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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

E SULLA SERIE INTERNET "XENA WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON"

DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E TNOVAN

 

Nonostante sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA,  questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia, il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni) e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati, ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda.

Dei due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..." riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al termine di quella storia.

La scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet della serie televisiva, scritto da Melissa Good.

Capitolo VIII

(44) Croft

 

"Ehi tu! Che diavolo fai lì, immobile come un salame!? Fai sgombrare quella gente! Qui non siamo in tv! Ericmann, dico a te!"

L'agente Eddie Ericmann ci mette qualche secondo a rendersi conto che il sergente sta parlando con lui, e come risvegliatosi da uno stato ipnotico, osserva il suo superiore tornare indietro verso il centro della scena, dove illuminato a sprazzi dai lampeggianti delle autopattuglie, in mezzo alle molte gambe dei detectives e dagli uomini del coroner, è visibile un corpo sdraiato e solo parzialmente coperto da un grande lenzuolo che qualcuno misericordiosamente gli ha steso sopra.

Con uno sforzo, Ericmann volta le spalle a quello spettacolo e si dirige verso il capanello di persone che si è formato in fondo al vicolo e che commentano a voce alta tra loro l'accaduto.

"Forza, gente, non c'è niente da vedere. Tornatevene a casa."

"Tornaci tu, bello. Io è la prima volta che vedo un morto ammazzato dal vero, e non me lo perdo di certo."

La risposta è arrivata dal gruppetto più folto a ridosso dell'ingresso del vicolo ed è subito sottolineata dalle risate sguaiate di quatto o cinque giovincelli. Ingoiando il nervosismo, Ericmann afferra il manganello che gli pende dalla cintura, e giudicando, che quella vista possa essere abbastanza intimidatoria, comincia a spingere la gente indietro.

"Forza, allontanatevi. Non costringetemi a ripeterlo."

Dal gruppetto arriva un'altra salace battuta, coperta da una nuova salva di risate, che impediscono al poliziotto di comprenderla, ma la linea che si accalca ora lungo il marciapiede opposto alla scena del crimine, arretra di qualche passo, e ritenendo di potersi accontentare, Ericmann si limita a rimanere nella sua posizione, badando che il manganello sia ben in vista nella sua mano.

Lui è al suo secondo morto invece. In realtà, sarebbero tre, ma il primo non contava, dato che si trattava di un novantenne ritrovato nel suo appartamento, defunto per infarto da una settimana, grazie alla segnalazione di alcuni vicini che avevano cominciato a sentire strani odori passando davanti alla sua porta. Neanche quello era stato un bellissimo spettacolo, ma la morte naturale toglieva pathos alla cosa.

Un omicidio invece era tutta un'altra faccenda. Era per questo che si era arruolato nella polizia. Un giorno sarebbe toccato a lui, starsene in mezzo ai suoi colleghi detectives a fare domande e distribuire incarichi, e qualcun altro avrebbe avuto invece il compito di tenere lontani i curiosi.

Il suo primo omicidio era stato il risultato di una violenta lite coniugale. Il marito aveva perso la testa e aveva colpito con tutta la sua forza la moglie, mandandola a sbattere con la testa contro un pesante tavolo con il ripiano di cristallo. Il cristallo era andato completamente in frantumi e così la testa della poveretta. Quella volta era stato proprio lui a stendere il lenzuolo sul cadavere. Lo aveva fatto, serrando la bocca, aspettandosi che la vista di tutto quel sangue e materia cerebrale sparsi sul pavimento gli provocassero qualche effetto sgradevole, ma non era successo. Aveva solo notato come la testa sfondata dalla parte della nuca della donna, somigliasse ad un melone spaccato esattamente nel mezzo e vi aveva steso su il lenzuolo senza evidenti esitazioni. Questo lo aveva definitivamente convinto di avere la stoffa per quel mestiere. La cosa era piaciuta anche al sergente che, come era venuto a sapere, non aveva mancato di riportarla al suo superiore notando come il ragazzo, nonostante fosse lì da non più di due mesi aveva già mostrato una notevole dose di sangue freddo.

Stavolta però era diverso. E lo si capiva anche dal modo in cui si agitavano i capi. Quando al distretto era scattato l'allarme, si era parlato prima di una rissa tra due vagabondi ubriachi finita male, poi di qualcuno che avesse aggredito la vecchia Rose per derubarla (di cosa?) uccidendola incidentalmente, e infine che fosse stata ammazzata da un cliente che non voleva pagare. Ma nessuna delle tre gli pareva convincente.

La vecchia Rose gli era simpatica. A volte gli capitava di passare da quel vicolo, tornando a casa o in qualche giro di ronda e qualche volta le aveva anche allungato una moneta o una bottiglia di birra. E lui era evidentemente simpatico a lei, visto come lo guardava, ma... oh, no. No davvero. La sola idea gli faceva attorcigliare le viscere. Però sapeva che c'era chi ci andava e in un paio di occasioni aveva scorto la mendicante far entrare nel suo tugurio il cliente di turno. Ma chi mai poteva uccidere una povera vecchia inoffensiva come Rose per non pagarle una prestazione con un paio di dollari o una bottiglia di pessimo liquore?

E allora? Un maniaco, forse. Sì, certo, la cosa gli pareva molto più probabile. Uno di quegli schizzati che si divertono a cospargere di benzina e a dare fuoco ai barboni addormentati sulle panchine, che questa volta se l'era presa con quella disgraziata, e magari dopo essersi fatto fare un lavoretto, l'aveva sgozzata. E probabilmente anche i pezzi grossi la pensavano così. Ecco la ragione di tutta quella agitazione. Un maniaco in libertà nel proprio distretto non fa piacere a nessuno. Ma chiunque fosse non sarebbe stato facile trovarlo, a meno che non si fosse fatto prendere la mano dal suo vizio e ci fosse ricaduto. Nei libri di criminologia che divorava, Ericmann aveva letto di molti serial killers, ma pochi di loro erano stati individuati dalla polizia in seguito ad un serrato lavoro investigativo. Per lo più, la soluzione era arrivata per un errore commesso dall'assassino e quasi sempre si era trattato di un omicidio di troppo. Certo che se era come pensava lui, la percentuale di maniaci in città stava aumentando in maniera preoccupante. Prima quella pazza con la spada che si credeva Wonder Woman (anche se non ricordava che l'eroina dei fumetti e della tv utilizzasse spade, ma solo il suo fedele lazo acchiappacattivi), poi il rapitore di bambini, e adesso questo...   

"Ehi, Eddie."

Il richiamo arriva improvviso e per un attimo, Ericmann resta perplesso sulla direzione da cui gli sia giunto, poi tra il gruppo di persone che negli ultimi minuti, attirate dalla calca e dalle luci, si è notevolmente irrobustito, si fa largo una figura familiare.

"Ciao, Croft. Che ci fai qui?"

Il giornalista si sottrae a fatica all'assembramento di gente e si avvicina al poliziotto con un sorriso.

"Niente di particolare. Sono uscito dall'ufficio per fare una passeggiatina e prendere una boccata d'aria, ma sembra che sia inciampato in qualcosa. Che è successo?"

"Una passeggiatina?" chiede Ericmann, fingendo di non aver sentito la domanda. "Il tuo giornale è ad almeno venti isolati da qua. Un po' lunga come passeggiata, no?"

"Avevo alcune cose su cui riflettere e devo aver perso un po' la cognizione del tempo e delle distanze. Ma non mi hai risposto. Chi hanno fatto fuori?"

"E neanche ti risponderò." Ericmann getta un'occhiata alle sue spalle per assicurarsi che il sergente stia continuando a parlare con gli altri ufficiali. "Se mi vedono parlarti, finisco all'ufficio scartoffie per un mese." 

"Andiamo, Eddie, siamo amici noi due, no? Facciamo così, quando stacchi?"

Ericmann getta un'altra occhiata nervosa dietro di sé.

"Avrei già dovuto farlo da almeno un paio d'ore. Immagino che quando avranno portato via il cadavere, mi lasceranno libero."

"D'accordo. Allora io sarò ad aspettarti da Freddie. Ti ricordi dov'è, vero?"

"Non faccio più la ronda, Croft, ma non ho dimenticato le strade della città."

"Bene, ci vediamo lì, allora. A più tardi."

Il poliziotto esita un momento, guardandosi ancora alle spalle.

"Ascolta, Croft, io non so..." comincia, girandosi di nuovo verso di lui, o almeno verso il punto in cui era un attimo prima, perché senza neanche dargli il tempo di rispondere, il giornalista è già scomparso tra la folla.

 

 

(45) Carruthers

 

Il capitano Carruthers dà l'ennesima occhiata all'orologio, in piedi sotto il portone di casa, guardando nervosamente verso l'angolo della strada da cui si aspetta di veder spuntare da un momento all'altro l'auto che Price ha mandato a prenderlo. Una giornata come quella non poteva avere altro epilogo. E pensare che quando era uscito dal distretto quel pomeriggio aveva davvero pensato che qualche divinità mossa a pietà verso di lui avesse deciso di dare una sterzata positiva alle ore più deprimenti che stava vivendo da molti mesi a questa parte.

Quando aveva visto il nome di Jennifer apparire sul display del cellulare gli era parso che un insperato raggio di sole fosse improvvisamente apparso nella sua fosca giornata e le parole di lei avevano in parte confermato quella sensazione. Ripensandoci, non si erano detti poi cose particolari, ma a lui in quel momento erano parse fondamentali.

"Senti, George" gli aveva detto "volevo scusarmi per prima. Non intendevo dirti quelle cose."

"Non hai nulla da scusarti." aveva risposto lui. "Capisco benissimo. Non avrei dovuto..."

"No, stammi a sentire." l'aveva interrotto lei. "Se dobbiamo collaborare a questa faccenda, è meglio se seppelliamo l'ascia di guerra."

Allora non aveva rigettato la sua proposta. Voleva ancora collaborare con lui. Per un solo folle attimo, Carruthers aveva sentito la voglia di mettersi a fischiettare.

"Si, certo." Aveva risposto invece, cercando di tenere sotto controllo quell'improvvisa esuberanza.

"E non parliamo più di tutta quella... storia."

"Giuro che non ne farò più parola."

"Bene." aveva poi detto lei, dopo un lungo momento di silenzio. "Allora, volevo dirti che per quanto riguarda la questione del..." altra esitazione "...cannibalismo, rituale o no che sia, credo che dovremmo avvalerci della consulenza di qualcuno."

"Certo, sicuro, chiunque tu voglia." Aveva subito acconsentito lui. "Hai già in mente chi?"

"Forse sì, ma prima dovrò parlarne con la persona in questione. Volevo solo sapere se avevi obiezioni."

"Nessuna. Assolutamente. Consulta chi vuoi."

"D'accordo. Allora, ti farò sapere. Ci sentiamo."

Ci aveva messo un buon mezzo minuto, prima di rendersi conto che Jennifer non era più in linea. Era rimasto immobile con il cellulare stretto in pugno, quasi incredulo. Dopo la scenata di quella mattina non avrebbe mai osato sperare in una cosa simile, ma mentre lentamente tornava sulla terra (Ma che diavolo mi sta succedendo?) e procedeva con lo sguardo assente verso la sua auto, il mondo materiale aveva ripreso possesso dei suoi pensieri, ricordandogli che qualche obiezione avrebbe dovuto averla. Innanzitutto aveva trascurato di informare Jennifer che il caso non era più suo, o almeno non dipendeva più solo da lui. Beh, in realtà quella mattina era passato per dirgli proprio quello. Anche se allora non ne era ancora sicuro, la vedeva come una prospettiva più che probabile. Ma poi con quella sua scena patetica e la reazione di lei non ci aveva neanche più pensato. E ora questa idea del consulente. I consulenti si fanno pagare bene. E lui avrebbe già dovuto spiegare ai suoi superiori l'ingaggio di Jennifer Rowles.

Ma al diavolo! Al momento era troppo contento per la telefonata inaspettata della donna. Avrebbe detto di sì a qualunque sua richiesta. (No, davvero, cosa mi succede?) Ai suoi capi e al procuratore avrebbe pensato a tempo debito e chissà magari insieme al conto avrebbe potuto consegnargli anche l'assassino.

Con questo pensiero in mente ed un sorriso inconsapevole sulla faccia, si era messo al posto di guida e aveva girato la chiave dell'accensione, scoprendo che se la sua giornata no si era presa qualche minuto di pausa, l'intervallo era già terminato.

Molto gentilmente l'uomo del carroattrezzi l'aveva scaricato davanti a casa. Nessun problema, gli aveva detto, tanto sono di strada. Così a occhio non sapeva dirgli cosa potesse avere la sua vettura, ma il giorno dopo avrebbe potuto passare dall'officina per la diagnosi e il preventivo. Carruthers l'aveva guardato allontanarsi con la sua fedele Ford, ed era stato in quel momento che aveva ricevuto la seconda telefonata.

E adesso, senza neanche essere riuscito a mettere piede nel suo appartamento, è lì ad aspettare l'auto della polizia che non arriva, ribollendo nell'attesa, mentre il suo cervello almanacca le ipotesi, cercando di convincersi che quello che è successo sia solo una coincidenza, un'assurda, anche incredibile coincidenza, ma niente più di questo, altrimenti...

Proprio in quel momento, un bolide bianco e blu, con una sgommata poderosa, appare all'angolo e in un attimo si arresta con gran stridere di freni davanti a lui.

"Mi spiace per il ritardo, capitano." dice l'agente alla guida, aprendogli contemporaneamente lo sportello della vettura. "Ma è l'ora di punta e il sergente mi ha detto di non mettere la sirena."

"Lascia perdere le scuse." risponde bruscamente Carruthers, montando a bordo. "Cerchiamo di muoverci, piuttosto, e prendi per la Broad. E' un po' più lunga, ma non rischiamo di restare imbottigliati."

E il rumore della portiera sbattuta si fonde con lo stridìo dei pneumatici, mentre l'auto riparte.

 

Non mi ci abituerò mai, pensa Carruthers, mentre guarda il volto pallido e immobile nella morte della vecchia Rose. Il pallore innaturale, alla luce dei rari lampioni e dei fari delle autopattuglie, creano un contrasto disturbante con il rosso brunito del sangue sul suolo, che circonda la testa della morta e sul cui punto d'origine, il largo squarcio slabbrato sotto il mento, il poliziotto preferisce non soffermarsi. La donna ha gli occhi spalancati e la rigidità cadaverica le ha già cominciato a paralizzare i muscoli facciali, fissando la bocca sdentata in una specie di ghigno, ma sul suo viso non vi è traccia di paura o sorpresa. La morte cancella ogni emozione, checchè ne dicano gli scrittori o i registi di cinema e tv.

Con un sospiro, il capitano si alza dalla sua posizione accosciata e si raddrizza un po' a fatica.

"Da quanto è morta?" chiede al sergente Price, in piedi accanto a lui, senza neanche guardarlo.

"Da meno di due ore. Il coroner non può essere più preciso per adesso. Deve essere accaduto poco dopo il suo rilascio. E comunque non avevamo alternative, senza una denuncia."

Carruthers non commenta le parole dell'altro.

"Chi l'ha trovata?"

"Un commesso di Sorrentino. Dice che era venuto a gettare della spazzatura e l'ha vista distesa qui in un lago di sangue. Ci ha chiamati subito."

Carruthers getta un'occhiata agli alti contenitori della nettezza urbana che circondano il piccolo spazio intorno all'abitazione della mendicante.

"Sì, lo so." dice subito il sergente, prevenendo la sua osservazione. "Ho già controllato. L'apertura dei cassonetti è dall'altra parte rispetto alla posizione del cadavere e non si può vedere nulla, a meno che non si sia alti almeno due metri e mezzo."

"Cosa che non credo riguardi il nostro testimone, vero?" dice il capitano con un lieve sorrisetto.

"Direi proprio di no. A malapena arriva al metro e sessanta." ribatte Price con un altro sorriso a mezza bocca. "Comunque l'ho trattenuto. Pensavo che volesse fargli qualche domanda."

Carruthers lo guarda.

"Io non coordino più le indagini, ne sei al corrente?"

"L'ho sentito dire, ma credo che la cosa non divenga esecutiva prima di domani, e d'altronde" aggiunge il sergente, con un lampo d'ironia negli occhi "questo che c'entra? Quella poveretta è stata sicuramente ammazzata in una lite tra barboni per il possesso di una mezza bottiglia o da qualche cliente che non voleva pagare."

"Certamente." risponde Carruthers, avviandosi al fianco del poliziotto più giovane, verso l'auto di pattuglia sul cui sedile posteriore si poteva scorgere un ometto intento a sorbire una bevanda calda, con lo sportello aperto ed un agente accanto a lui.

"Hai fatto avvertire il procuratore?" chiede ancora il capitano.

"Per cosa, per la morte di una mendicante? E poi credo che sia a quella cena di beneficenza del Lion's. Era su tutti i giornali stamattina."

"Molto giusto." dice Carruthers, gettandogli un'occhiata in tralice. "Sai che non farai mai carriera, vero?"

"Non sono ambizioso." risponde Price, con lo sguardo fisso davanti a sé.

"Meglio per te."

 

"Si chiama..." avvicinandosi alla macchina con l'uomo seduto dietro, il sergente tira fuori il taccuino e gli dà una rapida scorsa. "...Rajid Bashti, quarantadue anni, di origine siriana, naturalizzato americano. Ha moglie e tre figli, vive qui da dieci anni e da due lavora da Sorrentino."

"Ok." dice Carruthers. "Sentiamo cos'ha da raccontarci."

L'uomo vedendoli arrivare si alza con ancora il bicchiere di plastica fumante in mano.

"Sergente" chiede "quanto ancora devo restare? Mia moglie sarà preoccupata."

"Ci sbrighiamo subito, signor... Bashti, vero?" Carruthers gli si rivolge con un sorriso cordiale, invitandolo con la mano a risedersi nell'auto, mentre lui vi entra a sua volta, montando dalla parte opposta, e Price si posiziona sulla portiera, appoggiandosi in piedi allo sportello e congedando con uno sguardo il poliziotto di guardia. Bloccato tra i due uomini, il testimone li guarda alternativamente con atteggiamento sempre più irrequieto.

"Allora" esordisce Carruthers, sempre con un largo sorriso rassicurante sulle labbra "mi racconti esattamente come è andata, e potrà tornarsene dalla sua famiglia."

"Ma io ho già raccontato tutto al sergente e all'altro poliziotto, prima di lui." Bashti si esprimeva in un buon inglese, anche se un po' faticoso, dovuto probabilmente al fatto che sceglieva accuratamente le parole prima di pronunciarle.

"Sì, ma al capitano piace interrogare i testimoni di prima mano." dice Price, chinandosi verso l'interno della vettura. "Gli ripeta quello che ha detto a me."

Continuando a guardare i due uomini con aria preoccupata, Bashti dà una sorsata al caffè che tiene in mano, e poi si decide.

"Come ho già detto" comincia, sottolineando il già con particolare enfasi "stavo smontando dal lavoro e ne ho approfittato per portare il sacco dei rifiuti sul retro, come faccio quasi sempre, e quando sono arrivato lì, ho visto la donna morta e allora sono corso a chiamarvi."

"Mmh." mormora Carruthers, pensoso. "Lei conosceva la vittima, signor Bashti?"

"Oh, io... no, voglio dire sì, ma solo di vista."

"La vedeva spesso?"

"Beh... sa com'è, abitava, cioè viveva proprio dietro il supermercato..."

"E quindi, quando lei usciva dal lavoro..."

"Beh, qualche volta, la vedevo..."

"Certo. Lei quanto è alto, signor Bashti?"

L'improvvisa e inattesa domanda lascia per un attimo interdetto l'uomo.

"Mi... mi scusi?"

"Non importa. Potrebbe venire un attimo con noi?"

Sempre più confuso, Bashti, gli occhi spalancati come due fanali, ora muove continuamente la testa dall'uno all'altro dei suoi interlocutori, tanto da somigliare a uno di quei pupazzi caricati a batterie.

"Ma... ma, io non capisco..." dice, quasi in lacrime e con il labbro che gli trema incontrollabilmente. "Io non fatto nulla." L'emotività cominciava ad avere ragione anche del suo inglese così attentamente controllato.

"Non ha nulla da temere, signor Bashti." gli sorride ancora rassicurante Carruthers, mentre il sergente lo prende per il braccio, costringendolo gentilmente ma con fermezza ad uscire dall'abitacolo. "Vogliamo solo accertarci di una cosa."

Con l'ometto tremante come una foglia tra loro, i due poliziotti avanzano verso la scena del delitto, andandosi a fermare davanti alla fila di cassonetti.

"Va bene, signor Bashti" dice il capitano, guardandolo, senza più tracce di sorriso "adesso ci descriva esattamente tutte le sue mosse da quando è uscito dal supermercato."

Troppo intimorito per poter ribattere, l'uomo indica l'angolo della strada, senza riuscire a spiccicare parola.

"Vuol dire che è venuto di là? E poi?"

"Io... io sono arrivato qui." Lo sforzo del pover'uomo per cercare di parlare in modo corretto nonostante la situazione era almeno da ammirare. "E... ho gettato la spazzatura... nel cassonetto."

"E allora?"

"E allora... l'ho vista  e sono corso a..."

"Lei si trovava esattamente in questo punto?"

"Sì... Sì, tutti i giorni, io..."

"E cosa vede in questo momento?"

L'uomo si guarda intorno smarrito.

"Io sono almeno dieci centimetri più alto di lei, signor Bashti, e vedo solo la sommità della cassa da imballaggio che quella poveretta chiamava casa. Tu sei più alto di me, cosa vedi Bob?"

"Poco di più." risponde Price. "Vedo la parte superiore della porta, o quello che è, ma nient'altro."

"Esattamente." dice Carruthers, voltandosi a guardare il testimone con studiata lentezza. "E' proprio questo il punto. Da qui nessun uomo di statura normale, e men che meno lei, potrebbe scorgere un cadavere steso al suolo. Quindi come ha fatto a vederlo?"

"Io... Io..." Ora Bashti sembrava proprio sull'orlo di una crisi isterica. "Io non fatto niente... NIENTE!"

Carruthers afferra l'uomo per un braccio, lanciando un'occhiata al gruppo di curiosi che ancora staziona all'ingresso del vicolo.

"Riportiamolo in macchina." dice al sergente. "Credo che il signor Bashti abbia qualche confidenza da farci."

 

Alla fine, dopo una mezz'oretta di pianti e proteste d'innocenza da una parte, e neanche tanto larvate minacce di trascorrere una notte in guardina in stato di fermo per sospetto omicidio dall'altra, erano riusciti a farglielo ammettere. Bashti si era recato da Rose per una delle sue prestazioni speciali, ma non era il solo, aveva sostenuto con forza, molti impiegati di Sorrentino e anche altri uomini del vicinato erano suoi clienti abituali, e sapevano che con una bottiglia di liquore o qualche moneta potevano procurarsi un diversivo che non avrebbero mai osato chiedere alle loro mogli. Ma quando era arrivato, Rose era già distesa a terra immersa nel suo stesso sangue, morta stecchita, e lui era scappato, come se avesse avuto il diavolo alle calcagna (Curiosa analogìa, aveva pensato Carruthers, ricordando le parole della barbona durante l'interrogatorio), e questa era tutta la verità. Bashti lo aveva giurato sulla testa dei figli, e che non avesse più potuto vederli se non era così. L'ometto pareva proprio troppo spaventato per non aver detto davvero tutto quello che sapeva, e quindi dopo essersi consultati con uno sguardo, i due poliziotti lo avevano lasciato andare, con l'ingiunzione di presentarsi il giorno dopo al distretto per firmare la testimonianza, inseguiti dalle sue preghiere di non dire niente a sua moglie o ne sarebbe morto di vergogna.

"Allora, che cosa ne pensa?" gli aveva chiesto Price, una volta congedato l'agitatissimo Bashti.

"Poco, per adesso." aveva risposto Carruthers. "Aspettiamo i rilievi della scientifica. Avete trovato l'arma del delitto?"

"Forse. Abbiamo trovato dei frammenti di una bottiglia sporchi di sangue a pochi passi dal cadavere. Ma questo non vuol dire molto. Quella sventurata deve aver schizzato sangue tutto intorno per un bel po', ma se quella è davvero l'arma del delitto dovrebbero esserci tracce di tessuti umani sul bordo tagliente. E potrebbe voler dire anche un'altra cosa."

"Che forse l'omicidio è nato da un impulso del momento e che l'assassino non era venuto per uccidere." conclude per lui il capitano.

"Già. Ma questo non escluderebbe comunque nessuna strada." aggiunge, con un sospiro, il sergente appoggiandosi con la schiena alla macchina.

"Senza considerare la coincidenza di una testimone del ritrovamento delle prove di un delitto che viene assassinata subito dopo."

"Un po' grossa da mandar giù, eh?"

"Infatti. Beh, credo che non ci sia altro che possa fare per stasera." dice Carruthers, stiracchiandosi. Quella lunga e stressante giornata stava davvero cominciando a pesargli. "Compila il rapporto, ma non fare il mio nome per il momento."

"D'accordo. Buona notte, capitano." Con un rapido cenno di saluto, Price si allontana per dare le necessarie disposizioni per la rimozione del cadavere.

Ragazzo in gamba, pensa Carruthers, allontanandosi a sua volta nella direzione opposta. Uno che fa poche domande e capisce al volo le situazioni.

Ormai anche il gruppo di curiosi si era notevolmente assottigliato e resistevano solo pochi ragazzi che speravano evidentemente di riuscire a dare un'occhiata sia pur da lontano al cadavere mentre veniva trasportato via. Il poliziotto li supera senza neanche guardarli. Non ha chiesto un'auto per tornare a casa. Ha voglia di fare quattro passi per schiarirsi le idèe e rilassarsi un po'. Avrebbe pensato l'indomani a cosa fare con Ballister.

Se come credeva questo delitto aveva a che fare con gli infanticidi, il procuratore avrebbe voluto la sua testa per non averlo informato, ma d'altro canto, per ora non vi erano elementi inconfutabili che portassero in quella direzione. Tutt'altro. L'apparente casualità dell'omicidio, la probabile arma improvvisata, e l'ambiente in cui si muoveva la vittima indirizzavano decisamente altrove, e quindi perché mai lui avrebbe dovuto mettere in relazione le due cose? Era probabilmente solo una delle tante vittime di una metropoli violenta.

Naturalmente lui sapeva che non era così, ma tutto sommato, stava scoprendo, l'eventuale reazione di Ballister lo lasciava indifferente. Quanto mancava alle elezioni? Sei mesi, gli sembrava. E per il procuratore non tirava decisamente una buona aria, per quante cene di beneficienza fosse disposto a partecipare. Un altro bastoncino tra le ruote del potente carro politico di Ballister. E forse tra non molto, i fatti avrebbero potuto smentirlo e anche i bravi ragazzi come Price avrebbero potuto fare la carriera che meritavano. Se lo augurava di cuore.

 

 

(46) Xena e Olimpia

 

"Alexi! Apri questa dannata porta prima che la butti giù a calci!"

Il fragoroso bussare scuote violentemente la porta rischiando di far saltare i cardini e provocando preoccupanti scricchiolii nel vecchio legno. Alexi accorre, facendo scorrere il pesante catenaccio che ne assicura la chiusura, e immediatamente un'Olimpia che si regge in piedi a stento precipita all'interno, quasi crollando sotto il peso del carico che porta sulle spalle. Ma la ragazza, fradicia di sudore e tremante in tutti i muscoli per la fatica riesce miracolosamente a mantenere l'equilibrio e solo dopo aver fatto alcuni faticosi passi verso il tavolo e avervi depositato sopra con le sue ultime forze e con tutta la delicatezza possibile il corpo di Xena, si lascia cadere esausta  su una sedia.

"Olimpia, ma cosa...? E'... E'...?"

Alexi è troppo sorpreso anche solo per riuscire a completare la frase, e guarda costernato il volto immobile della guerriera, apparentemente priva di conoscenza che ora giace completamente abbandonata sul piano di quercia.

"No." risponde Olimpia alla domanda inespressa del giovane. Poi, ancora con il fiato corto e il sudore che le gocciola copiosamente sulla fronte, si alza a sondare i punti vitali sul corpo della compagna come per assicurarsi fino in fondo della veridicità della sua affermazione.

"No." ripete poi con un innegabile sospiro di sollievo. "Ma per un momento ho temuto proprio di averla... Ma lei ha la testa dura, vero?" aggiunge con un sorriso depositandole un leggero bacio sulla fronte.

"Ma cosa è successo?" riesce finalmente a dire Alexi, avvicinandosi.

"Non so cosa risponderti." dice Olimpia, prendendo tra le mani il volto di Xena e aprendole le palpebre come le ha insegnato tante volte la compagna, per scrutarne le pupille. "Ma sembra soltanto svenuta. Anche se non credo che sia stato solo per il mio colpo."

"Il tuo...? Vuoi dire che sei stata tu a...?"

Alexi sembrava nuovamente incapace di arrivare in fondo ad una domanda coerente.

"Ora non ho il tempo di spiegarti. Portami dell'acqua fredda e uno straccio. Presto."

Come un automa, Alexi sempre con lo sguardo fisso sulle due donne, si dirige verso una mensola alla parete e presane una caraffa piena e immersovi un fazzoletto lo tende ad Olimpia. La ragazza strizza il tessuto nel pugno e girata la testa di Xena nell'altra direzione lo applica delicatamente tra la nuca e il collo della compagna dove adesso è nettamente visibile un livido scuro e sanguinolento.

"Numi dell'Olimpo." mormora Alexi vedendolo.

"Non ho avuto scelta." dice Olimpia, quasi come parlando a se stessa. "Non avevo tempo di calibrare il colpo o calcolare il punto da colpire. Volevo solo impedirle di uccidermi." Poi, finalmente sembra tornare cosciente del giovane accanto a lei e lo guarda. Nei suoi occhi, Alexi scorge chiaramente tracce di lacrime trattenute a fatica. "Oh, Alexi, dovevi vederla. Pareva impazzita. Urlava frasi senza senso e menava colpi a casaccio con la spada..."

E' allora che, voltandosi a guardarla, Alexi si accorge del taglio insanguinato che Olimpia mostra un po' più in alto del seno sinistro.

"Olimpia, tu sei ferita."

"Non è niente. E' solo un graffio. Ma se non fossi stata lesta a spostarmi..."

"Olimpia!"

Il nome, quasi un'invocazione erompe all'improvviso dalle labbra della guerriera, mentre riapre gli occhi di scatto, guardandosi intorno apparentemente incapace di connettere logicamente ciò che vede. Poi posa lo sguardo in quelli spalancati dalla preoccupazione dell'altra e come d'incanto quell'aria di confusa paura e smarrimento sul suo viso si scioglie in un sorriso sollevato.

"Sono qua." le sussurra la compagna prendendole la mano tra le sue. "Come ti senti?"

"Molto meglio, adesso." mormora Xena, cercando di tirarsi su, ma Olimpia la trattiene per le spalle.

"Aspetta. Non alzarti subito. Hai preso una brutta botta alla testa. E' meglio se resti distesa ancora per un po'. Ti ricordi cosa è successo?"

"Molto confusamente." dice Xena, alzandosi comunque con cautela e mettendosi a sedere sul bordo del tavolo. "Credo di aver trovato la tana di quella cosa."

"La Bestia? Ti sei imbattuta nel suo rifugio?" interviene Alexi, e la donna alza gli occhi su di lui, come se si fosse resa conto solo in quel momento della sua presenza. "E' molto pericoloso avvicinarvisi senza la giusta preparazione."

"Già, me ne sono accorta." commenta piattamente la guerriera. "Comunque mi sembra che sia tutto a posto, anche se ho la testa che gira come una trottola. E ne ha tutte le ragioni" prosegue, tastandosi delicatamente la nuca "a giudicare da questo bernoccolo che ho sulla zucca. La tua... Bestia, sarà anche invisibile, ma picchia duro."

"Veramente..." comincia Olimpia, a voce così bassa che Xena la ode appena, fissandola interrogativamente.

"Sì?" chiede, notando l'improvviso rossore che ha le invaso il volto.

"Sono stata io a colpirti." risponde infine Olimpia, abbassando lo sguardo.

"Tu?!?"

L'espressione sul viso di Xena è talmente sorpresa da risultare quasi comica, pur in quel momento drammatico, e nel guardare bene la compagna, la guerriera si accorge finalmente del suo stato, della ferita sul seno e che le sue armi, la spada e il chakram, pendono adesso ai fianchi della ragazza.

"Ho l'impressione che tu abbia parecchie cose da dirmi." dice.

 

Xena aveva ascoltato senza interrompere il racconto di Olimpia, scrutandone sul volto, insieme spaventata e affascinata, le espressioni che assumeva di volta in volta mentre rievocava i momenti in cui rimasta sola all'aperto a meditare dopo che Alexi si era ritirato in casa, aveva all'improvviso avvertito il richiamo misterioso, inquietante, ma ormai così familiare del loro legame psichico che le aveva comunicato l'angoscia e il terrore nel cuore e nella mente della compagna come non aveva mai sentito prima. Poi, in distanza nel silenzio della foresta notturna le era parso di udire dei rumori, delle urla e ne aveva seguite le tracce nel buio, fidando solo nelle sue orecchie e nel suo istinto, come le aveva insegnato Xena, e l'aveva trovata, mentre urlante parole incomprensibili ruotava la spada intorno a sè, colpendo con furia cieca tutto ciò che la circondava, sventrando la corteccia degli alberi, staccandone di netto i rami più bassi. Terrorizzata a sua volta nel vederla in quello stato e non riuscendo a capire cosa le stesse succedendo, Olimpia aveva cercato di avvicinarla, di calmarla, ma Xena come impazzita le si era scagliata contro, tirando fendenti nella sua direzione, uno dei quali aveva rischiato di mozzarle un braccio e un'altro era arrivato ad un soffio dal decapitarla, finché non aveva capito che non aveva alternative e afferrato uno dei pesanti rami che la spada di Xena aveva tagliato, era corsa a nascondersi dietro un albero, approfittando del momento giusto per colpirla e metterla in condizioni di non nuocere. Dopodichè, liberatala dal pesante fodero con la spada, che si era legata alla vita assicurandovi anche il chakram perché non si perdessero nel tragitto, si era caricata il corpo della compagna sulle spalle ed era corsa con tutta la velocità che le consentivano le gambe ed il peso che portava, verso la casa di Alexi.

"Avrei potuto ucciderti."

Lo sguardo negli occhi di Xena mostrava un tale orrore alla sola idea, che Olimpia si siede accanto a lei sul giaciglio della loro stanza. Alexi le aveva lasciate sole col pretesto di preparare alcune pozioni lenitive per eliminare il gonfiore sulla testa della guerriera e anche qualcosa per permettere a tutti di dormire un po', ma in realtà Olimpia sospettava che dopo la chiacchierata che c'era stata tra loro, il giovane si sentisse imbarazzato alla sua presenza, ed ancor più se insieme a lei c'era Xena.

"Ehi." le dice accarezzandole il braccio. "Non è colpa tua. Non eri in te, è chiaro."

"La cosa non cambia i fatti, Olimpia." risponde Xena con un'espressione sul viso in cui si dibattono dolore, vergogna e rabbia. "Quella...  quella cosa mi ha ridotta ad una specie di burattino incapace di ragionare, e con la massima facilità. E questo è un rischio che non posso permettermi."

"Che vuoi dire?"

"Non capisci? Come posso combatterla, se le è bastato infilarmi nella mente un paio di immagini  per ridurmi in quello stato?" Xena si abbatte con un sospiro, distendendosi sul letto.

Incurante della porta socchiusa e di Alexi che sente armeggiare nella stanza accanto, evidentemente intento a mescolare le erbe mediche adatte e pestarle nel mortaio, Olimpia le si distende accanto poggiando la testa sul suo cuscino preferito, la morbida spalla della sua compagna.

"Mi basterà avvicinarmi e potrei nuovamente essere una facile preda per lei."

"La Principessa Guerriera, una facile preda?" Olimpia solleva per un attimo la testa per guardare Xena in viso, aggrottando le sopracciglia. "Sei sicura che stiamo parlando della stessa persona?"

Con un sorriso, un po' tirato ma spontaneo, Xena accarezza il capo della ragazza, spingendolo nuovamente contro di lei e stringendola a sé.

"Dico sul serio, Olimpia. E se mi facesse credere che tu sia Antinea o Callisto? Potrei attaccarti, ferirti gravemente o... peggio."

Appoggiandosi su un gomito, Olimpia si tira su, fissando Xena con preoccupazione.

"Andiamo, non ti sembra di esagerare? In fondo non è la prima volta che ci troviamo in circostanze del genere, no? Ti ha solo colta di sorpresa, Xena. Eri stanca, tesa e ha avuto buon gioco. Ma la prossima volta, sapremo cosa aspettarci. E poi" aggiunge adagiandosi di nuovo sul corpo della compagna "se avessi bisogno di un buon colpo in testa, sai che puoi sempre contare su di me."

Questa volta è una risatina sincera, quella che Olimpia sente provenire da Xena, subito soffocata da un gemito.

"Ouch! Ti prego, non farmi ridere. Fa ancora un male cane."

Ridacchiando a sua volta, Olimpia accarezza una guancia della guerriera e le deposita un bacio sull'altra.

"Tu aspettami qui." le dice. "Io vado a vedere che sta combinando Alexi di là. Se aspettiamo che si decida a bussare, faremo giorno."

 

Più tardi, con una tazza fumante di tisana in mano, a sedere sul pagliericcio che faceva loro da letto, era stato il turno di Xena di raccontare quello che le era capitato e come fosse arrivata in mezzo alla foresta, dove Olimpia l'aveva trovata in preda ad un'apparente crisi di follia, di cui però adesso sembrava non fossero rimaste tracce se non in un lievissimo tremore alla mano che reggeva la bevanda, rilevabile solo dall'occhio ormai espertissimo della ragazza nel notare ogni minimo dettaglio che riguardasse la compagna.

"E non hai mai avuto il minimo dubbio?" chiede chinandosi in avanti sulla sua sedia verso Xena. A poca distanza da lei, in piedi appoggiato alla parete, c'è anche Alexi, ma il giovane da quando Olimpia l'ha convinto ad entrare nella stanza con lei non ha praticamente detto una parola e non si è neanche unito a loro per una tazza della tisana che ha preparato.

"Nessuno. Sembrava che non fossi più in grado di formulare un pensiero coerente." risponde la guerriera. "L'unica cosa che riuscivo a pensare era che tu eri in pericolo e che dovevo correre da te."

"Descrivimi di nuovo che cosa hai avvertito esattamente."

"E' difficile a dirsi. So solo che un attimo prima stavo benissimo e con le orecchie tese a cogliere ogni frase del colloquio tra Acros e il suo scagnozzo e un attimo dopo ero piegata in due a vomitare sul portico della sua casa."

"Non credi che possano avertiti sentita?"

"Chissà?" risponde Xena riponendo la tazza ormai vuota sul tavolo vicino. "Forse. Come ho detto in quel momento non riuscivo a fare altro che pensare a te e al pericolo in cui ti trovavi."

"Sembra che quell'essere, dèmone o mostro che sia, sia molto bravo a individuare i punti deboli dei suoi avversari." mormora Olimpia lanciandole un sorriso dolce, prima di rituffare il viso nella sua tazza.

"Tu che ne dici Alexi?" chiede poi, rivolgendosi al giovane taciturno accanto a lei. "Quella cosa ha mai dato prova di poteri di questo tipo?"

"Beh, è certo che può proiettare il suo pensiero e la sua volontà al di fuori della caverna in cui vive." risponde l'uomo, recedendo finalmente dal suo testardo mutismo e incrociando le braccia sul petto, in un atteggiamento che ad Olimpia è già divenuto familiare. "Quindi è probabile che in qualche modo abbia sondato la mente della tua amica e abbia capito quanto tiene a te, agendo di conseguenza."

La tua amica. Era la prima volta da quanto ricordasse Olimpia, che Alexi si riferiva così a Xena. Ed era stata solo una sua impressione o il giovane aveva caricato di una certa enfasi l'appellativo?

Lascia stare, si era detta. Non è il momento.

"Sbaglio o avevi detto che dopo un attacco respinto come quello di ieri, sarebbe rimasto inattivo per parecchio tempo?" chiede Xena a sua volta, fissando l'uomo con il solito gelo nello sguardo.

"L'avevo detto infatti" risponde Alexi, guardandola con altrettanta freddezza. "Ma la morte di Aristis ha scompigliato le carte, e adesso non sono più in grado di dire cosa possa o non possa fare." Quindi si lascia cadere su uno sgabello con aria stanca e affranta. "Mi dispiace di essere una tale delusione per voi."

"Ehi." Olimpia si alza e va ad accosciarsi accanto a lui, poggiandogli una mano sulla spalla. "Non prendertela così. Xena non intendeva dire niente. Vero?" chiede gettando uno sguardo ammonitorio alla compagna, che si limita a borbottare un già tra i denti, fissando il soffitto. "Hai perso tuo padre da poche ore. E' normale che tu sia sconvolto e scombussolato. E ti chiedo scusa per averti detto quelle cose prima."

Nessuno dei due scorge lo sguardo interrogativo che si disegna negli occhi di Xena, mentre la guerriera prende mentalmente nota della cosa, riproponendosi di informarsi in merito più tardi.

"Ma adesso direi di lasciare le nostre questioni personali e di cercare di dare un quadro d'insieme a questa brutta faccenda." conclude Olimpia guardando Alexi e Xena alternativamente.

Con un lieve senso di colpa negli occhi la guerriera fissa a sua volta la compagna e immediatamente l'espressione del suo viso si addolcisce.

"Hai ragione." mormora, poi si rivolge all'uomo. "Scusami, Alexi, non volevo sembrare brusca."

"Non importa." risponde questi, senza che però l'aria di tristezza che gli permea il volto si disperda completamente. "Sono sopravvissuto ai trattamenti di mio padre. Le tue osservazioni in confronto sono latte e miele."

"Bene." dice Olimpia con un sorriso soddisfatto. "Ora pensiamo alle cose importanti. Adesso almeno sappiamo per certo che la tua idea su Acros era giusta, Xena. Quell'individuo disgustoso è coinvolto in questa storia."

"Non che avessi molti dubbi in proposito." ribatte Xena. "Restava solo da stabilire se era manovrato dal... beh, chiamiamolo dèmone, per ora, in mancanza di una migliore definizione, o agiva per tornaconto personale..."

"Credo tutt'e due." s'intromette d'improvviso Alexi, attirando su di sé l'attenzione di entrambe le donne. "Quella cosa... il dèmone, credo che agisca sui sentimenti e sugli istinti delle persone. Aumentando le paure, come ha fatto con te, Xena, o solleticando l'avidità e la sete di potere in individui come Acros. Insomma riportando in superficie il peggio che normalmente teniamo celato nella nostra anima. Talvolta mi è capitato di pensare che l'atteggiamento così duro di mio padre verso di me, fosse in qualche modo ispirato da lui. Che in qualche modo ne alimentasse gli istinti peggiori nascosti dentro di lui. Quelli della prevaricazione e della presunzione."

"Ma tuo padre lo combatteva." Olimpia lo guarda perplessa "Come poteva esserne succube al tempo stesso?"

"Non ho detto questo, Olimpia, ma la mente umana è uno strano ed oscuro luogo dove viaggiare. Per combattere il suo nemico, mio padre è dovuto entrare in contatto con lui, più di chiunque altro e quindi restando esposto ai suoi pensieri, alle sue lusinghe..."

"Alle sue tentazioni." mormora Xena, alle loro spalle, provocando la contemporanea rotazione di due sguardi verso di lei. "Forse la definizione di dèmone è più azzeccata di quanto pensiamo."

La frase pronunciata dalla guerriera resta sospesa nella stanza a lungo, mentre le tre persone presenti si guardano.

"Pensi a Lucifero?" chiede infine Olimpia, rompendo quell'improvviso silenzio quasi insopportabile. "Credi che ci sia in qualche modo lui dietro tutto questo?"

"Non lo so" risponde Xena, dopo qualche attimo di riflessione, scuotendo lievemente la testa "ma non credo. Mi pare un piano troppo vago, improvvisato, quasi casuale, per il novello signore degli inferi. No, lui si sente una specie di grande condottiero delle schiere infernali. Il giorno che deciderà di vendicarsi lo farà in pompa magna, alla testa del suo esercito di dèmoni, non in questa maniera." 

"E poi c'è una cosa." aggiunge Olimpia, quasi come esprimendo un pensiero privato ad alta voce. "Se quell'essere è tanto potente da entrare nella mente e nei pensieri della gente servendosene contro di loro, come mai non l'ha fatto anche con me? Avrebbe potuto confondere anche me, avrebbe potuto costringerci a combattere l'una contro l'altra e magari indurci a ucciderci a vicenda. Eravamo ad un passo dalla sua tana, no? Là dove è in grado di esercitare il suo potere al massimo livello. Sarebbe stato un gioco per lui."

"Forse non è in grado di controllare più di una mente alla volta, e non si aspettava il tuo intervento." suggerisce Alexi.

"In questo caso, vorrebbe dire che i suoi poteri sono ancora limitati, che nonostante la morte di Aristis, non può ancora esercitarli completamente."

"O più semplicemente" Xena si alza dal letto, mettendosi a sedere sul bordo "che non ha trovato in te quelle debolezze che non ha avuto difficoltà a trovare in me."

"Debolezze? Xena, non essere assurda." risponde Olimpia alzandosi e dirigendosi decisa verso di lei. "Che debolezze avrebbe trovato in te? E non ti alzare ancora. Potresti avere delle lesioni interne..."

"Calmati, mammina." ribatte Xena, intercettandola e mettendola a sedere accanto a lei. "Sto benissimo e non credere di colpire poi così duro, sai? E' poco più di un graffio." dice con un sorriso,  afferrandola tra le braccia e posandole un bacio sui capelli.

"Ah sì?" Olimpia sembrerebbe quasi piccata dall'osservazione, se non fosse per lo splendido sorriso che sfoggia di rimando alla sua compagna. "E allora perché sei crollata come un sacco di frumento sfondato e continuavi a lamentarti fino a poco fa?"

"Beh" fa la guerriera, stringendosi nelle spalle "anch'io ho bisogno di qualche coccola di tanto in tanto."

"Brutta..." comincia Olimpia, preparandosi a tirarle una botta sul braccio, ma il rumore prodotto da Alexi nell'alzarsi dal suo sgabello, le rammenta della presenza del giovane.

"Beh, io vi lascio." dice questi fissando un immaginario punto sul pavimento. "Domattina sarà una giornata dura. Devo andare al villaggio a fare provviste e..."

"Più di quello che pensi." La voce di Xena lo costringe ad interrompere il discorso e ad alzare lo sguardo su di lei. "Prima voglio che ci accompagni alla tana di quella cosa."

Gli occhi di Alexi e Olimpia si spalancano contemporaneamente a quelle parole.

"Alla sua tana? Non ci sono più tornato da quando... Non so neanche se sarei in grado di ritrovarla!" protesta il giovane.

"Per questo non ci sono problemi." dice Xena. "Sia io che Olimpia dobbiamo aver lasciato tracce anche troppo evidenti del nostro passaggio questa notte e non credo che sarà difficile seguirle."

"Sei sicura che sia una buona idea, Xena?" chiede Olimpia, preoccupata. "Perché vuoi tornare così presto? Hai visto quanto è pericoloso."

"Sarà giorno, no? Se faremo con cautela non penso che correremo troppi rischi."

"E' proprio necessario che venga anch'io?" Alexi sembrava quasi un bambino in quel momento.

"Voglio studiare il posto alla luce del giorno, e ricontrollare le mie reazioni  a quel luogo in stato di lucidità. E voglio che ci sia anche tu."

"Ma io..."

"Alexi, se vuoi che risolviamo il problema devi fare quello che ti dico."

Questa volta il tono della guerriera non lascia spazio ad altre obiezioni e il giovane esce dalla stanza a capo chino.

"Si può sapere per cosa gli hai chiesto scusa, prima?" domanda subito Xena con aria lievemente divertita, non appena la porta si è chiusa dietro Alexi e le due donne sono rimaste sole.

"Mmh? Cosa?" chiede Olimpia, quasi soprappensiero. Poi il significato della richiesta le giunge alla mente. "Oh, niente d'importante. Una divergenza di opinioni. Piuttosto" aggiunge subito, cambiando argomento "perché vuoi tornarci? La vera ragione, intendo."

Adesso non vi è più traccia di divertimento negli occhi dell'altra.

"Devo scoprire fino a che punto quell'essere è in grado di influire sul mio lato oscuro, Olimpia, e ho bisogno che tu mi stia accanto, per controllarmi. E neutralizzarmi, se necessario."

Un'ombra di incredulità e paura passa nello sguardo della ragazza.

"Xena, è assurdo. Quella cosa potrebbe prenderci entrambe. Potremmo farci a fette l'un l'altra, senza neanche rendercene conto."

"E un rischio che dobbiamo correre, ma anche se non so il motivo, ho come l'impressione che non possa niente contro di te. Forse, perché davvero non può controllare più di una mente alla volta, o forse perché la luce che hai in te ti rende inattaccabile."

"Xena..."

"E' così, Olimpia. C'è una luminosità, una radiosità in te, non negarlo. Ha rappresentato per anni il mio faro nelle tenebre e mi ha condotta più volte di quante possa contarne alla salvezza dai mari in tempesta della mia anima. Questa volta forse servirà ad un più alto scopo."

Che risposta poteva dare Olimpia a quelle parole ed allo sguardo intenso, profondo che sentiva come perforarla attraverso l'azzurro di quegli occhi? La sua bocca si tende verso quella di Xena, mentre le sue braccia risalgono lungo la sua schiena, e il contatto tra le loro labbra diventa totale, esclusivo, cancellando il mondo intorno a loro per un lungo, infinito momento.

Poi, con il respiro ancora rotto dall'emozione di quegli attimi, a cui non si sarebbe abituata mai, la ragazza riapre gli occhi lentamente, incollandoli in quelli della sua sposa.

"Ma perché vuoi portarti dietro anche Alexi?" chiede con ancora un leggero affanno nella voce. "Lo potremmo mettere in pericolo, non credi?"

Con un po' di fatica a sua volta, Xena si sottrae all'incantesimo che quei contatti tra loro suscitano prepotentemente, cercando di concentrarsi sulle parole.

"Per due ragioni." risponde poi. "Anche se il suo potere non è paragonabile a quello di Aristis, Alexi è comunque l'unico tra noi dotato di un qualcosa che possa contrastare i poteri mentali di quell'essere..."

"Ma..." prova a dire Olimpia.

"... e secondo me" la previene Xena, prima che possa continuare "non ha ancora espresso appieno le sue capacità."

"Capisco." dice la ragazza dopo un attimo di riflessione. "E la seconda?"

"Ancora non lo so."

Olimpia la guarda come se non fosse ben sicura di aver capito.

"Come?"

"Non lo so." ripete semplicemente Xena. "Chiamalo istinto. E' come se ci fosse un'idea che mi ronza nella mente da tutta la sera e non riesco a capire cosa sia. Come un muro che mi impedisca di vedere qualcosa di ovvio. Poco fa, mentre parlavamo, c'ero quasi, ma poi  mi è sfuggito di nuovo." Con un sospiro, la guerriera si tira nuovamente a sedere. "E' esasperante. Come avere continuamente un nome sulla punta della lingua e non riuscire mai a ricordarlo. Che c'è?" chiede poi, fissando l'altra. "Non dirmi che capita anche a te."

Con una strana espressione nello sguardo, Olimpia si sta accarezzando il mento, riflettendo.

"E' strano." mormora "Fino ad un attimo fa, non mi aveva neanche sfiorata, ma ora che me lo dici... Credo di capire cosa intendi. Questo legame tra noi non cessa mai di stupirmi. Ehi!" esclama ad un tratto "E Argo? Con quello che è successo, me ne ero quasi dimenticata. L'hai ritrovata?"

"Sì, e l'ho lasciata al sicuro, da un amico."

"Un amico?" Olimpia la fissa sorpresa. "Tu hai un amico in questo posto dimenticato dagli dèi? E chi è? Lo conosco?"

"Sì e no." risponde Xena con un sorriso enigmatico. "Ma probabilmente non te lo ricorderesti."

"Ehi!" protesta la ragazza. "Io sono un bardo. E' il mio mestiere ricordare le cose per poterle narrare."

"E comunque non lo riconosceresti."

"Non lo riconoscerei?" Olimpia è l'immagine della perplessità. "Che vuol dire? E perché fai tanto la misteriosa?"

"Lascia perdere." dice Xena, con un sorrisetto. "Lo scoprirai a tempo debito."

"Ooh, mi fai impazzire, quando fai così." sbuffa Olimpia. "D'accordo, tieniti pure i tuoi piccoli segreti. L'importante è che Argo stia bene e sia al sicuro."

"Lo è, non preoccuparti." Xena si alza e comincia a liberarsi dell'armatura. "E' meglio riposare un po' adesso. Domani sarà una lunga giornata."

Olimpia si toglie gli stivali, poi con un leggero sorriso si stende sullo stretto giaciglio, appoggiando la schiena contro il muro dall'altra parte e lasciando accanto a sé uno spazio sufficiente ad accogliere la compagna.

"Riposare e basta?" chiede con un baluginìo malizioso nello sguardo.

Xena si immobilizza, fissandola. Chiude per un attimo gli occhi, respirando profondamente.

"Sì." risponde poi. "Stanotte non possiamo permettercelo. Domani avremo bisogno di tutta la concentrazione possibile e i nostri sensi dovranno essere al meglio. Forza, fatti più in là che puoi e dormi."

E la guerriera si distende sul bordo opposto del minuscolo pagliericcio, girandosi subito dall'altra parte.

"Ma così cadrai." protesta Olimpia.

"Dormi!"

"Oddèi." borbotta la ragazza, girandosi a sua volta dalla propria parte. "Una lunga giornata, eh? Ho l'impressione che neanche la notte sarà delle più brevi."

 

 

(47) Croft

 

Brian Croft vuota la sua terza tazza di caffè e lancia un'ennesima occhiata al grande orologio da parete. Quasi le dieci e trenta. Il locale non chiudeva che a tarda notte, quindi almeno da quel lato non c'era fretta, ma il fatto che fossero trascorse oltre due ore da quando aveva visto e salutato il suo amico Eddie Ericmann dandogli appuntamento lì, lo rendeva stranamente nervoso. Ma l'intera faccenda cominciava ad innervosirlo. Stava già andandosene dal luogo di quello che a tutta prima non pareva altro che un banalissimo delitto (un regolamento di conti tra piccoli spacciatori, o dei vagabondi ubriachi che avevano litigato per una bottiglia? Visto il posto e colta qualche chiacchiera tra i presenti, optava per quest'ultima ipotesi), quando, non sapendo neanche perchè, si era voltato un'ultima volta verso la folla che si accalcava sul bordo del vicolo e aveva visto qualcosa che lo aveva bloccato.

Un uomo robusto, sulla cinquantina, con impermeabile e cappello che si faceva largo tra la gente per raggiungere la scena del crimine. Brian lo aveva scorto per non più di qualche secondo da una certa distanza, in una strada illuminata solo dalla luce di un paio di lampioni e dai lampeggianti delle auto della polizia, ma non aveva avuto esitazioni nel riconoscerlo. Troppe volte l'aveva visto nelle foto inerenti al ritrovamento del corpo di Cheryl, e di persona all'inchiesta, frettolosa e superficiale, che ne era seguita. Un paio di volte aveva anche cercato di contattarlo per fargli qualche domanda, ma sempre senza successo. Era il tenente Carruthers... no, adesso era diventato capitano, se non ricordava male. Già, sì, proprio così, capitano. Una promozione piombatagli in grembo da qualche mese, dopo...

Ma sì, guarda un po', proprio dopo quella storia dell'Amazzone.

E ancora una volta, il misterioso filo del destino sembrava ricondurlo all'origine di quell'infinita sciarada. Il mistero dell'Amazzone, la morte di Cheryl, un tenente che diventa capitano dopo un'inchiesta che almeno ufficialmente si è conclusa in un fallimento. Come potevano tutti questi elementi, in apparenza così distanti tra loro, collegarsi al tragico esito di una comune rissa tra vagabondi? Insomma, in parole povere, cosa ci faceva un ufficiale di polizia di un altro distretto, in un posto simile per una ragione del genere? E in particolare, quell'ufficiale?

Girava voce, ma la cosa non aveva trovato conferme, che ci fosse stato un incontro al vertice quel pomeriggio in procura. Sembrava a quel che si diceva che il procuratore Ballister avesse esortato tutti i responsabili dei diversi distretti coinvolti negli infanticidi a una più stretta collaborazione. Evidentemente quel bellimbusto sentiva la sua preziosa poltrona scivolargli di sotto il sedere in quella disgraziata vicenda. Ma cosa poteva mai entrarci la morte di una vagabonda mendicante con le indagini su The Ogre? E soprattutto, cosa c'entrava lui?

Era questa la cosa che più sottilmente lo inquietava.

Perché nella sua passeggiata serale (che non rientrava certo nelle sue abitudini) era finito proprio in quel quartiere, lontanissimo dalla sua zona e da cui non passava mai? Cosa lo aveva spinto proprio lì?

Il tuo giornale è ad almeno venti isolati da qua. Un po' lunga come passeggiata, no?, gli aveva chiesto Eddie, a mo' di battuta. Verissimo, venti isolati che lui aveva evidentemente percorso con la testa totalmente tra le nuvole, perché non ricordava assolutamente come ci fosse arrivato. Gli sembrava di essere appena uscito dal View per risvegliarsi, come da un sogno, un momento dopo in mezzo a quella gente che scrutava morbosamente i postumi di un delitto, e se non ci fosse stato il suo orologio a testimoniarlo non ci avrebbe creduto. Si può camminare per quasi un'ora senza ricordarsene minimamente?

Non aveva memoria che gli fosse mai successo niente del genere. Il suo cervello era a posto. Faceva ogni anno un check up completo e minuzioso e l'ultimo risaliva a meno di un mese prima. Quindi nessun problema di quel tipo, e allora?

Brian si sorprende di avvertire un brivido improvviso scorrergli lungo la spina dorsale. Non gli capitava più dai tempi della scuola. Qualcuno ha calpestato la tua tomba, gli rispondeva sorridendo sua nonna, quando correva da lei a dirglielo, e insieme ridevano di quell'idea ridicola. Come poteva qualcuno calpestare la sua tomba, se lui era lì, vivo e vegeto?

Ma ora d'un tratto, la cosa non gli sembra più tanto assurda. Non con il buio della notte che pare bussare contro la vetrina di Freddie. L'illuminazione al neon del locale impedisce di poter scorgere il panorama esterno, trasformando il grande cristallo in uno specchio nero che rimanda la sua immagine riflessa oscura e trasparente come quella di un fantasma, e Brian fissa se stesso con un sinistro presentimento. E tutte le paure ed i terrori superstiziosi dell'infanzia lo riassalgono, riportandolo come per magia a quel bambino gracile e timido che era stato, affascinato e terrorizzato ad un tempo dalle storie del soprannaturale e di fantasmi, terrori che forse non aveva seppellito interamente nella crescita e nello sviluppo, come credeva, e che pensava a volte non fossero estranei alla scelta di vita che aveva fatto. Ma tutto questo ormai apparteneva al passato, vero? Vero?

La campanella dell'ingresso squilla argentina, spezzando quella sorta di trance in cui stava cadendo e collegandosi bizzarramente ai suoi ricordi infantili lo riporta a pomeriggi assolati spesi con sua nonna in locali come quello, a mangiare coppe gigantesche di gelato, e Brian volta lo sguardo nella direzione della porta, da dove Eddie è appena entrato, e ora sta dirigendosi verso il suo tavolo. Il giornalista lo saluta con un cenno della testa e, interiormente, un sospiro di sollievo. Cominciava davvero a temere che non sarebbe più venuto, e lui ha tante, troppe domande che necessitano urgentemente di una risposta.

 

Alla fine, il colloquio con Ericmann era risultato molto meno soddisfacente di quanto Croft si fosse aspettato. Quello che il giovane poliziotto aveva potuto dirgli era né più né meno quello che lui aveva già appreso orecchiando qua o là i discorsi della gente presente sul luogo. La vittima era una vecchia mendicante alcolizzata che ormai viveva in quella specia di baracca dietro Sorrentino da più tempo di quanto i residenti del quartiere ricordassero. Qualcuno l'aveva sgozzata con un pezzo di bottiglia e l'aveva lasciata a morire in quell'immondezzaio che chiamava casa.  A quanto pareva, nessuno aveva visto o sentito niente, e questo per certi versi, aveva detto Eddie, poteva costituire un elemento interessante. Se l'omicidio fosse avvenuto a seguito di una lite o una rissa tra ubriachi, si sarebbero sentite le urla, gli schiamazzi, e sicuramente sarebbe saltato fuori qualche testimone. Così stando le cose, invece, l'ipotesi più probabile appariva quella del cliente che l'aveva uccisa per non pagarla, o di un maniaco che avesse deciso all'improvviso che a questo mondo non c'era posto per rifiuti della società di quel genere, e questa era sicuramente la possibilità più paventata. Un altro serial killer in città, sia pur di barboni e mendicanti, non era certo un'eventualità auspicabile in questo momento. Ma vista, l'apparente occasionalità dell'arma che l'assassino doveva essersi procurata sul posto, l'ipotesi più gettonata restava la prima.

"Cliente?" aveva chiesto tra il curioso e il perplesso Brian, mettendogli davanti un'altra lattina di birra. Eddie non era più in servizio per quel giorno, e l'accenno di pancetta che neanche la divisa attillata riusciva a dissimulare la diceva lunga sulla sua bevanda preferita.

"Già." aveva risposto Ericmann, con un sorrisetto. "La vecchia Rose arrotondava i soldi delle elemosine con qualche servizietto di bocca, di tanto in tanto, e pare che avesse tutto sommato un bel giro."

"Ma senti." aveva ribattuto il giornalista. "E gli abitanti della strada la tolleravano?"

"Se non l'avessi notato, questa non è Manhattan o Beverly Hills, Croft. Qui la gente è abituata a tollerare ben altro." E con una risatina sardonica, il poliziotto aveva preso una lunga sorsata dalla sua lattina.

"Mi è parso di vedere il capitano Carruthers sul posto." aveva poi buttato lì Brian, con aria casuale. "Che ci faceva lì uno dei pezzi grossi per l'assassinio di una semplice mendicante?"

"Chi?" Ericmann aveva ingoiato di gusto un'altra bella sorsata, e l'aveva guardato interrogativamente.

"Ma sì, il capitano Carruthers, quello della centrale. L'ufficiale che si occupa degli infanticidi." aveva insistito Croft spazientito. Chi credeva di prendere in giro quello sbarbatello? Non fare il furbo con me, Eddie.

"Ah sì, ne ho sentito parlare." aveva finalmente risposto Ericmann, senza molto interesse. "Era lì anche lui? Non lo sapevo."

Croft era rimasto ad osservarlo senza parlare per qualche attimo. Poi aveva dovuto cedere alla realtà. Lo sguardo vuoto del poliziotto era troppo genuino per essere frutto di una simulazione. Conosceva Eddie da abbastanza tempo da poter escludere che fosse un così buon attore, specialmente dopo le prime tre birre.

Improvvisamente Brian aveva sentito piombargli addosso tutta la stanchezza di quella giornata e l'inutilità di trattenersi ancora lì per estorcere qualche altro brandello d'informazione al suo interlocutore, che gli pareva molto più interessato a svuotare lattine, gli era apparsa in tutta la sua evidenza. Anche se in quel vicolo fosse accaduto molto più di quanto dicevano le apparenze non era certo Eddie Ericmann che avrebbe potuto confermarglielo.

In compenso, il grande orologio alla parete gli aveva confermato che le undici erano passate da un pezzo e la prospettiva di un morbido letto dove trascorrere le prossime otto ore gli parve l'unica degna di considerazione e al diavolo tutto il resto. Così, si era alzato, salutato Ericmann e lasciate un paio di banconote da cinque sul tavolo, era uscito dal locale, e ora stava camminando, ripercorrendo la strada che doveva per forza aver fatto all'andata, cercando di ricollegare ricordi o immagini di qualcosa che pur distrattamente doveva aver visto nel suo giro. L'insegna di un negozio, il semaforo ad un incrocio, un manifesto pubblicitario, qualcosa, qualunque cosa.

E invece niente. Assolutamente niente.

Le strade, i negozi, le vetrine, le insegne, niente gli richiamava alla mente ricordi recenti. Conosceva, sia pur superficialmente quella zona e aveva perfino abitato non lontano da lì anni prima per un breve periodo, ma di sicuro non riusciva a rammentare di averla attraversata a piedi quella stessa sera, solo poche ore prima.

Di nuovo quel brivido gelido nella schiena che gli scuote le spalle inconsultamente.

Ma che c'è, eh? Che mi prende?

Non doveva lasciarsi suggestionare. Ci doveva essere una spiegazione naturalissima. Aveva camminato soprappensiero, ecco tutto. Talmente immerso nei propri pensieri da non rendersi conto neanche di quanta strada avesse fatto e dove fosse finito. Non soffriva di amnesie, il suo cervello stava benissimo e, sicuramente (sicuramente!) non aveva avuto nessuna esperienza paranormale. La sola idea era ridicola. Aveva passato abbastanza anni della sua vita in un giornale che su cose di questo genere ci campava, da sapere molto bene che si trattava di argomenti senza alcun fondamento. Terrori infantili.

Era solo stanchezza. Ecco, esatto, proprio stanchezza. Il mattino dopo a mente fresca, ci avrebbe fatto su una bella risata.

Scuotendo la testa, Brian Croft accellera il passo in direzione di casa.

 

 

(48) Jennifer 

 

Dopo la breve conversazione con Carruthers, Jennifer era rimasta a lungo con il piccolo cellulare stretto nel pugno. La telefonata era stata poco più che un pretesto. In realtà se avesse voluto consultare davvero qualcuno, non avrebbe avuto bisogno di chiedere niente. Lo avrebbe fatto e basta. Era stata la polizia, nella persona del capitano George Carruthers, a chiedere la sua collaborazione e si riteneva quindi autorizzata tacitamente a rivolgersi a chiunque potesse esserle utile a svolgere al meglio il compito assegnatole.

No, quella chiamata aveva avuto due scopi, ma nessuno dei due aveva a che fare con le indagini. Il primo, il più ovvio, era quello di potersi scusare con George per come si era comportata. D'accordo, non era che negli ultimi mesi, in quelle rare occasioni  che aveva avuto di vederlo o parlargli si fosse comportata molto meglio, ma almeno da un giorno e mezzo a quella parte, in qualche modo, Jennifer credeva di aver voltato pagina, di essere riuscita a tornare più o meno in sintonia con se stessa e la sua sfuriata con George non rientrava in questa nuova immagine che cominciava ad avere di sé (beh, veramente neanche quello strano sogno che aveva fatto vi rientrava molto, ma quella era un'altra storia), perciò era necessario, almeno ai suoi occhi, rimettersi velocemente in carreggiata e gettarsi con decisione alle spalle ogni depressione o isterismo, e scusarsi con il suo amico era un modo per farlo.

La seconda ragione era assai meno confessabile della prima.

Era stata una prova, un tentativo di assodare se quell'idea assurda che le era venuta potesse poggiare su un minimo di fondamento. E disgraziatamente le era proprio sembrato che gli appoggi non mancassero.

Jennifer non aveva potuto vedere il viso di Carruthers al telefono, ma le sue parole, e più ancora il tono della sua voce le avevano detto più di mille immagini.

Non è esattamente il contrario di solito? aveva pensato, con un involontaria risatina. Si dice che sia un'immagine a valere più di mille parole.

Ma nel suo caso era così. Quel tono di voce non poteva essere equivocato. Troppe volte lo aveva sentito in passato. Un passato talmente remoto da sembrarle appartenere ad un'altra vita. Non vi è ragazzina di quindici, sedici anni, in quell'età in cui ci si affaccia sul proprio futuro di donna, con un bel visetto e le prime curve ben in evidenza, che non l'abbia sperimentato. Nel compagno di scuola che ti ha fatto il filo silenziosamente per un anno e che un bel giorno ti chiede di andare con lui al ballo di fine corso; o in quello a cui dai il primo bacio ad occhi chiusi, dietro i cespugli sul vialetto prima di arrivare a casa tua, per evitare sguardi indiscreti. Un tono di voce che ti dice che in quel momento tu sei il sole, la luna e le stelle, e chi ti sta parlando sarebbe disposto a fare qualunque cosa per te. Magari non te lo dirà con le parole, ma non ce n'è bisogno, perché è già tutto lì, nel tono. Sensazioni che poi negli anni si attenuano, man mano che si cresce e ci si allontana da quell'ingenuità adolescenziale, credendo che non si incontreranno mai più nella vita. E invece lei le aveva ritrovate, vent'anni dopo, nella voce di un burbero ufficiale di polizia ultracinquantenne.    

La cosa sarebbe stata perfino buffa in altre circostanze, ma non adesso, non qui. Non dopo quello che era accaduto. In questo momento era solo un grottesco scherzo della sorte.

E quindi, come avrebbe dovuto comportarsi? Rinunciare? E per cosa, per tornare alla sua vita fatta di niente, a consumarsi lentamente, aggrappata ai ricordi? No, era fuori discussione. Adesso Jennifer si rendeva conto di quanto quell'incarico significasse per lei. Credeva di averlo accettato solo per spirito altruistico, per contribuire in qualche modo a fermare quell'orribile catena di delitti, ma ora sapeva che non era solo per questo. Era la possibilità che il destino le aveva offerto per tornare a vivere davvero, avere di nuovo un obiettivo, ricominciare a fare un lavoro che aveva sempre adorato e non voleva rinunciarci. E allora, cosa fare? Probabilmente la miglior politica era quella dell'indifferenza. Quasi sicuramente Carruthers neanche capiva quello che gli stava capitando. Era un uomo pragmatico, abituato a confrontarsi con i problemi pratici della vita e della sua professione, che gli avevano lasciato poco spazio per le fantasie. In anni di collaborazione, quando esulavano per qualche minuto dall'argomento lavoro, non ricordava di averlo mai sentito parlare d'altro che non fossero le rate della macchina, le scadenze del mutuo e più recentemente il prossimo pensionamento. E dopotutto lei sapeva bene, quanto possa essere ottusa la natura umana. Quanto le ci era voluto per ammettere, prima di tutto con se stessa, che amava Joyce?

Sì, era la cosa migliore. Fare finta di nulla, come se non se ne fosse accorta. Lei non avrebbe fatto il minimo accenno, e lui, ci avrebbe giurato, anche se avesse finito per rendersi conto di quel che provava, si sarebbe fatto scannare piuttosto che riconoscerlo. Era un accettabile compromesso, uno con cui si poteva vivere, indossare una maschera e tirare avanti. E d'altro canto, non è forse quello che facciamo tutti, sempre?

Intanto però un problema si poneva. Aveva detto a Carruthers che intendeva consultare un esperto e quindi doveva trovarne uno. Un antropologo, uno studioso di riti cannibalistici dell'antichità che potesse fornirle informazioni utili per comprendere se questo assassino seguiva un qualche rituale nelle sue imprese. Forse è la parola antichità a spalancarle una finestra nella mente e a farle comprendere come in modi misteriosi a volte le strade del destino si incrocino inaspettatamente. Con un sorriso sulle labbra, esamina velocemente il display del cellulare e trovato un numero, preme OK. Lo squillo dell'apparecchio ricevente risuona nel suo orecchio una sola volta, prima che una voce fin troppo nota lo segua.

"Pronto?"

"Buonasera, professor Sutherland." risponde subito Jennifer. "Scommetto che non pensava che ci saremmo risentiti così presto."

 

(8 - continua)





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