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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

E SULLA SERIE INTERNET "XENA WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON"

DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E TNOVAN

 

Nonostante sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA,  questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia, il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni) e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati, ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda.

Dei due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..." riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al termine di quella storia.

La scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet della serie televisiva, scritto da Melissa Good.

Capitolo VI - parte prima

Parte seconda

(33) Jennifer e Sutherland

 

"Jennifer?"

Era bastato il suono del suo nome pronunciato da quella voce pacata, profonda e un po' arrotondato sulla consonante finale, perché d'improvviso interi mesi venissero cancellati come se non fossero mai esistiti e lei si ritrovasse proiettata all'indietro nel tempo in un periodo della sua vita, che solo di recente aveva cominciato a pensare di poter se non dimenticare, almeno riporre in un angolo in ombra, e che invece, grazie al potere evocativo di una voce che dentro di sé aveva sperato di non udire mai più, era tornato a colpirla con la violenza di uno schiaffo a mano aperta.

Per un momento, ma un momento lunghissimo, le era parso che in realtà quella di essersi finalmente liberata dalla coltre di depressione che le era gravata addosso per tutto quel tempo fosse solo un'illusione. Poi Jennifer aveva stretto i denti e il minuscolo cellulare tra le dita, fin quasi a rischiare di spaccarlo e la parete grigia che aveva rivisto profilarsi nuovamente davanti ai suoi occhi, si era dissipata permettendole di registrare nella sua mente lo splendido sole che filtrava dalle finestre del suo appartamento in quella mattina di tardo autunno. E il mondo aveva ripreso parzialmente la sua prospettiva.

"Professor Sutherland." dice semplicemente, cercando di evitare che il tremito che ancora avverte nella gola arrivi all'orecchio dell'altro.

"Come sta? E' tanto tempo che non ci sentiamo."

Il solito Sutherland. Gentile, premuroso. A Jennifer sembra quasi di vederlo, come in quel pomeriggio in cui lei gli aveva presentato Joyce, e lui si era chinato a sfiorarle la mano con le labbra. Il viso della ragazza si era colorito di un tenue rossore, mentre osservava, sorpresa e un po' intimidita, quell'anziano signore che s'inchinava davanti a lei come un perfetto gentiluomo del primo novecento.

Oh, Joyce.

"Mi spiace, professore." dice, mantenendo con sforzo il controllo della sua voce. "Avrei dovuto farmi viva, ma è stato un periodaccio."

"Sì, lo immagino, lo è stato anche per me." si affretta a rassicurarla Sutherland. "Mi creda, mi ero davvero affezionato a quella cara ragazza..."

No, per favore, no.

"Professore, non vorrei apparirle sgarbata, ma non mi sento molto bene." l'interrompe velocemente, prima che la conversazione devii verso toni che non si sente pronta ad affrontare. Non in quel momento. "E stato gentile a chiamarmi, e la ringrazio molto per la sua sollecitudine. In questi giorni sto cercando di riprendere un po' i contatti con il mondo, ma..."

"No." L'espressione della voce dell'anziano docente muta sensibilmente e Jennifer resta un attimo interdetta, interrompendo a sua volta il discorso che si era preparata sul momento. "Mi fa piacere sentire che sta cercando di riprendere in mano la sua vita, ma non è solo per questo che l'ho chiamata."

Le pause nelle telefonate del professore, come nelle sue lezioni, erano una sua caratteristica. Una caratteristica irritante oltre ogni dire che Jennifer ricordava bene, ma che adesso nel suo presente stato d'animo diventava quasi insopportabile e la donna deve fare appello a tutte le sue energie nervose per non sbottare. 

"E' venuto a trovarmi un giornalista." dice infine Sutherland dopo qualche altro interminabile secondo di attesa. "E' uno dell'Inside View, si chiama..."

"Brian Croft!" conclude Jennifer per lui.

"Lo conosce?" Il professore non riesce a dissimulare una leggera sorpresa, subito venata di indignazione. "E' già venuto ad importunarla? Mi aveva detto di aver fatto indagini in giro, ma non immaginavo..."

"Oh, niente d'importante. Non si preoccupi, professore. A dire il vero è una cosa che risale a qualche giorno fa. L'avevo quasi dimenticata." minimizza Jennifer. Al momento non le sembra il caso di dedicare più pensieri del dovuto all'invadente signor Croft, tuttavia le viene spontanea una domanda. "Che cosa voleva da lei?"

"Beh, all'inizio mi ha avvicinato con un'inverosimile storia su una serie di articoli sugli antichi miti greci..." comincia Sutherland, e immediatamente un campanello d'allarme risuona nella mente di Jennifer.

"I miti greci?" chiede. "Le ha chiesto di Xena?"

"Sì." conferma la voce dall'altra parte. "E devo ammettere che questo mi ha spiazzato un po'. Quando mi ha detto chi era ho immaginato subito che volesse parlarmi della morte di Cheryl Cooper."

"Perchè avrebbe dovuto? Non mi pare che lei sia mai stato coinvolto nell'inchiesta." dice Jennifer.

Sempre che la si potesse definire tale. Per essere la donna in vista che era, Cheryl Cooper era morta in maniera estremamente silenziosa. Perfino il suo stesso giornale, dopo aver strombazzato per un paio di numeri, o tre, titoloni in copertina, si era affrettato a tornare al tipo di articoli che gli si confacevano di più, quelli sugli avvistamenti di UFO o sui più sanguinosi drammi coniugali. Jennifer sospettava fortemente che dietro questa improvvisa virata, ci fosse la longa manus di Ballister. Quando si trattava di mettere a tacere un possibile scandalo, l'ufficio della procura diventava d'improvviso efficientissimo (e non c'era dubbio che il ritrovamento del corpo di una delle maggiori reporter locali crivellato di proiettili dello stesso calibro delle armi in dotazione alla polizia, potesse essere molto più che una potenziale fonte di scandalo) e nessuna redazione desiderava mettersi in urto con la procura, se voleva continuare a lavorare in quella città. Alla fine tutto si era chiuso con la solita immarcescibile formula, buona per tutti gli usi: omicidio ad opera di ignoti.

"In fondo mi aspettavo che la Cooper avesse qualcosa con il mio nome sopra tra i suoi dossier." dice Sutherland. "Quella donna era in gamba e non ho mai creduto che tutte le nostre manovre l'abbiano ingannata davvero. Ma non mi aspettavo che potesse aver scoperto qualcosa su Xena."

"Professore, ma in fondo era lei che..."

"Sì, noi lo sappiamo. Ma lei, no. Lei non poteva saperlo. Il suo subconscio doveva aver completamente rimosso l'altra sua personalità. E senza questa consapevolezza come poteva collegare l'Amazzone con Xena?"

Jennifer non risponde. Suppone che la domanda del professore sia puramente accademica. E comunque c'è qualcosa di più urgente da assodare.

"E lei che cosa gli ha detto?"

"Sostanzialmente nulla. Gli ho riempito la testa con un mucchio di chiacchiere a base di eroiche imprese, sortilegi ed anime gemelle, fino al punto che quel poveretto non vedeva l'ora di scaricarmi."

Jennifer emette una risatina. Il verso le è uscito di bocca quasi senza che se ne rendesse conto e quel suono, ormai alieno sulle sue labbra, la riempie di meraviglia. Allora ne sono ancora capace, pensa sorpresa. E' incredibile.

"E' piacevole sentirla ridere di nuovo." dice la voce del professore. E a Jennifer pare quasi di vederlo sorridere. "Comunque mi sono tenuto molto sulle mie e alla fine, mi sento di poter dire che il signor Croft se ne sia andato ampiamente insoddisfatto del nostro colloquio."

"Le ha dato l'impressione di voler tornare a parlarle?"

"Oh, no. Decisamente no, direi." ridacchia Sutherland a sua volta. "Ma ho idea che sia un tipo piuttosto tenace e non scommetterei che non possa tornare alla carica prima o poi, magari con lei."

"D'accordo, professore. Starò in guardia. La ringrazio di avermi avvisata."

"Di niente. E' stato davvero un piacere risentirla, Jennifer. Se vuole, quando si sentirà meglio, potrei venire a trovarla."

Jennifer riflette un attimo sulle parole di Sutherland. Il professore non ha neanche provato a proporle di andare da lui. Sa bene che rivedere quella casa e quel giardino è l'ultima cosa che potrebbe desiderare nella vita. Quel prato su cui in qualche punto forse sono ancora visibili tracce brunastre del sangue di Joyce...

Piantala con le morbosità! Quando la supererai?!

La voce nella sua testa, questa volta ha urlato con tutta la forza che può avere una voce nella testa, e Jennifer si scuote.

"Ancora grazie. Ne riparleremo." dice semplicemente interrompendo, forse un po' bruscamente, la comunicazione.

Non finisce mai, pensa, posando il cellulare sul tavolino accanto a sé. Come le onde sulla spiaggia. Si allontana e poi ritorna, incessantemente.

La sera prima, immergendosi negli incartamenti, che le aveva lasciato Carruthers si era davvero illusa che il peggio fosse passato. Che quello stato depressivo fosse ormai alle spalle, ma era bastata una telefonata, una voce dal passato, ed ecco che tutto sembrava esserle caduto di nuovo addosso.

No, non è proprio così, si dice però, mentre l'occhio le scivola sulla cartelletta di Carruthers ancora sul pavimento, nel punto esatto in cui l'ha abbandonata prima di addormentarsi. Roma non è stata fatta in un giorno. Non posso sperare che mesi di buio si trasformino in un attimo in un sole luminoso. Ho riso. Sono tornata a ridere dopo non so neanch'io quanto. E' importante. E' un passo. Sta a me adesso, impedirmi di tornare indietro e proseguire invece per questa strada. E per farlo ho bisogno anche di te.

E allunga la mano verso la cartelletta ai suoi piedi.

 

 

(34) Croft

 

"Mamma, non posso credere che tu l'abbia davvero fatto!" sibila a bassa voce nell'orecchio di sua madre, Hermia Colbert.

"Invece sì!" urla quasi Evelyn Colbert, assai meno preoccupata della figlia evidentemente di essere sentita. L'ampio sorriso che ha trovato posto sul suo viso non sembra destinato a spegnersi più.

"Te l'avevo detto che mi avrebbero creduta... loro."

Hermia lancia un'occhiataccia a Brian che è salito e adesso è fermo sul vano della porta.

"Già... Come ho potuto dubitarne?" mormora.

"Signorina Colbert" comincia a dire il giornalista "so che il mio giornale non gode di una grande reputazione per i casi di cui si occupa, ma..."

"Signor... Croft." l'interrompe senza tanti complimenti la donna, enfatizzando la pausa prima del suo nome e fissandolo con occhi di ghiaccio. "A me non interessa affatto il genere di casi di cui si occupa il suo giornale, ma non ricordo di averla invitata ad entrare."

"Beh, l'ha fatto sua madre ed è lei quella che ha richiesto il nostro intervento." risponde Brian, fissandola freddamente a sua volta, e ignorando di proposito il sarcasmo nelle sue parole.

"Sì, infatti." s'intromette in quel gelido confronto la vecchia signora. "L'ho chiamato io e voglio parlargli."

"Mamma, ti prego."

"Hermia, smettila di trattarmi come una demente." Evelyn Colbert batte con forza il palmo della mano sul bracciolo della poltrona su cui la figlia l'ha messa a sedere. "Sono vecchia, ma non sono rimbambita come credi. Aspetta a vedrai come sarai tu alla mia età. Mia figlia mi tratta come un'invalida, signor Croft." aggiunge rivolta a Brian. "Si figuri che m'impedisce anche di fumare. E' una crudeltà. Ormai mi sono rimasti così pochi piaceri nella vita."

Con un sospiro di esasperazione, Hermia si dirige con passo deciso verso Brian che è rimasto immobile nella sua posizione, un passo fuori dalla stanza.

"D'accordo. Lei aspetti lì. Devo parlare con mia madre. Privatamente, se permette." E la donna gli richiude la porta in faccia.

Rimasto solo sul pianerottolo, Brian si guarda intorno distrattamente, mentre cerca di percepire qualche parola oltre la spessa porta in legno di quercia, ma senza alcun successo. Nel tentativo di avvicinare il più possibile l'orecchio alla fessura tra lo stipite e la porta stessa, sposta un grosso attaccapanni, appoggiato su un lato di questa, ma con l'unico risultato di provocare una caduta in massa di soprabiti ed un grande cappello a falde larghe, appesi precariamente alle lunghe braccia. Con un balzo, l'uomo fa appena in tempo ad afferrare il pesante arredo, prima che crolli rovinosamente al suolo, rimettendo velocemente al loro posto alla meglio gli indumenti, un istante prima che la porta della stanza si riapra e Hermia Colbert ne esca. Senza una parola, la donna richiude la porta alle sue spalle e lo prende per un braccio, allontanandosi di qualche passo.

"Mi ascolti bene." sussurra. "Mia madre è vecchia e malata e, anche se mi piange il cuore a doverlo ammettere, credo che la malattia stia ormai avendo ragione della sua mente."

"A me sembra piuttosto lucida." ribatte Brian, senza spostare gli occhi da quelli dell'altra.

"Non faccia il furbo con me, signor Croft!" scatta Hermia, mantenendo il tono della voce ad un livello inudibile a due passi di distanza da loro, e riuscendo ugualmente a conservare il tono imperioso. "Conosco i metodi di gente come lei. Purtroppo, anche se ho cercato di impedirglielo con tutte le mie forze, mia madre legge da anni il suo fogliaccio e nel suo stato certo non le giova. Quindi, adesso la farò entrare e lascerò che le racconti la sua storia. Dopodiché lei se ne andrà da questa casa e dimenticherà perfino la nostra esistenza. E se troverò scritta una sola parola di quanto è successo oggi qui, le garantisco che farò perseguire il suo giornale dai migliori avvocati e chiederò risarcimenti colossali, nonché il suo immediato licenziamento. Sono stata chiara?"

"Ma se la pensa così, perché mi permette di parlarle?"

Sotto lo sguardo inquisitore della Colbert figlia, il reporter cerca di darsi un contegno, ma sempre più a fatica.

"Perché la mamma è già abbastanza agitata e non voglio che le prenda una crisi. Ma ricordi molto bene quello che le ho detto. E se si illude che non ne sia capace, si informi su di me e la mia famiglia."

E senza dire altro, Hermia Colbert riapre la porta della stanza di sua madre ed entra, seguita con passo esitante da Brian.

 

Appena la porta della stanza di Evelyn Colbert si chiude alle sue spalle, Brian resta per un attimo immobile, mentre il suo naso e la sua gola si richiudono velocemente ma non abbastanza in fretta davanti alla miscellanea di odori pestilenziali che lo aggrediscono. Medicinali, afflati di cibo maldigerito, tappezzeria ammuffita per l'umidità ai bordi delle pareti ed altri indescrivibili olezzi sulla cui natura preferisce non soffermarsi a riflettere, il tutto unito ad un caldo soffocante che gli cala improvvisamente addosso come un mantello rendendogli istantaneamente insopportabile anche solo l'idea di trattenersi in quel posto per più di qualche secondo. Il suo stomaco gli rimanda sulla lingua un preoccupante rigurgito acido, costringendolo a fare un enorme sforzo per soffocare il conato che sta per travolgerlo.

Evelyn Colbert, dalla poltrona sulla quale è seduta e che dà l'impressione di avere altrettanti anni, ricoperta da una fodera all'uncinetto il cui originale colore è ormai un lontano ricordo, dà un'occhiata a Brian, mentre trova una posizione più confortevole e sua figlia le sprimaccia un cuscino dietro la testa.

"Che c'è, giovanotto?" chiede. "E' diventato pallidissimo."

Hermia Colbert fa un sorrisetto, senza neanche alzare lo sguardo.

"Non è nulla, signora. Non si preoccupi." risponde a fatica Brian, ingoiando stoicamente la saliva acida che gli ha invaso la bocca.

"E' sicuro?" insiste premurosamente la vecchia, fissandolo adesso con maggiore attenzione, gli occhi enormi dietro le pesanti lenti.

"Forse il signor Croft gradirebbe qualcosa, mamma. Magari un dolcetto e un liquorino?" dice Hermia, continuando meccanicamente a sistemarla il più comodamente possibile sulla poltrona. Il viso è sempre abbassato e Brian non può esserne sicuro, ma scommetterebbe che il sorriso maligno su quelle labbra appena accennate sia ancora lì. La sola menzione di cibo in quella stanza, con il miscuglio di odori che ha preso pieno possesso delle sue narici, minaccia di far crollare le fragili difese che è riuscito senza preavviso e in così poco tempo ad allestire, e deglutendo per tre o quattro volte consecutive, l'uomo si avvicina con aria casuale alla finestra semiaperta alla sua destra, col pretesto di dare uno sguardo all'esterno, approfittandone per inspirare il più possibile il debole refolo di aria fresca che proviene dalla fessura.

"No. No, grazie." risponde con forse troppa fretta. "Sto benissimo. Davvero."

La finestra dà su un cortiletto interno dove alcuni ragazzi con guantoni e mazze giocano un'improvvisata partita di baseball lanciando strepiti ed urla. D'un tratto da dietro di lui, due braccia robuste chiudono con uno scatto secco il vetro, privando Brian anche di quel minimo conforto.

"Ragazzacci! Avrò detto diecimila volte ai loro genitori di mandarli a giocare altrove. Ma figuriamoci se se ne preoccupano." sbotta Hermia, tornando verso la madre e riposizionandosi dietro la sua poltrona con aria protettiva. "Ma cambieranno idea quando mi rivolgerò al capo della polizia."

"Hermia, preparaci un tè, cara, con quel nuovo infuso che hai trovato al supermercato." chiede Evelyn, volgendo quasi distrattamente la testa verso la figlia. Poi torna a fissare Brian avidamente. "Vedrà. E' buonissimo."

"No, davvero, signora." si schermisce il giornalista." Non ho bisogno di nulla."

Hermia, che stava per muoversi sia pur molto malvolentieri, ritorna senza farselo ripetere alla sua posizione da cane da guardia.

"Signora Colbert, non voglio disturbarla più del necessario." dice Brian, restando in piedi immobile ad una distanza strategica dalla poltrona della vecchia, la cui zona ha ormai individuato come l'origine dei peggiori odori nella stanza. "Mi dica soltanto la ragione per cui si è rivolta a noi e poi me ne andrò subito."

"Certo, certo, giovanotto. Ma non se ne stia lì in piedi. Si accomodi." dice la vecchia signora indicando un'altra poltrona accanto alla sua.

Cautamente, con il sudore che comincia a colargli copiosamente dalla fronte, Brian si avvicina e si siede appena sull'orlo della poltrona indicata, cercando di mantenere un precario equilibrio e al tempo stesso una ragionevole distanza dallo schienale che ad una rapida, rapidissima occhiata gli è apparso pieno di peli grigi di origine non identificabile, oltre che a sua volta focolaio di altri inenarrabili effluvi.

"Quella era la poltrona preferita di Generale." Evelyn Colbert sorride allo sguardo perplesso di Brian. "Il gatto di mio marito. Se ne stava a sedere su quella poltrona, mio marito intendo, con la bestiola sulle ginocchia, e facevamo lunghe conversazioni. Quando il mio povero Christopher se n'è andato, Generale ha continuato a lisciarsi il pelo e a dormire lì sopra fino al suo ultimo giorno di vita. Gli animali sono così umani, alle volte. Non trova?"

Brian ritiene e spera che un leggero sorriso possa costituire una risposta sufficiente.

"Da allora non l'abbiamo più toccata. Ormai è una specie di reliquia." prosegue la Colbert.

"Oh, ma allora..." fa Brian, alzandosi.

"Oh no, non si preoccupi." La vecchia lo afferra per il braccio, costringendolo con gentile fermezza a rimettersi a sedere. "Sono certa che né Christopher, né Generale si offenderanno."

Ricadendo sulla poltrona, ma ancor più sull'orlo di prima, con un sospiro di rassegnazione, Brian decide comunque che è l'ora di prendere il toro per le corna, prima che la sua anziana interlocutrice s'inoltri troppo sui sentieri della memoria.

"Sì, ehm, bene, signora, adesso se volesse..."

"Oh, ma certo, certo. Di cosa parlavamo? Oh sì. Deve sapere, giovanotto, che io sono una grande lettrice del suo giornale. Mi piace moltissimo, anche se mia figlia non condivide la mia opinione."

L'occhio di Brian cade quasi inconsciamente sulla figura immobile come una statua dietro la poltrona della vecchia e il suo sguardo, subito distolto, viene ricambiato da un'espressione di disapprovazione talmente glaciale che d'improvviso la temperatura tropicale della stanza sembra scendere sottozero.

"E' pieno di così tante inchieste affascinanti. Mia figlia dice che sono tutte sciocchezze, ma" e continuando a parlare, la vecchia Colbert si china verso Brian, abbassando lievemente la voce in tono confidenziale "lei non sa le cose che sappiamo noi due, vero?" aggiunge con un ampio sorriso, gettando contemporaneamente sul viso di Brian una fiatata densa di fetore da dentiera mal ripulita e acidosi. "Ci sono più cose tra cielo e terra, Orazio, di quante potrà mai contemplarne la tua filosofìa! Oh, il supremo vate. L'immortale Shakespeare. Io trovo che l'Amleto e il Macbeth siano i suoi due più grandi capolavori. Non crede anche lei?"

"Beh, veramente..."

"Ma non divaghiamo. Il mio Christopher mi diceva sempre che è un mio vizio. Le ho parlato del mio Christopher, vero? E' stato un importante diplomatico, sa? Con lui ho viaggiato negli angoli più sperduti del mondo e ho avuto modo di incontrare i più strani popoli. Sa che in Amazzonia ho assistito perfino alla levitazione di uno sciamano? E' stata una cosa incredibile! Quell'uomo si era sollevato da terra di almeno mezzo metro e non c'erano corde o altri trucchi a sostenerlo! Quindi io credo a tutto quello che scrive il suo giornale, checché ne dica mia figlia. A proposito di Amazzonia, cosa ne è stato di quella terribile donna di cui avevo letto, l'Amazzone? Non si è più saputo niente di lei. E' stata catturata, poi?"

Seppellito dal profluvio di parole di Evelyn Colbert, Brian resta quasi spiazzato per quella domanda improvvisa, per la quale evidentemente la vecchia si aspettava una risposta, puntandogli addosso quegli occhi enormi, facendolo sentire per un attimo paralizzato come un cervo che si trovi d'un tratto nel cono di luce dei fanali di un'auto in mezzo ad una strada.

"Non... non saprei, signora." balbetta quasi.

"Oh, spero proprio che la polizia la prenda, prima o poi. Oggigiorno non si può più camminare tranquilli in questa città."

La Colbert si blocca per qualche secondo, come inseguendo qualche suo pensiero, poi torna a fissare lo sguardo di un azzurro quasi acquoso sul giornalista.

"Ma sto di nuovo divagando. Lei voleva sapere del mio sogno, vero?"

Brian fissa a sua volta interdetto l'anziana donna.

"Sogno? Ma... ma nella sua lettera diceva di sapere qualcosa sulla scomparsa di quei bambini."

"Ed è così infatti." mormora con aria cospiratoria la signora Colbert avvicinandosi ancora di più al giornalista e gratificandolo di una nuova potente zaffata. "E' così. Il sogno mi ha rivelato tutto."

Cercando di mantenere una distanza di cortesia sufficiente a non apparire sgarbato e al tempo stesso che gli eviti di vomitare lì, davanti alle due donne, Brian prova ad estraniarsi dalle sensazioni olfattive che il suo naso gli rimanda e concentrarsi sulle parole della Colbert.

"Il sogno le ha rivelato tutto, eh?" ripete meccanicamente.

Ancora una volta, lo sguardo di Brian, come per volontà indipendente dalla sua, corre al viso di Hermia Colbert, che non si è spostata di un passo dalla sua posizione, ma che ora sembra avere abbandonato la sua aria di gelida indifferenza per un'espressione a metà tra l'ironia e il compatimento.

Cosa ti avevo detto? Che ti aspettavi, idiota? sembra dirgli con lo sguardo.

"Proprio così." conferma la vecchia protendendosi ancora di più verso di lui, fino a che le sue labbra sono così vicine a quelle di Brian che potrebbe baciarlo, e alla sola idea la gola dell'uomo si chiude, respingendo eroicamente una nuova minaccia di conato. "L'ho fatto la notte stessa dopo aver letto della scomparsa del secondo bambino. E' vero, Hermia?" chiede improvvisamente alla figlia voltando la testa verso di lei e dando a Brian un attimo di respiro.

"Che vuoi che ne sappia, mamma?" ribatte la Colbert figlia, evidentemente infastidita di essere stata chiamata in causa in quella conversazione delirante. "Mi racconti sempre un sacco di sogni."

"E tu non ascolti mai niente di quello che ti dico. Ormai sono solo una vecchia ciabatta per te, lo so, e non vedi l'ora che io muoia."

Il tono querulo e petulante di Evelyn Colbert ha assunto una nota di sottofondo pericolosamente piagnucolante, e Brian, già abbastanza occupato ad evitare da una parte lo schienale sudicio della poltrona e dall'altra l'alito fetido della vecchia, si augura che gli venga almeno risparmiato lo spettacolo di vederla scoppiare a piangere. Ma Hermia, evidentemente abituata a questi atteggiamenti, getta gli occhi al cielo, con un moto di esasperazione.

"Oh, per l'amor del cielo, mamma! Racconta quello che devi e facciamola finita!"

Con suo grande sollievo, Brian nota che non c'è traccia di lacrime negli occhi della vecchia che scrutano con sguardo severo la figlia alle sue spalle per poi tornare su di lui.

"Benissimo. Se la cosa ti annoia tanto, mia cara, puoi anche andartene. A me basta questo simpatico giovanotto qui. Non abbiamo bisogno di te."

Hermia non si dà nemmeno la pena di risponderle, e senza spostarsi di un millimetro, con un sospiro rassegnato, incrocia le braccia sul petto. Brian capisce dalla sua espressione che questo battibecco tra madre e figlia deve essere normale routine e si dispone a riportare la vecchia Colbert al soggetto principale di quell'interminabile colloquio. Ma non ne ha bisogno, perché senza invito, l'anziana donna riprende il suo racconto.

"Dunque, cosa dicevo? Ah, sì. Avevo letto la sera prima del bambino rapito e quella stessa notte ho fatto un sogno... un sogno molto strano. Sentivo da qualche parte il pianto di un bambino piccolo... un neonato. Intorno a me era tutto buio e non sapevo dove mi trovassi... poi è apparsa una luce... o meglio, non era proprio una luce... era solo un punto in cui si distingueva qualcosa... allora io mi sono messa a camminare in quella direzione... e questo è già strano, perché non avevo bastone e mi muovevo benissimo... Oh, è stata un'esperienza incredibile... riuscire a camminare bene di nuovo..."

E qui, gli occhi della donna si riempiono davvero di lacrime, mentre un sorriso estatico le aleggia per un attimo sul volto, prima che si riprenda e prosegua.

"Beh, dicevo, camminavo verso la luce... che non era una vera luce..."

"Mamma, l'hai già detto."

"Vuoi stare zitta, tu?! Non m'interrompere mentre parlo, che poi perdo il filo..." sbotta irritata Evelyn Colbert, senza neanche guardare la figlia, ma cercando di tornare a concentrarsi sul suo ricordo. "Dunque... la luce, sì... e poi capisco da dove viene... è la luce della luna... una grande, immensa luna come non ne ho mai viste prima... ma sotto i miei piedi sento cose che si frantumano come pezzetti di legno secco... guardo giù e a quella luce vedo tante ossa... crani, costole, piccole mani e piedi... e all'improvviso ho paura... perchè sento che qualcosa o qualcuno mi sta osservando..."

La voce della vecchia è scesa ad un tono appena udibile dalla distanza a cui Brian sta tentando di tenerla, ma deve ammettere suo malgrado che il racconto sta assumendo connotati inquietanti e al tempo stesso affascinanti. Perfino sua figlia ha smesso la sua posa rigida e si è appoggiata alla poltrona della madre per ascoltare meglio. In questo momento Evelyn Colbert sembra una di quelle nonne nelle illustrazioni dei libri di fiabe, sedute sulla sedia a dondolo, accanto ad un caminetto acceso, con una schiera di nipotini intorno.

"E poi è di nuovo tutto buio" prosegue sussurrando "e c'è un odore orribile e un ancor più orribile rumore di mascelle che masticano... mentre il pianto del bambino non si sente più..." La donna smette di parlare e si appoggia con fare soddisfatto alla sua poltrona. "Che ne dice, giovanotto?"

"Mamma, questo non me lo avevi mai raccontato."

Hermia Colbert è ancora appoggiata con la mano dietro la poltrona della madre e la sta fissando con aria preoccupata ed ansiosa adesso, ogni traccia dell'infastidita indifferenza precedente, scomparsa.

"Oh, sì, invece." risponde la vecchia, con un sorriso, evidentemente compiaciuta di essere riuscita ad attirare la sua attenzione. "Ma tu non mi ascolti mai." Poi, il suo sguardo torna sul giornalista. "Insomma, cosa ne pensa?"

Brian si scuote dal quasi stato ipnotico in cui il racconto del sogno l'ha messo.

"Beh, ehm, sì, è interessante, l'ammetto... ma è un po' poco..." dice.

"Un po' poco?" La Colbert lo guarda stupita. "Non le pare abbastanza? Quello era un sogno rivelatore. Ne sono sicura. Fin da ragazza i miei spiriti guida comunicavano con me attraverso i sogni. Grazie a loro ho ritrovato un prezioso gioiello che mia madre aveva perso da anni. E questa volta mi hanno mostrato la tana del mostro."

"La tana del mostro?"

"Ma certo, giovanotto!" La vecchia appare quasi scandalizzata dalla sua lentezza nell'afferrare il concetto. "Dovete cercare una caverna, o forse una fossa... sì... si, una fossa!" esclama improvvisamente  eccitata. "Quando sono uscita alla luce della luna, è stato come emergere da sottoterra. Quella era l'entrata del suo nascondiglio. E le ossa che calpestavo non possono essere che quelle di quei poveri bambini che il mostro ha divorato. Lui è davvero un orco, proprio come scrive il suo giornale."

"Beh, signora Colbert..." Brian si muove a disagio sul suo scampolo di poltrona, senza sapere cosa dire per non offendere l'anziana donna che continua a guardarlo speranzosa. "Io la ringrazio della sua... testimonianza, ma non so se... potremo ricavarne un articolo. In fondo è stato solo un sogno."

L'espressione di Evelyn Colbert ha perso ora ogni traccia di sollecita gentilezza e dietro le lenti i suoi occhi lo stanno fissando con uno sguardo freddo e a tempo stesso di rabbia frustrata, che la fanno improvvisamente assomigliare ad una versione più consunta e sbiadita di sua figlia.

"Lei crede che io sia una vecchia pazza, vero?" mormora con un tono di voce basso, ma pericolosamente prossimo ad esplodere. "Una vecchia buona a nulla che delira dietro la sua immaginazione malata."

"Signora, io non mi permetterei mai..." prova a dire l'uomo, appoggiandosi senza pensare allo schienale della propria poltrona e poi schizzando subito in piedi e allontanandosi di un paio di passi.

"Mamma, calmati." interviene prontamente Hermia, afferrando la madre che stava per alzarsi impugnando il bastone. "E lei, vuole andarsene, maledizione?" impreca contro Brian, cercando a fatica di trattenere la vecchia che adesso pare una furia incontrollabile, e che non ha più nulla della dolce nonnina di poco prima.

"Un sogno, eh?" sbraita Evelyn Colbert agitando il bastone verso di lui, lottando vanamente contro le braccia della figlia che la tengono inchiodata alla poltrona. "Solo un sogno?!? E i rumori? E quel puzzo intollerabile? Come crede che abbia potuto immaginarlo?"

E proprio in quel momento, Brian sente distintamente un suono acuto e prolungato, la cui origine pare trovarsi in un punto imprecisato dietro la vecchia, e improvvisamente gli afrori che permeano la stanza sembrano acquistare una nuova decisa e indiscutibile fragranza che quasi causa anche la capitolazione di Hermia Colbert che d'istinto getta indietro il viso pur mantenendo in qualche modo la presa ferrea sulle spalle della madre.

Ingoiando disperatamente un nuovo conato che rischia di soffocarlo, Brian con un ultimo sforzo si avvicina rapidamente alla porta.

"Beh, davvero" balbetta spingendo la maniglia convulsamente "non posso darle una risposta adesso. Riferirò, e se la direzione del giornale riterrà la sua storia... interessante le faremo sapere. Non disturbatevi ad accompagnarmi. Conosco la strada." aggiunge in tutta fretta, uscendo rapidamente dalla stanza senza voltarsi indietro.

 





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