo ad un passo dalla
sua tana, no? Là dove è in grado di esercitare il suo potere al massimo
livello. Sarebbe stato un gioco per lui." "Forse
non è in grado di controllare più di una mente alla volta, e non si
aspettava il tuo intervento." suggerisce Alexi. "In questo
caso, vorrebbe dire che i suoi poteri sono ancora limitati, che nonostante
la morte di Aristis, non può ancora esercitarli completamente." "O più
semplicemente" Xena si alza dal letto, mettendosi a sedere sul
bordo "che non ha trovato in te quelle debolezze che non ha avuto
difficoltà a trovare in me." "Debolezze?
Xena, non essere assurda." risponde Olimpia alzandosi e dirigendosi
decisa verso di lei. "Che debolezze avrebbe trovato in te? E
non ti alzare ancora. Potresti avere delle lesioni interne..." "Calmati,
mammina." ribatte Xena, intercettandola e mettendola a sedere
accanto a lei. "Sto benissimo e non credere di colpire poi così
duro, sai? E' poco più di un graffio." dice con un sorriso,
afferrandola tra le braccia e posandole un bacio sui capelli. "Ah sì?"
Olimpia sembrerebbe quasi piccata dall'osservazione, se non fosse
per lo splendido sorriso che sfoggia di rimando alla sua compagna.
"E allora perché sei crollata come un sacco di frumento sfondato
e continuavi a lamentarti fino a poco fa?" "Beh"
fa la guerriera, stringendosi nelle spalle "anch'io ho bisogno
di qualche coccola di tanto in tanto." "Brutta..."
comincia Olimpia, preparandosi a tirarle una botta sul braccio, ma
il rumore prodotto da Alexi nell'alzarsi dal suo sgabello, le rammenta
della presenza del giovane. "Beh,
io vi lascio." dice questi fissando un immaginario punto sul
pavimento. "Domattina sarà una giornata dura. Devo andare al
villaggio a fare provviste e..." "Più di
quello che pensi." La voce di Xena lo costringe ad interrompere
il discorso e ad alzare lo sguardo su di lei. "Prima voglio che
ci accompagni alla tana di quella cosa." Gli occhi di
Alexi e Olimpia si spalancano contemporaneamente a quelle parole. "Alla
sua tana? Non ci sono più tornato da quando... Non so neanche
se sarei in grado di ritrovarla!" protesta il giovane. "Per questo
non ci sono problemi." dice Xena. "Sia io che Olimpia dobbiamo
aver lasciato tracce anche troppo evidenti del nostro passaggio questa
notte e non credo che sarà difficile seguirle." "Sei sicura
che sia una buona idea, Xena?" chiede Olimpia, preoccupata. "Perché
vuoi tornare così presto? Hai visto quanto è pericoloso." "Sarà
giorno, no? Se faremo con cautela non penso che correremo troppi rischi." "E' proprio
necessario che venga anch'io?" Alexi sembrava quasi un bambino
in quel momento. "Voglio
studiare il posto alla luce del giorno, e ricontrollare le mie reazioni a quel luogo in stato di lucidità. E voglio
che ci sia anche tu." "Ma io..." "Alexi,
se vuoi che risolviamo il problema devi fare quello che ti dico." Questa volta
il tono della guerriera non lascia spazio ad altre obiezioni e il
giovane esce dalla stanza a capo chino. "Si può
sapere per cosa gli hai chiesto scusa, prima?" domanda subito
Xena con aria lievemente divertita, non appena la porta si è chiusa
dietro Alexi e le due donne sono rimaste sole. "Mmh?
Cosa?" chiede Olimpia, quasi soprappensiero. Poi il significato
della richiesta le giunge alla mente. "Oh, niente d'importante.
Una divergenza di opinioni. Piuttosto" aggiunge subito, cambiando
argomento "perché vuoi tornarci? La vera ragione, intendo." Adesso non
vi è più traccia di divertimento negli occhi dell'altra. "Devo
scoprire fino a che punto quell'essere è in grado di influire sul
mio lato oscuro, Olimpia, e ho bisogno che tu mi stia accanto, per
controllarmi. E neutralizzarmi, se necessario." Un'ombra di
incredulità e paura passa nello sguardo della ragazza. "Xena,
è assurdo. Quella cosa potrebbe prenderci entrambe. Potremmo farci
a fette l'un l'altra, senza neanche rendercene conto." "E un
rischio che dobbiamo correre, ma anche se non so il motivo, ho come
l'impressione che non possa niente contro di te. Forse, perché davvero
non può controllare più di una mente alla volta, o forse perché la
luce che hai in te ti rende inattaccabile." "Xena..." "E' così,
Olimpia. C'è una luminosità, una radiosità in te, non negarlo. Ha
rappresentato per anni il mio faro nelle tenebre e mi ha condotta
più volte di quante possa contarne alla salvezza dai mari in tempesta
della mia anima. Questa volta forse servirà ad un più alto scopo." Che risposta
poteva dare Olimpia a quelle parole ed allo sguardo intenso, profondo
che sentiva come perforarla attraverso l'azzurro di quegli occhi?
La sua bocca si tende verso quella di Xena, mentre le sue braccia
risalgono lungo la sua schiena, e il contatto tra le loro labbra diventa
totale, esclusivo, cancellando il mondo intorno a loro per un lungo,
infinito momento. Poi, con il
respiro ancora rotto dall'emozione di quegli attimi, a cui non si
sarebbe abituata mai, la ragazza riapre gli occhi lentamente, incollandoli
in quelli della sua sposa. "Ma perché
vuoi portarti dietro anche Alexi?" chiede con ancora un leggero
affanno nella voce. "Lo potremmo mettere in pericolo, non credi?" Con un po'
di fatica a sua volta, Xena si sottrae all'incantesimo che quei contatti
tra loro suscitano prepotentemente, cercando di concentrarsi sulle
parole. "Per due
ragioni." risponde poi. "Anche se il suo potere non è paragonabile
a quello di Aristis, Alexi è comunque l'unico tra noi dotato di un
qualcosa che possa contrastare i poteri mentali di quell'essere..." "Ma..."
prova a dire Olimpia. "... e
secondo me" la previene Xena, prima che possa continuare "non
ha ancora espresso appieno le sue capacità." "Capisco."
dice la ragazza dopo un attimo di riflessione. "E la seconda?" "Ancora
non lo so." Olimpia la
guarda come se non fosse ben sicura di aver capito. "Come?" "Non lo
so." ripete semplicemente Xena. "Chiamalo istinto. E' come
se ci fosse un'idea che mi ronza nella mente da tutta la sera e non
riesco a capire cosa sia. Come un muro che mi impedisca di vedere
qualcosa di ovvio. Poco fa, mentre parlavamo, c'ero quasi, ma poi
mi è sfuggito di nuovo." Con un sospiro, la guerriera
si tira nuovamente a sedere. "E' esasperante. Come avere continuamente
un nome sulla punta della lingua e non riuscire mai a ricordarlo.
Che c'è?" chiede poi, fissando l'altra. "Non dirmi che capita
anche a te." Con una strana
espressione nello sguardo, Olimpia si sta accarezzando il mento, riflettendo. "E' strano."
mormora "Fino ad un attimo fa, non mi aveva neanche sfiorata,
ma ora che me lo dici... Credo di capire cosa intendi. Questo legame
tra noi non cessa mai di stupirmi. Ehi!" esclama ad un tratto
"E Argo? Con quello che è successo, me ne ero quasi dimenticata.
L'hai ritrovata?" "Sì, e
l'ho lasciata al sicuro, da un amico." "Un amico?"
Olimpia la fissa sorpresa. "Tu hai un amico in questo posto dimenticato
dagli dèi? E chi è? Lo conosco?" "Sì e
no." risponde Xena con un sorriso enigmatico. "Ma probabilmente
non te lo ricorderesti." "Ehi!"
protesta la ragazza. "Io sono un bardo. E' il mio mestiere ricordare
le cose per poterle narrare." "E comunque
non lo riconosceresti." "Non lo
riconoscerei?" Olimpia è l'immagine della perplessità. "Che
vuol dire? E perché fai tanto la misteriosa?" "Lascia
perdere." dice Xena, con un sorrisetto. "Lo scoprirai a
tempo debito." "Ooh,
mi fai impazzire, quando fai così." sbuffa Olimpia. "D'accordo,
tieniti pure i tuoi piccoli segreti. L'importante è che Argo stia
bene e sia al sicuro." "Lo è,
non preoccuparti." Xena si alza e comincia a liberarsi dell'armatura.
"E' meglio riposare un po' adesso. Domani sarà una lunga giornata." Olimpia si
toglie gli stivali, poi con un leggero sorriso si stende sullo stretto
giaciglio, appoggiando la schiena contro il muro dall'altra parte
e lasciando accanto a sé uno spazio sufficiente ad accogliere la compagna. "Riposare
e basta?" chiede con un baluginìo malizioso nello sguardo. Xena si immobilizza,
fissandola. Chiude per un attimo gli occhi, respirando profondamente. "Sì."
risponde poi. "Stanotte non possiamo permettercelo. Domani avremo
bisogno di tutta la concentrazione possibile e i nostri sensi dovranno
essere al meglio. Forza, fatti più in là che puoi e dormi." E la guerriera
si distende sul bordo opposto del minuscolo pagliericcio, girandosi
subito dall'altra parte. "Ma così
cadrai." protesta Olimpia. "Dormi!" "Oddèi."
borbotta la ragazza, girandosi a sua volta dalla propria parte. "Una
lunga giornata, eh? Ho l'impressione che neanche la notte sarà delle
più brevi." (47) Croft Brian Croft
vuota la sua terza tazza di caffè e lancia un'ennesima occhiata al
grande orologio da parete. Quasi le dieci e trenta. Il locale non
chiudeva che a tarda notte, quindi almeno da quel lato non c'era fretta,
ma il fatto che fossero trascorse oltre due ore da quando aveva visto
e salutato il suo amico Eddie Ericmann dandogli appuntamento lì, lo
rendeva stranamente nervoso. Ma l'intera faccenda cominciava ad innervosirlo.
Stava già andandosene dal luogo di quello che a tutta prima non pareva
altro che un banalissimo delitto (un regolamento di conti tra piccoli
spacciatori, o dei vagabondi ubriachi che avevano litigato per una
bottiglia? Visto il posto e colta qualche chiacchiera tra i presenti,
optava per quest'ultima ipotesi), quando, non sapendo neanche perchè,
si era voltato un'ultima volta verso la folla che si accalcava sul
bordo del vicolo e aveva visto qualcosa che lo aveva bloccato. Un uomo robusto,
sulla cinquantina, con impermeabile e cappello che si faceva largo
tra la gente per raggiungere la scena del crimine. Brian lo aveva
scorto per non più di qualche secondo da una certa distanza, in una
strada illuminata solo dalla luce di un paio di lampioni e dai lampeggianti
delle auto della polizia, ma non aveva avuto esitazioni nel riconoscerlo.
Troppe volte l'aveva visto nelle foto inerenti al ritrovamento del
corpo di Cheryl, e di persona all'inchiesta, frettolosa e superficiale,
che ne era seguita. Un paio di volte aveva anche cercato di contattarlo
per fargli qualche domanda, ma sempre senza successo. Era il tenente
Carruthers... no, adesso era diventato capitano, se non ricordava
male. Già, sì, proprio così, capitano. Una promozione piombatagli
in grembo da qualche mese, dopo... Ma sì, guarda
un po', proprio dopo quella storia dell'Amazzone. E ancora una
volta, il misterioso filo del destino sembrava ricondurlo all'origine
di quell'infinita sciarada. Il mistero dell'Amazzone, la morte
di Cheryl, un tenente che diventa capitano dopo un'inchiesta che almeno
ufficialmente si è conclusa in un fallimento. Come potevano tutti
questi elementi, in apparenza così distanti tra loro, collegarsi al
tragico esito di una comune rissa tra vagabondi? Insomma, in parole
povere, cosa ci faceva un ufficiale di polizia di un altro distretto,
in un posto simile per una ragione del genere? E in particolare, quell'ufficiale? Girava voce,
ma la cosa non aveva trovato conferme, che ci fosse stato un incontro
al vertice quel pomeriggio in procura. Sembrava a quel che si diceva
che il procuratore Ballister avesse esortato tutti i responsabili
dei diversi distretti coinvolti negli infanticidi a una più stretta
collaborazione. Evidentemente quel bellimbusto sentiva la sua preziosa
poltrona scivolargli di sotto il sedere in quella disgraziata vicenda.
Ma cosa poteva mai entrarci la morte di una vagabonda mendicante con
le indagini su The Ogre? E soprattutto, cosa c'entrava lui?
Era questa
la cosa che più sottilmente lo inquietava. Perché nella
sua passeggiata serale (che non rientrava certo nelle sue abitudini)
era finito proprio in quel quartiere, lontanissimo dalla sua zona
e da cui non passava mai? Cosa lo aveva spinto proprio lì? Il tuo giornale
è ad almeno venti isolati da qua. Un po' lunga come passeggiata, no?, gli aveva chiesto Eddie, a mo' di battuta. Verissimo,
venti isolati che lui aveva evidentemente percorso con la testa totalmente
tra le nuvole, perché non ricordava assolutamente come ci fosse arrivato.
Gli sembrava di essere appena uscito dal View per risvegliarsi,
come da un sogno, un momento dopo in mezzo a quella gente che scrutava
morbosamente i postumi di un delitto, e se non ci fosse stato il suo
orologio a testimoniarlo non ci avrebbe creduto. Si può camminare
per quasi un'ora senza ricordarsene minimamente? Non aveva memoria
che gli fosse mai successo niente del genere. Il suo cervello era
a posto. Faceva ogni anno un check up completo e minuzioso
e l'ultimo risaliva a meno di un mese prima. Quindi nessun problema
di quel tipo, e allora? Brian si sorprende
di avvertire un brivido improvviso scorrergli lungo la spina dorsale.
Non gli capitava più dai tempi della scuola. Qualcuno ha calpestato
la tua tomba, gli rispondeva sorridendo sua nonna, quando correva
da lei a dirglielo, e insieme ridevano di quell'idea ridicola. Come
poteva qualcuno calpestare la sua tomba, se lui era lì, vivo e vegeto?
Ma ora d'un
tratto, la cosa non gli sembra più tanto assurda. Non con il buio
della notte che pare bussare contro la vetrina di Freddie.
L'illuminazione al neon del locale impedisce di poter scorgere il
panorama esterno, trasformando il grande cristallo in uno specchio
nero che rimanda la sua immagine riflessa oscura e trasparente come
quella di un fantasma, e Brian fissa se stesso con un sinistro presentimento.
E tutte le paure ed i terrori superstiziosi dell'infanzia lo riassalgono,
riportandolo come per magia a quel bambino gracile e timido che era
stato, affascinato e terrorizzato ad un tempo dalle storie del soprannaturale
e di fantasmi, terrori che forse non aveva seppellito interamente
nella crescita e nello sviluppo, come credeva, e che pensava a volte
non fossero estranei alla scelta di vita che aveva fatto. Ma tutto
questo ormai apparteneva al passato, vero? Vero? La campanella
dell'ingresso squilla argentina, spezzando quella sorta di trance
in cui stava cadendo e collegandosi bizzarramente ai suoi ricordi
infantili lo riporta a pomeriggi assolati spesi con sua nonna in locali
come quello, a mangiare coppe gigantesche di gelato, e Brian volta
lo sguardo nella direzione della porta, da dove Eddie è appena entrato,
e ora sta dirigendosi verso il suo tavolo. Il giornalista lo saluta
con un cenno della testa e, interiormente, un sospiro di sollievo.
Cominciava davvero a temere che non sarebbe più venuto, e lui ha tante,
troppe domande che necessitano urgentemente di una risposta. Alla fine,
il colloquio con Ericmann era risultato molto meno soddisfacente di
quanto Croft si fosse aspettato. Quello che il giovane poliziotto
aveva potuto dirgli era né più né meno quello che lui aveva già appreso
orecchiando qua o là i discorsi della gente presente sul luogo. La
vittima era una vecchia mendicante alcolizzata che ormai viveva in
quella specia di baracca dietro Sorrentino da più tempo di
quanto i residenti del quartiere ricordassero. Qualcuno l'aveva sgozzata
con un pezzo di bottiglia e l'aveva lasciata a morire in quell'immondezzaio
che chiamava casa. A quanto
pareva, nessuno aveva visto o sentito niente, e questo per certi versi,
aveva detto Eddie, poteva costituire un elemento interessante. Se
l'omicidio fosse avvenuto a seguito di una lite o una rissa tra ubriachi,
si sarebbero sentite le urla, gli schiamazzi, e sicuramente sarebbe
saltato fuori qualche testimone. Così stando le cose, invece, l'ipotesi
più probabile appariva quella del cliente che l'aveva uccisa per non
pagarla, o di un maniaco che avesse deciso all'improvviso che a questo
mondo non c'era posto per rifiuti della società di quel genere, e
questa era sicuramente la possibilità più paventata. Un altro serial
killer in città, sia pur di barboni e mendicanti, non era certo
un'eventualità auspicabile in questo momento. Ma vista, l'apparente
occasionalità dell'arma che l'assassino doveva essersi procurata sul
posto, l'ipotesi più gettonata restava la prima. "Cliente?"
aveva chiesto tra il curioso e il perplesso Brian, mettendogli davanti
un'altra lattina di birra. Eddie non era più in servizio per quel
giorno, e l'accenno di pancetta che neanche la divisa attillata riusciva
a dissimulare la diceva lunga sulla sua bevanda preferita. "Già."
aveva risposto Ericmann, con un sorrisetto. "La vecchia Rose
arrotondava i soldi delle elemosine con qualche servizietto di bocca,
di tanto in tanto, e pare che avesse tutto sommato un bel giro." "Ma senti."
aveva ribattuto il giornalista. "E gli abitanti della strada
la tolleravano?" "Se non
l'avessi notato, questa non è Manhattan o Beverly Hills, Croft. Qui
la gente è abituata a tollerare ben altro." E con una risatina
sardonica, il poliziotto aveva preso una lunga sorsata dalla sua lattina. "Mi è
parso di vedere il capitano Carruthers sul posto." aveva poi
buttato lì Brian, con aria casuale. "Che ci faceva lì uno dei
pezzi grossi per l'assassinio di una semplice mendicante?" "Chi?"
Ericmann aveva ingoiato di gusto un'altra bella sorsata, e l'aveva
guardato interrogativamente. "Ma sì,
il capitano Carruthers, quello della centrale. L'ufficiale che si
occupa degli infanticidi." aveva insistito Croft spazientito.
Chi credeva di prendere in giro quello sbarbatello? Non fare il
furbo con me, Eddie. "Ah sì,
ne ho sentito parlare." aveva finalmente risposto Ericmann, senza
molto interesse. "Era lì anche lui? Non lo sapevo." Croft era rimasto
ad osservarlo senza parlare per qualche attimo. Poi aveva dovuto cedere
alla realtà. Lo sguardo vuoto del poliziotto era troppo genuino per
essere frutto di una simulazione. Conosceva Eddie da abbastanza tempo
da poter escludere che fosse un così buon attore, specialmente dopo
le prime tre birre. Improvvisamente
Brian aveva sentito piombargli addosso tutta la stanchezza di quella
giornata e l'inutilità di trattenersi ancora lì per estorcere qualche
altro brandello d'informazione al suo interlocutore, che gli pareva
molto più interessato a svuotare lattine, gli era apparsa in tutta
la sua evidenza. Anche se in quel vicolo fosse accaduto molto più
di quanto dicevano le apparenze non era certo Eddie Ericmann che avrebbe
potuto confermarglielo. In compenso,
il grande orologio alla parete gli aveva confermato che le undici
erano passate da un pezzo e la prospettiva di un morbido letto dove
trascorrere le prossime otto ore gli parve l'unica degna di considerazione
e al diavolo tutto il resto. Così, si era alzato, salutato Ericmann
e lasciate un paio di banconote da cinque sul tavolo, era uscito dal
locale, e ora stava camminando, ripercorrendo la strada che doveva
per forza aver fatto all'andata, cercando di ricollegare ricordi o
immagini di qualcosa che pur distrattamente doveva aver visto
nel suo giro. L'insegna di un negozio, il semaforo ad un incrocio,
un manifesto pubblicitario, qualcosa, qualunque cosa. E invece niente.
Assolutamente niente. Le strade,
i negozi, le vetrine, le insegne, niente gli richiamava alla mente
ricordi recenti. Conosceva, sia pur superficialmente quella zona e
aveva perfino abitato non lontano da lì anni prima per un breve periodo,
ma di sicuro non riusciva a rammentare di averla attraversata a piedi
quella stessa sera, solo poche ore prima. Di nuovo quel
brivido gelido nella schiena che gli scuote le spalle inconsultamente.
Ma che c'è,
eh? Che mi prende? Non doveva
lasciarsi suggestionare. Ci doveva essere una spiegazione naturalissima.
Aveva camminato soprappensiero, ecco tutto. Talmente immerso nei propri
pensieri da non rendersi conto neanche di quanta strada avesse fatto
e dove fosse finito. Non soffriva di amnesie, il suo cervello stava
benissimo e, sicuramente (sicuramente!) non aveva avuto nessuna
esperienza paranormale. La sola idea era ridicola. Aveva passato abbastanza
anni della sua vita in un giornale che su cose di questo genere ci
campava, da sapere molto bene che si trattava di argomenti senza alcun
fondamento. Terrori infantili. Era solo stanchezza.
Ecco, esatto, proprio stanchezza. Il mattino dopo a mente fresca,
ci avrebbe fatto su una bella risata. Scuotendo la
testa, Brian Croft accellera il passo in direzione di casa. (48) Jennifer
Dopo la breve
conversazione con Carruthers, Jennifer era rimasta a lungo con il
piccolo cellulare stretto nel pugno. La telefonata era stata poco
più che un pretesto. In realtà se avesse voluto consultare davvero
qualcuno, non avrebbe avuto bisogno di chiedere niente. Lo avrebbe
fatto e basta. Era stata la polizia, nella persona del capitano George
Carruthers, a chiedere la sua collaborazione e si riteneva quindi
autorizzata tacitamente a rivolgersi a chiunque potesse esserle utile
a svolgere al meglio il compito assegnatole. No, quella
chiamata aveva avuto due scopi, ma nessuno dei due aveva a che fare
con le indagini. Il primo, il più ovvio, era quello di potersi scusare
con George per come si era comportata. D'accordo, non era che negli
ultimi mesi, in quelle rare occasioni
che aveva avuto di vederlo o parlargli si fosse comportata
molto meglio, ma almeno da un giorno e mezzo a quella parte, in qualche
modo, Jennifer credeva di aver voltato pagina, di essere riuscita
a tornare più o meno in sintonia con se stessa e la sua sfuriata con
George non rientrava in questa nuova immagine che cominciava ad avere
di sé (beh, veramente neanche quello strano sogno che aveva fatto
vi rientrava molto, ma quella era un'altra storia), perciò era necessario,
almeno ai suoi occhi, rimettersi velocemente in carreggiata e gettarsi
con decisione alle spalle ogni depressione o isterismo, e scusarsi
con il suo amico era un modo per farlo. La seconda
ragione era assai meno confessabile della prima. Era stata una
prova, un tentativo di assodare se quell'idea assurda che le era venuta
potesse poggiare su un minimo di fondamento. E disgraziatamente le
era proprio sembrato che gli appoggi non mancassero. Jennifer non
aveva potuto vedere il viso di Carruthers al telefono, ma le sue parole,
e più ancora il tono della sua voce le avevano detto più di mille
immagini. Non è esattamente
il contrario di solito? aveva pensato,
con un involontaria risatina. Si dice che sia un'immagine a valere
più di mille parole. Ma nel suo
caso era così. Quel tono di voce non poteva essere equivocato. Troppe
volte lo aveva sentito in passato. Un passato talmente remoto da sembrarle
appartenere ad un'altra vita. Non vi è ragazzina di quindici, sedici
anni, in quell'età in cui ci si affaccia sul proprio futuro di donna,
con un bel visetto e le prime curve ben in evidenza, che non l'abbia
sperimentato. Nel compagno di scuola che ti ha fatto il filo silenziosamente
per un anno e che un bel giorno ti chiede di andare con lui al ballo
di fine corso; o in quello a cui dai il primo bacio ad occhi chiusi,
dietro i cespugli sul vialetto prima di arrivare a casa tua, per evitare
sguardi indiscreti. Un tono di voce che ti dice che in quel momento
tu sei il sole, la luna e le stelle, e chi ti sta parlando sarebbe
disposto a fare qualunque cosa per te. Magari non te lo dirà con le
parole, ma non ce n'è bisogno, perché è già tutto lì, nel tono.
Sensazioni che poi negli anni si attenuano, man mano che si cresce
e ci si allontana da quell'ingenuità adolescenziale, credendo che
non si incontreranno mai più nella vita. E invece lei le aveva ritrovate,
vent'anni dopo, nella voce di un burbero ufficiale di polizia ultracinquantenne.
La cosa sarebbe
stata perfino buffa in altre circostanze, ma non adesso, non qui.
Non dopo quello che era accaduto. In questo momento era solo un grottesco
scherzo della sorte. E quindi, come
avrebbe dovuto comportarsi? Rinunciare? E per cosa, per tornare alla
sua vita fatta di niente, a consumarsi lentamente, aggrappata ai ricordi?
No, era fuori discussione. Adesso Jennifer si rendeva conto di quanto
quell'incarico significasse per lei. Credeva di averlo accettato solo
per spirito altruistico, per contribuire in qualche modo a fermare
quell'orribile catena di delitti, ma ora sapeva che non era solo per
questo. Era la possibilità che il destino le aveva offerto per tornare
a vivere davvero, avere di nuovo un obiettivo, ricominciare a fare
un lavoro che aveva sempre adorato e non voleva rinunciarci. E allora,
cosa fare? Probabilmente la miglior politica era quella dell'indifferenza.
Quasi sicuramente Carruthers neanche capiva quello che gli stava capitando.
Era un uomo pragmatico, abituato a confrontarsi con i problemi pratici
della vita e della sua professione, che gli avevano lasciato poco
spazio per le fantasie. In anni di collaborazione, quando esulavano
per qualche minuto dall'argomento lavoro, non ricordava di averlo
mai sentito parlare d'altro che non fossero le rate della macchina,
le scadenze del mutuo e più recentemente il prossimo pensionamento.
E dopotutto lei sapeva bene, quanto possa essere ottusa la natura
umana. Quanto le ci era voluto per ammettere, prima di tutto con se
stessa, che amava Joyce? Sì, era la
cosa migliore. Fare finta di nulla, come se non se ne fosse accorta.
Lei non avrebbe fatto il minimo accenno, e lui, ci avrebbe giurato,
anche se avesse finito per rendersi conto di quel che provava, si
sarebbe fatto scannare piuttosto che riconoscerlo. Era un accettabile
compromesso, uno con cui si poteva vivere, indossare una maschera
e tirare avanti. E d'altro canto, non è forse quello che facciamo
tutti, sempre? Intanto però
un problema si poneva. Aveva detto a Carruthers che intendeva consultare
un esperto e quindi doveva trovarne uno. Un antropologo, uno studioso
di riti cannibalistici dell'antichità che potesse fornirle informazioni
utili per comprendere se questo assassino seguiva un qualche rituale
nelle sue imprese. Forse è la parola antichità a spalancarle
una finestra nella mente e a farle comprendere come in modi misteriosi
a volte le strade del destino si incrocino inaspettatamente. Con un
sorriso sulle labbra, esamina velocemente il display del cellulare
e trovato un numero, preme OK. Lo squillo dell'apparecchio
ricevente risuona nel suo orecchio una sola volta, prima che una voce
fin troppo nota lo segua. "Pronto?" "Buonasera,
professor Sutherland." risponde subito Jennifer. "Scommetto
che non pensava che ci saremmo risentiti così presto." (8 - continua) |
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