torna all'home page


"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo VI)

Parte 1

(35) Xena

 

Muovendosi con la straordinaria abilità acquisita in anni di esperienza, la Principessa Guerriera corre velocemente e nel massimo silenzio tra la fitta vegetazione, seguendo l'ideale pista che ha fissato nella sua memoria meno di due giorni prima, quando lei e Olimpia si sono viste costrette a fuggire nella foresta. In realtà parte del tragitto lo avevano compiuto prive di coscienza, presumibilmente trasportate di peso da Alexi, ma il ragazzo non era certo un uomo dei boschi e ritrovare le tracce che si era lasciato dietro (erba e foglie calpestate, piccoli rami spezzati) non era stato un problema per lei.

Ma i suoi occhi ed ancor più il suo olfatto, abituati a rilevare anche il minimo sentore di qualcosa fuori posto avevano individuato anche qualcosa d'altro. Qualcosa che adesso non aveva il tempo di approfondire, ma che l'aveva sottilmente inquietata. Qualunque cosa si fosse avvicinata alla casa quella mattina, causando quegli effetti strabilianti che si erano conclusi con la morte del vecchio Aristis, non se era andata senza lasciare tracce di sé. Rami robusti rotti o piegati ad altezze che neanche la testa di Alexi, se si fosse messo sulla punta dei piedi, avrebbe potuto anche solo lontanamente sfiorare. Cespugli letteralmente abbattuti, come se vi fosse passato attraverso un cinghiale furioso e gigantesco. Corteccia staccata dagli alberi come sotto l'azione di artigli lunghi ed affilati che li avessero percossi in un'esplosione di rabbia incontrollata. E l'odore, quello strano miscuglio di selvatico e di qualcos'altro, qualcosa di rancido e putrescente che aveva già sentito in quella radura, mentre attendevano che il misterioso abitante della foresta che si muoveva tra gli alberi emergesse davanti ai loro occhi. Cosa che non era avvenuta, a causa di Alexi. O forse, avrebbe dovuto dire, grazie ad Alexi. Perché adesso cominciava a pensare che qualunque cosa fosse emersa dagli alberi, loro non erano ancora pronte ad affrontarla. E questa era una cosa su cui invece era decisamente meglio essere molto bene informati, prima di poter anche solo pensare di incontrarla.

Lei si era comportata in modo abbastanza brusco con il giovane (beh, forse più per come guardava Olimpia che per altro), ma riflettendoci sopra con calma si stava facendo l'opinione che forse era stata ingiusta verso di lui. Crescere sotto la guida di un uomo come Aristis non doveva essere stato facile. Era quasi naturale che un ego in formazione ed ancora molto insicuro come poteva essere quello di un ragazzo, per di più dotato di poteri sconosciuti e della cui portata non era ancora consapevole, lo spingessero a millantare credito verso gli altri per rendere più accettabile ai suoi stessi occhi l'enorme differenza di potenziale che sentiva tra se stesso e il suo padre adottivo. Senza contare l'evidente ammirazione che dimostrava per Olimpia e che, Xena sospettava, fosse la ragione principale per la quale si era  finto assai più potente di quanto fosse in realtà. O più esattamente, aveva lasciato che lo credessero, come gli aveva rimproverato Olimpia. E la sua espressione da cane bastonato a quelle parole era stata più eloquente di qualsiasi discorso.

Con una scrollata di spalle, Xena si libera da tutti quei pensieri casuali che le hanno affollato la mente nel corso del suo rapido viaggio attraverso la foresta notturna. Adesso il suo obiettivo più immediato era quello di riprendersi Argo. Gli avvenimenti convulsi di quelle ultime ore le avevano impedito di andare a riappropriarsi della sua cavalla fin dal mattino come aveva pensato e questo non semplificava le cose. A questo punto, erano trascorse quasi due intere giornate dal momento in cui erano fuggite dal villaggio, e Acros aveva avuto tutto il tempo per indagare sul loro arrivo e scoprire che la loro cavalcatura era ancora nella stalla della locanda. Cosa avrebbe potuto fare di una tale informazione, Xena non osava pensarlo. Probabilmente per un po' si sarebbe limitato a farla sorvegliare, per vedere se sarebbero tornate a riprenderla. Ma poi, chi poteva dirlo? Avrebbe potuto impadronirsene, o venderla... o peggio. E quello che aveva appreso su Acros da Alexi non contribuiva a tranquillizzarla affatto. Un individuo capace di cose del genere, non si faceva certo problemi ad infierire su una povera bestia.

Beh, verme schifoso, tu azzardati solo a sfiorare il mio cavallo e desidererai di non essere mai nato.

Sentendo la rabbia montarle nello stomaco, Xena accellera ulteriormente il passo, mentre tra gli alberi fittamente allineati gli uni con gli altri, le pare di cominciare a scorgere deboli luci lontane.

 

A distanza ravvicinata, il villaggio di Kyros appare deserto, almeno nelle sue strade. Solo qualche luce proveniente dalle fessure nelle finestre chiuse testimonia una presenza umana dietro le porte solide e sbarrate.

Questa gente ha paura, pensa Xena, mentre con estrema cautela abbandona la protezione degli alberi ed avanza velocemente nello spazio aperto che conduce verso la locanda, da cui erano fuggite precipitosamente solo il giorno prima, e la stalla situata dietro di essa. Strisciando nell'ombra delle mura che circondano il grande cortile, la guerriera passa pressappoco nello stesso punto in cui aveva raccolto la donna caduta accanto al pozzo, fissando circospetta la porta e le finestre della locanda, pronta a rimettersi subito al riparo se all'improvviso dovesse mostrarsi qualcuno, ma l'edificio sembra immobile e addormentato anche più degli altri, e la torcia posizionata sotto il portico accanto all'ingresso, ad illuminare il terreno circostante ed attirare i viandanti di passaggio, pende spenta dal suo supporto.

Lievemente rassicurata dalla immobilità dell'intera area, Xena azzarda un passo nella zona debolmente illuminata dalla luna e si lancia subito di corsa verso le stalle, la cui sagoma distingue chiaramente contro il cielo notturno. La grande porta doppia non è chiusa con alcun chiavistello e con un colpo deciso, Xena la tira a sé e immediatamente s'introduce nell'oscurità all'interno. I suoi occhi già abituati al buio della notte, non faticano molto ad acclimatarsi alle tenebre appena un po' più spesse dell'ampio locale. Al suo ingresso, un breve coro di nitriti l'accoglie. Tre o quattro cavalli legati alle pareti intorno agitano le code e battono gli zoccoli, innervositi da quella visita inaspettata, torcendo i lunghi colli verso di lei, fissandola con i loro grandi occhi spalancati.

"Shhh. Buoni." sussurra loro Xena, cercando di mantenersi lontana dagli animali per non innervosirli ulteriormente, e nel contempo provando ad individuare il punto in cui aveva lasciato Argo. L'anello di ferro a cui ricordava di aver legato le redini della sua cavalla, pende dalla parete in fondo, ma di Argo nessuna traccia.

"Bastardo!" sibila tra i denti, avvicinandosi al box dove avrebbe dovuto trovarsi il suo animale, notando anche l'assenza della sella che aveva lei stessa appoggiata sull'asse di legno accanto. Per un attimo, la guerriera resta immobile, disorientata, davanti a quella realtà che si era aspettata e che pur tuttavia non sa ancora come affrontare. Non conosce il villaggio e non ha idea di dove possa abitare Acros, quindi prende due respiri profondi, nell'attesa che la rabbia che le sta artigliando lo stomaco si affievolisca e lasci il posto a una più costruttiva razionalità.

La prima cosa da fare era mantenere la calma. Cosa che le era diventata improvvisamente più difficile ultimamente. Evidentemente gli effetti collaterali dell'influsso esercitato da Alexi, e soprattutto da suo padre, su di loro non erano ancora cessati del tutto e le sue emozioni erano tutt'ora pericolosamente sollecitate. Appoggiandosi con la schiena alla parete di legno, Xena si volta verso la porta della stalla, che aveva lasciata aperta nella fretta di entrare, ed un attimo dopo la sua mano corre fulminea all'elsa della spada, mentre la figura che si staglia contro la debole luminosità esterna avanza lentamente verso di lei.

 

Con la lama parzialmente estratta dal fodero e tutti i sensi all'erta e pronti a scattare, la guerriera osserva l'ombra avvicinarsi, finché giunta a pochi passi si arresta ed alza la lanterna che regge nella mano destra portandola all'altezza del viso. Quello che la sta scrutando con un'espressione di meraviglia ed incredulità ad un tempo è un uomo abbastanza alto, anche se con le spalle un po' ingobbite probabilmente da un duro lavoro quotidiano, e dal volto scavato, con una leggera barba lievemente ingrigita che gli copre il mento e le guance. Ma la luce nei suoi occhi è quella di un bambino che stia assistendo a un prodigio. L'uomo resta immobile a sua volta ad una distanza così ridotta che Xena potrebbe facilmente affondargli la punta della spada nel petto senza neanche bisogno di muoversi dalla sua posizione. E tuttavia, qualcosa blocca il braccio della guerriera che è rimasto fermo con le dita strette intorno all'impugnatura dell'arma, ancora per metà nel fodero legato alla schiena.

"Dèi dell'Olimpo." mormora l'uomo sollevando ulteriormente la lanterna, affinché la sua luce cada meglio sul volto della donna davanti a lui. "Allora non mi ero sbagliato. Le leggende dicono il vero, dunque. Tu sei veramente immortale."

Quelle parole, pronunciate a voce bassa e con un inconfondibile tono di venerazione, sembrano finalmente spezzare l'atmosfera sospesa che per qualche lunghissimo istante ha regnato su quella scena e Xena rilassa i muscoli tesi lasciando ricadere la spada al suo posto.

"Chi sei tu?" chiede, fissando l'uomo. Quello che aveva preso in consegna Argo al loro arrivo era molto più anziano. Xena non ci aveva fatto caso più di tanto, ma lo ricordava abbastanza da essere sicura almeno di questo.

"Tu non puoi ricordarti di me." L'uomo abbassa la lanterna e i loro volti d'improvviso tornano nell'oscurità. Con passo strascicato, lo sconosciuto si porta fino ad un basso sgabello e vi si lascia cadere sopra. "Troppe primavere e troppo dolore sono passati da allora. Quella era ancora un'epoca felice, nonostante tutto. Io, mio padre e i miei fratelli vivevamo in serenità, ma quando arrivasti tu sperammo tutti davvero che quella serenità potesse trasformarsi in autentica felicità e nel calore di una famiglia completa."

La mente di Xena fruga nei ricordi alla ricerca di qualcosa che avverte d'un tratto vicino e che tuttavia non riesce ad afferrare.

"Io non... " comincia a dire, poi, in quello sguardo che la scruta nella luce ora pallida della lanterna che è stata posata al suolo, riappare improvvisamente il bambino che vi aveva già intravisto dietro e le due immagini si sovrappongono, precisandosi di fronte a lei.

"Tu eri ferita gravemente" prosegue l'uomo "e nostro padre ti curò. Lui sperava... tutti speravamo che saresti rimasta con noi. Ma tu non potevi restare. La nostra era un'inutile speranza, e malgrado avessi promesso che saresti tornata, sapevo che non era vero. Ma forse solo ora ho capito perché." Gli occhi dell'uomo che si erano abbassati, si levano di nuovo su di lei. "Tu sei una semidea, vero?  Come Hercules. Non puoi morire, così come non puoi mescolarti ai comuni mortali. E anche la tua amica. Colei con cui ti vidi partire allora e che ho rivisto l'altra sera al tuo fianco alla locanda. Due semidèe."

Un sorriso amaro e malinconico si disegna sul volto di Xena.

"Parli di Olimpia, la mia compagna. Ma né io né lei siamo semidèe, e sicuramente non siamo immortali. Credimi, lo so, Argolis..."

L'uomo la guarda sorpreso, mentre un sorriso illumina anche il suo viso, riportando in vita per un attimo quel volto di fanciullo che eoni prima l'aveva fissata sognante mentre lei raccontava qualche fantasiosa versione delle sue avventure, di cui si era sempre chiesta cosa avrebbe pensato Olimpia.

"Tu ti ricordi davvero di me e della mia famiglia?" Ora il tono di meraviglia appare addirittura aumentato nella voce sospettosamente tremante dell'uomo.

"Di tuo padre Darius, di Lykus e della piccola Sarita?" dice Xena, inginocchiandosi accanto a lui e poggiandogli una mano sulla spalla. "Come potrei avervi dimenticati? Io ero ancora molto confusa, allora. Stavo cercando qualcosa che non sapevo cosa fosse e se mai l'avrei trovata, e voi siete stati la prima cosa più simile ad una famiglia che abbia incontrato. Lasciarvi è stato più duro di quanto puoi immaginare, ma dovevo farlo. Non ero pronta nè degna per ricevere un dono simile."

Il bimbo, dietro quegli occhi in qualche modo invecchiati di tristezza, le sorride da un tempo ormai lontano e quel sorriso le forma un groppo in gola, rituffandola d'improvviso in un periodo della sua vita che credeva sepolto.

"Mi dispiace, Argolis." dice piano.

Argolis tende una mano esitando, poi scorgendo tracce umide sotto gli occhi della guerriera prende coraggio e le sfiora il viso con il dorso delle dita.

"Come puoi non essere immortale? Io ero solo un bambino quando ti vidi la prima volta" mormora "e guardami ora. Sono quasi un vecchio, infiacchito e stanco della vita, mentre tu... sei giovane e bellissima  come allora."

"E' una lunga storia. Ma cosa mi dici di te e dei tuoi? Cosa ne è stato di loro? E tu cosa fai qui? E' molto lontano dalla tua casa."

"Adesso è questa la mia casa, Xena. Mio padre e i miei fratelli sono morti da molto tempo. Dopo che tu te ne andasti, vivemmo in pace per qualche stagione, ma gli stenti di quella vita ebbero presto ragione della mia sorellina e in un inverno particolarmente rigido la seppellimo dietro la casa, accanto alla tomba di nostra madre. Poco dopo, anche nostro padre morì in un grave incidente con il carro, ma dopo la morte di Sarita non era più stato lui e credo che il suo unico desiderio fosse raggiungerla e riunirsi a lei ed alla mamma nei Campi Elisi."

Ora le lacrime scendono senza più freni lungo le guance della guerriera e la vista le si appanna, mentre la sua mano sulla spalla di Argolis intensifica la pressione.

Rimani, le aveva chiesto la piccola Sarita, quel giorno di tanti anni prima. Era la prima parola che pronunciava dalla morte di sua madre e un implicito riconoscimento in lei di qualcuno che potesse sostituirla nel suo cuore. Ma lei non aveva potuto accontentare quella richiesta semplice e sincera. Non aveva potuto arrestare la sua fuga da se stessa e dal suo passato. Come sarebbe cambiata la sua vita se l'avesse fatto? E la loro? Ma ormai era una domanda senza alcun significato.

"Io e Lykus restammo ancora per qualche anno nella casa paterna" continua Argolis " poi lui volle partire. Per seguire il suo destino, disse. Dopo non molto, ricevetti la visita di un suo amico. Mi riportò la sua spada ed il suo elmo, e così venni a sapere che si era fatto uccidere in battaglia tra le truppe mercenarie romane. Aveva solo ventun'anni. Dopo quello, non me la sentii più di restare. Presi i miei pochi averi e mi trasferii qui. Avevo un lontano cugino che ci abitava, l'ultimo parente rimastomi, e con la morte di mio fratello niente più mi tratteneva e così eccomi qua." conclude con un mesto sorriso.

"Sei solo? Non hai moglie o figli?"

"Gli Dèi non hanno deciso di benedirmi con una sposa o con dei figli. Anche se ora non so fino a che punto sia una disgrazia."

L'osservazione gettata lì quasi in modo casuale da Argolis consente a Xena di lasciare i tristi sentieri del ricordo per tornare a concentrarsi sul presente.

"Cosa sai di quello che succede in questo villaggio, Argolis?" chiede, asciugandosi quasi distrattamente i residui umidi dal viso.

"Non molto. Quello che sanno più o meno tutti, credo. Acros dice che ci sono dèmoni nella foresta e che devono essere... saziati, se vogliamo che ci lascino in pace."

"Saziati." ripete Xena con una smorfia.

"Quell'uomo è egli stesso un demonio, se lo chiedi a me. Già molte famiglie hanno abbandonato il villaggio. Quasi tutte quelle con figli piccoli, ma nessuno ha il coraggio di opporsi a lui ed ai suoi uomini."

"E tu?"

"Io non ho niente da perdere. E poi qui ho un lavoro. Questa stalla è di mio cugino." dice l'uomo con rassegnazione. Poi guarda Xena. "Non preoccuparti per il tuo cavallo. L'ho preso io."

"Cosa?"

"Io vi ho viste quando siete arrivate  alla locanda, tu e la tua amica, ma non c'ero al momento del vostro scontro con Acros e ho appreso solo dopo quello che era successo. Ma quando ho saputo che eravate fuggite, ho chiesto a mio cugino ed ho saputo che il tuo cavallo era rimasto qua. Così ho pensato di nasconderlo, insieme alla sella. Prima che Acros potesse escogitarne una delle sue. E' in fondo al villaggio, in una radura nascosta dietro la mia casa."

Illuminata da un sorriso, Xena si china sull'uomo e gli stampa un bacio sulla guancia ruvida.

"Non sai quanto te ne sono grata, Argolis."

Con un improvviso rossore che gli ha invaso le gote, Argolis si alza di scatto, afferrando la lanterna.

"Andiamo." dice. "Ti ci porto." 

 

Il festoso nitrito di Argo saluta l'arrivo nella piccola radura di Xena e Argolis. All'interno di un'alta staccionata, il cavallo trotta velocemente verso la sua padrona che l'accoglie, accarezzando la testa dell'animale con affetto.

"Ehi, piccola, non avrai creduto che ti avessi abbandonata, eh?"

Un altro nitrito e la sola risposta, mentre Argo sfrega il suo muso contro il collo di Xena che ride per il solletico del pelo.

"Qui è al sicuro." dice Argolis alle sue spalle. "Nessuno sa dove si trova. Neanche mio cugino."

Xena si volta verso di lui continuando a carezzare la testa del grande animale.

"Grazie, Argolis. Sarebbe un pensiero in meno per me."

"Garantisco io per lui."

"Per lei." sorride Xena. "Sei in presenza di una signora. Non dirmi che non te ne eri accorto."

Argolis si avvicina, accarezzando a sua volta Argo.

"Beh, portandolo... portandola via, non ho pensato a controllare." 

"Non so come potrò ringraziarti, Argolis." dice Xena, guardandolo.

"Sei qui per Acros e per... qualunque cosa ci sia in quella dannata foresta?" chiede l'uomo.

"Sembra proprio di sì." risponde la guerriera.

"Allora mi considero più che ringraziato." dice l'uomo. Poi, dopo una pausa: "Promettimi solo una cosa."

"Certo. Dimmi."

"Quando questa storia sarà finita, mi racconterai come sia possibile che dopo tanti anni, se davvero non siete semidèe, tu e la tua amica siate esattamente uguali a come vi ricordavo."

"Promesso." mormora Xena, arruffando la criniera della sua cavalla.

 

 

 

(36) Jennifer e Carruthers

 

Con il dito sul campanello sotto il quale al posto del nome vi è solo un cartellino bianco, il capitano Carruthers esita ancora un momento, prima di decidersi a spingere il bottone. La sua visita a così poche ore dal loro ultimo colloquio avrebbe potuto essere male interpretata e questo lui non lo avrebbe mai voluto. Aveva detto chiaramente a Jennifer che non doveva sentirsi costretta a fare quello che lui le chiedeva, che la sua sarebbe stata solo una collaborazione volontaria, da esterna, senza alcun impegno che non si sentisse di prendere e non aveva sicuramente nei suoi piani di spuntare così rapidamente di nuovo nella vita che la sua amica (se poteva davvero continuare a considerarla tale) stava cercando con tanta fatica di ricostruirsi. Ma quella situazione si stava facendo di ora in ora sempre più complicata.

Appena arrivato in ufficio quella mattina aveva ricevuto una chiamata personale del procuratore. Gli ultimi avvenimenti, o forse semplicemente il fatto che fossero arrivati ai giornali, parevano aver scosso perfino lui. Con un nervosismo che non gli era solito nel tono della voce, gli aveva notificato una riunione alla procura per quello stesso pomeriggio. La cosa, per dirla con parole sue, stava sfuggendo loro di mano. Oltre a lui e a Carruthers, a quella riunione avrebbero partecipato i responsabili di tutti i distretti nei quali erano avvenute le scomparse dei bambini e i ritrovamenti dei loro resti. Era evidente, aveva detto, che quella storia cominciava a diventare un po' troppo grossa perché l'intera indagine gravasse solo su di lui, per cui ci sarebbe stato un coordinamento di tutte le forze di polizia, affinché nel più breve tempo possibile si arrivasse alla cattura dell'assassino. Ballister non l'aveva detto questo, ma il suo maggior terrore era che qualche nuova impresa del mostro, attirasse l'attenzione dei federali. Non che ci fosse bisogno di dirlo. Carruthers ne era ben cosciente. Se l'FBI si fosse interessata del caso, avrebbe automaticamente significato l'esautorazione della polizia metropolitana e uno smacco imperdonabile per il procuratore che avrebbe visto messo seriamente a rischio il prosieguo della sua carriera. Ballister non aveva potuto evidentemente vedere il suo sorriso sardonico mentre gli parlava al telefono, anche se dubitava che il vederlo l'avrebbe turbato più di tanto. Il procuratore metteva sempre davanti a tutto i suoi interessi personali, e le opinioni degli altri, soprattutto quelle dei suoi sottoposti, non lo interessavano. I suoi problemi li voleva risolvere subito e senza ingerenze inopportune. Come si era liberato, all'inizio della sua carriera, di uno scandalo a base di mazzette e bustarelle, che aveva minacciato di travolgerlo. O come nella storia dell'Amazzone, in cui non aveva esitato a provocare quell'inutile tragedia pur di cancellare il più rapidamente possibile il problema.

Carruthers rimuove velocemente il pensiero dalla mente, prima che questo porti ad altri che coinvolgano anche lui e la sua vigliaccheria e al costo terribile di due vite umane e, più in piccolo, di una vecchia amicizia distrutta. O quasi distrutta. Dipendeva da ciò che sarebbe accaduto nelle prossime ore, nei prossimi giorni.

Il dito ormai quasi irrigidito dal freddo, Carruthers prende il coraggio a quattro mani e preme il campanello.

 

Nel sogno non c'è freddo. Non è autunno e un sole caldo e limpido entra attraverso ampie vetrate che danno in un grande salone. Lei ha solo un asciugamano avvolto intorno al corpo ed un bicchiere gelato tra le dita. E' appoggiata ad una delle colonnine della grande terrazza illuminata dalla luce. A pochi passi da lei, un ombrellone aperto e sotto la sua ombra una sedia a sdraio su cui è adagiata un'altra persona. Una donna da quello che si può vedere. Lo schienale della sedia impedisce di riconoscerla, ma la mano che stringe a sua volta un bicchiere pieno di ghiaccio fino all'orlo che si sta lentamente sciogliendo in un liquido di un rosso vivo e le gambe accavallate elegantemente non lasciano dubbi in proposito. Allora lei si stacca dal suo sostegno e con il cuore che le batte a mille, camminando scalza sul pavimento della terrazza, scaldato dai raggi del sole, si avvicina lentamente alla donna. Dentro di sé sa di chi si tratta senza alcun dubbio, ma deve vederla con i suoi occhi. Deve esserne certa. Non può illudersi inutilmente ancora una volta, non può permettere che la speranza si trasformi di nuovo in cupa disperazione. E in quel momento, come se avesse sentito il suono dei suoi passi, (ma come potrebbe, se è a piedi nudi?) la donna si gira verso di lei sollevandosi dalla sedia, ed è il sorriso di Joyce quello che l'accoglie, i suoi capelli biondi che le scendono lungo il viso, quasi a coprire quegli occhi azzurri che non ha mai dimenticato. E allora sente anche i muscoli del proprio volto distendersi in un sorriso che rispecchi quello di lei. Le loro braccia si tendono, le loro mani si toccano, le loro dita s'intrecciano, e la sua bocca si apre per pronunciare parole che contengono una nota di inconfondibile paura che stona in quel momento di pace. Una domanda che le scotta sulle labbra in contrasto con il sudore gelido che può sentire scorrerle lungo la schiena. Una domanda. La Domanda.

"Joyce, hai mai sentito parlare di Xena?"

 

Il secco ronzio del campanello le risuona nelle orecchie improvviso, e contemporaneamente l'immagine del sogno svanisce con quella domanda (La Domanda), tanto temuta ma così necessaria, il cui suono  aleggia ancora nella sua mente.

Jennifer riapre gli occhi e guarda le piccole finestre del suo appartamento da cui può sentire chiaramente provenire i rumori della strada sottostante. La donna resta immobile, distesa per metà sul divano del salottino con la mano che le pende dal bordo e i polpastrelli delle dita che avvertono il leggero contatto con una supericie cartacea. Sa esattamente dove si trova, ricorda ogni istante della sera prima e la telefonata di Sutherland quella stessa mattina. Poi il buio, doveva essersi evidentemente riaddormentata, mentre leggeva e rileggeva gli incartamenti lasciati da Carruthers, e poi il sogno.

Ma era davvero un sogno? Non ne aveva mai fatto uno tanto vivido e reale. Le pareva di sentire ancora il calore della mano di Joyce nella sua. E quel posto...

Non era un luogo un po' nebuloso e confuso come quelli che di solito si vedono nei sogni. Era concreto, solido. Aveva proprio sentito il contatto con la colonnina, forse di marmo, contro la schiena, proprio come adesso poteva sentire quella del soffice divano sotto di sé. Aveva sentito la solidità del suolo sotto i suoi piedi. E Joyce, questa volta era stata reale come le cose intorno a lei. Reale il suo sorriso, reale il suo corpo, reale la sua carne. Era stata davvero lì, accanto a lei. Viva, non un fantasma, non un ricordo. Quale sogno poteva mai essere così?

Il ronzio del campanello si ripete nell'appartamento, ma per Jennifer in questo momento è solo un vago rumore di sottofondo senza significato e senza nessuna importanza. L'unica cosa che vede e sente, sono le parole di quella domanda.

Hai mai sentito parlare di Xena?

Perché l'aveva fatta? Che senso poteva avere? Certo che Joyce aveva sentito parlare di Xena, purtroppo. E perché quella paura, il cui gusto poteva ancora sentire sotto il palato, nel farla?

Bzzzz!

Quei sogni che le raccontava Joyce, quelli che includevano Xena, lei li descriveva come particolarmente realistici. Potevano essere qualcosa di simile? Che lo spirito di lei stesse cercando di comunicarle qualcosa?

Oddio, altro che in via di guarigione. Qui sto davvero uscendo di testa.

Bzzzz!

Con uno scatto improvviso, come a volersi lasciare alle spalle tutte quelle domande, Jennifer schizza dal divano e in due passi raggiunge la porta d'ingresso, abbassando la levetta del citofono.

"Chi è?"

"Rowles." La voce inconfondibile, anche se lievemente alterata da una vibrazione metallica nel microfono, risponde con tono sorpreso. "Stavo andandomene. Credevo che non ci fossi."

Maledizione! impreca tra sé. Perchè non ho aspettato qualche altro secondo?

"Che vuoi, Carruthers? Credevo che avessi detto di non volermi fare pressioni?"

"Infatti, è così, scusami." risponde la voce dell'uomo dall'altra parte. "Temevo che potessi pensarla a questo modo. Volevo solo parlare un po' con te."

"E di cosa?" Jennifer si rimprovera quasi per quel tono gelido e scostante, ma non può evitarlo. "Non posso già avere delle risposte per te. Mi hai dato quel materiale appena ieri sera."

Per qualche attimo, dalla grata del citofono non giunge alcun suono, al punto che Jennifer pensa quasi che Carruthers possa essersene andato. Poi, la voce riprende a parlare pacata.

"Non volevo parlare con la consulente, Rowles. Volevo parlare con la mia amica."

La frase è talmente inattesa che Jennifer resta come paralizzata, col dito appoggiato sulla levetta, come fino a pochi minuti prima, a sua insaputa, quello di lui era stato immobilizzato sul pulsante del campanello, in un gesto inconsapevolmente speculare. Poi, senza una parola, il dito abbandona la sua posizione, si sposta sull'interruttore dell'apertura automatica e quasi dotato di vita propria lo preme.

 

Che idiota che sei, Jennifer! Perché accidenti l'hai fatto entrare?

La mente della donna ruota intorno a questo pensiero, mentre, lievemente chinata su di un fianco, si sorregge la testa con la mano a sua volta sostenuta dal gomito appoggiato sul bracciolo della poltrona, con gli occhi fissi sull'uomo che invece, completamente abbandonato contro lo schienale della sua, posta di fronte a lei, vaga con lo sguardo per la stanza, quasi timoroso d'incrociare il suo, cercando di mascherare l'evidente disagio.  

"Sai" dice infine Carruthers, soprattutto per rompere quel silenzio carico di tensione "non ero mai venuto nella tua nuova casa. E' carina. Un po' più piccola di quella di prima, ma..."

"Fa schifo." lo interrompe bruscamente lei.

Carruthers chiude di scatto la bocca, fissandola per la prima volta.

"Tutto questo quartiere fa schifo." prosegue Jennifer, senza cambiare espressione del volto. "Ma è il meglio che sono riuscita a trovare alla velocità con cui sono scappata dal mio passato."

"Non capisco perché non te ne sei proprio andata." dice il poliziotto. Aver rotto in qualche modo il ghiaccio lo aiuta adesso a parlare con più disinvoltura. "Perché non hai preso armi e bagagli e non ti sei trasferita, che ne so, dall'altra parte del paese?"

"Non lo so neanch'io." Jennifer appoggia la testa contro lo schienale della poltrona e chiude gli occhi. "Me lo sono chiesta più volte, senza trovare una risposta."

Il silenzio torna a regnare per qualche momento nella stanza e, per timore di ritrovarsi nuovamente invischiati nella sua ragnatela, i due cominciano a parlare insieme sovrapponendosi involontariamente.

"Ascolta, Row..."

"Cosa sei venuto..."

Poi, si arrestano, e con un leggero sorriso, Carruthers fa cenno a Jennifer di continuare.

"Prima tu."

Jennifer non ricambia il sorriso, ma accetta l'invito.

"Cosa sei venuto a chiedermi, George? Come ti ho detto, ho appena incominciato a dare un'occhiata a quelle carte."

L'uomo si china in avanti e la sua incipiente calvizie, appena mascherata da un sapiente uso della spazzola, risplende evidente alla luce della lampada accesa tra loro, nonostante quella ormai decisa del giorno  proveniente dalle finestre dalle tende aperte.

"Non è per quella roba, anche se probabilmente mi costerebbe il prepensionamento, se scoprissero che te l'ho data. Avevo bisogno di parlare con te. Sai cosa mi è mancato di più in questi mesi? Le nostre discussioni, anche le nostre litigate, se vuoi. Non potrei mai riuscire ad esprimerti tutto il dispiacere per quello che è successo, ma avrei voluto che tu me ne avessi data almeno l'occasione."

Jennifer guarda l'uomo che è rimasto chinato verso di lei con un'espresione quasi implorante negli occhi.

"Non vorrei proprio tornare a parlare di questa cosa." dice.

"Io, invece vorrei che tu capissi che avevo le mani legate. Non c'era niente che potessi fare. Avevo degli ordini da eseguire e se la tua amica non si fosse..."

"George!" Il nome di Carruthers è quasi un urlo che rimbomba nel piccolo ambiente, mentre Jennifer si alza di scatto. "Ti ho già detto che non intendo più parlarne, e se questo è tutto ciò che sei venuto a dirmi, beh, puoi anche andartene."

Con un moto di rabbia, la donna si volta e va verso il mobile bar versandosi una dose abbondante di scotch, ingoiandola in un solo sorso. Carruthers, rimasto immobile a sedere, considera per un attimo la possibilità di farle notare l'ora, poi più saggiamente decide di tacere. Jennifer si gira lentamente verso di lui e il poliziotto si accorge all'improvviso che il viso della donna è inondato di lacrime. La sorpresa è tale che Carruthers si alza, ma senza muovere un passo, indeciso su come reagire.

"Rowles... Jennifer... Io..." balbetta.

"Quel bastardo schifoso" sibila Jennifer con una voce quasi irriconoscibile "quel verme rivoltante, quel lurido pezzo di MERDA!!!" urla poi, d'un tratto, scagliando il bicchiere con tutta la sua forza contro la parete di fronte, mandandolo a rompersi in mille pezzi. "E' come se l'avesse uccisa con le sue mani! E ha usato te come arma! Un arma obbediente ed efficiente che esegue gli ordini senza discutere e provoca la morte di una povera ragazza innocente senza battere ciglio! E ora osi venire a chiedermi perdono?!? Ti ho visto e sentito quella notte, cosa credi? Non c'era una nota di rammarico nella tua voce. Avevi appena visto morire un'innocente a causa della tua enorme stupidità, e ti comportavi come... come... se non ti importasse niente."

Improvvisamente, Jennifer scorge le pagine del dossier rimaste in terra. Con un balzo le afferra, accartocciandole tra le dita, e le getta in faccia a Carruthers.

"Beh, a me non importa niente di questo! Non sono più affari che mi riguardano e non collaborerò a togliere dalla graticola il tuo sedere e quello del tuo capo. Spero proprio che ne facciano un bell'arrosto!"

Carruthers, che durante tutta la sfuriata di Jennifer, è rimasto in piedi immobile di fronte a lei, senza osare ribattere, perfino quando gli sono piovute in faccia le pagine dell'incartamento, ora la osserva mentre la donna si abbatte con la schiena contro il mobile alle sue spalle, scoppiando in singhiozzi troppo a lungo trattenuti.

"Mi dispiace davvero che debba finire così, Rowles." mormora, chinandosi a raccogliere da terra le carte sparse ai suoi piedi. "Forse ho sbagliato a venire qui oggi, ma vorrei davvero poter rimediare..."

"Vuoi rimediare?" l'interrompe improvvisamente la voce soffocata di Jennifer. La donna abbassa le mani dal viso e lo fissa con occhi rossi di rabbia e di pianto. "Denuncialo!"

"Cosa?" Carruthers ancora chino si blocca e alza lo sguardo su di lei. "Che vuoi dire?"

"Denuncialo." ripete Jennifer, avvicinandosi. Ora quegli occhi spalancati e fissi fanno quasi paura. "Denuncia Ballister. Sputtanalo davanti a tutti. Racconta a tutti che è un assassino. Tu puoi farlo, George. Tu c'eri e sai gli ordini che ti ha dato. A te crederanno."

"Rowles..."

"Ha coperto due omicidi per salvare la sua carriera politica. Ha messo a tacere in un modo o nell'altro chi poteva creargli dei problemi..."

"Rowles, non puoi chiedermi questo."

"Fallo, George. E' questo il prezzo che devi pagare per ottenere perdono." Ora Jennifer è ad un passo da lui e quello sguardo quasi da folle è letteralmente conficcato nei suoi occhi, impedendogli di muoversi o di distoglierli. "E non sto parlando del mio perdono, ma di quello della tua coscienza. Solo così ritroverai la pace."

Dopo queste parole, quasi come svuotata Jennifer abbassa gli occhi e si allontana da lui, tornando a sedere sulla sua poltrona, senza più guardarlo. E senza parlare, Carruthers appoggia i fogli che teneva in mano sulla poltrona che fino a pochi minuti prima occupava e si volta, dirigendosi verso la porta.

 

 

(37) Olimpia

 

"Tu l'ami molto, vero?"

Nonostante la temperatura notturna sia scesa notevolmente, Olimpia non sente freddo e dopo essere rimasta a lungo in piedi a fissare il punto in cui Xena è scomparsa nel buio, è tornata a passo lento verso la casa e si è lasciata cadere sulla panchina in legno sotto il portico, ad osservare la notte intorno a lei. Si è appena accorta della presenza di Alexi che, dopo qualche momento di esitazione, si è finalmente deciso a sederle accanto, e solo al suono della sua voce, si volta verso di lui a guardarlo.

"E' strano che tu me lo chieda." risponde. "Non ci hai viste prima? E non ci hai sentite la notte scorsa?"

Senza rispondere, il giovane continua a fissare il vuoto davanti a sé.

Con un sospiro, Olimpia appoggia il braccio sullo schienale della panchina e china la testa verso di lui.

"Sai, per essere una persona che affermava di sapere tutto di noi, sei sorprendentemente poco informato. Xena è la mia anima gemella, Alexi, la mia migliore amica, la mia compagna, la mia amante e la mia sposa. E' la persona per cui ho offerto la mia vita più di una volta e per cui la offrirei altre mille senza un attimo di esitazione. Questo risponde adeguatamente alla tua domanda?"

Alexi le lancia un'occhiata indecisa poi torna al suo sguardo fisso nel buio.

"Lei non mi crede. E' per questo che ti ha lasciata qui, perché non si fida di me."

Olimpia fissa ancora per un momento il volto dell'uomo, poi torna a sua volta a guardare la notte.

"Xena non si fida di nessuno. E' nella sua natura. All'inizio, non si fidava neanche di me." dice, sorridendo alle memorie che le si affacciano nella mente. "Non mi perdeva d'occhio un momento, temendo che mi cacciassi in qualche guaio. Cosa che, nonostante la sua sorveglianza, mi riusciva lo stesso benissimo."

"Perché non mi crede, Olimpia?" chiede l'uomo, come se neanche avesse sentito.

"Beh, devi ammettere che il tuo comportamento non ha aiutato molto in questo senso, Alexi." risponde Olimpia con un sospiro.

"Vi ho già chiesto scusa per questo."

"Inoltre" aggiunge la ragazza, voltandosi di nuovo nella sua direzione "tu hai parlato molto, ma in definitiva cosa ci hai detto? Ad esempio chi sono veramente quelli che chiami Coloro che Sanno? E come puoi essere certo della loro esistenza, se non li hai mai visti?"

"Mio padre ne era certo e tanto per me basta." risponde seccamente il giovane, senza guardarla.

"Ma a noi no, Alexi. Se sono così potenti, perché non distruggono loro la Bestia?"

"Non possono. Per ragioni che non conosco, essi non possono interferire direttamente con le vite dei vari universi, ma solo creare i presupposti perché siano alla fine gli uomini e le donne che vi vivono a risolvere i propri problemi, grazie alle loro coscienze, ai loro caratteri, dirigendoli a loro insaputa attraverso le decisioni che prendono e le azioni che compiono."

Olimpia appoggia la testa alla mano, fissandolo intentamente.

"Spiegati meglio."

"Voi siete il miglior esempio." dice Alexi, girandosi verso Olimpia improvvisamente infervorato da ciò che sta tentando di esprimere. "Ogni vostro gesto, ogni vostra azione, compiuta volontariamente o provocata, faceva parte del loro disegno. Perfino il tentativo di distruggervi di Antinea. Mandandovi oltre la Soglia, Antinea ha involontariamente creato un ponte per voi due, tra questo e l'altro universo, rendendovi probabilmente in grado di attraversarlo nuovamente."

"A che scopo?"

"Per distruggere la minaccia al tessuto stesso degli universi, Olimpia." Alexi adesso è completamente preso dalle sue argomentazioni e qualunque tensione ci fosse stata in lui fino a pochi momenti prima sembra completamente scomparsa. "Mio padre mi disse che la Bestia poteva essere distrutta solo se fosse stato annientato il punto d'origine del suo richiamo, ma per farlo il guerriero, preannunciatogli dai suoi sogni, doveva viaggiare fino a quell'universo ed uccidere lo spirito affine che l'aveva risvegliata."

"Un momento." Olimpia si alza in piedi lentamente, fissando con occhi fiammeggianti Alexi. "Vuoi dire che per combattere questa... questa... cosa, Xena dovrà finire in chissà quale altro universo, rischiando forse di non poter tornare più indietro?!?"

"Ascolta, non..."

"Io non lo permetterò! Hai capito bene?!?"

"Non dipende..."

"Non mi interessa cosa ha detto tuo padre, tuo nonno e tutta la famiglia fino alla prima generazione, e non mi interessa quali piani astuti abbiano intessuto le tue divinità dal nome ridicolo. Io non lascerò che la persona che amo sacrifichi ancora una volta la sua vita in nome di qualche malinteso gesto di eroismo!!"

La voce di Olimpia è salita di tono di frase in frase, fino a che le ultime parole sono state quasi urlate in faccia al giovane che di fronte a quella imprevedibile reazione è rimasto immobilizzato, incapace di ribattere alcunché. Dopo avergli lanciato un'ultima occhiata di fuoco, la ragazza si gira e parte a passo di carica verso gli alberi che, muti ed indifferenti, circondano la radura.

Alexi, scuotendosi, scatta in avanti e l'afferra per un braccio.

"Dove vuoi andare?"

"Lasciami!" Con uno strattone, Olimpia si libera della presa dell'uomo. "Raggiungo Xena e la convincerò ad andarcene da qui. Se partiremo subito, per l'alba saremo già abbastanza lontane da considerare tutta questa storia solo un incubo. Ecco qualcosa che forse Coloro che Sanno non avevano calcolato, eh?"

"Xena ti ha detto di non muoverti."

"Quando l'ha fatto, credevamo entrambe che questa faccenda ci riguardasse. Ora non è più così."

Alexi la guarda, incrociando le braccia sul torace.

"Lo pensi davvero?"

Olimpia che ha arrestato la sua andatura impetuosa, è immobile a pochi passi da lui e il suo sguardo è inchiodato in quello dell'altro con aria di sfida.

"Ascolta, Olimpia. Io ti capisco." prosegue Alexi azzardando ad avvicinarsi di un passo. "Anche se non so tutte le cose che pretendevo di sapere, Aristis mi ha permesso di conoscere comunque abbastanza da capire quello che avete passato nella vostra vita insieme."

"Ne dubito fortemente, Alexi." dice Olimpia, ma non accenna ad allontanarsi nuovamente, mentre il giovane gradatamente riduce la distanza.

"Ma non c'è modo di sfuggire a loro, credimi. Tutto ciò che accade, tutto ciò che facciamo, diciamo, crediamo di decidere, rientra nel loro disegno."

"Non ti credo."

"Olimpia..."

"Non ti credo!!!"

L'urlo di Olimpia risuona particolarmente acuto nel silenzio di quel luogo, e la ragazza nuovamente in preda alla furia, colma con due rapidi passi avanti la distanza tra loro, piantandogli addosso il suo sguardo rabbioso, malgrado i suoi occhi gli arrivino appena all'altezza del petto.

"Xena è sempre stata convinta che siamo noi a decidere il nostro destino e fino ad oggi non ho mai visto niente che contraddica questa idea. Se decideremo di combattere quell'essere lo faremo di nostra volontà. Non perché lo ha deciso qualche oscura divinità senza nome."

"Sia come dici, Olimpia. Non è mio compito convincerti del contrario." Alexi china le spalle con aria di rassegnazione. "Vai se vuoi. Io non cercherò di fermarti."

Quindi, l'uomo si gira e comincia a dirigersi lentamente verso la casa. D'un tratto l'alta figura giovanile delineata nella luce proveniente dalla porta aperta sembra curva come quella di un vecchio.

"Un'ultima cosa, Alexi." gli grida dietro Olimpia. "Se i tuoi dèi hanno questa assoluta onniscienza, allora forse anche la venuta di quel mostro fa parte del loro disegno. Non ci avevi pensato?"

Alexi si ferma per un momento, poi riprende il cammino.

"E forse è così, Olimpia." risponde senza voltarsi, salendo i gradini del portico con passo lento e strascicato. "Forse è così."

"Allora cosa sarebbe questo?" grida ancora Olimpia. "Un gioco? Uno stupido gioco in cui siamo tutti pedine sacrificabili?!?"

Ma il tonfo secco della porta che si richiude è l'unica risposta.

 

 

(38)"The Ogre"

 

Con passo strascicato e traballante, la vecchia Rose scende cautamente i pochi gradini che dalla porta del Memorial conducono alla strada e non appena posa il piede sul marciapiede grigio di polvere e sudiciume, aspira l'aria con tutta la forza dei suoi polmoni.

Libera. Libera finalmente!

Quei maledetti poliziotti avrebbero voluto trattenerla, ma non avevano potuto. Il dottore gliele aveva cantate chiare.

Questa donna è sotto la mia responsabilità, aveva detto a quello stupido di un piedipiatti, e se non avete accuse contro di lei, il mio unico dovere è quello di dimetterla.

Rose avrebbe voluto scoppiare a ridere in faccia a quell'incapace in divisa, ma aveva pensato che fosse meglio mantenere la sua espressione contrita che le aveva guadagnato fino allora le simpatie di quel giovane dottorino che l'aveva accolta al suo arrivo la sera prima, quando i poliziotti avevano chiamato l'ambulanza e l'avevano fatta ricoverare d'urgenza per l'attacco che l'aveva presa.

La vecchia mendicante ridacchia fra sé al pensiero del caos che era riuscita a scatenare nel distretto poco meno di ventiquattro ore prima. Era vero che quando vi si era recata si sentiva confusa per ciò che aveva visto. Beh, assistere al seppellimento delle ossa del proprio bambino da parte del Diavolo non era certo uno spettacolo da lasciare indifferenti. Certo che era sconvolta. Chi non lo sarebbe stato? Ma poi... come si era divertita a spaventare quella stupida donnetta che era venuta ad interrogarla.

Naturalmente, appena i pensieri le erano tornati a chiarirsi, aveva capito immediatamente che non solo non l'avrebbero aiutata a liberare l'anima del suo bambino, ma neanche l'avrebbero lasciata andare per chissà quanto tempo e quindi aveva messo su quella piccola recita.

Sì, cari miei. La vecchia Rose non è quella stupida che credete tutti.

Era stata brava. Brava davvero. Sapeva che in quel modo avrebbero potuto solo spedirla in ospedale e da lì, anche se non avesse incontrato il simpatico dottorino, sarebbe stato molto più semplice svignarsela. Poi non aveva dovuto fare altro che comportarsi normalmente, per dimostrare a tutti che stava bene, che non sarebbe stata un pericolo per lei e per gli altri, e tutto era filato liscio come meglio non poteva.

Ed ora eccola di nuovo fuori, perché lei doveva uscire, perché solo così avrebbe potuto ottenere indietro dal Diavolo l'anima del suo bambino.  

Rose infila la mano nell'ampia tasca interna del suo soprabito sdrucito e stringe le dita secche e nodose intorno al piccolo oggetto contenuto.

C'era stata anche un'altra ragione per la sua fuga dalla stazione di polizia. Al suo arrivo, l'emozione e la concitazione provocate da quello che aveva portato con lei, avevano fatto dimenticare ai poliziotti di perquisirla, ma se fosse stata trattenuta sicuramente le avrebbero fatto tirare fuori di tasca tutto ciò che aveva e avrebbero capito subito che ciò che teneva in mano in quel momento non le apparteneva. Avrebbero pensato che l'aveva rubato e glielo avrebbero portato via, e quello invece era l'unica cosa che poteva permetterle di barattare con il Diavolo l'anima di suo figlio. Il Diavolo è molto geloso del suo oro, e non c'era dubbio che quello fosse oro. Oh, no, nessun dubbio.

Con un ghigno sul volto rugoso, la mendicante stringe ancora di più il pugno nella tasca e procede lungo la strada che conduce al suo rifugio.

 

Quando volta l'angolo del suo vicolo, ormai è quasi completamente buio. Neanche le luci di Sorrentino, il grande supermercato dietro cui si trova quella baracca di legno e di cartone che chiama casa, bastano ad illuminare gli anfratti più oscuri della minuscola stradina senza uscita.

I cassonetti della spazzatura, in cui spesso frugava trovandovi a volte cose molto utili per l'arredamento (è incredibile quanta roba ancora seminuova getti la gente), formavano una barriera intorno al suo spazio abitativo, come una specie di siepe che la proteggeva da sguardi indiscreti. A Rose era sempre piaciuto pensare che fosse davvero un giardino, il suo giardino privato e il colore verde degli alti contenitori metallici l'aiutava in questa illusione.

Affrettando un po' il passo, rinfrancata dalla vista dell'ambiente familiare, Rose comincia ad elaborare un piano.

Tornerò in quel parco, pensa, e mi metterò ad aspettare.

Il Diavolo sarebbe tornato, ne era certa, per cercare quello che aveva perso e lei sarebbe stata lì, nascosta. Non lo avrebbe guardato, questo no. Era troppo furba. Chi vede il Diavolo in faccia è condannato, lo sanno tutti. Ma gli avrebbe parlato, gli avrebbe detto che lei aveva ciò che lui voleva e glielo avrebbe consegnato in cambio dell'anima del suo bambino. E tutto si sarebbe risolto. Suo figlio sarebbe andato nel posto in cui doveva stare, tra gli angeli del Paradiso, e lei avrebbe potuto morire felice e raggiungerlo.

Era perfetto. Non poteva fallire.

Il rumore improvviso alle spalle la coglie impreparata, mentre sta ancora armeggiando con il lucchetto che chiude la catena della porta, o più appropriatamente del coperchio di legno della gigantesca scatola da imballaggio che ha sempre utilizzato come porta, cercando di introdurvi la chiave con mano tremante, e Rose si volta.

Non l'aveva notata arrivando, ma ora le pare di distinguere alla pallida luce di una luna appena sorgente contro il panorama scuro di cassonetti, scatole di cartone e rifiuti vari ammonticchiati intorno, una figura più buia del buio che la circonda. E' solo poco più di una vaga silhouette al debole lucore che giunge dal cielo e dalle luci che si stanno accendendo dalle strade limitrofe, ma anche ad una certa distanza, Rose riesce a vedere la bottiglia che stringe nella mano. Ed un sorriso le nasce spontaneo, increspando le rughe intorno alla sua bocca.

"Oh, che bel signore. Che bel signore. Sei venuto a trovare la vecchia Rose, eh? Vengono in tanti e vanno tutti via soddisfatti. E' brava la vecchia Rose, sai? Ci sa fare."

Avvicinandosi con il sorriso sempre stampato sul volto, Rose cerca di riconoscere la marca della bottiglia che la persona stringe in pugno, senza riuscirci.

"Ma sai, adesso sono occupata. Devo fare una cosa molto importante. Ma non temere, non temere. Mi sbrigherò presto e poi tornerò subito subito a festeggiare insieme a te. Puoi aspettarmi dentro se vuoi. Che mi hai portato? E' roba buona, eh?".

Rose china la testa verso la porzione di bottiglia visibile nella mano dello sconosciuto, aguzzando la vista per scorgerne l'etichetta. E d'improvviso avverte il contatto di pelle morbida e liscia sulla sua guancia ruvida. Guanti di lusso. Capretto o camoscio. Roba chic.

"Beh, naturalmente, se hai fretta, possiamo fare subito. Un signore elegante come te deve avere molti impegni..." dice sempre sorridendo, mentre il suo sguardo sale lungo il soprabito scuro dai risvolti sollevati a nascondere la parte inferiore del viso, e prima che possa fermarlo s'inchioda in quello della persona di fronte a lei. 

I suoi occhi si dilatano all'inverosimile, quando la comprensione si fa largo a fatica nel suo cervello offuscato, e cade in ginocchio davanti alla figura dalle grandi corna che ora la domina.

"Sei tu..." mormora in un balbettio quasi inudibile, mentre la mano guantata di nero continua ad accarezzarle il collo. "Sei proprio tu... Oh, perdonami, ti prego. Io... Io non volevo guardarti in faccia. Ora mi aspetta la morte lo so, ma ti scongiuro, ti imploro... restituisci la pace all'anima del mio bambino. Guarda." dice, estraendo dalla tasca qualcosa e porgendolo all'ombra davanti a lei. "Guarda, io ti ridò il tuo oro. Tu ridammi mio figlio."

L'ultima cosa che Rose vede, mentre in un lampo il frammento di bottiglia rotta tagliente come un rasoio le squarcia la gola, e contemporaneamente la figura nera si sposta di lato, con un rapido movimento quasi di danza, per evitare lo schizzo di sangue che ne fuoriesce, è la marca, Chivas Regal, ancora leggibile sull'etichetta.

Ottima qualità, pensa, mentre scivola a terra e la vita le scorre via in un denso rivolo, scuro come il buio della notte.

 

(6 - continua)





torna all'home page