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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo XVII)

Parte 2

 

(80) Jennifer/Xena e Olimpia

 

Olimpia e Jennifer avevano pedinato le loro prede per le stradine e i vicoli di Kyros a lungo. Nonostante Acros e il suo socio si muovessero senza particolari cautele, come se la possibilità di essere seguiti non li turbasse più di tanto, le due donne avevano cercato comunque di mantenere una distanza prudenziale da loro, rifugiandosi appena possibile dietro gli angoli delle case o confondendosi grazie ai loro mantelli scuri nell'ombra delle tettoie e dei porticati. La loro andatura era poi ulteriormente rallentata dal tentativo di non attrarre l'attenzione degli eventuali passanti con un comportamento eccessivamente sospetto. Il fagottino, che trasportava tra le braccia Iacobus, aveva smesso di muoversi e lamentarsi da tempo, e Olimpia aveva temuto per qualche momento che il bambino fosse già soffocato nella coperta che lo avvolgeva dalla testa ai piedi. Ma poi, si era detta, che perché l'offerta funzionasse il piccolo doveva arrivare vivo sul luogo del sacrificio. La cosa nella caverna aveva bisogno della sua forza vitale, e quindi Acros avrebbe usato tutte le precauzioni affinché la sorte infelice di quella creaturina non fosse anticipata da una condotta imprudente.

L'altra cosa che preoccupava la giovane era l'assenza al fianco del Capo del Consiglio dell'altro suo complice, Ector. Più di una volta nel corso di quel silenzioso inseguimento, prima di muoversi da un riparo, le due donne si erano guardate attentamente intorno, nell'attesa di veder spuntare all'improvviso la figura dell'uomo, che Acros poteva aver lasciato indietro a proteggere loro le spalle, ma di questi nessuna traccia. E ogni tanto, ma sempre più di rado, Olimpia lanciava un'occhiata verso Jenna, per accertarsi che seguisse ogni suo mossa in perfetta sincronia, come le aveva detto, evitando movimenti o rumori che potessero rivelare la loro presenza. Ma la donna si stava comportando magnificamente, doveva ammettere, e cominciava a riporre in lei la massima fiducia, come se avesse avuto davvero Xena accanto. Aveva imparato molto bene a dominare la potente muscolatura di quel corpo e si muoveva cauta e silenziosa dietro di lei come un'ombra, quasi con la stessa abilità che era stata della sua compagna. Anche il fatto che dopo la loro disavventura in quella locanda non si fosse fatta prendere da isterismi, ma fosse rimasta tutto sommato calma e controllata, l'aveva trovato non poco sorprendente. E anche un po' inquietante.

Ma quello non era il momento per nuovi dubbi o timori. Acros e Iacobus stavano dirigendosi decisamente verso l'uscita meridionale della città, quella che portava più vicino alla foresta, e da quel punto in poi sarebbe stato sicuramente più difficile seguirli senza che se ne accorgessero. Non appena, le strade e le case avessero cominciato a diradarsi, avrebbero dovuto attendere che si fossero allontanati molto di più, prima di riprendere il pedinamento.

Ma, arrivati in fondo alle ultime case, improvvisamente i due uomini si arrestano, costringendo anche le loro inseguitrici a rifugiarsi precipitosamente dietro il muro più vicino.

"Che succede?" sussurra Jennifer.

"Non lo so." risponde Olimpia, sporgendosi appena oltre il loro riparo. "Ma non può essere per noi. Sembra che stiano aspettando qualcosa."

"O qualcuno."

E la donna indica alla giovane guerriera un'ombra che si sta muovendo nella loro direzione. Appiattendosi ancora di più contro il muro, le due donne vedono l'ombra acquistare consistenza man mano che si avvicina, finché a distanza di pochi passi da loro, un altro uomo le supera, senza accorgersi della loro presenza e avanzando rapidamente verso i due fermi sulla strada.

"Ector." bisbiglia Olimpia.

L'uomo raggiunge gli altri e nel silenzio di quel luogo, le loro voci giungono perfettamente udibili alle due donne.

"Allora?" chiede Acros.

"L'informazione era giusta." risponde il nuovo arrivato. "E' una famiglia che proviene dalla Macedonia. Moglie, marito e due bambini piccoli. Sono accampati a circa un giorno da qui. Sarà un giochetto da ragazzi."

"Bene." Il vecchio riprende il cammino, immediatamente seguito dagli altri due, mentre le loro voci si affievoliscono. "Provvedete subito domani mattina. Non voglio che qualcuno li veda arrivare."

"Ci pensiamo noi." dice Iacobus, e poi si volta verso Ector. "Com'è la donna?"

"Niente male." ridacchia questi. "Non si direbbe che sia già madre due volte. E sicuramente non s'immagina di ridiventarlo così presto."

I due accennano una risata, ma sotto lo sguardo severo di Acros, tacciono immediatamente, allontanandosi insieme nel buio. E dopo un po' Jennifer e Olimpia, scambiatesi un cenno d'intesa, si muovono a loro volta nella stessa direzione.

 

Rientrare nella foresta aveva provocato sensazioni difficili da determinare in Olimpia. Dopo avervi trascorso diverso tempo proprio nel bel mezzo, nella casa di Alexi, insieme a Xena, era stata quasi due giorni senza rimettervi piede e ora che la sentiva nuovamente richiudersi su di lei, con i fitti rami degli alberi strettamente intersecati tra loro da costituire una vera e propria volta oscura che rendeva la notte ancor più buia, era come uscire di nuovo dal mondo reale costituito da Kyros, con la gente, le botteghe, le case, per tornare in una dimensione estranea, un mondo in cui le leggi della natura sembravano in qualche maniera alterate. Un mondo di silenzi, rotti solo dai passi distanti dei tre uomini che li precedevano facendosi strada, con l'aiuto di una torcia che avevano acceso subito prima di inoltrarsi tra gli alberi. Questo aveva permesso alle due donne di poterli continuare a seguire anche da lontano, basandosi sulla luce i cui riflessi ondeggiavano attraverso il fogliame.

Jennifer continuava a muoversi dietro di lei senza mostrare particolari disagi o difficoltà neanche nella fitta vegetazione e Olimpia, sollevata dal timore di doversi preoccupare anche per lei, poteva concentrare tutta la sua attenzione sull'obiettivo, che comunque non richiedeva troppi sforzi. Anche senza la torcia, la pista lasciata dai tre uomini, foglie calpestate, rami spezzati, di tanto in tanto un'orma evidente sulla terra umida, avrebbe potuto essere seguita senza problemi, nonostante l'oscurità. La prudenza pareva proprio l'ultima delle preoccupazioni di Acros, che chiaramente non riteneva un'eventualità probabile che qualcuno potesse seguirlo in quel luogo considerato maledetto da tutti.

Intanto, procedendo tra alberi le cui sagome cominciavano a mostrare sempre più segni visibili di distorsioni, la ragazza rallenta la marcia, indicando anche all'altra di fare altrettanto.

"Siamo vicine, vero?" chiede Jennifer.

"Sì." risponde Olimpia. "Tutto intorno alla caverna in cui si nasconde quella cosa, i tronchi degli alberi hanno assunto strane forme. Da qui in poi, è meglio procedere ancor più cautamente."

Le due donne proseguono ancora per un tratto una davanti all'altra, con Jennifer che posa i piedi con estrema cura nei punti esatti da cui Olimpia ha appena tolto i suoi. La donna è solo lievemente affascinata dall'abilità che sta dimostrando nel muoversi in un posto del genere. Ormai quel corpo non le procura più sorprese. Dopo quello che è successo in città, ora sa che i timori che lei e Olimpia nutrivano, erano più che fondati, ma l'unica cosa che la stupisce è la sua assoluta mancanza di reazione all'evento. All'inizio aveva creduto che fosse stata la scossa traumatica di aver appena causato la morte di un uomo ad averle paralizzato ogni capacità emotiva, ma adesso non ne era più tanto sicura. Aveva più e più volte rivisto quei momenti nella memoria e non vi era un unico istante che la sua mente avesse omesso. Dal corpo del suo aggressore che volava andandosi a schiantare contro il pesante tavolo di legno che gli aveva fracassato il collo, al cadavere del suo compagno che giaceva ai suoi piedi rotolandosi nel proprio sangue ed interiora. Ma non vi era una singola immagine da cui sentisse di voler rimuovere il pensiero. Anzi, da qualche parte nel profondo, rivivendo quegli attimi, provava uno strano stato di eccitazione che avrebbe dovuto spaventarla più di ogni altra cosa e che invece le provocava solo un desiderio sottile ed insinuante di provare ancora sensazioni del genere. Di sottoporsi a nuove ulteriori prove, per vedere fino a che punto avrebbe potuto spingersi. Per sapere cosa fosse realmente capace di fare.

Xena ha dentro di sé energie impensabili in qualunque altro mortale io abbia mai incontrato, le ripete nella testa la voce di Olimpia. Ma lei sa come controllarle e indirizzarle nella giusta direzione. Fanno parte di lei. Mentre tu...  Sei come un bambino al comando di una quadriga di purosangue.

Esattamente. Il paragone di Olimpia era azzeccatissimo. E se a un bambino veniva data nelle mani una tale potenza, la voglia di spingerla fino ai limiti ed oltre poteva diventare incontrollabile. Perché i bambini non capiscono i limiti.

Presa dalle proprie riflessioni, Jennifer continua a seguire Olimpia, lasciando automaticamente che sia il corpo di Xena a stabilire il ritmo del passo da tenere e il peso col quale posare il piede sul terreno, notando ed evitando con estrema perizia ogni foglia secca o rametto che possa rompendosi, causare un rumore che nel silenzio circostante potrebbe essere udito con estrema facilità. Così, con la propria mente e i sensi di Xena, entrambi assorti totalmente nei loro compiti, per poco non si lascia sfuggire un grido quando sente improvvisamente le braccia di Olimpia afferrarla per spingerla dietro il più vicino albero, pigiandole contemporaneamente la mano sulla bocca. La ragazza la sta schiacciando contro il tronco con tutto il suo peso, tenendo i suoi occhi inchiodati in quelli di lei in una silenziosa ammonizione.  

Prima che Jennifer possa rendersi interamente conto della situazione, la voce di Acros risuona alle sue spalle in distanza.

"Smettila e torna qui. Chi vuoi che ci abbia seguiti? Nessuno osa nemmeno avvicinarsi a questi luoghi. Ci stai solo facendo perdere del tempo."

"Eppure, mi era sembrato..."

Questa è la voce dell'uomo chiamato Iacobus ed è molto più vicina. A Jennifer che non può vederlo, immobilizzata com'è, sembra arrivare da lì accanto. Forse appena oltre l'albero dietro il quale si sono rifugiate. Un fruscio tra i cespugli, il rumore di un bastone che colpisce l'erba alta, percuotendo poi un tronco che non può essere più lontano di cinque o sei passi. Jennifer ed Olimpia hanno smesso anche di respirare. Iacobus è davvero vicinissimo e se fosse lui ad avere la torcia le avrebbe già viste. Ma la luce rossastra continua a baluginare ancora ad una certa distanza e l'angolo in cui le due donne sono nascoste, strette l'una all'altra, resta nel buio più assoluto.

E finalmente, dopo qualche altro attimo di esitazione, il suono soffocato dei passi di Iacobus si allontana, e l'uomo torna verso i suoi due compagni.

"Si può sapere cosa ti prende?" chiede la voce fortemente irritata di Acros.

"Niente." risponde quella di Iacobus. "Ma avrei giurato..."

"Muoviamoci." taglia corto il vecchio. "L'Emissario ci aspetta. E non è salutare farlo attendere."

La marcia dei tre riprende e solo quando il calpestìo si è ormai perso in lontananza, Olimpia allenta la sua presa su Jennifer e le due donne possono tirare un sospiro.

"C'è mancato poco." sussurra senza fiato la ragazza.

"Ma come...?" prova a chiedere Jennifer, riempiendo nuovamente d'aria i polmoni, ma con la voce ancora spezzata dall'emozione improvvisa e dallo stretto contatto con l'altra.

"Colpa mia." risponde. "Ho fatto un errore imperdonabile. Ho continuato a tenere d'occhio la luce della torcia e non ho pensato che uno di loro si potesse staccare dal gruppo."

"Credi che ci avesse sentite?" mormora Jennifer, mentre i battiti del suo cuore ritrovano lentemente un ritmo più regolare.

"Non lo so. Forse. O magari ha solo visto o sentito un animale, anche se in questa foresta sembra che non ve ne siano. Comunque" conclude scuotendo la testa avvilita "per poco non ci facevo scoprire."

"Non dire così. Non è colpa tua. Non puoi pensare sempre a tutto."

"Invece sì. Devo!" ribatte seccamente Olimpia, trattenendo a stento la voce. "Questo è uno sbaglio che Xena non commetterebbe mai! E che poteva costarci caro." Gli occhi fiammeggianti dalla rabbia contro se stessa, la guerriera bionda fissa Jennifer, poi il suo sguardo torna lucido, mentre alle loro orecchie giunge da lontano la voce di Acros, nei toni solenni di quella che sembra una preghiera. 

"Ma adesso abbiamo altro a cui pensare." La giovane guerriera, si passa una mano tra i capelli, guardandosi intorno. "Il rito, o qualunque cosa sia deve essere iniziato, e noi dobbiamo..."

Ma la frase resta in sospeso, mentre un urlo che non ha niente di umano esplode improvviso nella notte, subito spezzato a sua volta da un orribile gorgoglìo e da un tonfo sinistro, come quello di un corpo scagliato da una grande altezza.

Le due donne si guardano per un attimo, poi all'unisono scattano nella direzione di quei rumori che adesso sembrano quelli di un campo di battaglia, e senza più curarsi di non farsi sentire corrono attraverso l'intrico di tronchi deformati e aggrovigliati cespugli che paiono cresciuti in ogni angolo, saltandoli con un balzo o scavandovisi un passaggio con la spada che Olimpia fa mulinare davanti a sé.

Poi, come d'incanto, la vegetazione sembra aprirsi davanti a loro e ai loro occhi appare una radura. Una radura che Olimpia ricorda bene, dove tronchi recano ancora tracce dei violenti fendenti che la Principessa Guerriera ha tirato contro nemici invisibili solo qualche notte prima, dove un odore di marcio che ora è divenuto pestilenziale sembra pervadere ogni filo d'erba ingiallito e morto e dove la caverna sotto il grande albero distorto pare una bocca piena di denti. La radura sembra magicamente illuminata di luce propria, ma Olimpia e Jennifer non hanno il tempo di chiedersi se sia a causa di un raggio di luna che abbia trovato spazio attraverso la fitta barriera di rami, o della torcia che qualcuno ha piantato nel terreno, anche se la fiamma di questa pare troppo fievole ormai per poter mostrare quello spettacolo in tutta la sua terrificante chiarezza.

In un ammasso rossastro ed irriconoscibile, un corpo giace a pochi passi dai loro piedi. La schiena piegata in una posizione impossibile, gli abiti a brandelli, il cranio sfondato da cui fuoriescono sangue e altre materie, come se quel corpo fosse stato spremuto da una enorme mano e poi gettato via come una scorza di limone ormai secca.

Poco più avanti, in ginocchio, tremante con le braccia tese verso l'alto e volgendo loro le spalle, c'è Acros. Il vecchio sta gridando con tutta la forza dei suoi polmoni, e nella concitazione del momento le due donne non riescono neanche bene a capire cosa stia dicendo, perché tutta la loro attenzione è raccolta dall'incredibile visione nel centro della radura.

L'uomo chiamato Iacobus sta levitando letteralmente nell'aria a un'altezza di almeno dieci cubiti. Il suo corpo appare teso come se delle corde lo tirassero per braccia e gambe. Ma braccia e gambe che sono solo parzialmente visibili, perché parte di esse sembrano cancellate da una specie di ombra che le ricopre. Un'ombra che prosegue sotto di lui come una nebbia oscura e fluttuante che di momento in momento sembra mutare di forma e consistenza.

Fissando quella cosa indescrivibile, Jennifer si sente incapace di muoversi, mentre la sua mente rincorre confusamente il ricordo di una lenta e sinistra sagoma che nuota minacciosa verso di lei in un oceano di vuota oscurità. Un'immagine che dura solo pochi attimi, prima che il rumore secco di ossa che si spezzano e carni lacerate le riempia le orecchie, coprendo perfino le urla di Acros.

"No! O Oscuro Signore!" sta gridando il Capo del Consiglio. "Abbi pietà del tuo umile servo! Dimmi in cosa ho sbagliato affinché io possa rimediare!"

Ma alla sua invocazione risponde solo il tonfo sul terreno del cadavere di Iacobus, lasciato cadere dall'essere come un pupazzo di stoffa. Poi, l'ombra avanza verso di lui.

"Ne...nemici?!?" balbetta la voce ormai irriconoscibile del vecchio. "Non sono stato io!! Non ho portato io i tuoi nemici! NOOOO!!!! MIO SIGNOREEE!!! PIETAAAAAAAAAAAAA!!!!"

La marea oscura sembra precipitarsi sulla figura prostrata al suolo, annullandola per un momento come se fosse svanita nel nulla, poi, davanti agli sguardi attoniti della due donne, Acros si solleva di colpo nell'aria e le sue urla di terrore s'interrompono bruscamente, mentre un'appendice d'ombra gli ricopre la testa. Sotto la pressione di mani invisibili, il suo collo si allunga inverosimilmente, finché pelle, ossa, legamenti si strappano con un rumore orribile, e il corpo del Capo del Consiglio precipita nuovamente sul terreno, dove un attimo dopo rotola anche la sua testa, i cui occhi sgranati e senza vita paiono fissare proprio Jennifer e Olimpia con uno sguardo di vuoto stupore.

Quest'ultima terrificante immagine sembra destare la ragazza, che rimasta anch'essa paralizzata davanti a quell'imprevedibile spettacolo, ritrova in un attimo la necessaria freddezza e, afferrata la spada, si getta in avanti con un grido.

"Jenna! Adesso! Corri alla caverna!"

Jennifer ode il richiamo più con la mente che con le orecchie, mentre ancora una volta sperimenta quell'inquietante sensazione di straniamento, come se di quello che sta succedendo lei fosse solo una spettatrice neutrale, mentre vede Olimpia che, con la spada ed ora anche il chakram di Xena stretti in pugno, sta correndo verso la macabra sagoma ondeggiante che è sempre immobile nel centro della radura, e sente improvvisamente  un istinto che va oltre la coscienza, spingerla ad accorrere al suo fianco. I suoi piedi quasi si muovono in quella direzione, ma...

"JENNA!!! VAAIII!!!!" urla ancora Olimpia, e finalmente la donna, con un supremo sforzo di volontà, riprende il controllo di sé e scatta, cercando di non pensare a ciò che è davanti a lei e, tenendosi concentrata sul suo compito, si lancia verso la caverna con tutta la forza dei potenti muscoli di quelle gambe, balzando oltre i miseri resti dei tre uomini che giacciono scomposti sul terreno che la separa dalla bocca nera dalla parte opposta della radura. Chiudendo occhi ed orecchie alle grida di rabbia e furore della giovane guerriera, e ad altre urla che avverte vibrare nell'aria, ma che non hanno nulla di umano, si tuffa nel buio.

 

Giunta di fronte alla colossale ombra che adesso pare divenuta una colonna di fumo spesso e soffocante, la giovane vi affonda con tutta la forza la lunga lama, forse convinta dentro di sé di non trovare resistenza al colpo, di essere trascinata a terra dal suo stesso impeto, ma invece con sua grande sorpresa, avverte qualcosa opporsi al suo fendente e poi cedere improvviso come un tessuto che si laceri, e un urlo che nessuna gola umana potrà mai emettere risuona nella sua testa, mentre qualcosa di simile a delle fauci si spalanca sopra di lei. Olimpia si getta di lato, rotolandosi al suolo e contemporaneamente scaglia il chakram verso il punto che si è aperto sull'orrida superficie cangiante, e il cerchio mortale vola all'interno, sparendo alla vista, per poi riapparire subito dopo e tornare con una perfetta parabola nel pugno della ragazza, provocando un nuovo tremendo urlo dalla cosa indefinibile che nel centro della radura ora agita davanti a sé dei tentacoli di nebbia che si protendono verso lei che pare minuscola là distesa. Istantaneamente nella mente della ragazza, torna l'immagine dell'atroce morte di Acros e dei suoi uomini.

Non deve prendermi! Se riesce ad afferrarmi con una di quelle cose, sono morta! 

Con un colpo di reni, Olimpia salta in piedi e servendosi dello slancio datole dal balzo, si lancia sui più vicini tentacoli turbinando la spada, e ancora una volta con sua grande sorpresa, i colpi sortiscono effetti rilevanti sull'essere. Le orrende protuberanze, anziché sparire o ritirarsi finiscono recise ai suoi piedi, prima di svanire come assorbite dal terreno, mentre le urla del dèmone crescono di forza ed intensità.

"E' per questo che non ti mostravi, eh?" sibila la giovane con una risata di trionfo. "Sei vulnerabile in questo mondo. Puoi essere ferito... e ucciso!"

Olimpia resta salda in piedi, stringendo a due mani la spada di Xena, la cui impugnatura le scotta quasi tra i palmi, in attesa che l'essere faccia la prossima mossa, ma la massa fluttuante pare immobile adesso, e la ragazza sta quasi per partire nuovamente all'attacco, quando una voce alle sue spalle le gela il sangue nelle vene.

"Olimpia. E' inutile."

Con il sudore sul suo corpo che si è trasformato immediatamente in ghiaccio, la ragazza si volta lentamente, e quasi la spada le cade di mano.

A pochi passi da lei, ai margini della radura, perfettamente visibile anche nell'oscurità dei grandi alberi che la sovrastano, come se brillasse di luce propria, la Principessa Guerriera la sta fissando tristemente.

"Xena." mormora incredula.

"E' inutile, amore mio."

"Sei... sei... proprio tu? Sei tornata?"

"No, Olimpia. Non posso tornare. Mai più." Il tono cupo di quella voce cala su di lei come un manto nero, mentre l'oscurità della notte intorno sembra intensificarsi e solo l'immagine della guerriera continua a risplendere in un buio ormai totale. "Sono morta, Olimpia. Morta davvero, stavolta. Non c'è più niente che tu possa fare per riportarmi indietro ancora."

"No..." sussurra la ragazza, mentre le lacrime cominciano a spingere ai lati dei suoi occhi. "Non ci credo... Non è possibile... Jenna..."

"Uno spirito si è impossessato del mio corpo nel momento della morte" continua la voce "e mi ha privata per sempre della possibilità di poter tornare. Ma tu puoi fare ancora una cosa, Olimpia."

"Cosa? Io... non..."

"Uccidila... Vendicami... E poi potrai raggiungermi... Sai..." ora sembra quasi che la figura stia sorridendo "...qui è bellissimo... Manchi solo tu... Potremo stare di nuovo insieme... per sempre..."

"Xena..."

Le braccia di Olimpia si flettono lentamente, e la lama ancora stretta spasmodicamente tra le sue mani, si abbassa verso terra, mentre l'immagine della guerriera pare avvicinarsi.  

"Sono qui, amore..."

Una mano della figura si tende verso Olimpia che continua a fissare il viso sorridente della compagna sempre più vicino, tanto da poter...

"OLIMPIAAAA!!!ATTENTAAAA!!!"

E' come se il mondo si frantumasse davanti ai suoi occhi. L'immagine di Xena ondeggia, la luce che riverberava dal suo interno sfoca in un pallido lucore, quindi la figura della Principessa Guerriera in un lampo esplode in mille frammenti. E il buio che la circonda d'improvviso si fa solido.

Istinti addestrati in lunghi anni di battaglie si risvegliano fulminei nella giovane guerriera che senza neanche dare il tempo alla sua mente di capire cosa stia succedendo, lascia agire il suo corpo gettandosi da parte e girando con accecante rapidità su se stessa, fa compiere un arco perfetto nell'aria alla lunga lama che d'un tratto incontra resistenza nella sua corsa, materia che non è carne, ossa o muscoli, ma che tuttavia strappa un altro terrificante urlo alla cosa, mentre brandelli di una sostanza nera ed untuosa scivolano lungo la spada fino a sfiorare le dita di Olimpia comunicandole una sensazione di incredibile gelo. Allontanatasi con un balzo, la ragazza rimane a guardare ad occhi spalancati il gigante di nebbia che ora barcolla davanti a lei. E' tutt'ora impossibile da descrivere, da come le sue forme sembrano gonfiarsi o afflosciarsi di continuo come la vela di una nave preda di venti furiosi, ma il largo squarcio che lo separa quasi in due parti uguali e indipendenti circa a metà della sua altezza, continua a lasciar defluire copiosamente la sostanza nera che ora sta coprendo il suolo intorno.

Olimpia rinsalda la presa sulla spada, osservando l'essere di fronte a lei, pronta ad ogni ulteriore attacco, ma l'enorme figura non pare più interessata al combattimento. Una fessura si spalanca improvvisa in una delle sue appendici, che potrebbe forse essere considerata una testa, e quella che si potrebbe forse chiamare una bocca emette un suono. Non è un grido e non sono parole, non almeno di quelle che orecchie umane abbiano mai potuto percepire, e la figura sembra contrarsi, lo squarcio che la divide allargarsi a dismisura quasi ingoiando in se stesso la materia di nebbia solida di cui pare composta e in pochi attimi ciò che resta dell'essere si scioglie letteralmente in una colata fumante ai suoi piedi, rendendo d'un tratto lo spazio nella radura più vasto di quanto fosse sembrato fino ad allora e visibile sullo sfondo, ora non più nascosta dall'immane presenza, la sagoma di una donna. La ragazza fa due passi, la spada stretta ancora nel pugno, e poi crolla in ginocchio. E un momento dopo, Olimpia e Jennifer si stringono disperatamente l'una all'altra.

"Oddèi!" mormora Jennifer baciando i capelli bagnati di sudore della ragazza, mentre la sente scuotersi in singhiozzi contro la sua spalla. "Quando ho visto quella... cosa alle tue spalle, mi sono sentita morire. Credevo che ti avrebbe... divorata."

"Mi ha ingannata." La voce di Olimpia arriva bassa e soffocata dal pianto. "Mi ha fatto vedere... Xena... il suo spirito. Voleva che credessi che... era morta... per farmi perdere la voglia di combattere... e per un momento..."

"Hai visto Xena?" chiede Jennifer, sorpresa.

"Non era lei." risponde Olimpia, tirando su con il naso e scostandosi per poterla guardare con gli occhi arrossati e umidi. "E' stato quel demonio a farmelo credere. Lui era in grado di conoscere e sfruttare i punti deboli dei suoi avversari."

"E morto, vero?" domanda Jennifer guardando la grande chiazza scura che copre l'erba ingiallita della radura, ma che sta già riducendosi a vista d'occhio come se filtrasse dentro la terra.

"Credo." dice Olimpia, seguendo il suo sguardo. "Lo spero. Ma in queste cose chi può dirlo con certezza?"

Staccandosi infine con un pizzico di riluttanza da quell'abbraccio, Jennifer aiuta Olimpia a rialzarsi e le due donne si voltano verso la caverna che si apre davanti a loro.

"Sei... entrata?" chiede Olimpia.

"Sì." Jennifer fissa nel buio che si perde nelle viscere della terra. "Ho dovuto praticamente violentarmi. Perché tutti i miei impulsi mi spingevano a correre da te" aggiunge con un pallido sorriso "ma sono entrata."

"E...?"

"Niente." risponde la donna bruna, scrollando le spalle. "Non è successo niente. Non c'è nessun passaggio dimensionale là dentro. Non c'è niente. A parte il corpicino di quella povera creatura."

Olimpia la guarda.

"L'ho trovato praticamente a pezzi poco oltre l'entrata. Dove deve averlo lasciato Acros prima che scoppiasse il finimondo." Jennifer la fissa di rimando. "Mi dispiace. Cosa si fa adesso?"

"Non lo so." dice Olimpia, scuotendo la testa desolata. Poi si abbatte a sedere con aria distrutta. "Non riesco più nemmeno a pensare."

Jennifer le si siede accanto senza parlare.

"Era l'unica cosa a cui riuscissi ad aggrapparmi." continua la ragazza. "La speranza che riportandoti qui, lo scambio potesse ripetersi, e ora... non so più che fare..."

"Sei esausta." le dice Jennifer, allungando le dita a scostarle i capelli dalla fronte, dove un rivoletto di sangue scorre da un profondo taglio. "E sei ferita. Devi solo cercare di riposare un po'. Rimettere insieme le idèe."

"Non posso. Non ancora." Olimpia fa per alzarsi. "Quei morti devono essere..."

"No." la ferma Jennifer. "Ora no. Adesso ti porto da Alexi."

"Ma..."

"Niente ma."

Jennifer si alza in piedi e prende la spada e il chakram che Olimpia ha lasciato cadere per terra, posandoglieli in grembo, poi sotto lo sguardo stupito della ragazza, si china su di lei e agguantatala saldamente tra le braccia la solleva di peso.

"Jenna!" protesta Olimpia, afferrandosi al suo collo. "Che cosa...? Mettimi giù! Sono perfettamente in grado di camminare da sola!"

"Non fare storie." ribatte, senza darle ascolto. "Ora hai solo bisogno di riposo. Metti giù la testa e cerca di dormire. Se non ricordo male, la casa di Alexi è in quella direzione, vero?"

Olimpia annuisce ammutolita.

"Bene, e non è troppo lontana. Ci arriveremo presto. Di quel che resta di questi tre bastardi e di quel povero bambino, mi occuperò io, più tardi." conclude Jennifer, mettendosi in cammino, poi guarda Olimpia che la sta fissando. "Che c'è?" le chiede, sorridendo. "E' ora che metta a frutto tutti questi muscoli, no?"

Senza rispondere, Olimpia appoggia la testa sulla sua spalla e chiude gli occhi, e con un sorriso che malgrado tutto non riesce a cancellarsi dalle sue labbra, Jennifer rinsalda la presa e s'inoltra tra gli alberi.

 

 

 

 

(81) Carruthers

 

Il capitano Carruthers spenge il motore della sua auto e si appoggia allo schienale guardando pensieroso il tetto del villino che si distingue chiaramente oltre il profilo degli alberi dall'altra parte della strada. Poi chiude gli occhi, chiedendosi forse per la cinquecentesima volta che cosa stia facendo.

 

Aveva programmato attentamente la sua ultima giornata da funzionario di polizia, fin da quando si era svegliato quella mattina. Aveva fatto una leggera colazione (le emozioni che si preparava a vivere erano una potente controindicazione alla sua solita generosa razione di pane, uova, bacon e succo d'arancia), si era recato all'officina dove finalmente aveva potuto ritirare la sua auto riparata, e si era diretto con decisione verso gli uffici del distretto. Mentre guidava per le strade del centro, aveva composto e ricomposto nella sua mente decine di volte la lettera di dimissioni che aveva  tutte le intenzioni di presentare ai suoi diretti superiori nel corso di quella stessa mattina, partendo da quella più complicata ed involuta, che avrebbe incluso una approfondita spiegazione delle ragioni che lo avevano spinto a quella decisione, ma optando alla fine per la versione sobria, che contemplava solo un "per motivi strettamente personali" alla voce motivazioni. Non c'era bisogno di creare allarme anzitempo. La botta avrebbe fatto più danni se fosse arrivata inattesa. Questa volta Ballister non avrebbe dovuto avere il tempo di parare il colpo. Per quante conoscenze o agganci politici potesse avere (e ne aveva tanti) anche ai massimi vertici, perfino i suoi migliori amici lo avrebbero mollato come una patata bollente quando la storia fosse esplosa.

Naturalmente la seconda parte del piano ne costituiva il fulcro. La prima cosa che gli era venuta in mente, era stata convocare una conferenza stampa nel suo ufficio, ma l'aveva scartata quasi immediatamente. Richiedeva tempo, organizzazione, ed autorizzazioni che lo avrebbero messo nella difficile posizione di dover presentare delle giustificazioni convincenti ai suoi capi, e cosa avrebbe potuto dire se non la verità? L'idea era dunque quella di recarsi di persona alla sede di uno dei maggiori giornali cittadini, magari il Tribune, e snocciolare lì quello che aveva da dire. Vi si sarebbe recato in giornata, portando con sé documenti, nastri di telefonate (ogni chiamata, interna o esterna, di un distretto di polizia veniva registrata e conservata) e ogni altra cosa a cui avesse potuto pensare per appoggiare le sue accuse. Erano tutti reperti d'indagine e neanche Ballister aveva il potere di farli distruggere. Erano solo rimasti sepolti tra cataste di altro materiale negli archivi, dove nessuno sarebbe mai andato a ricercarli, o almeno così pensava l'esimio procuratore, ma per lui, come ufficiale di polizia, non sarebbe stato un problema ottenerli e quella sarebbe stata la sua ultima azione in quella veste.

Un unico neo lo infastidiva in tutto questo. Pur essendo poliziotto da più anni di quanti gli piacesse ricordare, non aveva mai intrattenuto rapporti particolari con la stampa, al contrario di molti suoi colleghi, evidentemente assai più furbi di lui. Non aveva mai amato i giornalisti e il sentimento si poteva sicuramente considerare reciproco. Il risultato era, e non si era mai trovato a rimpiangerlo come ora, che non aveva nessuno che conoscesse abbastanza bene nell'ambiente da potersene fidare al cento per cento. 

Certo la cosa, teoricamente, non avrebbe dovuto costituire un problema. Se un capitano di polizia si presenta con documenti sufficienti a far incriminare il procuratore capo per occultamento di prove e corruzione, non dovrebbe esistere giornalista che si farebbe sfuggire uno scoop del genere. Teoricamente.

In realtà, la capacità quasi sovrannaturale che aveva dimostrato più volte Ballister di sapersi sottrarre in un modo o nell'altro alle conseguenze dei suoi atti, scaricando spesso le responsabilità sugli altri, lo preoccupava non poco, e il fatto di dover spiattellare tutto quello che sapeva e aveva contro di lui ad uno sconosciuto, non lo lasciava affatto tranquillo.

Poi il semaforo era scattato sul rosso, lui aveva arrestato la macchina, e il suo sguardo distrattamente era scivolato su un'enorme insegna che torreggiava sull'edificio alla sua destra.

(17 - continua)





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