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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA
GUERRIERA" CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT E SVILUPPATA DA R.J.STEWART E SULLA SERIE INTERNET "XENA
WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON" DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E
TNOVAN
Nonostante
sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA, questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo
di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti
del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia,
il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni)
e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati,
ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda. Dei
due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è
collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica
l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..."
riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al
termine di quella storia. La
scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not
Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione
della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più
semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet
della serie televisiva, scritto da Melissa Good. (49) Sutherland Michael Sutherland non sognava mai.
Beh, ovviamente questa non è un'affermazione totalmente vera. Nella
sua lunga vita il professor Sutherland aveva nutrito moltissimi sogni,
da quelli più ingenui e giovanili che lo vedevano nei panni di un
audace esploratore che un giorno avrebbe scoperto le vestigia di qualche
antica civiltà sepolta dai millenni, a quelli più posati e riflessivi
della maturità che, dopo il conseguimento della laurea in psicologia
(branca a cui lui non aveva mai pensato, ma impostagli dai genitori,
e che comunque aveva poi imparato ad apprezzare) e i lunghi anni di
apprendistato, lo avevano condotto a sperare di giungere alla gloria
attraverso i suoi studi e i suoi scritti in cui aveva cercato di far
coincidere l'utile con il dilettevole, coniugando l'ostica materia
dell'analisi dei comportamenti umani alla sua innata passione per
la storia antica, applicandola alla trasformazione della società nei
secoli. Ma se parliamo di sogni in senso stretto,
cioè quelle pause di solito notturne che la nostra mente si prende
dalla realtà quotidiana, trasportandoci in un mondo sospeso dove viviamo
esperienze di cui poi conserviamo solo poche e confuse memorie al
risveglio, allora veramente Michael Sutherland non sognava
mai. Nè la cosa lo aveva mai preoccupato
più di tanto. Questa sua incapacità di rammentare anche la minima
porzione di quello che si sarebbe potuto definire un sogno lo lasciava
indifferente. Si addormentava la sera piuttosto regolarmente e si
risvegliava al mattino altrettanto puntuale, tanto che in tutti gli
anni di professione non aveva mai avuto bisogno di puntare una sveglia.
Sua moglie, che Dio l'avesse in gloria, gli diceva che era un dono
eccezionale, una vera e propria benedizione, e probabilmente la sua
opinione in merito non era slegata un po' egoisticamente dal fatto
di essere svegliata tutte le mattine dall'odore della colazione pronta.
Oggi, che era rimasto solo, Sutherland
si godeva comunque questo suo dono che lo manteneva ad una
vita regolata e non lo costringeva a quei pisolini diurni cui spesso
sono soggette le persone anziane. Così dire adesso che il professore
si sentiva lievemente disorientato non era inesatto. Ma a turbarlo
non era stato l'essersi appisolato in pieno pomeriggio, per quanto
per lui fosse una cosa del tutto inusuale, ma l'inquietante sensazione
che aveva avuto subito al repentino risveglio di essere stato da
qualche parte. Non avrebbe saputo spiegarla meglio,
ma non c'era stato questa volta quel vuoto assoluto che riempiva sempre
il suo sonno, quell'addormentarsi e svegliarsi solito in cui l'unica
testimonianza del tempo trascorso era rilevabile dalle lancette dell'orologio.
No, questa volta aveva avuto la precisa impressione che qualcosa fosse
accaduto nella sua mente in quell'arco di tempo in cui si era inopinatamente
assentato. Non sapeva esattamente quanto avesse dormito. Non ricordava
quando avesse guardato l'orologio l'ultima volta, ma invece rammentava
benissimo che il pallido sole che si era finalmente deciso a fare
capolino tra le nuvole in quella giornata, lambiva i gradini del portico
sul quale si era fermato a leggere, prima che perdesse contatto con
il mondo circostante, e ora i suoi raggi si erano spostati molto più
indietro, allungando le ombre, e il cielo ai suoi estremi confini
stava cominciando ad assumere il caratteristico rossore del tramonto.
Il libro con cui aveva cercato di riempire
il suo solitario pomeriggio doveva essergli scivolato dalle mani e
ora giaceva aperto ai suoi piedi. Forse era stato proprio il rumore
del volume che cadeva a svegliarlo, non sapeva dirlo con certezza.
Quello di cui però era sicuro era il senso di sollievo che aveva provato.
Perché qualunque fosse il posto in cui era stato era freddo e oscuro,
come una tomba. Con la sua usuale capacità analitica,
Sutherland si era imposto di provare a ricordare qualcosa, per spiegare
quell'irrazionale inquietudine che sentiva addosso, ma c'era riuscito
solo a tratti. Concentrandosi con tutte le sue forze era arrivato
a recuperare dei suoni strani, ripetitivi e sinistri che nel sogno
sembravano giungergli da ogni direzione, ma nessuna immagine, come
se si fosse trovato immerso nella più assoluta oscurità. Il suono
che aveva avvertito gli pareva ora come se fosse riecheggiato in una
specie di cavità. Poteva essere una caverna? Sì, certo che poteva. Ma per quale
ragione, in un noioso pomeriggio autunnale, l'uomo che non sognava
mai avrebbe dovuto sognare di trovarsi in una caverna? E se si fosse
trattato proprio di una tomba? Possibile che il suo subconscio fosse
andato a ricercare qualche sua lontana memoria nei voli di fantasia
che faceva da ragazzo sulle civiltà perdute e le tombe piene di tesori
di antichi re? E non aveva avuto anche la percezione di un odore?
Vago, sgradevole, ma ora che ci ripensava, gli pareva di tornare a
sentirlo come se gli avesse impregnato le narici. E comunque cos'erano
quei rumori? Chi o cosa li produceva? Per quanto si sforzasse, Sutherland
non avrebbe saputo dirlo, e inoltre man mano che usciva lentamente
da quello stato di leggero stordimento che l'imprevisto sonnellino
gli aveva procurato, i già labili ricordi del sogno sbiadivano sempre
più, finchè non ne era rimasta che qualche vaga sensazione. Con un sospiro di rassegnazione, Sutherland
si china a raccogliere il libro, e resta a fissarne soprappensiero
la copertina. Uno dei romanzi della collezione di sua moglie che lui
teneva ancora religiosamente in ordine sullo scaffale del salotto.
Martha adorava le storie sentimentali, quelle romantiche e piene di
ostacoli, in cui gli innamorati di turno sembra non potranno mai realizzare
il loro amore. Ne aveva di varie autrici e questo in particolare era
firmato da Georgette Heyer, un classico del genere. Lui l'aveva sempre
presa bonariamente in giro per questa sua passione, ma pochi mesi
dopo la sua morte, un giorno in cui il ricordo di lei gli pareva più
lancinante del solito, ne aveva preso uno e con la vista leggermente
offuscata dalle lacrime aveva cominciato a leggerlo. Lo aveva terminato
quella sera stessa, e il giorno dopo ne aveva iniziato un altro. E
così via. In poche settimane, uno dopo l'altro li aveva letti tutti,
e doveva sinceramente riconoscere che possedevano un certo fascino,
pur se il loro stile risultava a tratti inutilmente ridondante. Le
autrici, tutte donne, sapevano comunque tenere in sospeso il lettore
sulla sorte dei loro protagonisti, e anche se il tipo d'amore di cui
scrivevano, una devozione totale ed assoluta per la persona amata,
spinta spesso fino al sacrificio, non pareva molto realistica, Sutherland
si era scoperto più volte ad emozionarsi nel leggerli. Perché lui un tipo d'amore di questo
genere l'aveva visto davvero, aveva potuto quasi toccarlo con mano,
negli occhi azzurri di una donna, una guerriera di un tempo dimenticato,
mentre questa fissava il suo sguardo su un viso giovane e addormentato.
Stranamente di tutti i tragici e sconvolgenti avvenimenti di quella
indimenticabile notte, quello che più spesso gli tornava alla mente
era proprio il lampo d'indicibile amore che si era acceso in
quegli occhi in quel momento. In quell'attimo, quell'abusata parola
aveva cessato di essere solo una parola ed aveva assunto finalmente
il suo vero significato. Re ed imperatori avrebbero volentieri donato
tutte le loro ricchezze perché qualcuno li guardasse così una sola
volta nella loro vita. E quando rileggeva di sguardi intensi ed appassionati
in quei romanzi, Sutherland si chiedeva se la signora Heyer o qualcuna
delle sue colleghe sarebbero mai state in grado di descrivere quello
che aveva visto lui. In qualche modo ne dubitava, perché quello sguardo
era al di là di ogni possibile descrizione, e forse era meglio così. Stringendo i denti in attesa della
fitta che sapeva gli sarebbe arrivata in fondo alla schiena, non appena
avesse provato ad alzarsi, Sutherland appoggia le mani sui braccioli
della poltrona in vimini e si solleva lentamente in piedi. Meglio
di quanto avesse temuto. Aveva avvertito una leggera puntura, come
quella dell'ago di una siringa, ma niente di più. Quel nuovo antidolorifico
che gli aveva segnato il dottor Johnson faceva il suo dovere. Con passi lenti e strascicati, il vecchio
studioso, il libro stretto contro il petto, rientra nella sua casa. Ormai anche i suoi pasti erano divenuti
una mera abitudine. Sutherland aveva praticamente dimenticato cosa
volesse dire avere appetito. Mangiava solo perché a certe ore della
giornata gli pareva quasi di sentire la voce della sua Martha. "Devi
mangiare Micky (lei lo aveva sempre chiamato così anche se lui
aveva inutilmente cercato di farle comprendere che quel nomignolo
non si adattava molto ad un dignitoso professore universitario) Se
dipendesse da te ti lasceresti morire di fame." gli diceva
sempre ed aveva perfettamente ragione. Preso come era dalle sue lezioni
e dai suoi libri, era tutt'altro che insolito che dimenticasse di
pranzare, ben conscio comunque che a cena, sua moglie avrebbe ampiamente
rimediato alla lacuna. Ora Martha non c'era più, ma le abitudini che
gli aveva instillato, a volte contro la sua naturale indole, resistevano,
come un estremo tentativo di trattenere quante più memorie di lei
gli fosse possibile. Tuttavia, questa sera, gli ultimi bocconi
dello stufato che aveva preparato il giorno prima, prevedendo che
sarebbe bastato almeno per un paio di giorni, non riuscivano ad andare
giù e dopo un paio di tentativi, Sutherland desiste. Si alza, sempre
con molta cautela, dal tavolo e appoggiandosi al bastone che ormai
usa abitualmente, si trascina fino al grande divano del salotto, dove
si lascia cadere con un sospiro di sollievo. Il telecomando del televisore
era posizionato strategicamente sul basso tavolinetto, in modo che
non dovesse fare sforzi inutili per prenderlo. Ogni oggetto o utensile
nella sua casa aveva un posto studiato appositamente per evitargli
movimenti che potessero provocare fitte, riacutizzando i suoi dolori
sciatici. La necessità acuisce l'ingegno. Sutherland preme il pulsante di accensione
del piccolo apparecchio e la tv si illumina, automaticamente sintonizzata
sul suo abituale canale di news. La deliziosa ragazza che appare
sullo schermo è in assoluto la sua preferita, si chiama Katherine
Cornell ed è una delle più giovani anchorwomen del momento.
Una bella rossa con una grande cascata di capelli e una montagna di
efelidi ad incorniciare due occhi verdi ed un sorriso splendido. Sutherland
l'aveva incrociata una sera nel suo rituale attraversamento delle
varie stazioni televisive e se ne era immediatamente innamorato, come
ci si può innamorare di una bella immagine che si muove su uno schermo
a Ma stasera, anche il sorriso di Katherine
pareva meno radioso. In città le ultime notizie sui macabri ritrovamenti
di scheletri infantili si erano rapidamente diffuse, spegnendo le
ultime speranze sulla sorte dei bambini rapiti e le prime reazioni
rabbiose da parte della gente non avevano tardato a farsi sentire.
Gruppi di genitori stavano progettando di formare squadre di vigilanza
per la sorveglianza delle strade, vista l'evidente impotenza della
polizia, e in una rumorosa manifestazione esplosa autonomamente nel
pomeriggio, madri e padri in corteo avevano chiesto le dimissioni
del capo della polizia, del procuratore Ballister e del sindaco. Dal
canto loro, le autorità rassicuravano la cittadinanza sull'assoluta
determinazione da parte delle forze dell'ordine ad impedire nuovi
simili efferati crimini e ad individuarne l'autore o gli autori, e
a quell'unico scopo lo stesso procuratore aveva istituito una task
force. Ma le parole non parevano più bastare alla folla che aveva
tempestato le sedi istituzionali di slogan e manifesti, proclamando
tutto il proprio malcontento e la propria paura. "L'ombra
di The Ogre", aggiunge Katherine, con un tono sinistro che
le era del tutto insolito,"aleggia sulla città.".
Poi l'immagine si sposta sulle previsioni del tempo, e Sutherland
spenge la tv, restando al buio nel grande salotto. Il suo sguardo è posato adesso sulle
ampie portefinestra che danno sul giardino. La pallida illuminazione
del patio manda un debole lucore anche all'interno. Era stata la parola
vigilanza a richiamarglielo di nuovo alla mente. Era davvero
la giornata delle reminiscenze. Una sera come quella di molti mesi
prima. Lui era seduto al buio in quella stessa stanza, proprio come
ora, solo nella poltrona vicino al muro. La finestra si era aperta
senza rumore ed una figura alta e snella aveva fatto il suo silenzioso
ingresso. Soltanto allora, lui aveva acceso la lampada accanto a sé
ed aveva rivelato la sua presenza, trovandosi di fronte alla più straordinaria
visione della sua vita. Xena. La stava aspettando e tuttavia non
riusciva a credere ai suoi occhi, mentre percorreva con lo sguardo
quel corpo giovane ed antichissimo nello stesso tempo, vibrante di
forza e determinazione nella sua incomparabile bellezza. Lei gli aveva
puntato contro la lama della sua spada, ma lui era troppo affascinato
per provarne timore. Chissà,
pensa, forse ora avrebbe fatto comodo poter contare su qualcuno
del genere. Se Carruthers e i suoi ottusi scagnozzi avessero usato
il cervello anziché le armi. Se solo quella sera le cose fossero andate
come avrebbero dovuto... Come avevo sperato che andassero... E invece... La miopia e la stupidità dell'ordine
costituito avevano ancora una volta distrutto ciò che non riuscivano
a comprendere. Forse Dio nella sua immensa onniscienza aveva davvero
inviato loro un angelo per combattere il male che stava arrivando.
Un angelo armato della spada infuocata della giustizia e loro non
avevano saputo riconoscerlo. Oh, piantala, vecchio scemo. Adesso
manca solo che ti venga una crisi mistica. Probabilmente invece le cose erano
andate esattamente come dovevano. Xena non era arrivata fin là per
compiere chissà quale opera di giustizia. Voleva solo ritrovare la
sua anima gemella. E c'era riuscita, e lui, dentro il suo cuore, sentiva
che adesso da qualche parte i loro destini procedevano nuovamente
insieme, spalla a spalla. A lui era stata data solo l'opportunità
di partecipare ad un miracolo ed era una cosa di cui sarebbe sempre
stato grato a qualunque entità glielo avesse concesso. Così come sarebbe
stato sempre pronto a qualunque nuova chiamata, se mai ce ne fosse
stata un'altra, se come aveva pensato (sperato) il suo scopo in questa
valle di lacrime non fosse concluso... In quel momento, lo squillo del telefono,
l'antiquato apparecchio fisso, anch'esso strategicamento posizionato,
di cui non si era mai voluto sbarazzare per non arrendersi all'invasione
imperante del cellulare, rompe il silenzio della casa. E Sutherland tende la mano ed afferra
il ricevitore. "Pronto?" chiede. E subito
una voce che pare richiamata per magia dalle sue memorie gli risuona
nell'orecchio. "Buonasera, professor Sutherland."
risponde Jennifer Rowles. "Scommetto che non pensava che ci saremmo
risentiti così presto." (50)
Carruthers Per l'ennesima volta, George Carruthers cambia posizione nel letto, questa volta girando la faccia nella direzione opposta alla finestra da cui entrano le luci delle insegne che illuminano ad intermittenza il soffitto della sua camera. Abitava da anni in quell'appartamento e quelle luci erano praticamente lì da sempre e non l'avevano mai infastidito prima. Anzi le trovava piuttosto rilassanti e anche quando il sonno tardava a venire, dopo una dura giornata come quella appena trascorsa, gli bastava rimanere per un po' ad osservarle, cercando di sgombrare la mente da ogni pensiero, ed il loro sottile potere ipnotico finiva sempre per avere il sopravvento facendolo scivolare quasi senza accorgersene nel sonno. Ma non questa notte. Questa notte una strana, insolita inquietudine, sembrava essersi impadronita di lui. Nonostante l'aria fredda che proveniva dallo spiraglio di finestra che in qualunque stagione non riusciva mai a tenere chiusa, sentiva il sudore scorrergli copioso sulla schiena, la fronte, sotto le ascelle. Cambiare posizione serviva solo per pochi istanti. Appena il tempo di rinfrescare un po' quelle parti del suo corpo che sembravano andare a fuoco, e immediatamente il calore si ridistribuiva ovunque. Alla fine, con un grugnito di rabbia, Carruthers si alza, infila le pantofole e strascica i piedi fino alla cucina, dove si lascia cadere a sedere su una delle sedie metalliche. Che diavolo ho, stanotte? pensa. L'insonnia non era una cosa tanto inusuale per lui, ma quell'agitazione e quell'impossibilità di stare fermo, come se litri di adrenalina gli scorressero ininterrottamente nelle vene, lo erano eccome. Sentiva il suo cuore pompare sangue ad un ritmo decisamente anomalo. Mio
Dio, e se fosse un principio d'infarto? Ma non sentiva dolori al petto, irrigidimento alle braccia, difficoltà respiratorie e tutte le avvisaglie che, aveva letto, precedevano l'arrivo di una crisi cardiaca. No, parevano piuttosto i sintomi di una crisi nervosa, un'attacco di panico, o una cosa del genere. La verità era che non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine del cadavere di quella mendicante. Tutte le volte che aveva provato a chiudere gli occhi, il volto pallido in maniera inverosimile di quella poveretta tornava ad infestargli la mente. Dopo tanti anni nella polizia, non si considerava certo più una persona impressionabile. La sua assoluta mancanza d'immaginazione, poi, lo aiutava notevolmente ad affrontare cose anche molto più scioccanti di quella. Eppure quel povero corpo abbandonato al suolo in mezzo a quell'immondezzaio continuava a perseguitarlo come se il suo cervello gli stesse mandando un avvertimento che non riusciva a decodificare. Cosa poteva voler dire? Cercando di distrarre la mente da quell'immagine ossessiva, il poliziotto si alza. Un caffè forse non era la soluzione ideale nel suo stato, qualcosa di forte lo avrebbe aiutato di più a riprendere contatto con la sua parte razionale, ma d'altronde non aveva altro in quel momento che potesse fare maggiormente al suo caso, maledizione alle sue abitudini da scapolo. Generalmente faceva la spesa un paio di volte al mese, riempiendo il frigorifero al massimo della sua capienza, ma negli ultimi giorni la sua mente era stata occupata da ben altri pensieri, trascinandosi per i suoi scarsi pasti tra un fast food e la mensa della centrale, e gran parte della roba conservata da settimane aveva finito per andare a male, costringendolo a buttarla via per lo più senza averla neanche assaggiata. La scelta rimasta era tra il caffè solubile ed una bottiglia d'aranciata che aveva già da molto tempo perso ogni traccia di effervescenza. Quindi, vada per il caffè. Mentre attende che l'acqua bolla, Carruthers inspira ed espira profondamente, il metodo classico per riprendere possesso dei nervi, mentre lascia che i suoi pensieri vaghino nei pochi ricordi piacevoli di quella giornata, anzi nell'unico ricordo piacevole, la telefonata di Jennifer. Avere in qualche modo ricucito il rapporto con l'amica, dopo la terribile reazione che lei aveva avuto quel mattino, aveva restituito alla sua giornata nera quel minimo di tollerabilità per non ascriverla totalmente nella lista dei giorni da dimenticare. Il ricordo della voce di Jennifer gli riporta senza neanche accorgersene un leggero sorriso sulle labbra, che però sparisce istantaneamente non appena il pensiero di lei richiama inconsulto l'oscuro presagio che l'ha preceduto, facendogliene finalmente comprendere l'esatta natura. Lentamente, l'uomo torna a sedersi, ricucendo i lembi dei due pensieri, apparentemente alieni tra loro, ma che un'idea sottilmente allarmante sta collegando nella sua mente. Se, come lui sospettava, la vecchia mendicante non era stata uccisa in una rissa tra ubriachi o da un cliente inadempiente, c'erano ottime possibilità che ad ammazzarla potesse essere stato l'infanticida che i giornali chiamavano The Ogre. La cosa non era del tutto automatica, Carruthers era disposto a riconoscerlo, ma in realtà, quanto era probabile che un'innocua barbona, testimone solo poche ore prima del seppellimento di uno scheletro (e quindi un potenziale pericolo per l'assassino) potesse essere stata uccisa per qualche altra ragione? Di conseguenza, partendo da questo presupposto, si poteva ipotizzare che l'assassino l'avesse tenuta d'occhio in attesa di una buona occasione per toglierla di mezzo. Non aveva potuto farlo mentre scappava nel distretto di polizia, e neanche quando ne era uscita perché la donna era stata trasportata in ospedale, ma doveva essere rimasto nei paraggi per seguire l'evolversi della situazione. E se avesse visto arrivare Jennifer, e magari l'avesse anche vista andarsene con lui? Finché era stata nell'entourage del procuratore, anche Jennifer aveva goduto di una certa notorietà sui giornali e in tv. L'assassino in agguato poteva averla riconosciuta e messa in relazione con la testimone. E se avesse temuto che questa potesse averle fatto delle confidenze? A tutta prima, pareva un'idea assurda. Qualunque confidenza la vecchia Rose avesse mai fatto non poteva certo restare privata, visto che avveniva in una stazione di polizia e quindi Jennifer non sarebbe stata l'unica ad udirla, ma chi poteva dire come ragionasse un tipo del genere. Gente così compiva massacri per un'occhiata storta. E se avesse pensato che Jennifer nel suo ruolo di psicologa, interrogando la mendicante, potesse cogliere dei dettagli che rischiassero di portare alla sua identificazione? Nella sua mente delirante, non sarebbe stato logico, uccidere, dopo la testimone, anche la donna che le aveva parlato? Certo, nelle sue elucubrazioni, c'erano un sacco di se, ma se la sentiva di correre anche il minimo rischio che la vita di Jennifer fosse messa a repentaglio? Soprattutto considerando che era stato lui a coinvolgerla in quella storia. Non pensava di chiederle di ritirarsi. Non adesso che finalmente poteva tornare a lavorare con lei. Ma non voleva neanche farla proteggere a sua insaputa. No, decisamente no. Basta sotterfugi. Erano stati quelli a portarli quasi alla distruzione della loro amicizia. Doveva avvisarla, metterla in guardia. Prospettarle chiaramente i rischi a cui poteva andare incontro. Ecco cosa doveva fare. Stava a lei poi decidere. Anche se lui sperava ardentemente che decidesse di restare. L'avrebbe protetta in ogni modo. Impedito a chiunque di torcerle anche un solo capello. A costo di restarle accanto ventiquattr'ore su ventiquattro. E se dopotutto, i suoi timori si fossero rivelati infondati, tanto meglio. Ma non si sarebbe concesso la minima sottovalutazione del problema. Blubblubblubblu Il rumore dell'acqua che bolle lo strappa alle sue riflessioni, ma adesso il caffè può aspettare, e con passo deciso Carruthers torna nella sua stanza da letto e si dirige verso il telefono. (51) Xena e Olimpia La ripresa della coscienza si fa largo
lentamente nella mente di Olimpia. La prima sensazione che avverte
è la pelle liscia e morbida della spalla di Xena sulla sua guancia.
Apre gli occhi e li solleva appena per scorgere il suo viso ancora
addormentato, poi li richiude con un sorriso soddisfatto. Potrei anche addormentarmi sul pavimento,
ma scommetto che finirei per strisciare nel sonno e mi risveglierei
sempre e comunque qui, pensa. Il suo braccio è steso a circondare la vita
della compagna e sente la gamba letteralmente abbarbicata tra quelle
di lei, che la stringono a loro volta. Il braccio di Xena è invece
intorno a lei in un protettivo abbraccio. Olimpia indulge un po' nell'idea di
restare così in attesa che la compagna si svegli, poi si alza cautamente
e badando a non disturbarla, scivola con leggerezza fuori dal letto.
Una volta in piedi, si ferma a guardare Xena che è rimasta nella sua
posizione, in apparenza placidamente addormentata. Qualcuno potrebbe pensare che Per un impulso improvviso, Olimpia
si china su di lei e le deposita un leggero bacio sulla fronte, quindi
si rialza notando come gli angoli della bocca di Xena siano adesso
un po' più piegati verso l'alto di quanto fossero prima. "Ti amo." sussurra, sfiorandole
appena i capelli in una carezza. "Riposa ancora. E' presto."
Poi, sempre senza fare rumore, va verso
la porta e il più silenziosamente possibile l'apre ed esce. I raggi di un'alba autunnale, appena
accennata, colorano di tinte suggestive le cime degli alberi, mentre
la radura che circonda la casa è ancora per la maggior parte buia
come se le ombre della notte fossero riluttanti ad abbandonare quel
luogo ed a cedere il passo alla luce del giorno. Olimpia avanza sul
portico cercando di adattare la vista, tutt'ora un po' appannata dal
fresco risveglio, al paesaggio circostante. "Salve, Olimpia." La voce, risuonata all'improvviso alle
sue spalle la fa sobbalzare e voltare di scatto alla sua sinistra.
Dietro di lei, seduto sulla panca di legno vicino alla porta, c'è
Alexi. Accanto a lui, un cesto ricolmo di quei dolcissimi frutti che
aveva assaggiato il giorno prima. Davvero era passato così poco tempo?
Poco meno di un giorno da quando lei e Xena si erano fermate a scherzare
e farsi il solletico proprio su quella panca. Pareva impossibile che
da allora l'essere che abitava quella foresta avesse attaccato la
casa, Aristis fosse morto e seppellito, Alexi avesse raccontato loro
quella incredibile storia, Xena fosse stata presa in trappola dal
dèmone e lei fosse giunta appena in tempo a salvarla. Tutto questo
in meno di un giorno. Con un lieve sorriso, Olimpia siede sul bordo
libero della panca, godendosi con un profondo respiro l'aria fresca
del mattino. "Alexi. Mi hai fatto quasi paura.
Non ti avevo visto." dice, guardando il giovane. "Che fai
già alzato a quest'ora? Albeggia appena." "Per la verità, non sono nemmeno
andato a dormire." risponde lui. "Sono troppo inquieto.
Sono successe molte cose tutte insieme. Devo ancora riuscire a digerirle
del tutto." "E' strano che tu lo dica."
ribatte Olimpia. "Proprio ora stavo pensando esattamente la stessa
cosa." "Neanche tu puoi dormire?" "Al contrario." sorride lei.
" Mi sono fatta un bel sonno. Tranquillo e senza sogni. Come
non mi capitava da un pezzo. E ora...". Si passa una mano sullo
stomaco, lanciando uno sguardo inequivocabile al cesto. "Serviti pure." dice Alexi,
spingendolo verso di lei. "Una volta staccati dalla pianta durano
solo un paio di giorni, prima di cominciare a marcire. Ed è un peccato
sprecarli." "Perfettamente d'accordo."
dice la ragazza, afferrando rapacemente una manciata di frutti e portandoseli
alla bocca. Appena i suoi denti affondano nella polpa carnosa e il
succo le invade il palato, è come se una scossa le percorresse tutto
il corpo, scacciando all'istante ogni residuo di sonno e proiettandola
in una dimensione di pura delizia. "Oddèi." mugola quasi, con
la bocca piena. "Può mai la divina ambrosia essere più dolce
di così?" Ma come era possibile che a Xena non piacessero? Forse
i troppi anni passati a dividere pasti a base di carne seccata con
il suo esercito avevano danneggiato le sue papille gustative. Ecco
quindi un senso in cui l'inarrivabile Principessa Guerriera non eccelleva,
e in cui invece la favolosa Poetessa Combattente non aveva rivali.
Con un moto di soddisfazione, Olimpia ingoia il boccone e si adagia
contro il muro alle sue spalle. "E Xena?" chiede Alexi, facendo
eco ai suoi pensieri. "L'ho lasciata dormire. Ha bisogno
di un po' di riposo dopo stanotte." Segue un silenzio quasi tangibile. "Dopo la brutta avventura di ieri
sera, intendevo." "Certo." risponde Alexi.
"Avevo capito." "E' chiaro." "Naturalmente." Altro lungo silenzio. "E tu come ti senti?" chiede
il giovane. "Bene." "Non deve essere stato facile
nemmeno per te." "Ormai ci ho fatto l'abitudine.
Non si vive tanto tempo con una donna come Xena senza fare il callo
a situazioni come queste." "Cosa credi abbia in mente per
questa mattina?" chiede Alexi. "Dimmelo tu. Non eri tu quello
che leggeva nelle menti?" ribatte Olimpia, poi di fronte allo
sguardo desolato del giovane, sorride. "Scusa, stavo scherzando.
Beh, penso che studieremo un po' la residenza del dèmone e i dintorni,
per vedere di trovare un modo per affrontarlo." "Non esiste modo, Olimpia!"
l'interrompe con veemenza Alexi. "Non così, almeno. Affrontare
quell'essere nel suo rifugio, dove è più forte, è una follia. Potrebbe
entrare nelle nostre menti e costringerci ad ucciderci a vicenda!" "Anche restarcene qui ad aspettarlo
non credo serva a molto." Olimpia si china verso il giovane.
"Alexi, ascoltami, capisco le tue paure, ma io ho fiducia in
Xena e so che se c'è una persona che può trovare un modo per sconfiggerlo,
è lei. E poi, non sei stato proprio tu il primo a credere che noi
eravamo gli inviati di Coloro che Sanno, quelli sognati da tuo padre?" Alexi tace, distogliendo lo sguardo
da Olimpia e fissandolo nel vuoto davanti a sé. Il silenzio torna
tra di loro, ed è Olimpia a romperlo nuovamente. "Toglimi una curiosità, Alexi. Se queste entità di cui ci hai parlato, Coloro che Sanno, sovrintendono come dici tu agli universi, come spieghi tutti gli esseri divini che abbiamo incontrato, gli Dèi dell'Olimpo, quelli del Valhalla, le divinità egizie. Qual'è il loro ruolo? Tuo padre te l'ha mai detto?" "Non so quale sia esattamente la loro origine." dice Alexi, dopo aver riflettuto per qualche istante. "E credo che neanche Aristis lo sapesse, ma da quello che mi disse gli dèi che avete conosciuto, non sono davvero delle divinità, la maggior parte almeno." "Come?" Olimpia lo fissa sbalordita. "Alexi, li ho visti io. Erano... erano immortali, avevano grandi poteri, potevano trasportarsi da un luogo all'altro con un semplice pensiero, lanciare fulmini dalle mani e compiere prodigi di ogni genere, come influenzare il tempo, le stagioni..." "Non ho detto che fossero tipi comuni." sorride debolmente il giovane. "Vedi, Olimpia, come ti ho già detto la cosa è molto più complessa di quanto si possa immaginare. Gli universi sui quali vegliano Coloro che Sanno sono immensi ed infiniti, e ognuno di questi universi è abitato da un numero incalcolabile di popoli. Un'infinità di razze che avevano bisogno di essere dirette, guidate da esseri superiori, sì, ma del tipo che fossero in grado di comprendere. Coloro che Sanno sono entità troppo vaste per essere visibili o anche solo comprensibili da piccole menti e ciò che non si vede e non si capisce si finisce per ignorarlo, quindi vennero selezionati alcuni prescelti, individui cui furono donati enormi poteri perchè svolgessero le funzioni di divinità nei vari universi. Esseri ad immagine e somiglianza degli abitanti dei mondi sui quali avrebbero dovuto vigilare e ad ognuno di loro fu assegnato un compito a cui sovrintendere, l'amore, la guerra, la sapienza e così via." Senza parole, Olimpia osserva Alexi che, man mano che prosegue nel suo discorso, come al suo solito, pare eccitarsi sempre più, fino a doversi alzare e camminare su e giu per il portico, come per sfogare un eccesso di energia. "Ma quei poteri diedero loro alla testa, facendogli dimenticare la loro natura di semplici emissari di entità superiori e convincendoli di essere essi stessi delle divinità. Crearono dei culti, si fecero edificare templi, cominciarono a giocare con il destino dei mondi che gli erano stati affidati, finché..." Alexi si ferma e fissa Olimpia "... Coloro che Sanno non decisero d'intervenire, esautorando i loro sottoposti per riportare l'ordine negli universi." "Il dio senza nome di Belur." mormora Olimpia. "Lui è uno di... loro?" "Non so rispondere a questa domanda." dice Alexi tornando a sedersi. "Fu lui a dare a Xena il potere di uccidere gli dèi e fu lui a toglierglielo quando Xena stava per usarlo contro Michele." continua Olimpia, lo sguardo perso in un'improvvisa rivelazione. "Tu hai detto che loro agiscono attraverso le coscienze ed i caratteri della gente, dirigendo le loro volontà." "Mi dispiace, Olimpia. Aristis non è mai entrato così tanto nei dettagli ma... sì, questo potrebbe essere uno dei loro metodi di operare attraverso gli abitanti dei vari universi." "Quindi Xena potrebbe già essere stata in passato un loro strumento. E ora la starebbero usando di nuovo." "Siamo tutti loro strumenti, Olimpia, in ogni attimo della nostra vita." dice Alexi. Olimpia sente tornarle gradatamente quella rabbia che una notte di riposo accanto a Xena pareva avere un po' mitigato. "Beh, comunque sia, questa volta non permetterò a nessuno, uomo, dèmone o divinità di mettersi tra noi. Non la perderò di nuovo, Alexi." afferma con decisione, incollando uno sguardo di fuoco sul viso del giovane che però continua a fissare in distanza, senza guardarla. "La tua ira è sprecata con me, Olimpia. Non sono io il tuo nemico. E se Coloro che Sanno hanno deciso di usare Xena ai loro scopi, non c'è niente che io, te o chiunque altro possiamo fare." "E' quello che vedremo." La ragazza si alza. "Vai a riposare un po', Alexi. Il sole sta appena sorgendo e non credo che Xena voglia muoversi prima che sia alto." Senza altre parole, Olimpia rientra in casa e con passo felpato si avvicina alla porta della stanza, cercando di riaprirla senza fare rumore, ma Xena non sta più dormendo. La guerriera è seduta sul letto con la schiena appoggiata al muro in pietra e i suoi occhi brillano nell'oscurità dell'ambiente, appena attenuata dalla debole luce dell'alba che giunge attraverso la piccola finestra sbarrata. "Ehi." trasale Olimpia, un po' sorpresa. "Ti sei svegliata. Ma non c'è fretta. E' solo l'alba. E' meglio attendere che sia giorno fatto, prima di..." "Quindi" dice Xena, senza darle il tempo di completare la frase "quel branco di presuntuosi, vanagloriosi, stupidissimi dèi, Giove, Marte, Plutone e tutta la loro stirpe di idioti immortali non sarebbero stati altro che semplici esseri umani, eh? Chissà perché non ne sono molto meravigliata." "Allora ci hai sentiti." Olimpia va a sedersi accanto a lei. "Beh, è quello che dice Alexi, o meglio quello che diceva suo padre. Non è detto..." "Ooh, è vero, Olimpia. Stanne certa." l'interrompe di nuovo Xena con una breve risatina ironica. "Ci sono cose che sai che sono vere nel momento stesso in cui le senti, senza necessità di controprove o conferme. Per la semplice ragione che le hai sempre sapute dentro di te e avevi solo bisogno che qualcuno desse voce alle tue sensazioni." "Sicché, adesso gli credi?" chiede Olimpia, guardandola di sottecchi. "Ma non eri tu la scettica tra noi due?" "Non ho mai detto di essere scettica." ribatte Xena con un sorriso. "Solo molto cauta nel selezionare le informazioni. E hai ragione, meglio attendere che il sole sia alto prima di andare. Il che ci dà almeno un paio di tacche di tempo da impiegare in qualche modo. Tu che suggerisci?" Olimpia la guarda un po' perplessa. "Non vorrai...?" azzarda con un sorrisetto intrigante. "Oh,
sì, invece!" E con una risata eccitata, le due donne schizzano letteralmente fuori, correndo nell'erba punteggiata dalla rugiada rosata dell'alba. La spada di Xena mulina velocemente da destra a sinistra, poco più che un lampo ai raggi del sole che sempre più decisamente illuminano la radura dietro la casa di Alexi, ma altrettanto fulminei i due sai stretti nei pugni di Olimpia, volano da tutte le parti a parare e ribattere, colpo su colpo. Ormai da molti anni, nei loro allenamenti, Xena ha smesso di trattenere la sua lama e si batte con lo stesso impegno e decisione che metterebbe in un vero combattimento e Olimpia ne è ben cosciente. Sa che le basterebbe distrarsi solo un attimo per rischiare di perdere un braccio o una mano, ma la cosa non l'impensierisce minimamente. Il segreto è proprio quello. Fermarsi a pensare, riflettere è l'ultima cosa che si abbia il tempo di fare in un duello contro un avversario armato di spada. Bisogna lasciarsi andare totalmente, lasciare che sia il proprio istinto ed i propri sensi ad agire. Occhi e orecchie reagiscono ad una velocità incredibile se ben allenati. Devono essere in grado di anticipare ogni mossa dell'avversario prima ancora che questi l'abbia iniziata, e poi è compito delle braccia e delle gambe muoversi di conseguenza e il corpo deve solo assecondare quei movimenti, flettendosi e torcendosi. In fondo, un duello all'arma bianca, le aveva insegnato una volta Xena, non è molto diverso da una danza. Proprio come due ballerini, i combattenti si muovono l'uno di fronte all'altro e ogni gesto deve riflettere e rispecchiare quello dell'altro in un movimento continuo ed armonioso. Questo naturalmente se sono entrambi abili e valenti nell'uso delle lame. E che le due donne che si battevano su quel prato lo fossero, non vi erano dubbi per chiunque le potesse ammirare. Alexi che, dopo essere riuscito a farsi un breve sonnellino, si era fermato a guardarle, stentava a seguire ciò che accadeva davanti a lui. La spade e i pugnali si muovevano ad una tale velocità che in certi momenti diventavano perfino invisibili all'occhio umano, e Xena e Olimpia compivano balzi e capriole incredibili, in apparenza sfuggendo spesso per un puro miracolo ad una morte sicura, se la spada dell'una o i minacciosi pugnali orientali dell'altra fossero arrivati al bersaglio solo un brevissimo istante prima. Se non avesse saputo per certo che quello a cui stava assistendo era un semplice (semplice?) allenamento, Alexi avrebbe giurato di essere testimone di una lotta all'ultimo sangue, ma c'erano le risate argentine di Olimpia a rassicurarlo da questo punto di vista, perché sicuramente non ci sarebbero riusciti gli sghignazzi che di tanto in tanto uscivano dalle labbra perennemente piegate in un sorriso diabolico di Xena. Quella donna gli dava i brividi. Come poteva uno spirito puro e luminoso come quello di Olimpia, sentirsi attratto da quell'ignoto abisso senza fondo? Se, come aveva ritenuto di poter credere, era proprio lei la persona designata da Coloro che Sanno, si poteva ben dire che i loro disegni seguissero strane vie. Vi erano oscurità ed inconfessabili segreti dietro quegli occhi, ne era sicuro. E se si fosse sbagliato, invece? Se avesse male interpretato la visione che suo padre gli aveva rivelato? Ma forse... forse anche questo dopotutto poteva rientrare nel loro progetto. Forse ci vuole un grande male per cancellarne un altro e perché alla fine entrambi possano annientarsi riportando le cose nel loro giusto ordine. Forse per questo un'anima oscura come quella Xena era stata chiamata fin là. Ed a lui sarebbe spettato il compito di sovrintendere a tutto questo e, dopo che tutto fosse finito, guidare Olimpia di nuovo verso la luce. Sì, era così, non poteva che essere così, ma comunque, meglio restare vigili, pronti ad interpretare ogni nuovo messaggio. In quel
momento, con un'ultima risata le due donne smettono di combattere
e si abbattono sul terreno rotolandosi abbracciate l'una all'altra,
e Alexi con un sorriso a mascherare i propri sentimenti s'incammina
verso di loro. |
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