Vola al di là della neve
di Svetlana Yaroslavna Puskovic
8 Vita segreta al Majakovskij
Nella stanza la luce era spenta. Con la complicità del buio i due partner si agitavano vogliosamente sfidando i margini ridotti di un letto singolo. Liudmila era in preda agli ormoni, e rapita dal fascino estatico del suo partner, si concedeva a esso ansimando di piacere. Ancora una volta l’allieva del Majakovskij si strusciava la pelle con i muscoli caldi e suadenti d’un perfetto sconosciuto, ma questa volta, ella ne rammentava il nome e perfino il colore degli occhi. Liudmila pensò d’aver incontrato l’amante perfetto, mai nessuno prima di lui l’aveva fatta godere così a lungo e intensamente. Con ardore lo agguantò per le scapole e inarcò il capo all’indietro, sperando che quel momento non avesse mai termine. D’un tratto ai suoi ansimi di godimento si frapposero degli energici tocchi alla porta che la interruppero sul punto migliore. Liudmila si destò tornando con il capo in posizione corretta, con un balzo fu in piedi scaraventando il suo partner per terra.
– Oh mio Dio! – Esclamò colta dal terrore, incerta sul da farsi. Fulminea corse ad accendere la luce e nuda prese a girare per la sua camera ammonticchiando fra le braccia tutti gli indumenti maschili sparsi sul tappeto. I tocchi alla porta si fecero più insistenti. – Sto arrivando! – gridò trafelata, ghermendo il suo stallone per un braccio e spintonandolo fino al bagno. - Entra qui. – Gli intimò, barricandolo all’interno della stanza da bagno insieme agli indumenti che aveva appena raccolto.
- Ehi, aspetta, ma che diavolo fai? Aprimi! – Si ribellò lui, ormai imprigionato dalla ragazza che un momento prima godeva avviluppata alla sua carne.
- Resta qui e sta zitto, se solo mi scoprono con te sono nei guai! – Bisbigliò l’allieva con le labbra rasenti all’uscio. All’ingresso qualcuno continuava a infuriare tocchi. Liudmila afferrò frettolosa una tovaglia da bagno e la usò per coprirsi, poi si accertò che in giro non vi fossero altri indumenti maschili e spedita corse ad aprire la porta. La segretaria della direttrice Rosencrans apparve impettita innanzi allo sguardo disorientato della giovane allieva. Una folta capigliatura rossastra le troneggiava arruffata sul capo, il suo naso aguzzo puntellato da efelidi si perdeva nei giganti fondi di bottiglia che era solita indossare quando lavorava. Liudmila avvertì il carico dell’occhiata inquisitoria che la donna le scagliò contro, e preoccupata che ella sospettasse qualcosa si giustificò preventivamente.
– Salve, mi scusi se non ho aperto subito la porta, ma come può notare ero sotto la doccia. - Al fine di rendere la farsa più credibile, Liudmila strinse a sé la tovaglia fingendo di sentir freddo, quasi fosse bagnata. La segretaria non diede peso a quelle parole, e col sussiego tipico del suo carattere si limitò a riferire ciò che doveva.
– La direttrice Rosencrans ha chiesto di lei, si rechi in presidenza, subito. - Liudmila impallidì, le sue labbra sottili presero a fremere ritmicamente “ Forse l’ha visto entrare” suppose terrificata.
– La direttrice vu, vuole vedermi? E perché? –
- Si rechi nell’ufficio della Rosencrans invece di prolungarsi in stupidi quesiti! - Ribatté la donna parecchio alterata. Liudmila si sforzò di essere cortese.
- Sì, mi perdoni. Indosso qualcosa e corro in presidenza. –
- Si sbrighi. – Aggiunse la segretaria mentre andava via borbottando fra sé parole incomprensibili.
La studentessa richiuse la porta alle sue spalle e incollerita prese a scalciare contro una parete. - Odiosissima vecchia befana! Sei riuscita a rovinarmi la serata. – Rintronò, sferrando calci con maggiore violenza.
Sono sempre stata una ragazza introversa e riservata. Non ero solita coinvolgere gli altri nella trama burrascosa che caratterizza la mia vita. Accanto a me, tuttavia, posava un angelo dalla tale dolcezza, che credevo quasi mi leggesse dentro. Non abbiamo avvertito il bisogno di sciogliere il ghiaccio, tra noi, il feeling è stato immediato. Potrebbe apparire inverosimile legare emotivamente con una persona che, per quanto benevola sia, resta pur sempre un’estranea. A volte si parla di colpi di fulmine, infatuazioni repentine capaci d’annientare tutte le norme sociali che si frappongono alla libertà d’esperire un rapporto interpersonale con la sola empatia. Adesso mi sentivo leggera come una libellula, finalmente ero riuscita ad affrancarmi dalla zavorra, quel fardello oppressivo di ricordi e paure che incalzava il mio spirito ovunque si recasse. Per tutto questo tempo non avevo fatto altro che sgusciare via dai miei fantasmi, chiedendo asilo alle fantasie riguardo al futuro e ai buoni propositi per affrontare il presente. Seduta sul mio letto, osservavo Astrel organizzarsi in un nuovo spazio. Si muoveva in modo aggraziato ed elegante, anche i gesti più banali, se compiuti da lei, apparivano armonici come il volo delle farfalle. Quando si chinò per sollevare una valigia, la mia attenzione cadde su un ciondolo rosa che indossava al collo, assomigliava a un cristallo, e luccicava a ogni leggiadro movimento che la proprietaria compiva.
- Com’è bello quel pendente! – Commentai interessata. Astrel condusse una mano al collo bloccando il dondolio del suo monile.
- Questo? - Chiese. - E’ un talismano, uno di quelli che le veggenti usano per leggere il futuro o roba del genere. Mi è stato donato da una donna Rom durante un soggiorno in Romania, solo che io non credo in questo genere di cose. –
- A cosa non credi? - Domandai incuriosita.
- Quando la veggente me lo diede in dono, mi disse di non separarmene mai, perché il talismano mi avrebbe protetto da ogni male. Allora avevo solo dieci anni, e ogni volta che mi arrampicavo su un albero del mio giardino senza precipitare giù, credevo fosse opera del talismano. –
- Devo supporre che negli ultimi tempi avrai cambiato opinione? –
- Sì, naturalmente. –
- E, se pensi che il tuo talismano non sia capace di proteggerti, come mai lo porti ancora al collo? – Domandai, sperando che le mie parole non suonassero indiscrete. Astrel tentò di spiegarmene il motivo, sembrava lieta di farlo, quasi attendesse da parecchio che qualcuno la sollecitasse su quell’argomento.
- Per me è una sorta di retaggio. Se lo stringo fra le dita posso rivivere il capitolo chiuso della mia infanzia, credere ancora nelle fiabe e riscoprire la magia che i miei disincantati occhi ormai non vedono più. –
- Dunque - mi pronunciai ora con l’intento di desumere la mia conclusione. – tu non credi che il mondo possa tornare magico come allora? – Astrel scosse la testa silenziosa, nel suo sguardo si rapprese un commisto di pessimismo e di vacua speranza.
- Lo vorrei tanto, ma ho imparato che la felicità non vive di vita propria, perciò, è futile ricercarla con tanto ardore, dovremmo solo imparare a generarla. –
- E come potremmo farlo? – Le domandai, stregata da tale profondità, la saggezza che palesava non si accordava alla sua giovane età.
- Beh, funziona un po’ come il calore, se vogliamo ottenerlo ci occorre una fonte d’energia, la mia felicità si nutre solo d’amore e finché non ne troverò a sufficienza continuerò a stringere questo talismano con amara malinconia. -
9 Insidiosi stratagemmi
Ogni sera, alle ventuno scoccate, l’illuminazione interna della scuola si spegneva in automatico cedendo il posto alle bluastre lampade notturne, istallate nei corridoi e nell’atrio centrale del piano terra. Tutto imbruniva nella paziente attesa del mattino. In fondo al corridoio est, dall’imponente ingresso della presidenza, una luce fioca filtrava dal millimetrico interstizio fra la base della porta e il pavimento. La Rosencrans s’intratteneva ancora nel suo ufficio, impelagata nella burocrazia delle carte pareva aver scordato l’esistenza dell’orologio. Con indosso un tallier blu notte dal taglio classico, l’anziana donna sedeva laboriosa dietro la scrivania, sorseggiando un wisky invecchiato quindici anni dal pregiato cristallo di un bicchiere. Il suo viso corrugato dal tempo e incorniciato da una sfoltita chioma canuta raffigurava tutti gli anni decorsi dal suo cinquantesimo compleanno. Liberandosi momentaneamente dagli occhiali da presbite, l’attempata direttrice si sfregò le palpebre conducendo la nuca sullo schienale della poltrona. Il suo sguardo vagante cadde su vecchie foto che arredavano la scrivania, e come sovente avviene dinanzi al passato cartaceo, s’abbandonò con la mente in lacunosi percorsi di reminescenze. Inglese dalla nascita, la direttrice Anne Rosencrans era cresciuta a Londra tra le finezze di una vita agiata. Il padre, un abbiente proprietario terriero amante delle scienze umanistiche, conduceva a Londra un ragguardevole collegio privato, dove i figli dell’elite cittadina ricevevano l’adeguata istruzione per debuttare in società. La madre, anche lei dall’apollineo spirito filantropico, si dilettava con l’arpa e il violino, insegnando musica nella scuola del marito. In quest’ambiente erudito e alto borghese, l’allora giovane Anne vi era cresciuta, maturando presto la capacità di declinare la sua persona con i diktat del perbenismo, dei buoni costumi, e della totale ammissione dei cliché sociali. Con la morte d’entrambi i genitori, tutti gli averi succedettero alla figlia, unica erede. Per ragioni del tutto sconosciute, nel 1995 ella vendette la scuola del padre alla blasonata famiglia Stanley, impiegando il ricavato nella fondazione di un nuovo collegio con sede a Mosca. La donna diede all’istituto il nome di: Vladimir Vladimirovič Majakovskij, per onorare la memoria del primo poeta russo di cui aveva letto le opere, augurandosi che ciò fosse propiziatore di fausti. Fu così, che la Rosencrans divenne la direttrice indiscussa del Majakovskij, e a decorare d’autorevolezza la sua carriera, come i nastrini sulle divise militari, vi sono ben dieci anni di conduzione scolastica. Rammento un periodo, circa un anno addietro, in cui i fondi dell’istituto cominciarono a scarseggiare. Si vociferava che il Majakovskij fosse sull’orlo del collasso, “ Impossibile” smentiva perentoria la Rosencrans, se le chiedevano conferma a quella voce “ Le classi tracimano d’allievi, e ogni anno tutti quei ricconi infatuati dal capitalismo non fanno che inoltrare domande d’iscrizione per i loro figli.” Su tali persuasive argomentazioni, la direttrice confutava tutti coloro che sostenevano il contrario. Ciò nondimeno, la carenza di liquidità era palese in quel periodo: dal cibo di seconda scelta, al taglio delle spese per lo sport e i viaggi d’istruzione, fino al licenziamento ingiustificato di alcuni docenti. Nessuno si spiegava a cosa fosse dovuto quel repentino buco di bilancio, e scavare nelle insidie che insabbiavano la verità risultava ostico. Gli insegnanti destituiti vociferavano che la Rosencrans si fosse data al gioco d’azzardo, e in effetti, non di rado la si poteva incontrare in un casinò di Mosca a intrattenere una partita di poker o semplicemente incantata dinanzi ai monitor luminescenti delle slot-machine. Quale che sia la realtà, in meno di un anno la situazione si ristabilì. Gli insegnanti furono riassunti, il cibo tornò a essere quello di una volta, e tutti parvero dimenticare la misteriosa vicenda senza porsi ulteriori domande. Intenta a digitare caratteri sulla tastiera, la direttrice udì bussare alla porta.
- Avanti - Disse, schiarendosi la voce. Liudmila fece il suo ingresso in presidenza dominando la scena con spettacolosi ancheggiamenti di bacino, come se stesse calcando una passerella d’alta moda. Mantenendo l’andatura e la rotta, raggiunse la scrivania della direttrice e si accomodò sul pouf verde muschio con rifiniture colore oro. L’allieva ebbe attenzione di curare la postura ed elegantemente accavallò le gambe poggiando entrambe mani sopra le ginocchia. Liudmila adorava atteggiarsi come una donna di classe, incarnare stereotipi confezionati dal senso comune le dava maggiore fiducia per affrontare la gente. Spesso i suoi gesti artificiosi la rendevano oggetto di ludibrio da parte degli altri allevi, ma questo era un fattore di poco conto, per Liudmila contava soltanto una cosa nella vita: trovarsi sempre al centro della scena. Bramava affinché gli altri la considerassero perfetta, lei meritava d’esserlo! Nell’egocentrismo esasperato Liuda vi era affondata trascinando giù i sentimenti, a galla persisteva soltanto il marcio. Alta appena un metro e sessanta, dalle forme arrotondate e dai comuni occhi castani, la giovane era in conflitto col suo aspetto e con la schiettezza di tutti gli specchi. La vita era stata così crudele appioppandole quel corpo da anatroccolo che un cigno come lei non meritava d’incarnare, e quanto odio fomentava dentro per tale perfidia subita! Con fare cerimonioso, la ragazza lanciò alla preside uno sguardo adulatorio sperando d’aggraziarsene i propositi.
- Desiderava qualcosa da me, signorina Rosencrans? - La direttrice sollevò il bicchiere di wisky poggiato sulla scrivania, fece roteare per alcuni secondi i cubetti di ghiaccio quasi sciolti, e poi mandò giù l’ultimo sorso d’alcool.
- Avrei un favore da chiederle, Liudmila Borisovna. Vorrei affidarle un compito abbastanza intrigante. - Liudmila rizzò la schiena sul pouf, quasi volesse trovare una posizione consona all’annuncio.
- Dica pure, sono a sua totale disposizione. – La direttrice diede un colpo di tosse parandosi la bocca, poi si espresse.
- Ho appena ricevuto una telefonata da Londra. Il rettore Stanley era ansioso di esprimere la sua gratitudine nei miei riguardi per l’aver accolto quella smorfiosetta che ci ha spedito. –
- Si riferisce alla nuova allieva? Quella che doveva arrivare dall’Inghilterra? –
- Sì, proprio lei. – La preside si dilungò in una pausa vuota, implicitamente stava ammettendo di pensare a come dire meglio, ma Liudmila non colse questo messaggio subliminale e fremette sul silenzio della donna.
- Insomma! – Incalzò, protraendosi in avanti col busto. – Qual è il compito che intende assegnarmi, signorina Rosencrans? – La donna non gradì l’impazienza della giovane, ma temendo di vagare rinunciò a riprenderla per giungere al dunque. Con un gesto pratico voltò lo schermo LCD del computer verso Liudmila, e dopo aver cliccato su un file disse
- Il mio problema, è che non possiamo permetterci di mantenere a spese dell’istituto un’allieva che viene da fuori, non con i gravi in bilancio che abbiamo registrato in quest’ultimo periodo. – La ragazza osservò il monitor. Era pieno d’iscrizioni accuratamente posizionate su uno schema a due colonne, le quali riportavano le voci di “dare” “avere”. Liudmila non si era mai intesa di partite doppie e di calcoli matematici, ma pervenne ugualmente alla conclusione a cui doveva arrivare: la situazione economica della scuola era nuovamente in ribasso.
-Beh? – Si pronunciò Liudmila, come a voler minimizzare - Mi pare che la soluzione sia semplice: la rispedisca a Londra. - Concluse con aria risoluta, quasi avesse trovato la soluzione a un problema di geometria. Dall’altro capo della scrivania la direttrice tuonò con dissenso.
- Evidentemente, la parola diplomazia per lei non ha alcun valore. Il signor Stanley è un nostro benefattore, se rimandassi indietro quella smorfiosa, rischierei di perdere il 20% delle entrate. Cosa che non ci possiamo proprio permettere. Le farebbe piacere terminare gli studi in un altro collegio diverso dal Majakovskij? Magari in una misera scuola pubblica, perché è questo ciò che potrebbe accaderti, a te e ai tuoi compagni, se il Majakovskij dovesse malauguratamente chiudere. - Liudmila parve scandalizzata.
- Certo che no! Cosa propone di fare in merito? - La Rosencrans inspirò profondamente, poi rispose.
- Di affidare nelle tue mani la situazione. –
- Cosa? –
- Non agitarti mia cara, l’incarico è più semplice di ciò che credi. Devi semplicemente far in modo che la nuova arrivata ci saluti al più presto. - Liudmila si abbandono a una risatina nevrotica.
– E come potrei mai riuscirvi? -
- Non è a me che devi porre tale quesito, ma al tuo ingegno. Io cerco soltanto un pretesto, una ragionevole motivazione che mi consenta d’espellere quella ragazzetta dall’istituto senza perdere il rispetto del rettore Stanley. Solo se la spingiamo a infrangere il regolamento, possiamo liberarcene. - Liudmila obbiettò assalita dai dubbi
- Sì, ma se non infrangesse alcuna regola? –
- Sta proprio in questo la tua mansione, devi fare in modo che ciò avvenga. Usa la persuasione, avvaliti dell’inganno, risparmia la deontologia e vienimi in soccorso! – La ragazza annuì, inquietata e intrigata al contempo. - Reputo superfluo, Liudmila Borisovna, rammentarle che la nostra conversazione in realtà non ha mai avuto luogo, e che la discrezione e la riservatezza dei nostri accordi vada considerata d’irrinunciabile priorità. -
- Sì, certamente. – Assicurò la ragazza - Non ne farò menzione con nessuno, ma in cambio io… - La direttrice sbuffò rassegnata e prese a battere nervosamente le unghie sulla plastica del tagliacarte, sapeva che per pagare il silenzio di Liudmila doveva cederle qualcosa in cambio.
- Ricevere visite da individui esterni al Majakovskij non le basta? – Liudmila arrossì imbarazzata, aveva colto il senso di quelle parole.
- Io, io non ricevo visite da - tentò di giustificarsi con voce strozzata.
- Andiamo! Sa benissimo che nulla può sfuggirmi. Sono a conoscenza delle visite in camera sua, alquanto notturne per essere solo di cortesia. –
- Perché allora non mi ha punito? Come fece quella volta con Julia, quando la scoprì a baciarsi con un ragazzo. – Incalzò la giovane con un sottile tono di sfida. La Rosencrans bloccò le unghie sul tagliacarte e lapidò la giovane con lo sguardo.
- Mi auspico, Liudmila, che fra noi s’instauri un rapporto di reciproca collaborazione. Io occorro dei suoi servigi, ma sia chiaro a priori: non sono disposta a barattare più del necessario. Posso chiudere un occhio sulle sue… chiamiamole pure “Scappatelle”, in pratica l’ho faccio già da un pezzo, ma chiedere ulteriori privilegi, significherebbe scherzare col fuoco, e il fuoco, a volte riscalda, altre brucia. - L’antifona apparve chiara e precisa alle orecchie dell’ancora imbarazzata studentessa.
10 Verso la sua anima
Finalmente ero riuscita a mettere a proprio agio la mia nuova compagna di camera. Non doveva esserle semplice ambientarsi in un paese straniero, ma le difficoltà che si possono riscontrare in quest’impresa sono esigue se paragonate agli ostacoli tortuosi che il Majakovskij pone d’innanzi. Sapevo già in quali sgradevoli episodi stava per imbattersi quella ragazza dagli occhi cerulei: canzonature perfide da parte degli studenti, malanimo fra i volti degli insegnati, punizioni gratuite elargite dalla Rosencrans. Quest’immane sfilza d’atteggiamenti poco amichevoli, ruotavano intorno a un epicentro nominato “competizione”, che nei connotati meno eufemistici suona come “sopraffazione”. Al Majakovskij le cose erano sempre andate così. Tutti contro tutti in un belligerante clima d’antagonismo. Quali le ragioni? Uno dei motivi principali poteva ravvisarsi nel trattamento ineguale che la Rosencrans adottava, lo stesso trattamento, che in fondo, ci riservavano gli insegnati, usando due metri e due misure con ogni studente. Quest’errata linea didattica, faceva sì che fra noi nascessero rancori e invidie spesso difficili da redimere. Non erano solo questi i motivi delle soventi inimicizie che ci si poteva creare al Majakovskij, in genere occorreva conseguire un bel voto o vincere una gara sportiva per attirarsi contro gelosie e cattiverie. La prepotenza usata per prevalere sugli altri, l’indifferenza totale per i sentimenti altrui, le vendette sottili e invisibili che tutti i giorni ti colpivano, caratterizzavano una realtà a cui inevitabilmente Astrel sarebbe andata incontro. Sola e senza risorse, io non potevo far nulla per evitarle quest’impatto crudo e scellerato, non potevo sostenerla in nessun altro modo se non standole vicino. Probabilmente vi domanderete il motivo di tanta preoccupazione per una ragazza a me sconosciuta, e mi rincresce deludervi affermando che non possiedo alcuna risposta; non è affare di chi viaggia sull’onda del cuore crucciarsi nell’incertezza dei quesiti. Gli occhi d’Astrel volgevano languidi oltre i vetri della finestra. Osservando quei fiocchi bianchi venire giù, la sua espressione divenne serafica. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata fugace al cellulare, forse si aspettava che i genitori la chiamassero, che qualcuno reclamasse sue notizie, eppure niente, da quando era arrivata a Mosca, non un solo squillo aveva contribuito a farla sentire meno sola. Magari un giro turistico della capitale poteva giovarle.
- Eri mai stata a Mosca prima d’ora? – Le chiesi mentre aprivo l’armadio per tirar fuori il cappotto. Astrel si voltò verso me, poi rispose.
- L’anno scorso sono stata a San Pietroburgo per un viaggio studio, ma a Mosca non ero mai venuta.-
- Ti piacerebbe visitarla? – Astrel parve interessata
-Sì, certamente. – Colta da un entusiasmo che raramente provavo, mi diressi verso la porta carica d’energia.
- Bene, allora andiamo. - La mia compagna di camera mi fissò perplessa.
- Cosa? Intendi dire adesso? –
- Non ti va? – Domandai comprensiva.
– Sì, ma non credo ci faranno uscire, sono le nove passate. – Sorridendo maliziosamente replicai
– E chi ha parlato di chiedere il permesso? –
- Ok, ho capito. Da dove si esce qui senza correre il rischio d’essere beccati? - Abbottonandomi il cappotto, risposi
- Non immagini neppure quanto siano trafficate le scale d’emergenza a quest’ora. - Svignarmela di nascosto era diventato un gioco fin troppo facile per me, e devo ammettere, anche un pizzico intrigante. Non ero certo l’unica che violava il coprifuoco per godersi un po’ di night life, e quella sera non sarei stata né la prima né l’ultima. L’unico problema era costituito dal signor Vyacheslav Lavrov. All’operoso inserviente, infatti, era stato disposto d’aggirarsi su e giù per la scuola fino a tarda notte, in maniera da evitare fughe notturne e qualsiasi forma di disordine. Eludere il suo occhio vigile era un’impresa da guinness, e non so a quale ingegnoso escamotage ricorrevano gli altri per riuscirvi. Io, tuttavia, possedevo una tecnica collaudata e infallibile. Mi bastava comporre il numero del Majakovskij e far partire la chiamata dal mio cellulare, a quel punto il telefono dell’istituto squillava… e il povero Vyacheslav si apprestava a rispondere con un’efficienza impeccabile. Quando riagganciava pensando che si trattasse di uno scherzo, io scendevo già le scale d’emergenza cantando vittoria.
Liudmila rientrò in camera con l’espressione assorta. Il letto era ancora in disordine, e la finestra che dava sul giardino spalancata. Le tende svolazzavano in una danza scomposta. Liudmila corse a richiudere l’imposta giostrandosi fra la stoffa del tendaggio. Che gran comodità alloggiare al pianterreno!
La neve aveva smesso di cadere, ma quel silenzio surreale aleggiava ancora impalpabile. Le finestre delle abitazioni erano offuscate dalla condensa, i lampioni accesi per le vie deserte, illuminavano la calma piatta di una sera moscovita. In compagnia d’Astrel percorrevo la piccola traversa che fiancheggiava la parte laterale del Majakovskij, immettendoci ora nella strada principale, una folata d’aria fredda ci colpì raggelandoci. Non poteva dirsi la sera adatta per passeggiare romanticamente, ma entrambe nutrivamo il medesimo bisogno d’evasione.
- Bene, Astrel, che meta preferisci? – Le domandai rivolgendomi a lei con un sorriso. Astrel parve riflettere.
- Beh, non saprei, la famosa Piazza Rossa è lontana da qui? –
- Affatto, siamo a meno di un chilometro, seguimi. - I nostri passi solcarono la neve tracciando un temporaneo itinerario. Passeggiando tra i bagliori della sera, la sua mano strinse la mia. Non mi aspettavo quel gesto, che allo stesso tempo percepivo così spontaneo. Finalmente le dita iniziarono a scongelarsi, sotto la sua presa calda provai sollievo. Quel semplice gesto, compiuto con naturalezza, contribuì ad aumentare la nostra intesa. Mano nella mano giungemmo a destinazione e l’immensa area della Piazza Rossa si manifestò ai nostri occhi. Lo spettacolo da cartolina cui stavo assistendo mi era alquanto familiare, eppure, non smetteva mai di stupirmi. Potrei sprecare mille parole nel vacuo tentativo di narrare la bellezza di quei monumenti, nel descrivere come le tonalità calde e purpuree contrastavano la temperatura invernale, ma credo sarebbe impresa vana. Nessuna espressione letteraria o figura retorica che sia, potrà mai essere all’altezza di ciò che stavo contemplando. L’enorme perimetro della piazza era sgombero da turisti e passanti, le finestre del Grande Cremlino e dei magazzini Gum erano illuminate a festa, mentre le magnifiche cupole di San Basilio si erigevano fiere, irte nel cielo.
- Wow! – Esclamò Astrel meravigliata. – Quanti bei colori su quelle cupole, sembrano degli enormi gelati. – Con sguardo vispo ammirava tutte le bellezze che il panorama le offriva, le sue pupille sfrecciavano veloci da destra a sinistra, voraci, nel tentativo di catturare anche i dettagli più minuti. Osservandola con incanto, mi accorsi di quanto fosse bella. I lineamenti del suo volto ricordavano lo charme misterioso delle principesse orientali, ma la sua carnagione era nivea come quella di una valchiria. Quando il vento impazzava insolente, i suoi lunghi capelli corvini ondeggiavano vivaci svelando la forma dell’aria e rilasciando fragranze afrodisiache. Con la mano premeva la sciarpa al collo per evitare che il freddo le penetrasse all’interno, e delicatamente socchiudeva gli occhi per non farli lacrimare.
– Che ne dici se ci sediamo un po’? – Le proposi, scostando la neve da una panchina con il palmo della mano.
- Va bene. - Pochi minuti più tardi, ci ritrovammo a ridere e scherzare come fanno le amiche di vecchia data.
- Certo che la vita è davvero strana! – Disse Astrel riflettendo ad alta voce.
– Cos’ha di strano la tua? – Astrel si fece riflessiva e assorta replicò.
– Beh, di punto in bianco tuo padre ti dice che devi partire per la Russia, e poche ore più tardi, ti ritrovi qui, nella piazza più celebre di Mosca - Astrel ebbe un momento d’esitazione e fugò lo sguardo altrove, quasi intimidita, poi, tornando a fissarmi, trovò l’audacia per lanciarmi un’occhiata interessata - …Con te. - Non so spiegare con esattezza ciò che provai in quel momento, ero così preda del suo incantesimo, che tutto attorno a me si mutò in qualcosa d’irreale, come una dimensione parallela in cui l’incalzare del tempo si smorza per cedere il posto a una forma di presente che si dilunga all’infinito.
- Hai ragione, la vita è imprevedibile. Neanch’io avrei potuto immaginare d’incontrarti, ma sono felice d’averti conosciuta. – Le risposi con un fil di voce. Lei continuava a fissarmi. In un'altra circostanza, timida per come sono, avrei distolto lo sguardo imbarazzata, con lei tutto era diverso. Non mi sentivo a disagio quando mi guardava, non provavo inibizione nello stare seduta cosi vicino al suo volto.
- Sei bellissima. Willard l’aveva detto che a Mosca ci sono le ragazze più belle del mondo. - Per un attimo credei che si trattasse solo di un sogno, un magnifico sogno che stavo vivendo a occhi aperti, eppure, ciò che avevo udito non poteva essere più reale.
- Anche tu sei molto bella, non mi stancherei mai d’ammirarti. – Astrel infittì la sua mano tra i miei capelli biondi, carezzandoli come se stesse apprezzando la morbidezza di un tessuto pregiato. Non potei che concedermi con tutta me stessa a quel tocco fatato e socchiudendo gli occhi avvicinai le labbra fino a condurle a un palmo dalle sue. Ora potevo sentire il suo respiro sfiorarmi l’anima e il suo sapore attrarmi come un magnete. Un brivido struggente mi percorse la schiena quando finalmente le nostre bocche s’incontrarono. Inizialmente fu un tocco sottile, timido, delicato, poi assunse nuove sembianze, e tra un batticuore e l’altro mi ritrovai coinvolta nel bacio più intenso e romantico della mia vita. Oggettivamente stavo baciando con ardore una ragazza che conoscevo da meno di tre ore, ma quella non era la prima volta che i nostri destini s’incrociavano per fondersi l'un l'altro. In realtà ciò avveniva da sempre e per sempre sarebbe stato così. Ogni essenza alimenta il suo esistere per riconciliarsi alla metà perduta, e se le forze raziocinanti aberrano tali impeti antesignani, sarà il cuore a far d’auriga, e il mio cuore quella sera, mi condusse in lei.
- Sai di buono. - le dissi, riaprendo lentamente gli occhi.
- Lucida labbra alle fragole. -
- Davvero squisito. – Astrel fece scorrere la lingua fra le labbra.
- Mi hai baciato per assaporarlo? –
- Mm, non solo per quello. - Tra noi era scattata una scintilla, un trasporto folle e vibrante di passionalità.
- Non ho mai visto una ragazza così bella. – Mi sussurrò, avvolgendomi tra le sue braccia con pura dolcezza.
- Forse, perché in quest’istante non puoi specchiarti da nessuna parte.-
- Possiedi uno charme particolare, Svetlana. Avrò visto tantissime ragazze dagli occhi cerulei, ma soltanto i tuoi possiedono le cromature di un lago ghiacciato in uno sguardo caldo come l’estate. - La sua poesia mi conquistò ancora. Dolce e autentica come di rado la gente sa essere, quella ragazza mi donò nuove emozioni, sentimenti intensi e vivi, che da sempre decoravano le pagine del mio diario come utopiche fantasie, sogni ineffabili taciuti perfino al pensiero. Astrel si alzò dalla panchina rabbrividita, manifestando il desiderio di far ritorno in un luogo caldo.
– Sbaglio, o la direttrice ha detto che tu avresti dovuto insegnarmi “ le regole vigenti nel vostro istituto” ? - Mettendomi in piedi anch’io, pronta a imboccare la strada del ritorno, risposi.
– Beh, non c’è modo migliore d’apprendere una regola se non infrangendola. -
- Dunque, devo trarre che baciare una ragazza sia vietato. -
- Vietatissimo, ma non nutro rimorsi per aver eccettuato la regola. -
11 Il primo giorno al Majakovskij
Mosca si svegliava nel candore della neve mentre tiepidi raggi solari la baciavano di luce. Il Moscova fluiva lungo il corso del suo letto, adorno di ghiaccio e di gelo. L’imminente arrivo della stagione invernale si celebrava tra i fumi dei comignoli. Al pianoterra del Majakovskij, allievi e docenti affollavano i corridoi con caotica frenesia, pochi minuti ancora, e il suono della campanella avrebbe sancito l’inizio della prima ora. Astrel si aggirava raminga barcamenandosi tra la folla. L’ansia da primo giorno le divorava lo stomaco a morsi. L’aula di storia doveva trovarsi oltre una di quelle porte sulla destra, che si susseguivano contraddistinte da lettere. Astrel sapeva che la sua prima lezione si sarebbe svolta nell’aula con la lettera G, ma la giovane non riusciva a ricordare la corrispondente cirillica, e per ben tre volte entrò nelle classi sbagliate beccandosi le burle di chi la considerava un’analfabeta. Esasperata gettò per terra lo zaino e si arrestò in mezzo al corridoio, mentre la frenesia della mattina le correva intorno indifferente. I suoi genitori non avevano ancora reclamato sue notizie, soltanto Willard si era prodigato ad accertarsi che stesse bene, “sii temeraria e ponderante” le aveva detto, com’era solito raccomandarle. Ciò che Astrel desiderava davvero in quel preciso istante era esplodere in un fragoroso pianto e poi correre a perdifiato fino a raggiungere le rive del suo Tamigi, ma l’unico luogo in cui riuscì ad arrivare quella mattina, fu l’aula di cui era alla ricerca. Astrel vi entrò solcando l’uscio con ambascia, come se stesse oltrepassando la frontiera dello stato nemico. L’insegnante non era ancora arrivata, ma gli studenti sedevano con ordine ai propri posti. Astrel indugiò davanti all’ingresso, mille sguardi inopportuni le piombarono addosso annichilendola. La sua presenza destò non poca perplessità.
- Ehm, buon giorno, è qui la lezione di storia? - Chiese la ragazza, tentando di fendere un varco amichevole nell’ostile silenzio che gli alunni opponevano. Nessuno le diede risposta, neppure con un leggero cenno del capo. - Cominciamo bene. – Farfugliò lei angustiata, sedendosi sull’unico banco libero. Un brusio ovattato si levò da ogni direzione. La ragazza cominciò a sfogliare un libro velocemente, sapeva d’essere lei l’argomento che alimentava quel parlottare confuso. Liudmila entrò in classe esibendosi in una starnazzante chiacchierata al cellulare.
- E’ un fico da sballo! Entro domani me lo faccio, giuro. Ma come ti salta in mente? Lui non ha occhi che per me. – Pavoneggiandosi come una cheerleader, la studentessa desiderava suscitare invidia agli occhi delle altre ragazze, tuttavia, la sua spavalda eloquenza si spense in modo repentino quando s’accorse che il suo posto era già occupato.
- Tu chi diavolo saresti? – Chiese Liudmila ponendosi di fronte all’intrusa. Astrel sussultò sbalordita.
- Come? Dici a me? – Liudmila sogghignò in segno di sprezzo.
- Scusa, tesoro, ma le tue chiappe non possono riposare sulla mia sedia. – Astrel fece una smorfia sconcertata.
- Non vedo la ragione per cui tu debba essere così ispida e sarcastica nei miei riguardi. C’è posto per entrambe in questo banco, dunque puoi sederti, o la mia presenza ti urta? – Liudmila tentennò spiazzata, non era abituata a dibattere con persone sagaci.
- Alzati subito da lì, sgualdrina! – Schiamazzò con irreprimibile ira.
- Liudmila Borisovna! E’ questo il modo di fare? – Intervenne l’insegnante di storia, appena giunta in classe. Nel vedere la donna accomodarsi dietro la cattedra, gli allievi si drizzarono in piedi esibendo rispetto. - Sedetevi pure. – Le sedie scrosciarono in contemporanea. - Dunque, Liuda, qual è il problema, cara? – Nella voce dell’insegnate viaggiava un leggero tono di predilezione.
- Questa cretina ha occupato il mio posto. – Incalzò la studentessa inviperita. La professoressa osservò l’ultima arrivata con aria di sufficienza.
- Non mi sembra di conoscerla, signorina. – Disse, continuando a ispezionarla.
- Sono arrivata solo ieri. –
- Ieri? E’ di Mosca o risiede nell’Oblast? –
- No, vengo da lontano, sono inglese. –
- Ah! La studentessa da Londra, o meglio: la raccomandata del rettore Stanley. - Commentò la professoressa, curando le cadenze del suo tono mordace.
- Di cosa sta parlando? Io non sono una raccomandata! - Protestò Astrel con impeto. L’insegnante finse di non sentire e aprendo il libro alla lezione del giorno, continuò a denigrare la nuova arrivata con la classe.
- Credo che oggi incentreremo la nostra lezione su una semplice parola, la meritocrazia. D’altronde è un termine che ricorre spesso nel nostro parlare, possiamo impiegarlo in riferimento alle cariche istituzionali, ai direttori di un’azienda, e in questo specifico caso agli studenti del Majakovskij. - Quel brusio fastidioso riprese a serpeggiare fra i banchi – A voi è concesso di seguire le lezioni giornaliere, di alloggiare in camere confortevoli, e di accedere agli spazi scolastici ed extrascolastici che l’istituto dispone. Per diventare gli allievi del Majakovskij, tutti voi avete investito energie e facoltà intellettive per superare i trabocchetti di un complesso test d’ammissione, tutti, eccetto quella ragazzina inglese, che con anglosassone freddezza si fa beffe dei vostri sacrifici. - Una pioggia d’occhi torvi si rovesciò contro Astrel per la seconda volta, ovunque si girasse, la ragazza scrutava soltanto visi arcigni. Il cuore cominciò a batterle violentemente, sentimenti d’afflizione e collera scalpitavano nella sua mente alternandosi in un caotico tumulto.
- Se davvero vuole saperlo – inveì provata – è stato mio padre a stipulare accordi con il rettore Stanley, lui mi ha costretto, lui mi ha gettato in questa fossa di leoni! -
- Che tu sia stata costretta o meno, resti ugualmente una privilegiata. - Sentenziò una ragazza dai capelli rossi, seduta in fondo all’aula.
- Precisamente.- Approvò la professoressa di storia – Non importa a nessuno come siano andate realmente le cose, lei ha giocato sporco, signorina Astrel, e sono certa che da questo momento il suo inserimento scolastico tracimerà d’ostacoli. - Astrel stava per replicare, ma l’ansia provocatale dal vaticinio dell’insegnante frenò le sue parole affogandole in un singhiozzo. Liudmila batté la mano sul banco sollecitando ancora la sua attenzione.
– Allora, tesoro, ti alzi da sola o devo prenderti di peso e poi sbatterti per terra come un sacco di patate?– Il turpiloquio dell’allieva, se pur banale e provocante, sollevò una palpitante risata che coinvolse quasi tutti i presenti. Astrel fulminò la sua avversaria con lo sguardo, benché avesse un carattere mite e poco avvezzo all’irascibilità, la situazione in cui si trovava cominciava a spazientirla.
– Io non mi muovo da qui. – Affermò con voce inflessibile. Liudmila ghignò arcuando le dita. Invasata dall’ira si scaraventò contro Astrel e le afferrò i capelli per strattonarla via dal suo posto. – Lasciami andare, ho detto lasciami! – Gridava Astrel lottando contro quella presa poderosa. Le manacce di Liudmila sembravano attaccate alla sua testa con la colla. I ragazzi presenti parvero divertirsi nel vedere due compagne fare a botte e fra urli incitanti e schiamazzi confusi, circondarono le due combattenti per godersi meglio lo spettacolo. In classe si stava svolgendo un vero e proprio match, e a decretare il gong ci pensò la professoressa di storia. La donna afferrò Liudmila dal giro vita e a fatica la trasse via dalla sua preda, anche Astrel fu allontanata dalla sfidante, ma riuscì ugualmente a sferrarle un energico pugno che la colpì dritta a un occhio. Le due avversarie furono rese inermi, e se da un lato Astrel si era placata all’istante, dall’altro, Liudmila continuava a scalciare nel vuoto e a urlare come un’indemoniata.
– Brutta stronza! Te la farò pagare! Te la farò pagare! –
12 La cena del mercoledì
Il titanico orologio della biblioteca segnava le 19: 30. Nell’ampia sala, a parte me e le interminabili file di libri, non vi era nessuno. La batteria al litio del mio I-pod si era appena prosciugata, impedendo alla soave voce di Varvara d’allietarmi ancora. Senza la mia cantante favorita, affrontare la pedanteria delle pagine su cui mi stavo documentando risultava più arduo, eppure mi adoperai con zelo per completare la ricerca sugli Inuit. Abbandonando il resto in sottofondo, non mi accorsi che Ivan, un mio compagno di classe, era appena entrato in biblioteca e si dirigeva spavaldo verso il tavolo in cui sedevo. I suoi passi pesanti spezzarono la mia concentrazione, mentre lui si sedeva accavallando le gambe, io richiudevo i libri infastidita dall’interruzione.
- Ciao bambola, stai bene? –
Nell’udire quella voce mi venne il voltastomaco. Ripensai al contenuto del bigliettino sotto la mia porta, il “galante”mittente si trovava proprio accanto a me. Ahimè, sono già due anni che Ivan mi sbava dietro. Due anni segnati da continue proposte, inviti hot, e apprezzamenti scurrili, che di certo non gradivo. Qualsiasi altra ragazza, al mio posto, sarebbe presto ceduta al quel fascino latino, sciogliendosi sotto lo sguardo penetrante dei suoi occhi neri, e vibrando nell’incandescenza dei suoi scultorei addominali. L’avvenenza del giovane studente non passava certo inosservata, ma non era soltanto quella ad ammaliare le donne. Ivan rapiva con gli sguardi, seduceva con i gesti, s’insinuava fra i pensieri femminili e si trasformava nel sogno erotico più proibito, più segreto. Per me le cose andavano in un'altra maniera. Forse ero l’unica ragazza a non svenire quando Ivan mi rivolgeva la parola, l’unica che non gli fissa il fondoschiena incantando lo sguardo come si fa con i ciondoli ipnotici, ma di certo, non ero la sola ad aver compreso che l’aitante adone era anche uno spregevole maschilista. Per Ivan le donne erano un po’ come le sigarette, da fumare prima assaporandone il gusto e da gettare poi, spegnendole con la punta della scarpa.
- Spiacente, Vanja, ma come vedi sono impegnata in faccende più importanti. – Lo informai, riaprendo i libri e inarcando la schiena verso il tavolo.
- Posso aiutarti io a completare la tua ricerca, così ti resterà del tempo da concedere al tuo fedele spasimante. –
- Piantala, o ti lancio un libro contro! – Ivan non si scompose è intrigato replicò col sorriso marpione.
- Beh, non ho un cattivo rapporto col dolore. –
- Che lingua devo usare per farmi comprendere da te? Vattene e lasciami in pace, è così difficile da capire? – Sbottai ancora, vistosamente irritata dal suo fare irrispettoso e triviale.
- Ok, non agitarti bambola, altrimenti mi ecciti di più. Ti accontento, vado via, ma stasera, nel caso tu voglia ripensarci, mi trovi in camera mia tutto nudo, ehm, volevo dire solo. –
- Va al diavolo! – Gli gridai esasperata, mentre lui si allontanava lanciandomi un voluttuoso bacio. Pochi minuti più tardi, la porta della biblioteca si aprì nuovamente. Sta volta mi ero proprio stufata di quell’idiota! Rivolgendo lo sguardo in fondo alla sala, m’accorsi che non si trattava d’Ivan, ma di una splendida ragazza giunta da Londra appena una sera fa. Alla sua vista il mio cuore sobbalzo rinvigorendomi, più lei si avvicinava, più la tempesta impazzava dentro me.
– Posso farti compagnia? – Disse, quasi timorosa che le rispondessi di no.
– Certo che puoi – Il suo volto fu addolcito da un lieve sorriso, e lieta si sedette, proprio dove Ivan aveva posato le sue disgustose natiche. Astrel indico i libri che avevo innanzi – Se stai studiando, non vorrei disturbarti. –
- Nessun problema- La tranquillizzai - ho appena finito. – Alzandomi dalla sedia riportai i libri al proprio posto. Astrel si strinse nel suo maglione bianco e mi osservò salire la scaletta di legno per raggiungere il quinto scaffale.
– Oggi è stata una giornataccia. – considerò mestamente.
– Non è andato bene il tuo primo giorno di scuola? – M’informai con voce faticata, mentre dall’ultimo gradino della scaletta mi tiravo sulle punte per combattere il tipico effetto domino dei libri suggli scaffali.
- Beh, a parte l’esser stata presentata ai miei compagni come una raccomandata scansafatiche, e tralasciando anche che ho fatto a botte con una certa Liudmila, direi pure: un inizio encomiabile! –
- Hai fatto a botte con Liudmila? – Le domandai con enfasi in parte nascosta. – Oh, ti prego, dimmi che l’hai mandata in ospedale! – Dissi, scendendo con attenzione dalla scaletta, affinché la iettatura che avevo pronunciato non si ritorcesse contro di me. Astrel sorrise.
- Mi spiace doverti deludere, Svetlana, ma questa è la prima volta che giungo alle mani, e anche se apparirà retorico a dirsi, ha cominciato lei. -
- Non è affatto retorico se stiamo parlando di Liudmila. Non sai quante me ne ha combinate. Ti consiglio di starle lontana, è una carognetta prepotente. - Astrel annuì, mentre i suoi aggraziati lineamenti si tingevano di mestizia.
- Sai una cosa? – Disse, con l’intento di confidarmi i suoi pensieri. – Ho una gran nostalgia di casa. Mi manca Londra, e la mia amica Lara, e naturalmente Willard, che a quest’ora starà preparando il tè.
- Non riesci proprio ad ambientarti qui? -
- No. E’ tutto così inospitale, così algido. - Le sue parole nostalgiche riuscirono a penetrarmi in fondo, mi coinvolsero a tal punto, che provai l’irrefrenabile bisogno di stringerla a me e rincuorarla. Percepivo quanto Astrel desiderasse ricevere calore umano, era come se in quel momento la sua anima mi stesse parlando “abbracciami” mi diceva “ stringimi forte e non lasciarmi mai più, finalmente ti ho ritrovato dolce metà.”Guidata solo dal sentimento, l’avvolsi con le braccia e chiusi gli occhi. Com’era piacevole averla vicina, percepire il profumo frizzante dei suoi capelli, fondersi con la fragranza leggera della cipria al talco. Avvinghiate in quell’abbraccio, il mondo sembrò sfumarci intorno, le nostre labbra si toccarono ancora, e tutto riprese ad esser magico esattamente come la sera precedente. Quanto avrei voluto fermare il tempo, imprigionarlo di nascosto in uno scrigno segreto, e vedere poi tutti i pendoli bloccarsi a mezz’aria. Il suono della campana scolastica infranse le mie aspettative, più trillava echeggiando per la biblioteca, più comprendevo che nulla era in grado d’arrestare il divenire del tempo, infatti, quel gigante orologio segnava ora le otto in punto.
- Cavolo, la cena del mercoledì! – Strepitai ad alta voce.
- Cos’è la cena del mercoledì? – Chiese Astrel incuriosita.
- Una fra le tante ridicole trovate che la Rosencrans farebbe meglio a risparmiarsi. –
- Ovvero? –
- Ovvero, ogni mercoledì sera pretende che alcuni di noi cenino insieme a lei nel salone principale anziché in mensa. –
- A quale scopo? –
- Prendiamo posto in un tavolo unico, la preside indice un argomento da dibattere, e gli altri devono argomentarlo esponendo le proprie opinioni al riguardo. E’ una sorta di simposio. –
- Un simposio? Che spasso! Non che abbia qualcosa contro le serate culturali, anzi. – Precisò Astrel. - ma credo d’averne abbastanza per oggi. –
- Sta tranquilla, di rado la preside ci tedia per più di un’ora, e poi, la tua assenza alla cena significherebbe un tacito assenso a dissociarti dalla vita scolastica.-
- Mentre la mia presenza sarà interpretata come un atto di sfrontatezza, giacché ho la fama d’infingarda privilegiata. -
- Vedo che inizi a conoscere la dialettica di questo collegio. –
- Già. – Si espresse con sguardo leggermente assorto. – Però, ciò che davvero mi piacerebbe conoscere sei tu. –
- Io? – Domandai, visibilmente lusingata
- Beh, dopo quello che è accaduto ieri sera, io vorrei tanto… - Astrel si mordeva le labbra e freneticamente agitava le mani, era come incapace di comunicare con me, frenata da una sorta di pudore che le avvoltolava i fili del ragionamento. Ruppi il suo imbarazzo con un semplice sguardo, nell’universo degli occhi niente era impossibile da esprimere.
- Anche a me piacerebbe conoscerti meglio, e sono pronta a seguire qualsiasi sviluppo maturerà la nostra nuova amicizia. –
Il salone principale del Majakovskij rappresenta l’angolo pregiato dell’istituto. La Rosencrans l’aveva ammobiliato seguendo il gusto dello stile vittoriano, curandone i dettagli più minuti. Al centro della sala, sopra un tappeto intrecciato a mano proveniente da Marrakech, dominava l’arredamento un massiccio tavolo di forma ovoidale in legno d’acero. Nella parte ovest della sala, un salottino in velluto rosso cocciniglia circondava il grande caminetto di travertino. A rendere l’ambiente intimo e raccolto, contribuivano le sfumature giallo ocra sulla carta da parati, finemente abbinate al bordeaux del tendaggio. L’anziana direttrice amava l’eleganza classicheggiante di quel luogo, per tale ragione ne preservava la compattezza limitandone l’accesso. Nell’arco settimanale che precedeva il mercoledì, il salone restava un luogo solitario e immerso nel silenzio. Solo alla polvere che si depositava sui cimeli era consentito l’accesso. Il mercoledì sera lo scenario si rivoluzionava. Le voci dei ragazzi, il via vai dei camerieri che facevano scrosciare le stoviglie sui carrelli portavivande, lo scoppiettio dei ciocchi dentro il camino e il profumo delle pietanze che imprimevano le stoffe dei tendaggi, tutto brulicava di vita. Liudmila sedeva composta al tavolo, stando ben attenta che i suoi gomiti non si poggiassero per sbaglio sulla tovaglia di fiandra. Paziente attendeva che il resto dei commensali prendessero posto. Alla cena del mercoledì lei giungeva sempre con mezz’ora d’anticipo rispetto all’orario previsto, in modo da esternare alla direttrice il suo spiccato interesse per l’appuntamento settimanale. In realtà la studentessa odiava dover consumare una cena in compagnia della Rosencrans, stava male alla sola idea di vederla masticare a bocca aperta con la protesi dentaria che di tanto in tanto veniva giù. Malgrado l’abominevole spettacolo cui sapeva andare incontro, Liudmila sedeva sempre accanto all’anziana donna, approfittando del fatto che nessuno volesse farlo. Per ingannare l’attesa, la giovane estrasse il cellulare dalla tasca e cominciò a messaggiare con un ragazzo da poco conosciuto.
- ci vediamo in camera mia alle 22: 00, entra dalla finestra, è aperta. -
Era questo ciò che aveva scritto nel suo sms. La campana della scuola emise un altro trillo, stava a indicare che i “prescelti” per la cena dovevano affrettarsi a raggiungere il salone principale, prender posto e dare una lettura veloce ai depliant che esponevano il tema della serata. Liudmila distese accuratamente il tovagliolo sulle gambe, e avvicinandosi con la sedia al tavolo si mise alla ricerca di una vittima, qualcuno da irridere per semplice diletto. Di solito puntava il mirino contro le ragazze del primo anno, in particolare quelle timide e diligenti, loro non erano capaci di risponderle per le rime, e ciò le facilitava il gioco. Liudmila adorava farsi beffe delle altre persone, prenderle in giro e ridere di loro. Era una pulsione che doveva soddisfare a tutti costi, una sorta di droga senza la quale andava in astinenza. Solo enfatizzando i difetti altrui, lei riusciva a placare quell’insanabile complesso d’inferiorità che tanto la tormentava. Quando mi vide attraversare il salone insieme ad Astrel, sobbalzò sulla sedia facendosi infima, la sua preda ideale era appena giunta, e di certo la litigiosa studentessa non l’avrebbe lasciata scappare, non dopo ciò che era accaduto durante l’ora di storia. Nel momento in cui le passammo vicino, notai il suo occhio tumefatto. Liudmila tentava di occultarlo dipanando alcuni ciuffi sulla fronte, ma bastava un movimento del capo affinché le tornasse in risalto. “ Quel cerchio violaceo dovrebbe servirle da lezione.” Pensai.
- Eccola arrivata, la nostra cara compagna inglese. – Esordì Liudmila magnetizzando l’attenzione dei presenti. Astrel non replicò e indifferente si sedette al mio fianco. - Che c’è, hai paura di prender posto vicino a me?- Continuò lei, divampando rivalsa - Temi che ti possa tornare il colpo che m’ hai inflitto all’occhio? – Astrel la snobbò ancora, disattendendo le sue puerili istigazioni. - Tanto meglio. Detesto mischiarmi con le puttanelle anglosassoni. – Gli occhi dei presenti gravarono sbigottiti su Liudmila, ma la studentessa non provò la benché minima soggezione. Un quartetto di ragazze, che ciarlava fittamente innanzi al camino, esplose in un fragoroso sghignazzo. Una fiamma impetuosa si accese in me cominciando a scorrermi nelle vene, raramente quella sciocca riusciva a farmi perdere la calma, ma questa volta era diverso. Non potevo lasciare che la mia amica venisse umiliata in quel modo, non sopportavo l’idea di vederla soffrire per degli improperi così pesanti ma allo stesso tempo così infondati. Sentendo il furore aumentarmi dentro, diedi a quella vipera la risposta che si meritava.
- Stasera a chi tocca, Liuda? Chi oltrepasserà il davanzale della tua finestra? Bada bene al tuo privato prima d’apostrofare gli altri. - Una risata palpitante, come quelle che fanno da sottofondo ai film comici, si levò fra i ragazzi mettendo Liudmila in serio disagio. Al Majakovskij la privacy non era di casa, persino i soffitti avevano orecchie e bocca.
- Questa me la paghi Svetlana! Hai capito? – Infuriò lei agitando una forchetta tra le mani. La situazione sarebbe degenerata ulteriormente, se la direttrice non fosse giunta a ristabilire l’ordine con un semplice, ma terrifico, schiarimento della voce. Da tempo avevo imparato a tutelarmi dalle scabrezze del mondo e dalla spregiudicata malevolenza di persone come Liudmila. Mi ero già trovata in situazioni analoghe a quella, e con magistrale indifferenza fingevo che nulla mi potesse scalfire. Agli altri ostentavo un’armatura corazzata capace di resistere a qualunque attacco, in realtà vivevo ogni singola cattiveria come il colpo letale di un dardo avvelenato. Ricordo ancora il mio primo giorno al Majakovskij. Era un martedì di settembre, quando insieme a due ragazzi, facevo il mio ingresso nella famigerata scuola. Nessuno di noi ricevette una calorosa accoglienza da parte della Rosencrans, ma io fui l’unica che per sei lunghi mesi alloggiò in una scomoda stanza di servizio, con l’acqua calda a giorni alterni, e scarna di qualsiasi altro comfort. Quali le ragioni di un’ ammenda così severa? Mia zia aveva pagato con ritardo la prima mensilità. Un ritardo irrisorio, appena due giorni, eppure, alla direttrice parve un pretesto sufficiente per impartirmi una lezione esemplare. Una volta la settimana ricevevo una telefonata da New York. M’infastidiva alzare il ricevitore e udire la voce fredda e meccanica di mia zia, perfino i risponditori automatici dei gestori telefonici riuscivano a simulare un tono di cortesia più coinvolgente del suo.
– Fammi tornare a New York! Ti prego, zia, non mi trovo bene qui, quella donna mi odia e io non so cosa fare. - Mille volte avevo pronunciato queste parole fra le lacrime, ma dall’altro capo udivo soltanto la linea cadere improvvisamente. Passavo intere notti a riempire il diario di quesiti: perché la gente che mi sta intorno calpesta i miei sentimenti come fossero erbacce secche? Perché gli altri possono decidere della mia vita e gestirla a loro piacimento? Se la libertà esiste, se non è soltanto un’utopia che alimenta ideali, allora perché a me non è concesso di possederne almeno una parte? Non sono ancora riuscita a risolvere i miei quesiti, la logica contorta della vita non è facile da comprendere, eppure, io una cosa l’avevo capita: mi trovavo in gabbia. Una gabbia lussuosa dalle barre dorate, ma pur sempre barre, sarei mai riuscita a trovare le chiavi e valicare il confine della mia prigionia? Trascorsa un’interminabile e pedante ora, la direttrice decretò la fine del dibattito, la cena del mercoledì era ufficialmente conclusa. Solitamente, la Rosencrans sfoderava argomenti d’attualità come temi della serata, e spesso ci interrogavamo sui trend di sviluppo del nostro paese, o sui pericoli insiti nell’immissione di gas serra nell’aria. Dibattiti d’alto interesse sociale, questo era indubbio, e probabilmente, ognuno di noi avrebbe avuto maggiore propensione nell’argomentarli, se la regola imprescindibile non fosse stata: esprimi il tuo parere soltanto se è conforme a quello della Rosencrans. Come di consueto, la direttrice non si sarebbe accomiatata da tavola se prima non avesse espresso il suo malcontento alla cuoca, tacciandola d’aver aggiunto troppo sale alla stessa pietanza che il mercoledì precedente lamentava esser scipita.
Celata fra i muri della sua camera, Liudmila indossava la nuova lingeria di seta. In precario equilibrio su un tacco vertiginoso, la studentessa si atteggiava in pose sexy e provocanti davanti allo specchio. - Tu sei una donna fatale, nessuno può resisterti. - diceva sensualmente a quel riflesso seminudo e un po’ tondeggiante. L’orologio indicava le nove e quaranta, a breve il suo voglioso partner avrebbe scavalcato la finestra per strusciarsi nel letto assieme a lei, e al solo pensiero Liuda avvertiva dei piacevoli fremiti scuoterle l’intimo. Ma quella che si apprestava a divenire una serata rovente e goduriosa, si trasformò presto in uno smacco. Proprio come avvenuto la sera precedente, degli insistenti tocchi alla porta interruppero Liudmila quando era molto, molto impegnata a intrattenere il suo ospite.
Le nostre mani si cercarono vicendevolmente, insieme si legarono in un delicato contatto, lasciando fluire il carico emozionale che vibrava come uno spirito danzante. I miei passi e i suoi battevano il pavimento all’unisono, mentre spedite attraversavamo il corridoio per tornare in camera. La porta dell’aula di scienze era aperta, e nel momento in cui Astrel ed io vi passammo rasenti, lei si fermò di colpo perché conquistata da una mappa stellare appesa al muro. Svelta entrò in aula invitandomi a seguirla. In classe non c’era nessuno, dato l’ orario, e ogni nostro spostamento produceva un tenue riverbero che riecheggiava fra i muri. La luce bianca dei lampioni sul cortile s’infiltrava attraverso le finestre. - Scommetto che v’insegnano a distillare la vodka. – Scherzò Astrel, indicando un alambicco. - Quante cose interessanti qui dentro! -Disse, mentre gli oggetti presenti facevano a gara per stimolare la sua attenzione. Osservò distrattamente la tavola periodica di Mendeleev raffigurata col gesso sulla lavagna d’ardesia. Poi s’intrattenne d’innanzi una teca che preservava riproduzioni d’antichi strumenti. Con entrambe le mani lambì il cristallo della vetrina e con il volto si avvicinò tanto da lasciarvi l’alone. Era come se desiderasse trapassare il vetro e ghermire quel vecchio astrolabio per macchinarlo con giocoso spirito, forse si sarebbe accontentata della piccola meridiana o del termometro galileiano, pur di manovrarne uno. Infine, puntò gli occhi su ciò che dall’inizio l’aveva conquistata più del resto, una gigantografia delle ottantotto costellazioni ufficiali.
- Wow! – Esclamò - Guarda com’è bella la Corona boreale! E che mi dici di Pegaso, o della Chioma di Berenice? Con l’aiuto di una fervida fantasia, i popoli della terra sono riusciti a disegnare sul firmamento. Dall’emisfero boreale a quello australe, si sono sbizzarriti nell’unire puntini luccicanti dando vita alle figure più inedite. Sono in pochi a conoscere la costellazione dell’Orologio o della Macchina pneumatica. –
- A cos’è dovuta questa passione per gli astri? – Le domandai, curiosa di saperne al riguardo. Astrel mi osservò sorridendo, aveva l’espressione classica di chi sogna a occhi aperti.
- Hai mai provato a sdraiarti su un prato verde in una notte d’estate? -
- Sì, mi è capitato. – Le risposi, immaginando il profumo di rugiada e le carezze dei fili d’erba sulle braccia.
- Allora puoi comprendermi. Ti sarai interrogata anche tu sui misteri imperscrutabili del cosmo. C’ è un solo universo? Se sì, all’interno di cosa si estende? Ma, soprattutto: noi siamo gli unici ad abitarlo? –
- Oh, quanto vorrei poterti rispondere! Forse è inutile porsi delle domande così inarrivabili, sarebbe saggio rinunciare e ammettere i propri limiti ma, credo che un uomo smetterebbe d’ essere tale se lo facesse. - Astrel annuì, poggiando una mano sulla cartina. - E’ piacevole discutere con te. – Commentò, mostrando apprezzamento nei miei riguardi. – Se anche gli altri adolescenti usassero la tua dialettica forse, avrei più amici. – Il suo commento mi stupì piacevolmente, di rado la gente sapeva apprezzare le mie riflessioni e coglierne lo spunto per disquisire con sagacia, il più delle volte si meravigliavano che persino una ragazza bionda con le gambe in mostra disponesse di un organo celebrale.
- Io cerco soltanto d’ esprimere i miei pensieri, tento di ricavare un significato a ciò che risulta d’arduo discernimento. - Replicai con modestia.
- Capisco. –
- Se può interessarti - Continuai, attratta dall’idea che mi balenava in mente. – All’ultimo piano dell’istituto c’è un piccolo osservatorio astronomico. Non aspettarti la stazione di Mauna Kea, però, ci sono due telescopi che arrivano ben oltre i nostri nudi occhi. –
- Fantastico! Andiamo a spiare i pianeti. – Accettò lei, entusiasmata dalla mia proposta.
L’ufficio della Rosencrans giaceva al buio. Il ticchettio ritmico dell’orologio a pendolo intervallava il silenzio dando voce ai secondi con cadenze regolari. Dalla finestra filtrava una debole luce che illuminava parzialmente la poltrona su cui la preside tentava di riposare. Un inedito bisogno di raccoglimento l’aveva spinta a celarsi fra le mura del suo ufficio, ma il tentativo d’isolarsi dal resto veniva puntualmente invalidato da qualsiasi brusio o scroscio proveniente dall’esterno. La donna sedeva con lo sguardo perso al vuoto e l’espressione abulica, quasi in trance. Nella sua mente rimuginava la solita ossessione. Quel vizio insanabile che voracemente si nutriva del suo patrimonio prosciugandone ogni riserva. La donna si massaggiò il collo attraverso un movimento breve e rapido della mano, gravando la pelle vizza della nuca di tutta la sua ansietà. Poi condusse entrambe le mani alle tempie e socchiudendo gli occhi massaggiò anche quelle. “ Devo porre fine a tutto ciò. Io devo riuscirci. Da domani, non un solo rublo finirà perduto al gioco.” Quante volte se l’era ripromesso? Ma i suoi nobili propositi si frammentavano come cristalli innanzi a una partita di black-jack o a un’invitante roulette. Tentando di scacciare i tormenti, la preside decise di trascorrere qualche ora al PC per completare un po’ di lavoro arretrato. Dal corridoio provenivano passi incalzanti che si udivano sempre più acuti, fino a quando, la direttrice non vide la porta del suo ufficio spalancarsi e Liudmila entrare con gran foga. La giovane allieva s’accorse che La luce era spenta, in mezzo al buio intravide la faccia rugosa della Rosencrans, che illuminata dal monitor, appariva biancastra come quella di uno spettro. La voglia d’insultare quella vecchia zitella ribolliva in lei come la lava di un vulcano. Ancora una volta la preside era riuscita a rovinarle la festa sul più bello, ma adesso la studentessa si trovava al suo cospetto, e se pur con l’espressione imbronciata e i vestiti stropicciati, doveva fingersi cortese e riverente. La donna accese la luce ed esaminò l’allieva con espressione coriacea.
– Ho interrotto qualcosa, Liudmila Borisovna? So che non è buona norma assentarsi quando qualcuno ci viene a trovare, tuttavia, mi urge conferire con lei; temo dunque che il suo ospite dovrà pazientare.- Liudmila strinse i pugni con veemenza, dalla rabbia stava quasi per conficcarsi le unghie dentro la carne.
- Non c’è problema signorina Rosencrans, io sono sempre a sua completa disposizione. – Rispose, tradendo la sua affermazione con una smorfia adirata e risentita.
- Mi compiaccio. – Affermò la donna, modellando un sorriso ipocrita. - Desidero sapere se sta svolgendo quel piccolo favore che le ho commissionato. - Liudmila trasalì in preda al panico. Spiazzata, realizzò di non possedere un piano preciso e ben delineato da esporre, così assunse un atteggiamento difensivo.
- Ecco, come posso spiegare? Per questo genere di cose occorre del tempo, ed è passato appena un giorno, di conseguenza io… - Quando la direttrice udì pronunciare la parola “tempo”, balzò in piedi battendo energicamente la mano sulla scrivania.
- Santo cielo, Liudmila! - Proruppe alzando il tono della voce. - Se c’è una cosa di cui non disponiamo, quella è il tempo. -
- Lo so, lo so. Comprendo perfettamente la delicatezza della situazione ma, quella ragazza è qui d’appena un giorno. Con tutto il dovuto rispetto, signorina Rosencrans, io non sono capace di operare miracoli. – Liudmila espirò ritrattando la sua posizione. – Ad ogni modo, se mi concede soltanto una settimana, potrei riuscire a… -
- Non se ne parla proprio – Troncò la preside perentoria. – Domani stesso farai in modo che l’intera scuola la creda una ladra, a te la strategia. -
- Una ladra! – Esclamò Liudmila perplessa. – Come posso? – La Rosencrans tornò al suo da fare fingendo che Liudmila fosse già andata via, e taciturna cominciò a sfogliare alcuni documenti contenuti in una cartellina.
- Va bene, ci proverò. – Decretò la studentessa dopo aver riflettuto in silenzio. – Ehm, se dovessi fallire? – aggiunse impensierita. La direttrice continuava a lavorare assorta, l’eloquenza del suo silenzio non poteva travisarsi. Liudmila smise d’intrattenersi e si diresse verso l’uscita, solo allora la direttrice alzò lo sguardo e concluse dicendo
– Sarebbe davvero un peccato istallare delle grate su tutte le finestre del piano terra, non trova anche lei? -
13 Due corpi un’essenza
La luna nuova svelava le stelle agli spettatori terrestri, anche le più timide scintillavano attraverso milioni d’anni luce. Insieme ad Astrel salivo la scala che mi avrebbe condotta all’ultimo piano del Majakovskij, dove grazie ai proventi del signor Stanley, la Rosencrans aveva allestito un piccolo osservatorio per le lezioni d’ astronomia. Giunte sull’attico ci intrufolammo guardinghe all’interno dell’osservatorio, non era concesso recarvisi senza un insegnante al seguito, ma il signor Vyacheslav soffriva spesso di sbadataggine e scordava di serrare l’ingresso. Una cupola con struttura a spicchi, in lamiera zincata. sovrastava il basamento circolare della stanza, e grazie al portellone mobile, da me appena aperto, era possibile scrutare una parte di cielo. Astrel mosse qualche passo curioso calpestando il pavimento circolare, rivestito da un materiale ignifugo di colore bianco. Al centro della stanza, un telescopio con montatura altazimutale non poté che lasciarsi ammirare dagli occhi sedotti della mia amica, ma quando ella si mosse per raggiungerlo fui costretta a bloccarla.
- Aspetta, Astrel! – Astrel si arrestò al mio comando – Guarda lì. – Le dissi, indicandole con la punta del dito una piccola spia rossa che lampeggiava sulla scrivania, all’interno di un dispositivo posto tra il PC e un oculare ortoscopico a sei lenti. - L’allarme è attivo. –
- Accidenti! – Esclamò lei delusa, ma non troppo.
- Oh Astrel, sono desolata! L’allarme si può disattivare solo dalla presidenza, e quella strega sarà lì adesso. Lei sorrise puntando gli occhi al tetto.
- L’idea di spiare il cielo alla scoperta dei suoi misteri arcaici mi allettava parecchio, ma questa sera le stelle si vedono benissimo anche ad occhio nudo. -
- Sì, ma non è la stessa cosa. – Replicai sconfitta. Astrel si avvicinò a me e con un gesto delicato mi cinse la vita.
- Io credo sia molto romantico stare qui, non trovi anche tu? - Sole in quel luogo buio, al riparo da sguardi indiscreti e intransigenti, la situazione non poteva che evolversi in un solo modo. Entrambe desideravamo la stessa cosa, lo volevamo intensamente. Mi colpì molto la naturalezza e la spontaneità con cui avvenne il tutto. Non ci fu alcuna esitazione nei nostri gesti, nessuna vergogna né senso del pudore, solo la complicità di due persone fatalmente attratte. Stringendoci, cominciammo a sfiorarci in zone proibite. Lentamente prima, con discrezione e delicatezza, poi con maggiore passionalità. Le sue mani tiepide viaggiavano pioniere sul mio ventre. Sapevo dov’erano dirette, sapevo quando si sarebbero fermate, e desideravo soltanto che giungessero a destinazione. Erano sensazioni così nuove per me, così insolite. Trasportata com’ero in un'altra dimensione, nella mia mente non c’era spazio che per quel momento, il nostro momento. I vestiti sparirono presto dalla scena, cedendo il posto a un contatto intenso. Mi persi in lei così come fa la falena quando vede la luce, ci gira intorno e poi… si fonde nel suo bagliore. Sdraiate ora sul pavimento gelido, sentivo il suo cuore battere forte, la sua pelle soffice strofinarsi con la mia, e finalmente, lei in me nel profondo. Per un interminabile istante provammo un’estasi divina. Adesso la passione aveva ceduto il posto alla tenerezza, la sensualità alla dolcezza, i sospiri intensi a quelli lievi e sussurrati. I nostri corpi nudi, che abbracciati si regalavano carezze sottili e nascoste, di certo apparirebbero uno spettacolo triviale e sgradito ai benpensanti del borgo. Perversione, è la prima parola che userebbero nel descriverci, degrado e devianza sociale, direbbero anche. A volte mi chiedo perché, perché proprio l’uomo, unico essere del regno animale dotato di razionalità, finisca sempre per comportarsi come il più stolto! D’altronde, chi non reputa l’amore un sentimento libero e privo di confini? Ciò significa che esso va vissuto in totale trasporto e naturalezza, altrimenti, si rischierebbe di perderne lo spirito magico che lo caratterizza. Eppure, a dispetto di questo lampante assioma e della sua incontrovertibilità, in ogni cultura è già stabilito a priori come l’amore debba svolgersi. Si può stare insieme solo se eterosessuali, molto meglio da sposati, all’interno del matrimonio si sa, quella scurrilità che si pronuncia “sesso” trova una collocazione funzionale. Non si può amare una persona che abbia il colore della pelle diverso dal proprio, e nemmeno chi crede in un altro Dio, è vietato pure amarsi, se vi è differenza d’età o di ceto sociale. Ci sono modi “giusti” d’amare, modi “permessi”, modi “normali”. Siete davvero convinti di tutto ciò? Pensate che il terreno ideale per coltivare l’amore sia una società bigotta e intollerante? Quella stessa società che chiude occhi e cuore di fronte a guerre e sofferenze, e si lascia invece scandalizzare da due uomini che vanno in giro mano nella mano? Io ho scelto un luogo differente per allevare il mio sentimento, una terra vergine e prospera che porta il nome di libertà. E non importa se il dazio da pagare è l’intolleranza della gente, i loro giudizi razziali, e la discriminazione. Nel mio cuore pulsa comunque la gioia, alimentata dalla tenacia che mi ha spinto a travalicare il confine.
Il pavimento freddo cominciò a sortire i suoi effetti, forse era giunto il momento di alzarci e recuperare i vestiti sparsi qua e la intorno a noi. A volte la sera, prima d’addormentarmi, socchiudevo gli occhi per fantasticare sulla mia prima volta. L’immaginazione riusciva a condurmi in ogni luogo: letti soffici, vasche idromassaggio, spiagge esotiche o romantici chalet. Devo ammettere che un osservatorio astronomico ha un po’ deluso le mie aspettative, ma in cambio ho avuto lei.
- Da oggi il mondo è più bello. – Le dissi, mentre la guardavo rivestirsi. Gli occhi d’Astrel sbucarono dal pull-over che stava indossando, vogliosi di ritrovare i miei.
- Anche per me. – Rispose verace. Mettendomi in piedi le porsi una mano per alzarsi.
- Ti conosco da poco tempo, Astrel, ma ti reputo una ragazza speciale. -
- Speciale? – Ripetè lusingata.
- Proprio così. Sei dolce, affabile, aperta, e poi, nessuno più di te riesce a comprendermi con uno sguardo. – Lei annuì serafica, arrossendo appena. - Correggimi se mi sbaglio. – Continuai, stringendo la sua mano tra le mie - Ma penso ci sia qualcosa in te, qualcosa che non ti consenta di viver serena come un adolescente dovrebbe. -
- Esatto. E’ proprio così. – Si meravigliò lei, quasi convinta che possedessi un’arte divinatoria, e per un momento mi fece sentire un’indovina al cospetto della sua palla di vetro. - Ora sei stata tu a capirmi con uno sguardo, mi hai letto l’anima. E pensare che quello stupido freudiano del mio analista non c’era mai riuscito! -
- Per certe cose non occorre la psicanalisi. Cos’è che non va? - Astrel chiuse gli occhi per un momento, una lacrima calda e veloce le rigò il volto.
- Sono tante le cose che non vanno, Svetlana, ma… il problema maggiore è costituito dai miei genitori. Loro non vogliono accettarmi per quella che sono. -
- Ti riferisci al fatto - Astrel annuì ancor prima che formulassi la mia domanda.
– Sì, esatto. Credo ti sarai accorta che i ragazzi non m’interessano più di tanto. – Con un sorriso le carezzai il viso prosciugandole il segno umido della lacrima.
– E allora? Pensi che questo legittimi i tuoi a rovinarti la vita? A emarginarti o farti sentire inferiore? Sai qual è l’unica differenza tra le persone come noi e gli altri? – Astrel lasciò rispondere me. – Che noi siamo una minoranza, un universo inesplorato, e la gente ha sempre temuto ciò che non conosce. –
- Convengo col tuo pensiero, Svetlana, ma ciò non li autorizza a fomentare disprezzo nei nostri riguardi. Nessuno ha il diritto di annoverarci tra i rifiuti della società. Eppure il mondo ci riserva lo stesso livore che spetterebbe a un delinquente, per non citare l’opprimente senso di colpa che in base al parere di certi religiosi dovremmo provare.
- Senso di colpa! - Replicai sbottando – Così dovremmo essere noi a martoriarci per colpe inesistenti? E certi capi di stato? Uomini panciuti dall’aria malandrina, che allegramente discutono sotto cappelle dorate e si beffano delle conseguenze che le loro scelte comportano. - Entrambe sospirammo in segno d’impotenza, due ragazze che nutrivano il medesimo dispregio per le brutture del mondo, non costituivano certo la condizione necessaria per sovvertirne i connotati.
14 Ladra
Mille schizzi zampillavano dalla piscina bagnando il pavimento circostante e rendendolo lucido. Il sole filtrava dalle ampie vetrate che sovrastavano la piscina e colpendo l’acqua rifrangeva dinamici riflessi sul tetto di legno. Nella parte bassa della piscina, Astrel eseguiva gli esercizi d’acquagym insieme ai suoi compagni di classe. L’aria riscaldata sapeva di cloro e Astrel sentiva già gli occhi bruciare intorno alla cornea. Dal bordo vasca, la Čechov coordinava i movimenti a suono di fischietto, sollecitando gli allievi a prestare maggiore impegno.
- Voglio vedere quelle ginocchia schizzare fuori, coraggio! – Ripeteva, alternando gli schiocchi delle dita al fischietto. - Siete lenti! Lenti ragazzini, flosci come cefalopodi. – Nascosto dietro un’apparente partecipazione, lo sguardo d’Astrel era assente, completamente altrove. Il suo risveglio quel giorno era stato un po’ turbolento. Aveva aperto gli occhi di botto, disturbata dal suono della sveglia che non smetteva di trillare, e si era tirata su dal letto credendo per un momento di trovarsi a Londra. Quando comprese d’essere ancora li, a tre fusi orari da casa, tornò a sdraiarsi affondando la guancia sul cuscino. – Che ci faccio qui? – Bisbigliò mentre si raggomitolava fra le lenzuola. – Voglio andarmene via. – Il suo cuore sobbalzò improvvisamente, quasi le stesse parlando, quasi volesse ricordarle che andare via adesso, avrebbe comportato la perdita di qualcosa, o meglio, di qualcuno.
Intrufolandosi furtiva nello spogliatoio femminile, Liudmila si accertò d’essere completamente sola. Fece un giro veloce delle docce, le tendine erano aperte e dentro non c’era nessuno, anche i bagni erano liberi. Da lontano provenivano i fischi della Čhecov e il rumore classico di una massa d’acqua in movimento. La giovane studentessa comprese di poter agire liberamente, ma doveva fare in fretta. Di fronte a lei, una panchina colorata era colma di zaini e borsoni, insieme a felpe e scarpe da ginnastica gettate a casaccio sul pavimento con i lacci che serpeggiavano ovunque. Liudmila indugiò qualche istante, poi si decise. Con una mossa felina si avvicinò alla panchina, sollevò uno zaino, e solo dopo aver letto il nome del proprietario riportato sulla targhetta, v’introdusse quell’oggetto di sparute dimensioni che stringeva in mano già da un pezzo. Accertandosi d’averlo nascosto per bene dentro una tasca interna, ripose lo zaino al proprio posto. – Missione compiuta! – Esclamò a bassa voce. – Non vedo l’ora di mettere in atto il piano B. – A quel punto, tornò in classe a seguire la lezione e a fingere che nulla fosse.
Io e te.
Soltanto noi negli abissi segreti dell’amore.
Un sentimento ci unisce
e la nostra pelle si sfiora.
Il tuo cuore danza con il mio
e le nostre anime si fondono.
Ora posso sentirti in me e averti.
Finalmente siamo essenza.
- Forse dovrei cambiare il finale o aggiungere delle rime. No. Devo riscriverla daccapo. - Sola con il mio diario, sedevo in un tavolo della mensa scolastica. Il vociare gavazzano degli altri studenti, tipico dell’ora di pranzo, non riusciva a farmi concentrare. Magari con l’arrivo della sera, tranquilla nella mia stanza ad ammirare lei che dorme, sarei riuscita a scrivere con maggiore ispirazione. Il cibo nel vassoio stava quasi per freddarsi, ma preferivo aspettare Astrel prima d’iniziare a mangiare. Richiusi il diario accarezzandone la copertina, era rivestita da soffice ciniglia rosa. Sul frontespizio campeggiava una targhetta di cartone robusto, appositamente incollata per indicare il nome del proprietario, ma io scelsi di trascrivervi una frase: vola al di là della neve, tutto ciò che sarebbe occorso affinché il mondo potesse accettarmi. All’ingresso della mensa, Liudmila prendeva a strattoni il distributore di bevande, ancora una volta le aveva fregato i soldi. Con la mano premeva sul vetro speranzosa che la sua lattina uscisse, ma nulla da fare, quella macchina non voleva saperne. – Dannazione! – Imprecò inviperita, come sempre bastava un non nulla a farle perdere le staffe. Inserendo un'altra moneta, Liudmila s’accorse che Astrel era appena entrata in mensa portando il proprio zaino con sé. Dimenticando all’istante il suo piccolo inconveniente col distributore, Liuda la seguì con la coda dell’occhio fino a quando non la vide raggiungere il tavolo in cui sedevo, e posarvi sopra lo zaino. – Oh, eccoti qui. Adesso capirai cosa comporta mettersi contro di me. – Liudmila realizzò di star parlando ad alta voce, e d’istinto si portò una mano alla bocca opponendovi pressione, quasi a volerla rimbrottare per tanta arbitrarietà. Nessuno aveva udito le sue parole, ma la studentessa s’imbarazzò ugualmente divenendo paonazza. Incedendo con andatura raffinata, Astrel imprigionò i miei sensi ammaliandomi col suo fascino etereo. I suoi occhi cerulei quel giorno possedevano un inedito fulgore, pareva quasi che tutti i colori dell’oceano si fossero uniti in un soffio di cielo per renderle omaggio. Il mio umore non poté che migliorare, le pedanti lezioni mattutine m’avevano reso neghittosa e insonnolita, ma ora la mia ambita era di nuovo accanto a me. Quando i nostri sguardi s’incrociarono, insieme tornammo alla sera precedente. Anche lei stava rivivendo quel momento, ne ero certa, lo compresi dal gesto d’intesa che mi lanciò, più eloquente di mille parole.
- Ciao. – Mi salutò
- Ciao, Astrel. –
- Che cosa stavi facendo d’interessante? – Domandò, riferendosi al diario che avevo appena messo via.
- Beh, io scrivo i miei pensieri, traduco in lettere emozioni e sentimenti, mi aiuta ad esprimere ciò che provo. - Astrel sorrise affascinata e sedendosi di fronte a me rubò una foglia di lattuga dal mio vassoio.
- Capisco. Anche a me piacerebbe farlo, qualche volta ho tentato, ma, difficilmente scelgo la scrittura come canale comunicativo, io non sono brava con le parole. –
- Forse non lo sei quando le stendi sulla carta, ma se le trasformi in voce riproduci il canto delle sirene. – Astrel apprezzò il complimento e le sue gotte si accesero come rubini. - Sono convinta che entrambe sentiamo il mondo nella stessa maniera – Aggiunsi.
- Sì, lo penso anch’io, e se quel diario è l’emblema del tuo universo, il portale dal quale vi si accede, non desidero altro che ricevere un invito per poterlo visitare. – La sua proposta mi provocò una piacevole stretta allo stomaco, condividere con lei la mia vera essenza, impressa in quel diario, era ciò che più desideravo.
– Non vedo l’ora di leggerti le mie poesie! – Fu la mia risposta seria e sincera.
Liudmila si trovava ancora lì, impassibile innanzi al distributore di bevande, come se gli occhi di Medusa l’avessero pietrificata. Scrutandosi intorno, notò che la mensa era più affollata del consueto, non un solo tavolo libero. Tornando a puntare Astrel, la sua espressione si fece infima. – Oggi è il tuo giorno sfortunato, carognetta, ti farò passare per una misera ladra. – Ancora una volta il Super-io di Liudmila non aveva compiuto adeguatamente il proprio lavoro, permettendo che i pensieri della giovane si palesassero a voce alta. Liudmila quasi non s’accorse di averlo fatto, in quel momento era assorbita dalla smania di rivalsa. Eccitazione e preoccupazione altercavano nella sua mente, non poteva permettersi di sbagliare, altrimenti, la Rosencrans le avrebbe reso la vita impossibile; la nuova arrivata doveva abbandonare la scuola al più presto, e questo furto ne sarebbe stato il pretesto. Al tavolo dei docenti la Čhecov trangugiava una bistecca ai ferri. Incurante del galateo, mandava giù un boccone dopo l’altro rumoreggiando come una belva feroce. Liudmila le si avvicinò intenta a scambiare due parole, ma l’insegnante era troppo occupata a ingozzarsi per prestarle ascolto. La studentessa la osservava basita, schifata da tanta ingordigia. Non occorreva una fantasia fulgida per immaginare la Čhecov nella penombra di una caverna preistorica alle prese con la clava. – Mi scusi professoressa, se ha cinque minuti…. – Liuda cercava di conquistare l’attenzione dell’insegnante badando che il suo tono fosse quanto più garbato possibile, quella donna le occorreva per il suo piano, e l’ultima cosa che desiderava era mettersela contro facendola spazientire.
– Ha qualche problema, Liudmila Borisovna? La lezione d’aerobica è spostata per le due. – Sbottò la donna, rabboccandosi il bicchiere di Vodka.
– Veramente, non sono qui per la lezione d’aerobica. – Precisò con un sorriso espansivo. La Čhecov prese a picchierellare la forchetta sul piatto con ritmo irregolare.
- Allora qual è la ragione che l’ha spinta a importunarmi? – Domandò con lo sguardo magnetizzato dai rimbalzi bislacchi della forchetta sul piatto di plastica. Liudmila si chinò col capo verso l’insegnante e intrattenne con ella una breve conversazione, scrutando al contempo gli altri docenti per sincerarsi che nessuno udisse le sue parole bisbigliate.
- Ma come ti balena in mente? Tutto ciò ha del paradosso! – Liudmila fissò la professoressa di ginnastica con fare supplichevole, pareva lì lì per genuflettersi e implorare la donna d’assecondarla. La Čhecov Storse le labbra e fece roteare gli occhi, poi si alzò da tavola contrariata, abbandonando gli ultimi bocconi della sua deliziosa bistecca. Un senso di pesantezza addominale l’accompagnò fino al centro della mensa, insieme alla risoluta Liudmila, che l’appressava briosa come un cagnolino scodinzolante. L’insegnante ghermì con le dita il fischietto che portava al collo e lo spolverò dagli spilucchi di lana rilasciati dal maglione, poi lo strinse nell’unto delle sue labbra che sapevano ancora di vodka e aglio. Emise due fischi acuti consumando tutto il fiato che aveva in gola, decisa a placare il vociare festaiolo dei presenti, affinché la loro attenzione s’incanalasse sulla fremente Liudmila. Quando la studentessa s’accertò d’avere tutti gli occhi puntati su di sé, e pregando affinché quell’istante di notorietà non avesse fine, esordì mettendo in mostra le sue spiccate doti da commediante. L’espressione tragica che aveva assunto si accostava bene al tono piangente della sua voce. - Sta notte mi è accaduta una cosa terribile! – Esordì, creando un velo di suspense - Mentre stavo dormendo, qualcuno è entrato in camera mia e ha cominciato a rovistare ovunque. - Liudmila fece una pausa, sforzandosi di far scendere le lacrime dagli occhi, poi continuò la sua appassionata recita. - Quando mi sono svegliata, ho trovato a soqquadro ogni angolo della stanza. Fortunatamente non mancava nulla, tranne un oggetto per me d’inestimabile valore. – La ragazza si portò una mano al petto per conferire maggiore patos a ciò che diceva. - Si tratta di un anello; un anello appartenuto alla mia povera nonna defunta, a cui io ero molto legata. Sono vivamente dispiaciuta per ciò che intendo chiedervi, ma ho bisogno della vostra collaborazione se desidero riappropriarmi del mio prezioso ricordo. Dovrete soltanto aprire gli zaini e mostrarne il contenuto alla professoressa Čhecov, non che stia accusando qualcuno in particolare, ma sono convinta che il colpevole sia qui fra noi. – Liudmila fu letteralmente attorniata dalle sue compagne, la storia della nonna defunta le aveva conquistate tutte. A nessuna di quelle ragazze passò per la mente che la loro beniamina stesse mentendo, e con verace partecipazione tentavano di consolarla con svenevoli moine. La Čhecov rifletteva a braccia conserte. “ Come le può saltare in mente che l’anello sia in qualche zaino? Con tutti i posti che ci sono per nasconderlo? Che razza d’idea è mai questa? ” Nonostante la professoressa di ginnastica avesse un carattere sospettoso e poco avvezzo nel rifondere fiducia in soggetti differenti da se stessa, quella volta non aveva capito di trovarsi coinvolta in un raggiro. Lasciando da parte le sue considerazioni, l’insegnante decise di assecondare Liudmila, non voleva incorrere in possibili problemi con la Rosencrans, perché era questo ciò che sarebbe accaduto se solo avesse contrariato i capricci prepotenti della sua allieva prediletta. Liudmila fissava tutti noi con sguardo compunto, credo di non averla mai vista così provata. Ammetto che in un primo momento la sua arringa mi persuase, aveva mescolato toni misurati e persuasivi, tanto da stentare a cedere che fosse lei a parlare. Riflettendo, però, qualche dubbio mi era sorto. Non capivo la sua ostinazione nel voler perlustrare gli zaini di tutti gli alunni presenti in mensa, se solo quella storia fosse stata vera, lei stessa avrebbe capovolto l’intero Majakovskij per riappropriarsi della refurtiva.
- Secondo me, ha inventato ogni cosa. Quella lì cerca sempre un pretesto per attirare l’attenzione e creare scompiglio. – Commentò Astrel, lasciando trasparire quanto di personale vi fosse in ciò che affermava.
- Hai ragione, Liudmila adora stare al centro della scena, più che smania di protagonismo, il suo è un narcisismo sfrenato. – Le risposi. Dopo un lungo giro d’indagini, la Čhecov giunse al tavolo in cui sedevamo io e Astrel. Con lo sguardo c’intimo di prestarle attenzione, e con voce stizzita si rivolse a entrambe.
– Aprite le borse voi due, devo controllare. – Liudmila si sforzava di tenere i nervi saldi, le sue amiche continuavano ad assillarla con domande petulanti.
- Sei sicura che non manchi altro? -
- Come hai fatto a non accorgerti che c’era qualcuno in camera? –
- Al posto tuo, io sarei morta di paura! – La derubata stava per soffocare, non riusciva a scrollarsele di dosso. Evadendo con lo sguardo, s’accorse che la Čhecov stazionava al nostro tavolo e cacciava l’occhio dentro lo zaino d’Astrel.
- Oh mio Dio! – Esclamò a voce alta. – Ragazze scusatemi, ma devo proprio andare. – Una volta liquidate le sue compagne, Liudmila corse ad affiancare la corpulenta insegnate di ginnastica.
- Non è nemmeno qui. – Concluse la Čhecov, ormai estenuata di cercare a vuoto. Nel sentire pronunciare tali parole, Liudmila ebbe un tuffo al cuore, la professoressa non s’era accorta di quella piccola tasca interna in cui si trovava l’anello. Vedendo il suo mefistofelico piano sgretolarsi come un castello di sabbia, la studentessa decise d’intervenire. Con un gesto selvaggio sottrasse lo zaino ad Astrel, recuperò l’anello da quella tasca, e infine, lo tirò fuori con un sospiro teatrale. - Eccolo! Il mio anello, sì, è proprio il mio anello! - Quasi tutti raggiunsero il nostro tavolo, facendo a spintoni per conquistare il posto in prima fila. La Čhecov era senza parole, letteralmente basita. Di fronte all’evidenza dovette ricredersi, Liudmila aveva ragione. Un furto rappresentava un episodio inedito per il Majakovskij, un gesto che non si credeva possibile, neppure ad opera dei più scalmanati. “ Questa londinese ci sta dando filo da torcere.” Pensò l’insegnante corrucciandosi in viso. E’ superfluo sottolineare, che da un insegnante come la Čhecov ci aspettavamo tutti una reazione brutale ed eccessiva, uno di quegli sfoghi isterici a cui spesso assistevamo, per intenderci.
- La professoressa ti farà nera! – Disse una voce in mezzo alla folla. – Non vorrei essere al tuo posto, Astrel. – Canzonò un’altra, suscitando qualche risatina. Purtroppo, nessuno di noi si sbagliò in merito, e di lì a poco, l’insegnante d’educazione fisica scagliò la sua ira selvaggia contro la povera Astrel. Con l’ausilio delle sue manacce pesanti, ghermì la ragazza per un braccio cominciando a strattonarla.
- Ladra! Non ti vergogni? Sei qui da due giorni, e già ti metti a rubare. - Più la Čhecov s’infervorava, più la stretta sul braccio d’Astrel aumentava a dismisura. Il dolore divenne insopportabile.
- Mi lasci stare, mi fa male! - La situazione voltò a favore di Liudmila e la studentessa colse l’attimo provando a rincarare la dose.
- Ora ricordo! - esordì con atteggiamento battagliero – Questa notte ti ho visto uscire dalla mia stanza. Hai rubato tu il mio anello, maledetta ladra! - L’evidenza parlava a sfavore di Astrel, e in una simile circostanza, credere alle fandonie di Liudmila sembrava l’unica ragionevole possibilità. Io non lo feci. Neppure per un istante dubitai riguardo all’innocenza della mia amica.
- Ora basta, Liudmila! Stai dicendo delle assurdità, Astrel non può aver rubato il tuo stupido anello. – Strillai incollerita. Lei replicò litigiosa.
– Ah, no? Allora perché si trovava nel suo zaino? –
- Sei stata tu a infilarglielo, è ovvio. –
- Il braccio! – Astrel continuava a gridare di dolore, quella donna era talmente coriacea che avrebbe potuto piegare il ferro.
– Non vede che le fa male? – La Čhecov non mi prestò attenzione, era furibonda come un rottweiler aizzato alla lotta.
– Ci provi gusto a rubare? Sei una cleptomane per caso? -
- Non ho rubato nulla. –
- Smettila di dire sciocchezze, impudente ladruncola! Come puoi denegare innanzi all’evidenza? -Astrel era confusa, disorientata, come riuscire a dimostrare la sua innocenza? Ormai si trovava nella ragnatela che Liudmila aveva tessuto per lei, e uscirne non sarebbe stato facile.
- Professoressa, rischia di spezzarle l’osso! – Schiamazzò un ragazzo tra la folla. L’insegnante di ginnastica si persuase, e finalmente ritrasse la sua mano grassa e callosa dal braccio d’Astrel.
- Ci penserà la Rosencrans a darti una bella lezioncina. – Disse la Čhecov, articolando le dita della mano.
- Questo non mi sembra corretto! – Protestai istintivamente, poi mi rivolsi a Liudmila – Perché non dici la verità? Coraggio, ammettilo che è tutta una messinscena. –
- Ma quale verità? Quale messinscena? – Replicò lei con voce innocente.
- Sei una povera vigliacca, solo un’ignobile come te poteva arrivare a tanto. – Tuonò Astrel con disprezzo.
- Ne ho abbastanza di voi tre, signorine. - Sbraitò la Čhecov esasperata – Recatevi in presidenza, subito! Nel caso non lo rammentaste, siamo al Majakovskij, non nel postribolo di un sobborgo. – Liudmila prese a singhiozzare spasmodicamente.
– Dice sul serio? Intende mandare in presidenza anche me? Ma io non ho fatto nulla. – Si oppose frignando.
- Credo proprio che mi farò radiare dall’insegnamento se odo un’altra parola, Liudmila. Adesso filate tutte e tre. -
15 Incubi senza fuga.
Il vento sferzava le rive del Moscova increspando l’acqua e trascinando nella sua direzione le sottili lastre di ghiaccio che galleggiavano sul fiume. Il sole appariva e spariva dal cielo, portando con sé le ombre degli alberi e degli edifici. Su una sponda del fiume, Irina camminava da sola calpestando alcune foglie secche. Procedendo spedita verso la stazione della metro, la ragazza dall’animo struggente sapeva di dover tornare lì, in quel vecchio magazzino in disuso, adibito da Ivan a luogo dei piaceri. – Io sono una persona libera, nessuno può costringermi a fare ciò che non desidero – Ripeteva a se stessa nel vacuo intento di auto persuadersi. – Andrò da lui e porrò fine a questa storia. – Prima di svoltare per raggiungere la stazione Paveletskaya, Irina si fermò un istante a osservare il mondo che le correva intorno. Com’era bella la sua città quando il soffice mantello bianco l’avvolgeva, e le sfumature rosate del cielo facevan rifulgere il fiume come un incommensurabile nastro di seta. Quanto avrebbe voluto deliziare di quel panorama. Concedersi al vento e ai profumi autunnali, udire l’idilliaca melodia del divenire attraverso i fruscii sussurrati delle frasche. Ormai era impossibile. Nulla poteva donarle pace. Nella sua mente, soltanto lo spazio per le ossessioni e i ricordi raccapriccianti. Con aria mesta, la ragazza riprese a camminare. Adesso guardava al suo passato con malinconia, proprio a quel passato dal quale era fuggita perché non le piaceva. – La vita di campagna non fa per me, in mezzo alla steppa c’è troppo silenzio. Ho deciso di partire, voglio andare a Mosca a studiare. – Con queste lapidarie parole, cominciava la lettera che Irina aveva lasciato ai suoi genitori sul tavolo della cucina, poi era uscita di casa nel cuore della notte, ed era saltata sulla transiberiana per raggiungere Mosca. – C’è una scuola molto importante qui, si chiama Majakovskij. Mi hanno ammesso circa un mese fa, voi non dovrete preoccuparvi di nulla, ho i miei risparmi, e userò quelli per pagare la retta. – Questo lo aveva scritto nelle corrispondenze successive, quando Irina era ancora felice: felice per aver realizzato un sogno, felice di aver conosciuto un ragazzo di nome Ivan. - Lui è molto gentile con me, mi riempie d’attenzioni e non mi lascia un momento, credo d’essermi innamorata. – Si concludeva così l’ultima missiva inviata ai suoi genitori, ciò che era accaduto in seguito, Irina lo aveva tenuto in serbo. Nessuno sapeva di quel magazzino oscuro, dei materassi vecchi che puzzavano d’umido, gettati per terra in mezzo agli scaffali. Come spiegare ciò che si prova a sdraiarvisi controvoglia? A essere il giocattolo di chi ha pagato per averti? A volte ragazzi, amici d’Ivan pronti a sborsare rubli per divertirsi, altre, sessantenni morbosi con l’alito pesante e la pelle untuosa.
La Čhecov ci accompagnò in presidenza imponendoci di restarvi fino a che la Rosencrans non fosse tornata dalla pausa pranzo. – Oggi la preside è di pessimo umore, ed io non vorrei mai essere al vostro posto. – ci informò l’insegnante con un certo sarcasmo che pareva divertirla, poi uscì dall’ufficio battendo la porta con violenza, per alcuni secondi i cristalli delle finestre tremarono.
– Dannazione a lei! – Imprecò Liudmila contro la porta che si era appena chiusa. – E’ tutta colpa vostra! Sono stata derubata e per giunta punita, questo è assurdo, assurdo! – Astrel inspirò lentamente sforzandosi di non reagire, e come se volesse evadere da quella circostanza, s’incamminò verso la finestra. Il suo sguardo fugace cominciò a viaggiare oltre i confini che la vista le imponeva, lì dove l’immaginazione supplisce a ciò che gli occhi non vedono, le orecchie non sentono e le mani non toccano, in quel luogo avulso chiamato fantasia, in cui la gente trova ricovero quando la vita recalcitra e smania come un’animale imbizzarrito. Il prolungato silenzio di Astrel smorzò in qualche modo i toni pesanti della situazione, Liudmila continuava a puntarla accigliata, bramosa di attaccare briga un’altra volta, ma Astrel non smise di ostentare il suo distacco. Esacerbata, Liudimila si ritirò in un angolo della presidenza, giungendo le braccia e sbuffando come una bambina capricciosa a cui i genitori non hanno comprato il gelato.
– Brava, fingi pure di non sentirmi, nemmeno ti conosco e già ti odio. –
La voglia di staffilarle una serie di schiaffi mi struggeva dentro, avrei voluto picchiarla e riempirla d’insulti fino a farla sparire dalla vergogna, tuttavia, non vi riuscii, forse fu la mia indole inoffensiva a impedirmelo. Ciò che realmente avevo a cuore in quel momento, era rasserenare Astrel. Con passo felpato la raggiunsi e accostandomi al suo fianco scrutai oltre la finestra in sua compagnia, quasi vi fosse un panorama invisibile che soltanto noi due potevamo ammirare.
– Ehi, tutto bene? – Le domandai, preoccupata dall’esagitazione che palesava. Astrel trasalì, interrompendo il filo dei suoi pensieri.
– Tu mi credi, vero? – Mi chiese angustiata e a voce bassa, poggiandomi entrambe le mani sulle spalle. – Non sono stata io. Te lo giuro Svetlana. Tu devi credermi, fidati di me! –
- Sss - La interruppi, sfiorando con le dita le sue labbra soffici – Lo so, lo so, anche volendo non avresti potuto, sbaglio, o abbiamo trascorso l’intera notte insieme? – Astrel mi regalò un sorriso dolcissimo, ed io lo regalai a lei con la stessa intensità d’emozioni. – Ho il sonno leggero, Astrel, non v’è battito d’ali che mi sfugga, figuriamoci se non mi fossi accorta che la mia compagna di stanza si dileguava con un passamontagna al volto e una torcia in mano! – Ironizzai, nel tentativo di smorzare la gravità della situazione. Lei sorrise ancora, e nel suo volto rifulse una nuova luce, una luce che attraversando il ceruleo dei suoi occhi si fece incommensurabile, una luce, che mi pervase fin nell’abisso dello spirito. Sapevo che quello era il momento in cui insieme l’avremmo pronunciato, e le sue labbra che abbozzavano parole frammentarie mi diedero conferma di ciò.
- Svetlana io… Sì ecco, io credo d’essermi-
La Rosencrans apparve in presidenza cogliendoci di sorpresa, ad annunciarla neppure il calpestio dei suoi bassi mocassini sul corridoio. Liudmila sussultò dall’angolo in cui si era ritirata e smarrita accennò un saluto alla donna, ma in replica non ricevette nulla. La preside si sedette alla scrivania con aria flemmatica, e giungendo le mani rese tangibile la superiorità burocratica che la separava da noi. La magia che aleggiava fra me e Astrel sfumò repentinamente, come una nuvola di vapore, al suo posto incombette la cruda realtà. - Avvicinatevi al mio tavolo. – Esordi la donna, mantenendo fisso lo sguardo sui pollici che roteavano l’uno intorno all’altro. In assoluto silenzio, avanzammo verso quella scrivania. La direttrice sollevò lo sguardo e ci fisso a lungo con aria imperturbabile, infine si schiarì la voce e cominciò a parlare.– Qualcuna di voi avrebbe l’accortezza di spiegarmi che caspita è accaduto in mensa? – Come un cane che voracemente abbranca il suo osso per non lasciarselo sottrarre, Liudmila prese la parola al volo.
– Signorina Rosencrans, mi rincresce aver creato il caos, ma la “new entry” della scuola mi ha rubato un anello questa notte. La direttrice si voltò verso Astrel ed enfatizzò un’espressione di agghiacciante sbalordimento. Sgomenta da quanta sfacciataggine e sangue freddo potesse avere Liudmila, intervenni nella discussione con impulsività.
– Non è affatto vero! Liudmila ha inventato ogni cosa. Mi creda, è la verità. – La direttrice non diede peso alle mie parole, e rimarcando quell’aria apatica non si scompose di una virgola.
- Signorina Astrel, ha mai sentito pronunciare la parola “reato”? Lo sa che i peggiori delinquenti cominciano sempre cosi? Prima qualche caramella al negozio d’alimentari, poi uno o due scippi per strada, e in men che non si dica si ritrovano dietro le sbarre costretti a restarvi per molto, molto tempo. – Astrel si concesse una risata nervosa, chiedendosi fino a che punto quella donna credesse a ciò che affermava.
– Probabilmente non ci siamo intesi. – M’intromisi ancora, monopolizzando l’attenzione sul mio cipiglio. – Astrel non è una ladra. – La Rosencrans sbottò brutalmente.
– Adesso basta, Svetlana Yaroslavna! Ne ho abbastanza del suo atteggiamento da paladina. Non voglio più vederla impicciarsi in questioni che non la riguardano, e se la scopro a spendere una sola parola in sostegno di quella squilibrata d’Irina, le faccio passare i guai! – Liudmila rise beffardamente
– Irina! Lo sanno tutti che è pazza. - Forse era il caso di non replicare alle impudenze della Rosencrans, ma sapevo che di lì a poco Astrel sarebbe stata punita, decisi dunque, di perseverare con caparbietà.
- Perché finge di non intendere ciò che dico? Andiamo, è illogico che un ladro s’intrufoli in una stanza con l’intenzione di rubare, ma non porta via né soldi né oggetti di valore, limitandosi a sottrarre uno stupido anello che fra l’altro non è nemmeno d’oro. - La Rosencrans corrugò la fronte, il mio discorso filava così corretto che avrebbe voluto darmi ragione, ma non lo fece naturalmente. La situazione le stava sfuggendo di mano. Aveva chiesto lei a Liudmila d’architettare quella messinscena, ma si aspettava che l’alunna benamata avesse maggiore sagacia nel rendere il tutto verosimile. Senza saperlo, avevo posto la direttrice in serio imbarazzo, e ora, la donna meditava a mani giunte sul da farsi. Il suo volto inespressivo non permetteva alla preoccupazione d’intravedersi, e il suo silenzio prolungato non lasciava spazio ai buoni pronostici.
- Quando lei si rivolge a me, Svetlana Yaroslavna, tiene a mente il concetto di gerarchia? Solo un folle s’arrogherebbe la superbia di ammendare la direttrice della scuola. - Ormai mi ero cacciata in un bel guaio, e qualsiasi cosa avessi aggiunto, non sarebbe servita a mitigare la mia posizione. Ripiombando nel silenzio, la donna si alzò dalla scrivania e si diresse verso il carrello porta vivande. Dalla sua collezione di liquori scelse un whisky e ne versò una piccola quantità in un bicchiere di cristallo. Dopo averne sorseggiato una goccia tornò alla sua scrivania, e abbandonò il bicchiere accanto al fermacarte. – Ieri mattina ho contattato un imbianchino, il muro di cinta del cortile ha l’intonaco che viene giù a pezzi. – Disse, tornando col bicchiere fra le mani. – Considerate le circostanze, credo sarà divertente per lei trascorrere un bel pomeriggio all’agghiaccio in compagnia di un pennello. – Un sorriso sornione modellò le sottili labbra di Liudmila “ Se ha punito Svetlana così, Astrel è praticamente espulsa dalla scuola. Oh, sono geniale, il mio piano ha funzionato alla perfezione! ” Pensò, reprimendo a fatica l’entusiasmo. – Si rivolga al signor Vyacheslav Lavrov, lui le fornirà il materiale occorrente per tinteggiare il muro, e ora, uscite dal mio ufficio e lasciatemi lavorare. – Astrel era incredula, letteralmente sdegnata da tanta cattiveria.
– Quello che sta facendo è vergognoso! – Sbottò, penetrando la Rosencrans negli occhi con una sfacciataggine estranea al suo carattere. – Sono io la ladra, giusto? Allora punisca me. – La direttrice rispose dal dispotismo della sua poltrona, adottando un tono talmente freddo da apparire non umano.
– Pare che la ragazzina londinese accusi difficoltà nel recepire concetti elementari: prendo io le decisioni all’interno di queste mura, la mia parola è irrefutabile. E adesso andate fuori dalle scatole! Vi concedo tre secondi per sparire o incapperete in ben altri guai. – Amareggiata dalla perfidia che incarnava quella donna, presi Astrel per mano e la condussi verso la porta.
- Lascia stare, è solo una vecchia arpia malefica. – Le bisbigliai mentre andavamo via. Prima di congedarsi, Liudmila si attardò qualche momento fissando la Rosencrans a bocca aperta. “ Io non capisco. ” Pensò aggrottando le sopracciglia “ La direttrice cercava un pretesto per espellere Astrel, e ora che ne possiede uno fra le mani, non ne approfitta ma punisce solo Svetlana. Che diamine passa per la testa di quella donna? ” Liudmila stava quasi per muovere la sua obbiezione, era sul punto di sbottare pretendendo delle spiegazioni che giustificassero quel comportamento illogico, ma la direttrice le intimò nuovamente d’uscire con un semplice, ma efficacissimo gesto della mano.
Un lungo e fatiscente corridoio buio, una luce abbagliante in fondo a esso. Sulle pareti riecheggiava l’eco dei suoi passi incalzanti, mentre il soffio del suo respiro si faceva trafelato. Col cuore in gola e a gran velocità, Irina saettava verso l’uscita. Voltandosi con un guizzo della testa, scorse Ivan correrle dietro come un toro inferocito, era troppo veloce, di lì a poco l’avrebbe raggiunta.
– Fermati bastarda! Dannazione Ira, non fare la stronza, fermati ho detto! - Atterrita, la ragazza cercò d’accelerare ulteriormente il passo sentendo le forze venirle meno. Tutto inutile, le possenti braccia d’Ivan l’agguantarono come arpioni, impedendole di proseguire la sua corsa. Sfiatata, Irina si dimenò e provò a colpirlo, voleva sferrargli un pugno, centrarlo dritto in faccia per fracassargli il naso. Non ci riuscì. Ivan era più forte e non si pose scrupoli nell’immobilizzarla spalle al muro. Ormai in trappola, la ragazza comprese di nulla potere contro il suo brutale aggressore, e con le lacrime agli occhi tentò invano d’indurgli compassione implorandolo con indulgenza.
– Ti prego lasciami andare, non voglio entrarci più nulla in questa storia, ti prego Vanja, ti scongiuro. – Lui la puntava minaccioso.
– Nessuna può uscirne Ira, lo sai a cosa vai incontro se tenti di scappare, vero? - Irina sentì le gambe cedere dalla paura e la voce bloccarsi in gola, nondimeno, cercò dentro sé la forza per reagire a quelle pesanti minacce.
– E tu lo sai a cosa vai incontro se solo informo la polizia di quello che mi costringi a fare? A me e alle altre, naturalmente. - Le parole erano venute fuori di getto e senza mediazioni, mosse da un impulso disperato, lo stesso impulso che aveva spinto Ira ad affrontare testa a testa la persona che più di ogni altra, riusciva a farla cadere in un cronico stato di soggezione. Tuttavia, adesso attendeva timorosa la reazione del compagno di scuola, che preludeva già alquanto crudele. Ivan sentì un improvviso bollore ardergli il viso. Come aveva osato una persona insignificante, una semplice “femmina”, apostrofarlo in quel modo? Il sangue gli ribollì in testa mandandolo in tilt. In preda a un raptus estrasse un coltello dalla tasca dei jeans, lo fece roteare più volte tra le mani, e poi, lo punto dritto al collo della ragazza. Inghiottendo rumorosamente, Irina percepì la fredda lama del coltello lambire minacciosa la sua pelle. - Non farmi del male. - Fu l’unica cosa che riuscì a dire con un fil di voce – Ti prego abbassa il coltello. – Continuò. Terrificata dalla minaccia di una morte prematura, consapevole che Ivan aveva ormai abbandonato ogni facoltà razionale, Irina immaginò che quel viso indemoniato fosse l’ultima cosa che le restasse da vedere.
– Se solo ti azzardi a riferire mezza parola agli sbirri, se osi raccontare a qualcuno ciò che ogni notte fate per me, giuro che ti farò pentire amaramente d’essere venuta al mondo. Nessuno deve sapere, chiaro? - Irina annuì con un cenno del capo, auspicandosi che il suo compagno di scuola le permettesse ora d’andar via. Ivan lesse il terrore negli occhi straziati della ragazza. Sapeva d’impugnare il coltello dalla parte del manico, e ciò gli donò un piacevole senso d’onnipotenza. - Sai che potrei ammazzarti se solo lo volessi? Mi basterebbe aumentare la pressione sul tuo grazioso collo per mozzarti la carotide. E ciò che vuoi, Irina? Morire da sola in un magazzino desolato, sgozzata come un maiale da macello? Vuoi che il tuo corpo putrefatto sia rinvenuto nei fondali del Moscova? –
- No! – Vociò stentorea la ragazza.
- Bene, allora vedi di non farmi incazzare un’altra volta. Devi fare la brava con me, lo sai. – Ivan ammiccò beffardo e aggiunse. – Questa sera c’è un mio amico che vorrebbe fare la tua conoscenza, si chiama Nikolaij, e sarà qui per le undici. Osa disertare l’appuntamento, e ti farò conoscere il lato animalesco del mio carattere. -
16 Un retaggio dal mio passato.
Le nuvole leggere carezzavano il cielo del tardo pomeriggio disegnando figure che solo la fantasia poteva decifrare. In piedi in mezzo al giardinetto del Majakovskij, con le guance semi congelate e le mani sporche d’intonaco, osservavo il lavoro appena svolto. Il muro di cinta era stato ritoccato in tutto il suo perimetro, così come stabilito dalla Rosencrans per punire la mia insolenza. Le braccia mi dolevano tremendamente, dopo aver trascorso un intero pomeriggio a fare su e giù con un pennello colante di vernice, quasi non le sentivo più. Desideravo tornare in camera e fare una doccia calda, tuttavia, la panchina vuota alla mia destra assunse un inedito aspetto invitante, sedermi qualche momento prima di tornare in camera era ciò di cui avevo bisogno. Attorno a me, sfumature autunnali e invernali si fondevano all’orizzonte del panorama. Il vento rapiva le fronde giallognole ai rami delle betulle per danzarvi in vivace armonia, poi le abbandonava ai loro destini, lasciando che si adagiassero al bianco suolo per baciarlo di oro. Chiudendo gli occhi sotto la pressante stanchezza, m’accorsi di quanto silenzio regnava in quel piccolo giardino; nonostante la scuola fosse a soli due passi dal centro di Mosca, nessun rumore metropolitano riusciva a penetrare lo scudo silenzioso che vi aleggiava. - Ciao – Una voce calda e familiare giunse alle mie orecchie. Voltandomi, vidi Astrel raggiungermi e sedersi sulla stessa panchina malconcia che ospitava me. – Wow! – Esclamò meravigliata, sotto lo scricchiolio del legno marcio. – Lo hai dipinto tutto da sola? – Chiese, intuendo quanto la domanda fosse retorica. – Ma, quel muro è alto un metro e lungo pressappoco altri nove, come hai fatto a pitturarlo in così poco tempo? –
- Lavorando sodo. – Le risposi con voce ansante. – Il signor Vyacheslav si è prestato più volte ad aiutarmi, ma ho preferito non farlo incappare nei rimbrotti di quella megera. -Astrel si fece incupita.
– Spettava a me quest’incombenza, tu non meritavi una punizione così brutale. –
- Nemmeno tu. – Replicai, ammirandola, anche con lo sguardo triste era bellissima. – La Rosencrans avrebbe dovuto punire Liudmila, è soltanto sua la colpa di tutto ciò. - Astrel fece spallucce rassegnata.
– Sua, mia, ormai non fa alcuna differenza. Tutti qui, mi credono una ladra, e io non posso dimostrare il contrario. –
- Io resto comunque dalla tua parte, hai la mia parola. Qualsiasi cosa accadrà, non sentirti mai sola. - Astrel rapì la mia mano e la fasciò fra le sue dita inguantate e tiepide di lana.
– E’ la prima volta che qualcuno fa questo per me. Tu mi hai difeso ostinatamente, hai perorato la causa di una ragazza che conosci da appena due giorni. Non eri obbligata, eppure lo hai fatto, certa di non ricavarne nulla se non guai. - Ciò che disse mi addolcì come miele, ancora una volta sentii il desiderio di baciarla e condurla in me con passione. Astrel accolse le mie labbra e con trasporto m’inebriò della sua essenza. Baciandola, compresi di provare qualcosa in più che una semplice attrazione fisica, io mi ero perdutamente innamorata. Sì, amavo un’altra ragazza, l’amavo davvero. Ultimamente scrivo al diario più del solito, con l’inchiostro imprimo domande che si sommano caoticamente alle altre già presenti. Ci sono così tanti quesiti in quelle pagine che una notte ho sognato di sfogliarle al contrario e di leggervi finalmente risposte esaurienti. Se solo con la realtà si potesse fare lo stesso! Magari, saprei già cosa mi vieta d’amare una donna, capirei perché la società non accetta con tolleranza le mie scelte sentimentali, che di certo, non ledono la salute di nessuno.- Tu sei d’accordo con loro? - Domandai una volta al diario - Pensi che sia sbagliato innamorarsi di una ragazza? Come se si potesse scegliere. Certe cose succedono e basta. E poi, ti sembra che io abbia qualche problema? Forse tu non lo sai, ma le persone ignoranti considerano l’omosessualità una grave malattia, alcuni genitori consultano i migliori psicologi nello speranzoso tentativo di “guarire” i propri figli. - Tutto questo è umiliante per la dignità di una persona, non trovi ? – Tempo fa presi la metro, dovevo dirigermi al parco botanico. Mi sedetti in fondo al vagone, casualmente, vicino a due donne sulla quarantina che interloquivano amichevolmente. Indossavano dei colbacchi di volpe e avevano un marcato accento del sud. Parlavano del più e del meno, discorsi vaghi che non ricordo, solo una parte della conversazione mi rimase spiacevolmente impressa. - Tu come reagiresti se un giorno scoprissi d’avere un figlio omosessuale? - Chiese una delle due donne, l’altra non rispose, quasi scandalizzata dalla domanda scabrosa, poi, con aria schifata disse - Oh mio dio! Preferirei mille volte essere la madre di un delinquente che di un gay. - Di colpo mi voltai verso quella donna e la fissai basita, lei notò il mio gesto, e quasi volesse sfidarmi, mi punto negli occhi con ironica commiserazione. - Che c’è? Fai parte del club anche tu? Sei una di quelle? Oh, non vorrei mai venirti madre. - Lasciandomi senza parole, la donna si alzò e si diresse verso l’uscita, l’altra la seguì un po’ imbarazzata, e insieme scesero dal treno che si era appena fermato a una stazione. - Razzista pervertita! - La insultai con tutto il fiato che avevo in gola, alcuni passeggeri mi osservarono perplessi. Quest’episodio, caro diario, lo porto dentro con dolore. Sono convita che se tu potessi parlare, mi diresti di ragionare con obbiettività, e di capire che quelle parole sono state pronunciate da una donna stupida e xenofobica. Converrei volentieri con te, se non fossi certa che in fin dei conti l’intera società la vede così, soltanto, che alcuni preferiscono dissimulare i loro sentimenti sotto un infimo velo di perbenismo. In tutte le popolazioni del mondo, da nord a sud, da est a ovest, la parola “omosessuale” suscita scandalo e vergogna. E’ come una colpa dalla quale ci si deve redimere, uno scheletro nell’armadio da tener ben nascosto. E non dirmi che un giorno le cose cambieranno, che l’uomo imparerà a seguire l’amore ovunque lo conduca temendo soltanto l’odio, il tempo in cui ciò accadrà, è tanto recondito quanto l’infinito. –
17 Diabolica perseveranza
Uscendo dalla presidenza, la Rosencrans spense la luce e chiuse a chiave la porta. Erano le ventitré passate, e in mezzo alla penombra del corridoio, la donna contava i passi che la separavano dal suo elegante appartamento, locato al penultimo piano dell’istituto. Fra le grinze della mano stringeva un mazzetto di chiavi e il manico della valigetta porta documenti. Giunta alla scala principale, scorse una sagoma scura stazionare sui primi gradini. - Chi è là? - Domandò, mentre si avvicinava alla silhouette per svelarne l’identità. – Liudmila Borisovna! – Strepitò sorpresa, dopo averne riconosciuto il volto. – Che cosa ci fa qui? Sa che dopo le nove pretendo il massimo silenzio, e non tollero di vedere gente a bighellonare per l’istituto. Torni in camera sua, adesso. - Liudmila fece orecchie da mercante, e comportandosi come se quell’appassionato rimprovero non le fosse mai stato posto, inveì contro la donna, dimenticando per un momento chi aveva di fronte.
– A che gioco stiamo giocando, signorina Rosencrans? Per quale motivo mi ha spinto a fare una cosa simile se poi non è servita a nulla? – Strillò, con il viso corrucciato. La Rosencrans non ebbe alcuna reazione apparente. Il suo sguardo cheto e imperturbabile strideva con la situazione animata.
- Non so a cosa si riferisce, Liudmila. – Disse la donna con voce apatica. L’allieva indugiò qualche istante prima di ribattere, la soverchia tranquillità della Rosencrans la inquietava parecchio, quella donna era perfettamente in grado di gestire le proprie emozioni, per tale ragione le riusciva così semplice agire in maniera spietata.
- Sa benissimo a cosa mi riferisco! -
- No, non lo so. – Ribadì la donna cominciando a salire le scale.
- Sto parlando di ciò che è successo oggi, del furto che mi ha costretto ad inscenare. - La Preside si fermò con i piedi su due gradini differenti, e poggiandosi sul passamano si voltò verso l’allieva.
- E allora? Il suo piano si è rivelato un fiasco, e lei ne pagherà le conseguenze. - Liudmila cominciò a frignare e a tirarsi i capelli.
- Il mio piano era perfetto! Tutta la scuola ha creduto che quella stupida londinese mi avesse rubato un anello, e stata lei che ha lasciato il furto impunito. Non è mia la colpa! - La Rosencrans rise sarcasticamente.
- Sei proprio un’inetta, Liudmila. Una persona all’altezza della situazione, non avrebbe mai congeniato un piano così balordo. Bastava che tu nascondessi soldi in quello zaino, una somma compromettente, ed io ti avrei subito appoggiato denunciando un furto di denaro dal mio appartamento. - Un silenzio repentino calò fra le due. Liudmila incrociò le braccia e meditò a lungo su quella possibilità.
– E va bene! – disse infine, ostentando scaltrezza. – Ho sbagliato lo ammetto, ma siamo in tempo per rimediare. Mi procuri dei contanti e vedrà di cosa sarò capace. - La Rosencrans sembrava persuasa, ma non lo diede a vedere.
- Ci penserò su. -
- Dunque… siamo d’accordo, mi concederà una seconda chance? –
- Ho detto: ci penserò su! – Sbottò la preside riprendendo a salire le scale.
18 La Far Dream
Una settimana dopo.
Le buie e tranquille acque dell’oceano Atlantico ospitavano l’imponente sagoma della Far Dream, una sfarzosa e rinomata nave da crociera, che più volte l’anno salpava da Southampton alla volta di New York. Il varo del raffinato transoceanico, avvenuto appena due anni addietro, era riuscito a sfatare tutti gli scetticismi e le polemiche per ciò che i media definivano “ La rinascita di un mito”, o con toni più sensazionalisti, “ Il Titanic riemerge dagli abissi ”. Si stentava a crederci, ma salire a bordo della Far Dream significava tornare al 1912 e rivivere il fascino di un gioiello sfortunato e dalla vita effimera. - Intendiamo restituire all’Inghilterra ciò che il mare le ha sottratto. Una volta terminata, la Far Dream diventerà la precisa copia del Titanic. – Così commentava l’architetto Charles Chatham ai microfoni della BBC. – A parte le nuove tecnologie adottate per i sistemi di propulsione e navigazione, lo stile architettonico della nave rispecchierà in ogni dettaglio quello del celebre transoceanico. Io e il mio collaboratore stiamo lavorando alla ricostruzione del salone da pranzo, che realizzeremo in stile Giacomo I, con colonne dorate e suppellettili in argento. Anche le sale da lettura, decorate con intarsi di madreperla su pannelli di mogano, faranno fede alle originali. Il tocco finale sarà conferito dal grande scalone A, uno degli elementi ornamentali di maggior spicco, insieme al cupolone di vetro che lo sormonterà. – Il revival del Titanic apparteneva un po’ a tutti, all’orgoglio dei britannici come alla storia della navigazione, ma quel lusso galleggiante restava un privilegio riservato a esigui facoltosi. Solo chi poteva acquistarne il biglietto avrebbe aperto le braccia al vento per farsi immortalare sulla prua della nave, partecipando poi, a un’indimenticabile festa a tema con abiti d’epoca. L’attuale viaggio della Far Dream volgeva quasi al termine. Il suolo americano si stagliava all’orizzonte come un lungo nastro scintillante, spezzando con i suoi bagliori la monotonia della notte. Gli oltre duemila passeggeri si preparavano a scendere, poche ore di navigazione, e anche per loro un’esperienza indimenticabile si sarebbe conclusa. Stringendo a sé il cappotto, Lara passeggiava serenamente sul ponte di coperta. Adesso poteva respirare una boccata d’aria fresca e scaricare lo stress accumulato durante una lunga settimana di lavoro a bordo. Il firmamento sovrastava il mare ornando la notte di magia. Il rumore dei motori si fondeva a quello dello scafo battuto dalle onde. Poggiandosi al parapetto, la ragazza lasciò che la brezza notturna le sfiorasse il volto. Osservando New York avvicinarsi sempre più, Lara capì d’avercela fatta. Era riuscita a scappare dall’Inghilterra, aveva abbandonato lo zio e le sue botte, e ora, un’infinita distesa d’acqua la separava dal vecchio continente, dal luogo in cui, anni tristi e dolorosi erano trascorsi inesorabili. Lì, in mezzo alle lucine metropolitane, una vita nuova e carica d’aspettative attendeva solo d’esser vissuta, ma prima di raggiungerla, Lara doveva superare un ultimo e decisivo ostacolo: il controllo doganale. La paura di non farcela, l’idea di vedere il suo sogno sgretolarsi rapidamente come un vaso di creta, l’angustiava tremendamente. - Ho diritto anch’io a una vita migliore! – Protestò impetuosamente, rivolgendosi a un Dio che non credeva esistesse. - Lo so che c’è l’hai con me, lo so. Se così non fosse, non m’ avresti portato via i genitori a soli cinque anni, abbandonandomi alle follie perverse di un porco senza scrupoli. Dov’eri tu quando mi picchiava a sangue, o quando mi strappava gli slip con la bava alla bocca? - Lara interrupe bruscamente quel dialogo, in realtà si trattava soltanto d’un monologo, un monologo elegiaco inscritto nel vento e abbandonato ad esso. – Queste cose appartengono al mio passato, devo dimenticarle ad ogni costo! – Concluse singhiozzante, per non piombare in un pericoloso vortice di ricordi. L’odore pungente di una sigaretta accesa distolse Lara dai suoi turbamenti. Lo chef della nave si era avvicinato a lei con passo felpato, intento a scambiare quattro chiacchiere di congedo.
- Ormai manca poco, Lara! – Esordì, con elegante accento parigino. - Riesco già a vedere la statua della libertà. - Disse scherzosamente, gettando la sigaretta in mare. Sulla camicia bianca portava un cartellino plastificato in cui v’era scritto il nome François, ma il raffinato chef si faceva chiamare Verner. Da molti anni lavorava in giro per l’Europa, e nel fascino di città come, Varsavia, Vienna, Budapest e Praga, François amava deliziare i palati più esigenti col gusto di una delicata arte culinaria. Attualmente cucinava in mezzo all’oceano, regalando ai passeggeri della Far Dream, banchetti succulenti e imbanditi con le migliori prelibatezze.
- Che cosa farai adesso, Lara? - Chiese François accendendo un'altra sigaretta. - Ti prenderai qualche giorno di vacanza, prima di tornare a bordo? – Lara esitò un istante, lo chef non sapeva del suo contratto lavorativo inesistente.
- No, non credo. Arrivata a New York ripartirò per Seattle. – Spiegò sbrigativamente.
- Seattle? Quella vicino al monte Rainier? Dove Kenneth Arnold disse d’aver avvistato degli ufo? Ho capito! Sei appassionata di dischi volanti. - Lara sorrise apprezzando l’umorismo dello chef.
- No, tutt’altro. A Seattle vive mio fratello, e ho intenzione di trasferirmi lì con lui. -
- Hai un fratello? Anche a me piacerebbe averne uno, o magari una sorella. Purtroppo, i miei genitori hanno lasciato che restassi figlio unico. – Commentò François, con un retrogusto d’infantile malinconia. Lara lo osservò comprensiva.
- In realtà, io e mio fratello abbiamo due madri differenti, siamo fratellastri, ma a me non piace questa parola. -
- E perché mai? – La interrogò lui.
- Non saprei spiegarlo, sembra connotare una forma d’intolleranza reciproca, quella gelosia inconfessata che ti porta all’odio. Io e mio fratello, invece, ci siamo sempre voluti un gran bene, anche se abbiamo vissuto in case separate. –
- In case separate? – Chiese lo chef, facendosi interessato.
- Sì - Temporeggiò Lara, riflettendo su quanto fosse saggio raccontare le proprie vicende a un estraneo. – Purtroppo, i miei genitori sono morti a seguito di un grave incidente stradale. –
- Ah, mi dispiace molto. –
- Per mio fratello è andata diversamente. Lui ha perso soltanto un padre fra le lamiere accartocciate di quella Mercedes, ed è cresciuto con la madre naturale, mentre io, ho trascorso l’infanzia con uno zio paterno. –
– Sono certo che ti avrà cresciuto come fossi figlia sua. – Disse François, ignaro di quanto le sue parole suonassero sconvenienti.
- Già… - Lara simulò un sorriso d’assenso, sforzandosi d’apparire credibile, quasi temesse che François potesse leggerle dentro e scoprire la verità.
19 Il Gorki Park.
Mosca, Majakovskij
Un plumbeo lunedì mattina era da poco cominciato. Nell’aula di chimica, gli allievi del primo anno svolgevano taciturni la verifica scritta; dieci minuti ancora, e avrebbero dovuto consegnare il compito. La professoressa Tatjana Vasilevna Meštrovič, procedeva lungo la classe accertandosi che nessuno sbirciasse la scheda del compagno a fianco, il rumore dei suoi tacchi a spillo riecheggiava fra le pareti. Seduta al penultimo posto con la scheda di verifica seppellita sotto un’infinità di prodotti make-up, Liudmila piegò più volte un bigliettino di carta, e con un gesto rapido lo passò alla compagna antistante. La ragazza afferrò il biglietto con prudenza, nascondendolo dentro la manica del maglione. Quando fu certa che la professoressa non potesse vederla, lo dispiegò velocemente e lo lesse. Mi sei in debito. Mi devi un favore. Fatti trovare in biblioteca alle 17: 00, non un minuto più tardi! La ragazza si voltò verso Liudmila con aria interrogativa.
– Che cosa vuoi dire? Perché sarei in debito con te? –Le chiese a bassa voce, scuotendo il biglietto fra le mani.
- Ne riparliamo più tardi. – Replicò Liudmila a labbra serrate, con in mano il rimmel blu cobalto che tanto le faceva gli occhi da cerbiatta. Stringendo la mano d’Astrel sfrecciavo giù per la scala principale. Erano le quattro del pomeriggio e avevo appena disertato la lezione di biologia con un fantomatico mal di testa.
- Svetlana, aspetta! Non così veloce. - Senza assecondare Astrel continuai a scendere esortandola a sbrigarsi.
- Suvvia, Astrel! Dobbiamo far presto. Il signor Vyacheslav potrebbe sbucare da un momento all’altro e scoprirci. - Quasi tutti gli studenti a quell’ora, seguivano i corsi pomeridiani, la Rosencrans invece, lasciava l’istituto per disbrigare alcune faccende. Quale momento migliore per abbandonare la scuola senza rischiare d’esser colti in flagrante? Furtivamente oltrepassammo l’uscita secondaria e procedemmo con passo circospetto lungo il vialetto laterale, voltandoci più volte per ispezionare alle nostre spalle. L’ansia ci accompagno fino all’angolo, ma una volta svoltato, essa si confuse nel caos metropolitano. Le auto avanzavano sull’asfalto calcando la neve con i pneumatici e tingendola di un sudicio grigio fumo. I pedoni ai lati delle strade attendevano l’accensione del verde per schizzare via al ritmo degli impegni personali, mentre parecchi metri sotto i loro stivali, vagoni brulicanti di gente saettavano nel buio dei tunnel. Al quadro di un’ordinaria giornata cittadina, faceva da sfondo un pallido sole che presto si sarebbe addormentato a ponente, sfumando i colori del giorno come pastelli su carta bagnata. Lungo la Via Mokhovaya Ulitsa, feci segno a un’auto di fermarsi. Il conducente sulla cinquantina decelerò accostandosi gradualmente sul ciglio destro della carreggiata. Premendo un bottone vicino al volante abbassò il finestrino anteriore e sorrise cordialmente.
- Buona sera! - Mi salutò. Aveva un’aria affidabile, e la sua macchina profumava di concessionaria. Dall’interno proveniva un ameno tepore, e la stazione radio su cui era sintonizzato stava trasmettendo un pezzo di Varvara, Tayal sneg, il mio favorito, una ragione in più per salire. Ricambiando il saluto, mi rivolsi all’uomo chiedendogli se fosse disposto ad accompagnarci al Gorki Park per la cifra di cento rubli. L’uomo accettò volentieri invitandoci all’interno. Mentre aprivo la portiera, notai che Astrel esitava a salire mostrando una certa diffidenza.
- Su, Astrel, andiamo! Questo signore è disposto ad accompagnarci. –
- Ma, lo conosci? – Mi chiese, sperando che rispondessi di sì. Sorridendo, compresi che Astrel non era conoscenza di quella tipica usanza moscovita.
- No, non lo conosco. – Le risposi con sincerità. – Vedi, qui a Mosca ci sono pochissimi taxi e quando la gente non ha voglia di prendere la metro, chiede dei passaggi a pagamento. Lo fanno in tanti, basta accordarsi sul prezzo. – Astrel obbiettò ancora incerta.
- Una sorta d’autostop? -
- Sì, più o meno. – Le risposi, mentre salivamo in macchina e l’uomo partiva.
- Che strano, a Londra sarebbe impensabile chiedere passaggi agli estranei. – Commentò lei, mentre la città scorreva oltre il finestrino.
- Forse perché ci sono troppi autobus a due piani. – Ribattei sorridente.
Avvolta nella penombra crepuscolare, la biblioteca del Majakovskij riecheggiava i torvi silenzi di un’abbazia gotica. Davanti all’ingresso, alcuni docenti scambiavano considerazioni sulla didattica colloquiando a voce bassa. Un allievo sedeva sulla scala a libretto consultando assorto alcuni testi appena prelevati dallo scaffale, affiancato da un giovane che sgranocchiava biscotti salati. Al centro della stanza un inserviente dava la cera al pavimento sperando di arrecare il minor disturbo possibile. Seduta a un tavolo da lettura con la lampada pieghevole accesa, Liudmila attendeva che la sua compagna di classe si presentasse all’appuntamento, e per ingannare il tempo sfogliava una rivista di moda. La caterva di libri classificati sugli scaffali poteva offrirle intrattenimenti migliori di un semplice magazine che spiattellava modelle imbronciate e anoressiche, ma Liudmila sembrava allergica alla cultura, non riusciva a coglierne l’importanza. Soltanto lo shopping la rendeva appagata, o quelle intriganti serate trascorse a ciarlare con le amiche tra una spennellata alle unghie e l’altra. – Non capisco perché la gente spreca carta stampando libri, quando potrebbe impiegarla per stamparvi rubli. – Diceva spesso e stupidamente, guadagnandosi il benestare di chi la pensava esattamente come lei. Dei passi svelti ed echeggianti attraversarono la biblioteca creando una sorta di fischio, simile a quello che accompagna i giocatori di basket nelle palestre. Liudmila li sentiva sempre più incalzanti, ma non si voltò. Sapeva già che la sua compagna di classe stava per raggiungerla, soltanto lei poteva calpestare l’eleganza del Majakovskij con delle inappropriate Converse.
- Potresti spiegarmi quale oneroso debito mi lega a te? - Esordì la ragazza, richiamando Liudmila all’attenzione. – Sappi che io non ti devo alcun favore! – sbottò perentoriamente. Liudmila si concesse un sorriso mordace.
- Non mi devi alcun favore? Ne sei persuasa? -
- Sì, ne sono assolutamente persuasa. – Ribatté la ragazza senza farsi intimorire da quell’atteggiamento bieco.
- Ebbene, mettiamola così, carina: c’ero anch’io l’altra sera al Goldman, e ti ho vista quando ubriaca fradicia ti sei tolta il reggiseno e ti sei messa a ballare su una sedia. - La ragazza avvertì i muscoli addominali contrasi in uno spasmo virulento che le troncò il respiro.
- E con ciò? – Disse, sforzandosi di non far vacillare la voce.
- Se ora non mi aiuterai in quello che ti chiedo, farò in modo che lo sappia tutta la scuola. – La studentessa rimase di sasso, una repentina sudorazione accompagnò le palpitazioni del suo giovane muscolo cardiaco.
- E’ una minaccia questa? Raccontalo pure a chi vuoi, se non hai le prove per dimostrarlo, gli altri penseranno che siano i tuoi soliti pettegolezzi. -
- Chi ti dice che non ho le prove? – Chiese Liudmila, porgendo alla compagna una busta bianca che aveva appena recuperato dalla borsa. La ragazza estrasse il contenuto della busta e lo fissò incredula, oltre dieci scatti la ritraevano ubriaca e svestita mentre con ilarità danzava attorniata da turisti americani.
- Oh mio Dio… - Balbettò tramortita. – Non posso essere io. - Di quella serata le rimanevano pochissimi ricordi, l’alcol li aveva offuscati in un groviglio intricato di luci e suoni. Le foto che stava sfogliando supplirono al vuoto di memoria, con fredda obbiettività le mostrarono un inedito aspetto del suo carattere, dove il senso del pudore era migrato negli sguardi di chi la osservava. – Come ho potuto spogliarmi davanti a tutti quei ragazzi? – Si domandò confusa, iniziando a stracciare le foto con dei movimenti brevi e tremolanti delle mani. Liudmila non la fermò, le permise di ridurre gli scatti in brandelli.
- Puoi anche bruciarle se vuoi, io non sono una sprovveduta, le originali si trovano nel mio PC. -
- A chi le hai mostrate? – Domandò la ragazza, consapevole di dover cedere ai ricatti di Liudmila.
- A nessuno finora. - Rispose lei osteggiando una flemma che risultava quasi cortese. - E nessuno ne verrà mai a conoscenza, se tu mi aiuterai in ciò che ti chiedo. –
- Dunque, non mi resta che pagare il tuo silenzio? –
- Vedo che cominci a ragionare. – Commentò Liudmila, felice di poter piegare qualcuno alla propria volontà.
- Dimmi che cosa vuoi! – L’asservì la giovane profondamente umiliata.
- Ecco, diciamo una mano d’aiuto per intrufolarmi in camera dell’ultima arrivata, non dovrai far altro che star di guardia davanti l’uscio, mentre io do un’ occhiata all’ interno. –
- Ma sei impazzita? – Strillò la ragazza – Sai benissimo che queste cose non si possono fare, pensa a come ci punirebbe la Rosencrans se ne venisse a conoscenza! –
- Oh, come siamo fifone. – La canzonò Liudmila. - Hai paura della preside? Allora stai ben attenta, non vorrei che le tue foto finiscano per sbaglio in mezzo ai suoi documenti. –
- No, ti prego! Liuda non farlo, i miei genitori ne verrebbero presto a conoscenza. – La supplicò la ragazza giungendo le mani come si fa innanzi a un’icona religiosa.
- Aiutami, è l’unico modo per evitare che ciò accada. - Concluse Liudmila, con inamovibile fermezza. La campanella della scuola suonò puntuale alle diciotto. Il suo trillo acuto indicava la conclusione di tutte le lezioni e accompagnava per circa un minuto il caos di ragazzi che dalle aule si riversavano nei corridoi. Liudmila uscì dalla biblioteca con appresso la compagna di classe. La borsa sportiva che portava a tracolla conteneva una grossa somma di rubli, tutti in contanti, tutti vinti dalla Rosencrans al casinò Arbat. “ Quando li avrai nascosti in camera della londinese, io denuncerò la scomparsa del denaro, e farò intervenire le forze dell’ordine. ” Il piano della preside superava d’ingegno il suo, e se pur a malincuore, Liudmila dovette ammetterlo a se stessa. Col senno del poi si pentì di non aver fatto altrettanto quando poteva agire nero su bianco, a ogni modo, una seconda chance per riscattare il suo errore si schiudeva all’orizzonte, e la giovane era fiduciosa di potersela cavare egregiamente. Stringendo a sé la borsa l’allieva si fece strada tra i ragazzi che congestionavano le scale, e dopo averle salite, s’incamminò per il corridoio ovest del primo piano; la sua compagna le stava dietro fissandola con sguardo accigliato. Le porte delle camere si susseguivano monotonamente tra venature di palissandro e targhette in ottone incise da numeri. Sui muri i volti d’insigni personaggi storici incorniciati nell’onorificenza dei quadri, parevano osservare le due ragazze con taciturno dissenso. Liudmila incalzò il passo fino a che non giunse innanzi all’uscio che le interessava. Rapidamente cacciò l’occhio in fondo al corridoio per sincerarsi che nessuno s’aggirasse nelle vicinanze, e con un gesto nervoso inserì una chiave nella serratura.
- Chi ti ha dato quella chiave? – Domandò la ragazza, stazionando accanto a lei con una spalla poggiata al muro.
- Questa chiave? Ehm… - temporeggiò Liudmila – Il signor Vyacheslav Lavrov. E’ la copia che tiene in portineria. - Concluse frettolosamente dando due giri di serratura.
- Il signor Vyacheslav Lavrov? – Ripeté la ragazza con scetticismo. - Così è tuo complice? Andiamo, gliel’avrai rubata. -
- Chiudi il becco, dannazione! – Eruppe Liudmila, muovendo la maniglia verso il basso e aprendo la porta. - Resta qui e non ti muovere di un solo millimetro. - Ordinò minacciosamente, dirigendosi all’interno della stanza. Una delicata essenza di talco inebriò le sue narici, ma lei non si lasciò sedurre e aggrottò il volto quasi fosse uno sgradevole miasma. La studentessa cominciò a scrutare intorno a sé con subdola indiscrezione . L’ordine che dominava su tutto non serbava neppure un angolo al caos, e ciò la colpì in modo particolare, la sua camera appariva un campo di battaglia al raffronto. Dal lampadario fissato al centro del tetto, pendeva giù un acchiappasogni in legno di salice. Le sue piume colorate attingevano vita dall’aria, e fluttuando su ignoti itinerari animavano il pavimento con ombre ballerine. Su tutti i vetri delle finestre, farfalle di carta lucida sfolgoravano in armonica allegria, eclissandosi a tratti nella seta celeste delle tendine. L’obiettivo precipuo di Liudmila era di trovare un luogo strategico dove celare il denaro, e sgattaiolare via a lavoro compiuto, ma il desiderio irrefrenabile di sbirciare all’interno di beautycase e cassetti, tipico del suo carattere puerile, la costrinse a modificare parzialmente i piani d’azione. Vittima della curiosità, si diresse verso l’armadio e l’aprì. Vi frugò come una bambina che ammira di nascosto gli abiti della mamma, e fa un giro veloce sui tacchi affondandovi i piedi. Poi corse a scartabellare alcuni giornali stipati sotto la scrivania, ma i periodici che trattavano di scienze e attualità non potevano interessarla. Infine, si recò nel bagno e cominciò a giocherellare con i prodotti make-up.
- Liuda? Devi fare molto? Sono stufa di aspettare qui! – Protestò la ragazza dall’ingresso. Liudmila sussultò, e con le labbra imbrattate dalla sbavatura di un rossetto uscì dal bagno. Forse era giunto il momento d’occuparsi del denaro, tuttavia, un portagioie ornato con pepite colorate e fili in oro, posto su un comodino, suscitò ai suoi occhi un’attrattiva irresistibile. “ Aprimi.” Sembrava sussurrarle, “Vieni a scoprire cosa si cela al mio interno ”. Quasi ipnotizzata, la studentessa si avvicinò al portagioie, e lasciò che le sue mani vi si posassero lentamente. Con entrambi i pollici premette sulla chiusura a scatto, e una volta apertala, la ragazza sollevò il coperchio superiore del cofanetto. L’interno del portagioie era rivestito da elegante raso vermiglio, e tra fermagli e orecchini di vario genere, si nascondeva un piccolo diario dalla copertina rosa. Liudmila fissò il contenuto del portagioie con sguardo da predone, come un pirata che brama innanzi a uno scrigno che tracima dobloni. – Un diario, uno di quelli che non si fanno leggere a nessuno! – Esclamò eccitata, recuperando il libricino. - Vola al di là della neve - lesse ad alta voce – Vola al di là della neve? – Si domandò, del tutto incapace di astrarne il senso. – Cos’è? Un catalogo per i tropici? – La giovane allieva si accomodò su uno dei due letti, pronta a cacciare il naso tra le pagine di un diario che non le apparteneva. Nessuno scrupolo le balenò in coscienza detenendola dal violare i pensieri segreti che quei fogli custodivano, e avventurandosi nella lettura, s’imbatté in romantiche poesie, in citazioni famose e in aneddoti di vita. Nulla che fosse degno di ricevere la sua attenzione. Probabilmente, Liudmila si aspettava una piccante antologia di pettegolezzi con maldicenze d’ogni tipo, e magari, anche una serie di stuzzicanti episodi a sfondo erotico arricchiti da minuziose descrizioni.Tuttavia, procedendo negli scritti, la giovane allieva rintracciò qualcosa che la sorprese. La sua espressione si tinse di sbalordito sgomento, più avanzava nelle righe spostando le pupille da sinistra a destra, più articolava smorfie di sdegnato diniego.
– Loro due…- realizzò con gli occhi sgranati dallo stupore. – Non posso crederci! E’ rivoltante. – commentò, percorsa da brividi di repellenza. Adesso Liudmila sapeva. Adesso tutto sarebbe cambiato. Il diario, da sempre emblema di private confessioni, aveva inconsapevolmente tradito, prostrandosi inerte alla foga di famelici occhi che ne avevan divorato il contenuto. Liudmila non era una ragazza dalla spiccata perspicacia, di questo nessuno poteva dubitarne, ma dal basso della sua ingenuità, ella comprese di possedere un’arma micidiale da scagliare contro la sua acerrima rivale inglese. Il denaro era passato in secondo piano, quasi l’allieva non rammentasse più di essersi recata in quella camera con uno scopo determinato; d’altronde, se alla Rosencrans urgeva un pretesto per cacciar via Astrel dall’istituto, quell’insignificante diario gliel’avrebbe servito su un piatto d’argento.
- Insomma, hai finito? – Sollecitò nuovamente la ragazza, facendo capolino dallo stipite della porta. Liudmila annuì alzandosi dal letto. Con un gesto accurato stirò la coperta in modo da cancellare il suo passaggio, poi trafugò il diario riponendolo nella borsa, e si allontanò insieme ai rubli.
Il Gorki Park è uno dei più famosi e divertenti giardini di Mosca. Sorge proprio sulla riva del Moscova e si estende per circa tre chilometri. Al suo interno si trova un piccolo luna park dotato di ruota panoramica, e spesso nell’auditorium del parco vengono organizzati concerti rock. In estate, le barche che salpano dal molo effettuano qualche escursione lungo il fiume, in inverno invece, i laghetti artificiali si congelano completamente, trasformandosi in sconfinate piste di pattinaggio. Perfino gli Scorpions lo avevano citato in un loro brano “Wind of change” e lo scrittore Martin Cruz vi aveva ambientato un thriller agghiacciante nel suo libro dal titolo omonimo. Con l’arrivo della stagione fredda, potevo tirar fuori dalla scatola i miei pattini da ghiaccio e recarmi al Gorki Park, dov’ero solita trascorrere interi pomeriggi slittando libera e veloce sulla gelida coltre che ricopriva le acque dei laghetti. Astrel mi aveva appena confidato di non cavarsela bene sui pattini, che l’idea d’indossarli le faceva pensare a tutti i lividi che avrebbe contato sulle ginocchia e sui gomiti, eppure, adesso si trovava proprio lì, su un’enorme pista ghiacciata, insieme a me e a tanta gente che desiderava provare l’ebbrezza di planare in tutta libertà.
– Ti prego tienimi! Sto per cascare. – Letteralmente avviluppata al mio braccio, Astrel tentava di mantenere l’equilibrio muovendosi con prudenza.
– Andiamo, Astrel, non è poi così difficile; guarda me e non aver paura di cadere. – Astrel sembrò persuadersi e con cautela abbandonò la presa sul mio braccio. Vacillante abbozzò qualche passo scoordinato, sforzandosi di governare i pattini che indossava ai piedi; due o tre giri di pista, e il suo portamento migliorò notevolmente. In men che non si dica la paura d’impattare sul ghiaccio divenne per lei un ricordo remoto, e se adesso stringeva forte la mia mano, lo faceva per un’altra ragione. La pista era colma di gente quel pomeriggio, una danza irrefrenabile di cappellini e sciarpe colorate che spiccavano sul suolo bianco. L’aria fermentava di nuovi sapori, con lei vicino, tutto gustava di zucchero filato. Concedendomi alla verve, liberai il cuore dai fantasmi che lo tormentavano, e tutte le mie paure, tutte le angosce, le preoccupazioni e la solitudine che regnavano tiranne, sfumarono d’improvviso quasi non fossero mai esistite. “Una creatura rinata” è così che mi sarei narrata a qualcuno che me l’avesse chiesto. Dal cielo bruno, nivei batuffoli discesero al suolo sfiorando l’aria. Molti pattinatori accolsero i doni dell’inverno approntando i palmi in aria, Astrel si fermò al centro della pista e ricambiò la carezza delle nuvole con un dolce sorriso che sboccio tra le sue gote arrossate dal gelo.
- Sei la mia principessa. – Le sussurrai, convinta di vivere una favola romantica. Astrel mi condusse a un palmo dal suo volto.
- Anche tu sei la mia. – Rispose, stringendomi le mani e trascinandomi via con lei. Insieme volammo come libellule, esplorando l’aria e lo spazio che ruotava complice intorno a noi, fino a quando, l’inesperienza d’Astrel sui pattini le causò una brusca scivolata che coinvolse anche me.
L’impatto con il suolo fu duro, violento, ma nessuna di noi due si fece male. Una situazione esilarante, per certi aspetti anche un po’ imbarazzante. E’ con questi termini che in genere si può descrivere una figuraccia, ma nel ricordo che serbo di quel momento, colgo solo delle romantiche emozioni. La dinamica “dell’incidente” fu tale, che ci ritrovammo l’una sopra l’altra, inevitabilmente vicine e strette, fisse negli occhi come non mai. Stravaccate sul ghiaccio, sentivamo già i vestiti inzupparsi d’acqua, ma le nostre risate c’impedirono di curarci del freddo.
- Svetlana? – Pronunciò Astrel, sfiorandomi la guancia con il suo guanto ricoperto di brina.
- Dimmi. – Lei mi guardò con rilucente idillio, come fossi una dea, e per un incommensurabile momento credei davvero d’esserlo.
- Svetlana, io credo di… no, non lo credo, lo sento. Io sento d’amarti. – Tutto languì d’immediato, e il mondo smise d’orbitarci intorno; suoni, luci, e colori, si ovattarono in un alone sfocato. Ora il resto non esisteva più.
- Tu mi ami, Astrel?- Le domandai con un sussurro sfiatato, temendo d’aver udito male.
- Sì, io ti amo. – Ripeté, con una dolcezza tale, che avrebbe reso in fiore anche gli sterpi. - Prima d’incontrarti, la mia vita era un puzzle frammentato, un susseguirsi caotico d’eventi che procedevano senza una coerenza. Ogni giorno mi guardavo allo specchio e mi domandavo se valesse la pena continuare a respirare un’esistenza priva di pathos ma con te ogni afflizione tace, e tutto riacquista il suo brivido vitale; sei la primavera che ha disgelato il mio cuore. - Quali soavi melodie! Erano dedicati a me quei voli pindarici? A una ragazza così delusa dalla vita, tanto da considerare l’amore un banale espediente per imbellettare romanzi?
- Anch’io ti amo, Astrel. - Risposi, dichiarando amore per la prima volta. – Sento che tra noi fluisce un legame inscindibile, qualcosa che ci rende complementari, come in un incastro perfetto. -
- Come la luna piena. - farfugliò lei, protendendo il volto verso il mio con le labbra struggenti di desiderio. La voglia di fonderci in un lungo e romantico bacio brillò nei nostri sguardi come la scia di una cometa, ma la gente continuava a slittare anonima in ogni direzione, e a noi non era concesso vibrare nell’abbraccio di Venere. Avremmo dovuto compiacere ai canoni del buon costume? Lasciare che essi spadroneggiassero in noi facendo razzia dei sentimenti? Piegarci ai dettami di un’indole tiranna sarebbe equivalso ad assassinare la nobiltà dell’amore e a ripudiare la sublime ambrosia che ci offriva. Giungendo le nostre labbra ci baciammo con ardore; impudenti contro chi bofonchiava sbigottito o ridacchiava imbarazzato; noi e soltanto noi, libere e fiere di godere ciò che nessuno avrebbe mai potuto sottrarci.
La direttrice Rosencrans sostava di sbieco al colossale portone del suo istituto. Rattrappita dal gelo serale, la donna chiuse l’ombrello e lo sbatacchiò dal manico per scrollare via lo strato di neve depositatovi, poi liberò la mano sinistra dal guanto e scosse anche il colbacco. Liudmila osservò la scena attraverso una finestra del primo piano, e spedita corse giù per raggiungere la donna, doveva parlarle assolutamente. La Rosencrans s’incamminò all’interno del Majakovskij attraversando l’atrio d’ingresso con andamento lesto; tra le rughe dei suoi lineamenti palesava la collera per l’ennesima sconfitta al poker.
- Signorina Rosencrans? - La chiamò Liudmila a gran voce, scendendo anelante l’ultimo gradino delle scale. A tracolla indossava ancora la borsa sportiva, che appesantita balzava su e giù scontrandosi con i fianchi della ragazza. La preside si voltò verso l’allieva.
- Cosa sono questi schiamazzi da carampana? – La boicotto inarcando la fronte e folgorandola con uno sguardo truculento.
- Devo riferirle qualcosa di molto importante. – Incalzò Liudmila. – Ho trovato un diario nella camera della nuova arrivata. – Spiegò affannata.
- Lei ha trovato un diario? Oh, che romantico! – Replicò la donna con spregevole ironia – Mi parli del denaro piuttosto, in quale punto della stanza lo ha collocato? – Liudmila approntò il palmo della mano verso la donna, quasi a volerla interrompere, e galvanizzata proseguì il filo del suo discorso.
- I soldi sono ancora qui, dentro la mia borsa: dopo ciò che ho letto -
- Come sarebbe? – Proruppe furente la Rosencrans, ghermendo Liudmila per il collo della camicetta e strattonandola con impeto. – Io le avevo chiesto una cosa. Una semplice, elementare, dannatissima cosa! Lei ha osato disobbedirmi. – Liudmila si divincolò tramortita e indietreggiò vacillando; il viso cremisi della preside avrebbe terrorizzato la paura stessa.
- No, io non le ho disobbedito. Mi creda, c’è una spiegazione plausibile a tutto ciò. –Si giustificò l’allieva, tentando di rabbonire l’ira incontenibile della direttrice.
- Si è scavata la fossa con le sue mani, Liudmila Borisovna. -Sentenziò la Rosencrans con un infido ammiccamento.
- Lei è in errore! – Obbiettò l’allieva, forte delle sue ragioni. – Sono convinta che cambierà idea dopo aver preso visione del diario che le mostrerò. –
- Prendersi gioco di me la diletta? Sarebbe un tragico errore provarci, una nefandezza che le farei pagare amaramente. – Liudmila dissentì in eloquente silenzio.
- Orbene – Esordì la donna, decisa a prestare udienza alla giovane allieva - mi delizi con le bazzecole di questo diario, e implori i santi affinché io non decreti la malaugurata sentenza di sbatterla fuori dal Majakovskij. –
20 Fuggiamo
L’autobus di linea della Mostransavto percorreva con prudenza una solitaria stradina dell’Oblast moscovita. I fanali anteriori del veicolo illuminavano il sentiero impervio rifrangendo la luce sulle pozzanghere che riempivano le buche, i pneumatici solcavano il fango tracciando il percorso. A bordo, i passeggeri dell’ultima corsa languivano con le palpebre appesantite dalla stanchezza, mentre un panorama adombrato dalla sera scorreva invisibile oltre i finestrini. Irina viaggiava in piedi vicino al conducente, rimestando sul posto qualche passo nervoso. Il suo esile corpo pativa il freddo, ad abbigliarlo soltanto una lunga pelliccia bianca, null’altro, neppure un discreto slip a proteggerle l’intimo. L’amico d’Ivan aveva scelto così: tacchi alti e pelliccia. Il pensiero assillante di esser nuda in mezzo alla gente, causava a Irina un fastidioso imbarazzo, e nell’angosciata preoccupazione che un bottone potesse tradirla, la ragazza stringeva forte a sé la pelliccia.
- E’ diretta a Balashikha, signorina? – Domandò il conducente a Irina, transitando vigile sulla balashikhinskoye shosse. Irina si voltò verso l’uomo con gli occhi afflitti, lo avrebbe supplicato in ginocchio affinché non smettesse mai di guidare.
- Mi accompagni fino a Omsk, lontana da lui. Voglio riabbracciare la mia famiglia. -Si sfogò la ragazza, affogando nel rammarico. Il conducente abbassò il volume alla radio portatile e scrutò la giovane passeggera dallo specchietto.
- Come ha detto, prego? - Irina trasalì meravigliata, non si era accorta d’ aver tradito se stessa pronunciando quelle parole.
- Scusi. - disse, inibita dallo sguardo interrogativo che ostentava il conducente – Sce… scendo alla prossima fermata, l’ultima prima d’ arrivare a Balashikha. – L’uomo inarcò le sopracciglia e si fece stranito, per un momento scostò l’attenzione dalla guida.
- Intende scendere alla prossima fermata? – Domandò con l’aria di chi dissentiva.
- Sì. - confermò Irina.
- Non sono affari miei, ma, glielo sconsiglio vivamente. Siamo fuori dal centro abitato, in mezzo alla vegetazione, e inoltre, circolano tipi sospetti a quest’ora della sera. – La ragazza avvertì i muscoli contrarsi dalla paura, e con entrambe le mani si aggrappò a una maniglia; non aveva scelta, doveva obbedire a Ivan e farsi trovare sorridente a quella fermata quando lui sarebbe passato insieme a un amico.
- Apprezzo il suo interesse – Rispose Irina – ma non deve preoccuparsi, ho appuntamento con mia sorella e sta già venendo a prendermi. - Mentì, con le pupille fisse al pavimento. Il conducente iniziò a rallentare accostandosi gradualmente al ciglio destro della carreggiata; Irina scrutò la fermata a pochi metri di distanza e un violento nodo allo stomaco sembrò squarciarla a metà. Il cuore le impazzava dentro il petto, ora che l’autobus si era fermato completamente, la giovane ricorse all’effimera tenacia che le restava per affrontare la situazione incombente. Fino all’ultimo istante sperò nell’anonima compagnia di qualche passeggero, ma nessuno era in procinto di scendere. Quando le bussole si aprirono in contemporanea, l’aria gelida irruppe all’interno del veicolo riducendo di netto la temperatura. Il conducente del mezzo si coprì le orecchie con l’ausilio della sua sciarpa bordeaux e dopo essersi sfregato i palmi delle mani per scaldarli, si preparò a riprendere la marcia.
- Mi raccomando, faccia attenzione, signorina. – Irina sostò sul predellino, e voltandosi accennò un sorriso cordiale al conducente, poi si volse nella direzione opposta e affondò i tacchi degli stivali sulla neve fresca abbandonando definitivamente l’autobus. Il mezzo riprese la marcia e a poco a poco si rimpicciolì lungo la strada fino a sparire del tutto insieme ai fanalini di coda. Adesso Irina era completamente sola. Alle sue spalle si estendeva una piccola foresta, dove le betulle svettavano spoglie dominando il resto della flora. La giovane preferì non guardare in direzione della boscaglia, lì il buio era così fitto che sembrava volesse inghiottirla. L’unica fonte luminosa proveniva dai neon istallati sulla pensilina plastificata che faceva da riparo alla panchina del bus stop. Di fretta Irina raggiunse la panca e vi si rannicchio come una bimba spaesata. Per esorcizzare la minaccia del buio prese a fissare la luce biancastra dei neon. Rimase con gli occhi all’insù per circa venti minuti. Ivan non arrivava ancora, forse non sarebbe più venuto. La neve riprese a cadere, scivolando soffice attraverso l’aria, come le lacrime sulle guance di Ira. Quale il male minore? Si domandò la ragazza col cuore attanagliato dallo sconforto. Era preferibile trascorrere l’intera notte all’agghiaccio, abbrancata alla panchina come una naufraga in mare aperto? O soccombere inerme sotto le smaniose voglie di un corpo sconosciuto? Il rombo incalzante d’un motore la sottrasse ai suoi quesiti. Un’auto si stava avvicinando alla fermata. La ragazza non ebbe il tempo di mettersi in piedi che un fascio di luce abbagliante la investì costringendola a strizzare le palpebre. Udì i pneumatici sdrucciolare nel pietrisco e il motore spegnersi, poi due portiere aprirsi al contempo.
- Allora ci sei! E’ parecchio che aspetti? – La studentessa riaprì gli occhi e scorse Ivan procedere verso lei, non era solo, un altro ragazzo fumava addossato alla fiancata dell’auto.
- Ottima scelta la tua pelliccia, ma non hai messo il rossetto! – La rimbrottò Ivan alticcio. Irina rimase seduta senza proferire sillaba, rigida come una corda di violino.
- Perdona l’attesa, dovevamo terminare una cosetta. – Spiegò Ivan, lanciando un sogghigno d’intesa all’amico. – Lui è Alekseij, trattamelo bene. – Disse infine, indicando il ragazzo che stazionava vicino l’auto. Irina volse lo sguardo verso il giovane e lo studiò attentamente. Era più alto d’Ivan, fisico nerboruto. Aveva delle mani robuste, che portava spesso ai capelli per dare una scrollata veloce al caschetto biondo. La ragazza non poté scorgere il colore dei suoi occhi, eppure l’immaginava già, verdi come un prato irraggiato dal sole. Ivan cominciò a sbellicarsi senza una ragione apparante, e brioso scalciava contro la neve sollazzandosi di gusto. La vodka sortiva effetti immediati su di lui.
- Alzati da quella panchina, troietta! – Le ordinò, cominciando a volteggiare su se stesso, sempre più veloce, fino a che non perse l’equilibrio e stramazzò per terra. Tutto piroettava come in una giostra, e Ivan accompagnò il caos intonando una canzone dei Tokio: Kto ia bez tebia.
Irina tornò a fissare Alekseij, nutrendo irrefrenabile la voglia di corrergli incontro e approdare alle sue braccia. Magari poteva farlo. Lui l’avrebbe protetta da Ivan, le avrebbe lasciato poggiare il viso sulla sciarpa inebriata di dopobarba. Irina lo fece. Scattò fulminea incontro al giovane e senza inibizioni si tuffo su di lui. Alekseij non rifiutò il gesto della ragazza, e delicatamente la condusse a sé cingendole la vita.
- Portami via… –
Gli sussurrò lei, incrociando per la prima volta gli occhi d’Alekseij; non si sbagliava, erano proprio di quel verde acceso.
- dove vuoi che ti porti? –
Irina lo ammirò trasognata, stregata dal fascino principesco incarnato nei suoi lineamenti. D’ un tratto le parve di stringere un arcangelo scivolato dal paradiso, o forse, si trovava lei stessa in paradiso. Nulla poteva separarla da lui.
Ivan riconquistò l’equilibrio, e una volta stabile sulle proprie gambe, raggiunse la ragazza correndo. Con veemenza la sottrasse ad Alekseij, il quale non oppose alcuna resistenza nel lasciarla andare.
- Che vuoi, Ivan? –
Ebbe l’ardire di chiedere.
Ivan le agguantò la pelliccia dalle spalline e incuneò le dita infondo al pelo.
- Tu fai la troia solo quando te lo dico io! –
- Io non sono la tua schiava! – Si ribellò. – Ammazzami se vuoi. Ho barattato la mia libertà in cambio della sopravvivenza; cosa credi che abbia ancora da perdere, eh? Uccidimi, te ne sarei grata. – Irina dubitò di sé, certa che il suo carattere gracile non fosse all’altezza di affermazioni così ardimentose. Smarrita crollò nell’incertezza, e si rifugiò ancora tra le braccia del suo impavido cavaliere. Fu proprio lui a tradirla, Alekseij.
- Spero che Ivan ti abbia informato riguardo alle mie preferenze, non indossi nulla sotto il cappotto, vero? - Irina si allontanò da lui con fare repellente, stordita dalla pugnalata inflittale. Lo aveva idealizzato a tal punto da infatuarsene, lo credeva leale e rispettoso, eppure, sapeva che Alekseij era lì per un semplice e unico scopo: possederla. - Togliti quella dannata pelliccia! – Sbraitò Ivan, poi un repentino attacco di nausea lo soggiogò, e per dar sfogo al malore si allontanò di qualche metro. Alekseij avviluppò Irina dall’addome e con inaudita brutalità la sollevò da terra trasportandola verso l’auto.
- No! T’imploro. – Lo supplicò piangendo. - Tu non sei come Ivan, devi lasciarmi libera. – Alekseij non mostrò la minimale indulgenza per il pianto straziante della ragazza, e imperterrito la scaraventò sul sedile posteriore della macchina. Irina si scontrò con la tappezzeria usurata, e nell’impatto la sua pelliccia si sbottonò.
- Allora mi hai accontentato! – Esclamò Alekseij slacciandosi i pantaloni. – sei completamente nuda. - La giovane decise di reagire, e tempestiva scavalcò il sediolino anteriore prendendo posto alla guida. Prima che Alekseij riuscisse a impedirglielo, girò la chiave e avviò la macchina. Le vibrazioni del motore le donarono un effimero senso di speranza, stava quasi per partire, avrebbe premuto al massimo l’acceleratore e si sarebbe allontanata da tutto, per sempre. Non ci riuscì. La prontezza d’Alekseij vanificò ogni cosa.
- No. – Gridò sconfitta, quando il giovane la strattonò fuori dall’abitacolo facendola cadere rovinosamente a terra. Irina batté la schiena contro il suolo nevato, e dolorante rimase distesa.
- Che cosa tentavi di fare? Sei piuttosto maldestra come ladra. – La irrise Alekseij osservandola dall’alto. - In macchina non ti andava? Bene, vorrà dire che lo faremo qui. – La ragazza tentò di rimettersi in piedi, ma il corpo palestrato d’Alekseij le piombò a dosso come un macigno.
- Credevo tu fossi diverso, mi ero illusa che mi avresti protetto. – Singhiozzò la giovane, profondamente costernata.
- Taci. – Le intimò lui palpeggiandola barbaramente. – Ho forse pagato per sopportare i tuoi piagnistei? E poi non ti capisco: prima mi salti addosso, e ora mi respingi come fossi un cane rabbioso. – Irina desistette dal supplicare quel verro, e stringendo i denti consegnò lo sguardo al vuoto. La furia mascolina d’Alekseij la dominò a lungo, e lei, inerme e disperata, nutrì il funesto desiderio d’abbandonare il proprio corpo con una morte imminente. Un’altra sera d’inumana schiavitù trascorse per la studentessa del Majakovskij. Quando Ivan riprese colore in viso, incassò il resto del contante che gli spettava, e ringraziò il suo fidato amico Alekseij.
So che non dovevamo trascorrere l’intero pomeriggio fuori dal Majakovskij se desideravamo che nessuno lo venisse a sapere, ma adesso si era fatta sera, e non potendo invertire l’ordine del tempo, fummo costrette a intrufolarci dalle scale d’emergenza. L’istituto riposava già da un pezzo, il delicato udito della Rosencrans pretendeva che tutto dovesse tacere dopo le nove, e quando l’orologio indicava quell’ora, la scuola si addormentava nella semioscurità. La calma piatta regnava fra le aule e in mezzo ai corridoi, neppure un lieve rumore o una sillaba impalpabile interferiva col silenzio sepolcrale.
- Stanno dormendo tutti!. Come possono cedere alle braccia di Morfeo così presto? - Mi chiese Astrel a bassa voce, percorrendo insieme a me il corridoio del primo piano.
- Solo una straniera poteva porsi simile quesito. - Replicai col sorriso fra le labbra. – Mosca non dorme mai, e sono proprio i giovani a tenerla sveglia; le vecchie bacucche come la Rosencrans, invece, si affossano nel letto e non sentono più nulla. -
- Signorina Puskovic! – risuonò una voce alle nostre spalle. Di colpo ci voltammo verso essa, rigide come tronchi di quercia. – Ma come debbo fare con voi? Conoscete le regole, caspita! Niente uscite dopo le nove di sera. – Si lamentò animatamente il signor Vyacheslav, improvvisandosi arcigno e incollerito, ma l’intransigenza era ciò che peggio potesse riuscirgli; il suo lato bonario non lo smentiva mai.
- Signor Vyacheslav Lavrov, noi - Indugiai, fiduciosa che una scusante mi giungesse in soccorso.
- Non siamo uscite da scuola, né stavamo per farlo. – Intervenne Astrel, contrita per l’affermazione mendace. – Ci siamo recate al piano terra per acquistare una bibita al distributore. - Il povero inserviente oppose le braccia verso l’alto in segno d’arresa.
- E temendo che il riscaldamento si fosse guastato, vi siete imbacuccate per bene, già! – Concluse lui spiazzandoci. – E’ meglio che vi ritirate. – ci suggerì. – Di rado la Rosencrans rammenta il significato della parola “clemenza”. – Entrambe annuimmo riconoscenti, e deliziate da tanta mitezza salutammo il signor Vyacheslav.
Tornate nella nostra camera non accendemmo la luce, per accordare il desiderio d’intimità ci accontentammo della modesta illuminazione proveniente dall’esterno. Astrel raggiunse l’armadio e vi ripose gli indumenti pesanti, poi si avvicinò a me e delicatamente sfilò via il maglione che indossava, rimanendo così in reggiseno.
- Il mio golf e fradicio, dopo quella brusca scivolata sul ghiaccio, si è inzuppato per bene. – Disse, lasciando fluttuare la voce nell’afrodisiaco tono della sensualità. Ammaliata, contemplai l’eccellenza delle sue fattezze, e nel buio scorsi il desiderio arderle negli occhi. Avrei concesso in cambio l’anima pur di affondare un solo momento nel tepore della sua pelle setosa.
- Anche il tuo pullover è bagnato. – Bisbigliò al mio orecchio cingendomi a sé.
- Sì, è tutto umido... – Le sussurrai a mia volta, caldeggiandole il gioco.
- E meglio se lo togli, non vorrai farti venire un malanno, vero? – Complice, mi concessi all’estasi sublime che attingevo dal suo fascino e preda consenziente mi gettai sul letto, bramando affinché le nostre forme femminili si giungessero. Astrel mi avvolse nel calore del suo corpo e con un gesto leggero mi tolse il maglione. Con le dita stuzzicò i miei sensi, mentre i suoi lunghi capelli corvini s’intrecciavano ai ricami del mio reggiseno. Tutto era perfetto, soltanto noi due in un’apollinea sinfonia di sguardi e gesti. Nulla sembrava capace d’ interferire con la sinergia del nostro amore, eppure, un violento scatto alla maniglia rapì l’una dalla passione dell’altra. D’un tratto la luce si accese nella stanza, disvelando impunemente la nostra intimità; un trambusto di voci ci stordì come il rombo d’un tuono.
- Adesso mi crede? – Strepitò Liudmila, irrotta in camera nostra insieme alla Rosencrans.
- Sono due fottute lesbiche! Io lo sapevo, l’ho letto in quel diario. –
- Dio misericordioso! – Esclamò attonita la preside, occultandosi la vista con le rughe delle mani.
- Cosa ci fate qui? – Urlò Astrel scossa da un fremito. Entrambe guizzammo in piedi, e imbarazzate tentammo di coprirci usando le braccia.
- Sono ripugnanti, mi vergogno per loro. – commentava Liudmila, girandolando esterrefatta intorno alla stanza. – Signorina Rosencrans, faccia qualcosa! – La esortò con tono acuto.
Astrel mi abbracciò invocando la mia alleanza, e io terrorizzata, la strinsi forte. La direttrice procedette imperiosa verso entrambe, soppesando con maestranza ogni emozione che le scorreva sul volto scialbo. Si fermò a un passo da noi, mantenendo una postura rigida che si accordava con la gravità della situazione. Il suo sguardo trucido ci falciò come un’accetta affilata, ma il manrovescio che scagliò contro la mia guancia fu assai più doloroso. Adoperò la stessa mano smilza per schiaffeggiare Astrel, contro di lei si accanì per ben due volte, su entrambe le gote.
- Baldracche! – Ci offese con tutto il diniego che potesse provare. – Siete due scostumate, due sgualdrine! - Io e Astrel ci stringemmo ulteriormente, quasi a voler formare uno scudo inespugnabile che ci proteggesse dagli improperi vigliacchi inflitti al nostro amore.
- Signorina preside, cosa succede? – La Rosencrans si voltò in direzione della porta, e osservò la professoressa Čhecov esordire in scena con un ingresso imprevisto.
- Ero in palestra ad allenarmi, quando ho udito un gran baccano provenire dal piano superiore.– Spiegò l’insegnante di ginnastica. – Come mai le ragazze sono in reggiseno? – Domandò poi, incupendosi in viso.
- Le ho scoperte io. – Asserì Liudmila pavoneggiandosi orgogliosa – Leggendo il diario di Svetlana Yaroslavna ho appreso della loro relazione. -
- Relazione? – Ripeté la Čhecov con una smorfia bigotta.
- Queste debosciate – Intervenne la Rosencrans accanendo il dito contro di noi – hanno inficiato il buon nome del mio istituto, ma quanto è vero Iddio, non lascerò che la loro perversione ricada come un’onta sulla serietà del nostro lavoro. –
La professoressa Čhecov approvò persuasa. Da quel momento sarebbe cominciato l’inferno per entrambe, avremmo pagato amaramente la nostra diversità. E’ forse una colpa essere felici? Se la propria felicità non va a discapito della libertà altrui, che male può esserci nel perseguirla? Non è forse questo il messaggio primordiale della civiltà? Esigo una spiegazione! Voglio conoscere la ragione che fonda il divieto d’amare una persona dello stesso sesso, e pretendo un chiarimento fondato su basi solide e razionali, lungimirante e ineccepibile. Invito chiunque a delucidarmi, ma se nessuno ne sarà capace, allora non mi resta che biasimare e condannare chiunque si opponga alla mia gioia. Cos’è che tanto vi spaventa? E’ forse il sesso? Sì, e proprio il sesso ciò che vi atterrisce. Lo giudicate aberrante e innaturale, vi erigete a esegeti della normalità, quando il concetto stesso di normalità vi è sempre sfuggito. Amate trincerarvi dietro fittizie anomalie genetiche o psichiche, che affermate stare alla base di un problema chiamato omosessualità, e non vi accorgete che la piaga reale consiste nell’intolleranza che scaturisce dal rigetto del diverso.
La Rosencrans si avvicinò alla professoressa Čhecov e Liudmila si unì a loro, quasi volessero marcare un confine invisibile che evidenziasse il loro ripudio più netto. - D’innanzi a un simile scandalo – Arringò la Rosencrans come un giudice che da lettura della sentenza. – sono obbligata ad adottare provvedimenti estremi; la gravità dell’accaduto è tale, che un’adeguata punizione non può prescindere dall’essere spietata. – L’anziana donna si rivolse ad Astrel e le parlò con lo stesso dispregio che si nutre per un omicida. – Le concedo tre giorni di tempo, signorina Lawless, al decorrere dei quali abbandonerà la mia scuola per non mettervi più piede. –
Astrel impallidì in volto - Cosa? Lei non può mandarmi via. – Replicò angosciosa. – Non può farlo! – Protestò ancora, tremendamente disperata. Provai ciò che provò Astrel, le medesime emozioni scandite all’unisono. Quella donna incarnava la strega malefica che giungeva per rovinare la favola, e ero certa che avrebbe scagliato il suo peggior incantesimo per impedire il lieto fine.
- Signorina Rosencrans, la prego! Non può inferocirsi contro Astrel in tale modo. - Dissi con la voce intervallata dai singhiozzi.
- Io posso tutto. – Replicò la donna con un sogghigno spietato.
- Contatterò Londra, e informerò il rettore Stanley dell’increscioso accaduto. Sono fiduciosa che egli comprenda, d’altronde, è mio precipuo dovere tutelare il decoro del Majakovskij. – Nessuno aggiunse nulla. La perentorietà con cui s’era espressa la donna scoraggiò ogni possibile obiezione. La direttrice invitò Liudmila a usciere dalla stanza, poi dispose alla professoressa Čhecov di separarci in camere diverse. - Bene, signorine – Ridacchiò la Čhecov mentre la Rosencrans si ritirava – Mi congratulo per la performance, s’eravate a caccia di notorietà ne avrete in abbondanza non appena la voce si spanderà. – commentò inasprendo le labbra. – Mi segua, Svetlana Yaroslavna , la camera attigua a questa è libera. –
- Non intendo farlo. – Mi rifiutai stizzita, percependo le braccia d’Astrel cingermi con fare protettivo. La Čhecov tumultuò come un cavallo imbizzarrito, avevo osato contrariare l’insegnante più facinorosa del Majakovskij.
- Ho udito un dissenso? – Domandò retoricamente, galoppando le sue duecentoventi libbre nella nostra direzione. Come un tir in corsa si lanciò fra entrambe sradicando il nostro abbraccio, e con energia esplosiva ci spinse in direzioni opposte. Astrel fu balzata indietro e cadde sul letto, il materasso attutì il colpo. Cercai di raggiungerla per stringerla ancora, ma l’insegnante di ginnastica mi trascinò fuori dalla camera e mi spintonò per il corridoio fino a raggiungere l’uscio della stanza successiva. Lì, travagliò un momento per rintracciare la chiave giusta dal suo mazzo personale, e quando la trovò, aprì la porta scaraventandomi all’interno della camera.
- Cerchi di non annoiarsi, Svetlana, potrebbe trascorrere parecchio tempo prima che qualcuno torni ad aprirle. – Incalzò imperterrita sul sottofondo degli scatti alla serratura.
- Non può imprigionarmi qui dentro! – Protestai, lanciando pugni contro il legno massiccio della porta. – Voi non riuscirete a separarci! - Nulla. In mia replica neppure un tenue brusio, la Čhecov era andata via. Rimasi sola, devastata dal ciclone d’eventi che m’ aveva travolto, affannandomi per rabberciare la dinamica dell’accaduto. Com’era riuscita Liudmila ad accedere al mio diario? Quali risvolti avrebbe maturato la nascente storia fra me e Astrel? Non potevo lasciare che fosse il destino a redigere il finale, dovevo impugnarla io la penna del fato. Temevo di non rivedere mai più Astrel, di piombare nuovamente negli abissi infernali della solitudine. Nelle mie vene struggeva la necessita d’evadere da quella camera, sarei saltata giù dalla finestra pur di sfuggire ai confini occludenti delle pareti. Forse… era proprio la finestra l’unico canale di fuga. Mi avvicinai all’imposta, e l’aprii mentre i miei battiti acceleravano. Un brivido gelido mi ricordò che indossavo soltanto un jeans e un reggiseno, ma il freddo si collocava in coda ai miei problemi, l’impellenza consisteva nell’ architettare un metodo adeguato che mi evitasse lo sfracello sul selciato sottostante. Mi balenò in mente l’espediente del lenzuolo, stereotipato e collaudato da parecchie pellicole cinematografiche, ma io non possedevo una bastevole quantità di stoffa, né avevo dimestichezza con i nodi. Potevo scendere giù barcamenandomi fra i tasselli che fissavano al muro il tubo pluviale, ma anche quella era una sciocchezza da film. Compresi che calarmi fin sotto non era l’unica soluzione, avrei potuto percorrere il sottile cornicione che sporgeva di venti centimetri sotto al davanzale. Sì, mi sarei spostata con cautela fino a raggiungere la finestra della camera adiacente, ritornando così dalla mia Astrel. Mi occorse parecchia tenacia per scavalcare il davanzale e affidarmi alla precarietà di una minuta lastra in cemento; se il suo impiego era di tipo architettonico, nulla garantiva che avrebbe retto il mio peso. Quando vi poggiai entrambi i piedi fui assalita dalle vertigini, sapevo, come chiunque, che per combatterle non avrei dovuto cacciare l’occhio verso il basso, ma ero costretta a vigilare sui miei passi titubanti. Non mi resi conto del gesto azzardato che stavo compiendo prima di giungere a metà percorso, solo in quel frangente la consapevolezza di stare in precario equilibrio su un cornicione scricchiolante, seminuda, e in balia del vento, mi piombò addosso atterrendomi. Con audacia repressi ogni perplessità, finsi di non sentire il gelo penetrarmi nelle ossa e continuai a spostarmi moderatamente. Giunsi alla finestra di Astrel e con una mossa arrischiata cambiai posizione, adesso non rivolgevo più le spalle alla facciata dell’istituto bensì il volto. Attraverso la condensa sul vetro scorsi una sagoma sfumata, era la mia Astrel! Una gioia immensa mi pervase, quasi dimenticai di aver rischiato l’assideramento e lo sfracello al suolo. Eccitata picchiettai le unghie sul cristallo per sollecitare la sua attenzione, e quando lei spalancò i vetri incredula, io mi avvinghiai al suo collo e mi sfogai in un riso liberatorio.
- Svetlana! Come, da dove? – Negli occhi d’Astrel lo smarrimento era commisto alla felicità. – Che cosa ci fai qui fuori? – Mi domandò, aiutandomi a valicare l’insolito ingresso.
- Sto congelando. – lamentai raggomitolandomi per terra – non sento più le guance e non riesco a muovere le braccia. – Astrel si chinò accanto a me e con fare materno mi avvolse fra le piume di una trapunta.
- hai camminato sul cornicione? – Mi domando, certa che fosse l’unica spiegazione ammissibile.
- Sì. - Confermai fra un tremito di ghiaccio e l’altro.
- Ma potevi cascare di sotto! – Mi rimbrottò continuando a vestire i panni di una madre premurosa.
- Sono consapevole del rischio che ho corso. Volevo tornare da te, temevo che non ti avrei più rivista. – Astrel si angustiò e teneramente mi sfiorò i capelli.
- Adesso che cosa accadrà? Non voglio perderti Svetlana, sei ciò che di più bello mi sia mai capitato. –
- Non mi perderai. – La rinfrancai, conducendola sotto la coperta per nutrirmi del suo calore. Astrel poggiò il capo sulla mia spalla. Pacatamente sorrisi distendendo le labbra, al mondo non ero più sola. - Verrò a Londra con te, Astrel, in questo modo non dovremmo separarci. – Astrel sollevò la testa dalla mia spalla per osservarmi in volto.
- Io non intendo tornare a Londra. – dichiarò categorica – non da una famiglia che mi ha rinnegato. – Aggiunse amaramente.
- Non puoi restare al Majakovskij, conosco la Rosencrans, se ha optato per la tua espulsione, nulla potrà farle cambiare parere. –
Astrel tornò in piedi e mi porse una mano, quando la raggiunsi lei mi avvicinò a sé e mi fisso con intimità.
- Tu mi ami, Svetlana? – Mi domando, fremendo la mia risposta.
- Sì, io ti amo Astrel. Ci siamo dichiarate amore oggi pomeriggio, e i miei sentimenti nei tuoi riguardi non fanno che ardere sempre più fulgidi. – Lei mi coinvolse in un bacio passionale, poi parlò pacata a un pelo dalla mia bocca.
- Il nostro posto è insieme. Prima d’incontrarti, trascorrevo le giornate a peregrinare fra le strade della mia città, salivo sulla metro e giungevo al capolinea per poi tornare indietro e di nuovo avanti. Non riuscivo ad ammetterlo a me stessa, ma nel profondo desideravo soltanto farla finita. Tu hai rinvigorito la mia anima, l’hai nutrita e sfamata. So che ci conosciamo da poco più di una settimana, ma il mio cuore indica te come spirito affine. - Mi commossi come una fanciulla, piansi a lungo e senza freni. Per la prima volta le lacrime non seppero d’amaro, ma di nettare delizioso.
- Cosa dobbiamo fare, Astrel? – Le domandai, fiduciosa di costruire insieme a lei la risposta – Al Majakovskij non puoi restare, e se tornassi in Inghilterra, per me sarebbe complicato seguirti. – La conclusione si dipanò limpida e necessaria, entrambe pervenimmo alla medesima idea.
- Fuggiamo! – Esclamò Astrel. Io tacqui.
- Sì, fuggiamo. – Replicai probante, convinta come lo era Astrel, che altrimenti non si potesse fare.