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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo X)

Parte 2

Terza parte: La Soglia

(55) Jennifer e Sutherland

Aveva cominciato a sentire l'emozione stringerle la gola già quando dal finestrino del taxi, aveva scorto i primi alberi che indicavano che stavano uscendo dalla città. Si era detta, fin dal primo momento in cui aveva parlato al telefono con Sutherland la sera precedente (l'ultima chiamata che aveva fatto con il suo cellulare, prima che il piccolo apparecchio rendesse definitivamente l'anima a quanto pareva), che era un passo che andava fatto.

In ogni trattato moderno di psicologia che descrivesse i passaggi per arrivare alla guarigione da un'esperienza traumatica, questa era considerata una tappa fondamentale. Una volta che aveva superato il periodo peggiore, ed il paziente cominciava ad uscire dal guscio che la sua mente gli aveva costruito intorno per difenderlo nel momento di maggiore vulnerabilità, si consigliava vivamente di metterlo a contatto con le cose, le persone o i luoghi che direttamente o indirettamente gli avevano causato il trauma per testare l'effettivo grado della sua guarigione e la sua riconquistata capacità di rapportarvisi.

Ma i libri non descrivevano le scene a cui aveva assistito lei in prima persona, di gente che aveva dato segnali importanti, anche definitivi, di aver superato il problema, e che però messa di fronte, a distanza di mesi, a volte di anni, alle cause del trauma, aveva avuto vere proprie crisi isteriche, attacchi di panico all'ennesima potenza, che l'avevano quasi ricondotta ad uno stato vegetativo.

Per questo il suo cuore aveva iniziato a battere a ritmo più sostenuto e l'abitacolo del taxi a sembrarle sempre più piccolo e soffocante man mano che la sua destinazione si avvicinava.

Non doveva pensarci. Tutto qua. Doveva cercare di concentrare la mente su qualcos'altro. Qualcosa che le impedisse di pensare a quel sentiero, con il pietrisco che sentiva crepitare sotto le ruote della macchina, a quel muretto che già le pareva di vedere in distanza

(Smettila! E' impossibile! Siamo appena usciti dal centro abitato)

o a quel prato con l'erba macchiata di sangue.

E il suo pensiero era corso quasi automaticamente a Brian Croft e alla strana frase che le aveva detto sulle scale del distretto di polizia e lì si era cautamente adagiato. Anche quello era un terreno minato che rischiava  di ricondurla fatalmente all'altro evento, ma sarebbe servito almeno a distoglierla per qualche momento da quelle riflessioni morbose. Il tempo di arrivare a destinazione e di affrontare direttamente, faccia a faccia, la scena dei suoi incubi personali, laddove non ci sarebbe più stato spazio per l'indecisione e per l'insopprimibile voglia di ordinare all'autista di invertire la marcia e tornare indietro.

Sì, pensa, Jennifer, pensa a Croft e alle parole che ti ha detto.

Già, chissà cosa inrendeva con quel "sospetto che le due cose possano essere collegate"? Che relazione poteva mai esserci tra due storie così diverse?

Ma non se l'era già posta una domanda di questo tipo? Un giorno, molti mesi prima, si era chiesta ad alta voce che relazione potesse mai esserci tra una giovane donna dei giorni nostri ossessionata da incubi ricorrenti, oltre che da un marito psicopatico, ed una coppia di guerriere di migliaia di anni fa. Ed aveva ottenuto la sua risposta, no? Nel modo più sanguinoso.

Quindi non se la sentiva di escludere più nulla. La sua tanto vantata razionalità era stata spazzata via violentemente in quella storia, e l'aveva resa oggi una persona più insicura su tutto e su tutti. Come poteva essere diversamente, quando un universo sconosciuto, sotto forma di due donne giunte da un lontanissimo passato, bussa alla tua porta? Forse, si poteva fingere di continuare a condurre una vita normale, mangiare, bere, dormire, andare al lavoro, comprare il giornale e ritirare il latte, ma qualcosa dentro è per sempre cambiata e non potrà mai più tornare ad essere quella di prima. L'equilibrio che manteneva il mondo sul suo asse si è spezzato definitivamente.

E lei aveva ancora una volta la prova che qualunque tentativo facesse di allontanare la mente da quei ricordi, la riconduceva alla fine sempre lì. La buona notizia, aveva notato con sorpresa, era che adesso riusciva a pensarci, con tristezza ma senza più sciogliersi in lacrime come solo fino a qualche giorno prima. Ma sarebbe riuscita a mantenere quella compostezza anche quando fosse stato il momento di scendere da quel taxi e posare i piedi per la prima volta da quella notte sull'erba dove era caduto, scivolando lentamente dalle braccia di Xena, il corpo senza vita di Joyce?

Non lo so, ma credo che lo scoprirò presto, pensa, mentre finalmente il muretto grigio che circonda la proprietà di Sutherland, esce dalla sua fantasia ed entra nella realtà, apparendo in fondo alla curva.

"Siamo arrivati." dice l'autista rallentando e lanciandole un'occhiata attraverso lo specchietto retrovisore. "Vuole che la lasci qui?"

L'auto si ferma con un leggero stridore dei pneumatici sul bordo della strada sterrata. La voce dell'uomo che ripete la domanda è solo un incomprensibile rumore lontano per Jennifer che fissa con sguardo ipnotizzato il muro ed il cancello in ferro battuto che delimitano la proprietà del professore. Un po' più oltre, si riesce a scorgere il tetto della villa.

E' deliziosa.

La voce di Joyce le echeggia nella mente. Era quello che aveva detto quando un altro taxi con loro due e il professore li aveva scaricati proprio lì davanti pochi mesi o una vita prima. Risentire nelle orecchie la voce della ragazza le chiude improvvisamente la gola e l'immagine che ha davanti le si confonde attraverso un velo di lacrime.

"Signora, si sente bene?"

Ora la presenza di Joyce non sembra più confinata solo nella sua mente, ma le pare proprio di averla lì, e la paura e il desiderio di voltarsi e vederla seduta accanto a lei quasi la sopraffanno.

"Signora?" continua a chiamarla il taxista, con tono sempre più preoccupato. La sua passeggera ha il volto bianco come un lenzuolo e continua a fissare fuori dal finestrino senza rispondere. Ma Jennifer non lo sente nemmeno, perché tutti i suoi sensi sono focalizzati sul sedile alle sue spalle. Non può voltarsi adesso. Non ci riesce. Ma sente, sa, che Joyce è davvero lì. La percezione di lei è così acuta che le sembra di sentire il suo profumo, l'odore dei suoi capelli, della sua pelle, come se il suo ritorno in quel posto avesse annullato di colpo il tempo e due momenti divisi da una distanza di mesi si fossero d'un tratto fusi in uno solo, esistente in quel preciso istante.

Joyce, sei davvero tu?

Perché non riesce a voltarsi?

Lei è qui. Proprio dietro di me.

Ma i muscoli non rispondono. Tutto il suo corpo sembra irrigidito, paralizzato.

In distanza, come da un luogo lontanissimo, le pare di sentire una campanella suonare, e subito dopo voci concitate discutere, ma lei si trova altrove. Un posto dove i rumori del mondo sono solo una vaga eco senza importanza. Un posto dove l'unica cosa reale è la presenza dietro di lei, accanto a lei.

Se lei è qui, se io non sono impazzita, e lei è davvero qui, devo saperlo, devo vederla.

E lentamente i muscoli del collo cominciano a muoversi, in risposta alle implorazioni disperate della sua mente. I suoi occhi, a ruotare piano piano verso la sua sinistra. Non è una specie di luminescenza quella che le sembra di cogliere con la coda dell'occhio?

Ancora un po', solo un po', e saprò.

E d'improvviso, cosi come era apparsa, quella specie di aura incantata svanisce, e il mondo reale tracima come un fiume in piena intorno a lei. La portiera dell'auto viene aperta di scatto e la figura del professor Sutherland invade l'abitacolo, quasi crollandole addosso.

"Jennifer! Sta male?" tuona il suo vocione, pieno di preoccupazione e di ansia.

La donna si guarda intorno, smarrita. Adesso quel taxi è di nuovo solamente un taxi con il sottile odore dei sedili in pelle delle auto pubbliche, appena celato da un qualche deodorante. Il suo odore, il suo profumo se ne sono andati.

Sutherland le prende per un momento il viso tra le mani, costringendola a guardarlo negli occhi. Poi con un sospiro di sollievo, si volta verso il taxista rimasto in piedi alle sue spalle.

"Non mi sembra niente di grave." gli dice. "Mi dia una mano a portarla dentro."

 

"Si sente meglio, mia cara?"

Il professor Sutherland si china premurosamente su Jennifer, versando altro tè caldo nella tazza semivuota che la donna, con sguardo assente, tiene in mano. Il sole del pomeriggio, ormai, entra dalle ampie vetrate del salotto, inondando la stanza di un piacevole calore. Riscossa dai suoi pensieri, la psicologa posa lo sguardo sul volto gentile del vecchio e si sforza di sorridergli.

"Sì, grazie." risponde, portandosi alle labbra la bevanda fumante. "Ma, in realtà, non si è trattato di un malore. Sa, professore, ho avuto un'esperienza piuttosto..." esita per un attimo, cercando la parola giusta "...singolare, là fuori."

Sutherland si siede sulla poltrona di fronte alla sua, fissandola con uno sguardo incuriosito.

"Singolare? Singolare, in che senso?"

"Non saprei come spiegarmi... Ecco, la prego, non mi prenda per una pazza." Jennifer posa la tazza su un tavolino accanto e si china a sua volta verso di lui, tenendo lo sguardo incollato nel suo. "In quel taxi, mentre guardavo questa casa, ho avuto l'impressione... no, l'esatta percezione di Joyce, vicina a me."

Il professore resta per un momento interdetto.

"Vuol dire che ha visto... o avvertito la sua presenza? Come quella di uno spirito, un fantasma?"

Jennifer sente un moto di gratitudine verso quell'anziano signore che non la sta guardando con commiserazione, magari appoggiandole paternamente una mano sulla spalla, e dicendole che ha avuto solo una crisi di stanchezza, o che risente ancora dello stato depressivo in cui ha vissuto per mesi, quando lei stessa si direbbe probabilmente quelle cose. Sutherland sta sforzandosi davvero di capire quello che lei sta provando tanto faticosamente ad esprimere in parole.

"No... oddìo, come faccio a spiegarglielo?" La donna si passa una mano sul viso, scacciandone una ciocca di capelli che si è liberata dalla sua rigida acconciatura a coda di cavallo e portandosela dietro l'orecchio. "Io non so cosa si provi durante quelle che chiamano esperienze extrasensoriali (Ah, sì?, interviene la vocina mentale, sua inseparabile compagna di lunghe giornate di solitudine e di pianti, e che mi dici di quella foresta fuori dalla tua finestra, in un posto dove non esistono alberi per chilometri?) e non so come sia entrare in contatto con un'entità dall'aldilà" continua Jennifer, ignorandola "anzi, se me lo avesse chiesto qualcuno fino a poco tempo fa, probabilmente gli avrei riso in faccia, ma non credo di avere avuto niente del genere. No, intendevo dire che ho proprio sentito Joyce accanto a me. Non un fantasma, non un essere incorporeo, ma una presenza viva, reale da poterla toccare. Stavo pensando a lei, in quel momento, mi stavano tornando alla mente le parole che disse quando lei ci condusse qui quel giorno..."

Il vecchio posa a sua volta la propria tazza e si soffia il naso sonoramente con un grande fazzoletto bianco, estratto dalla tasca della sua capace giacca.

"Mi scusi." dice con un tono di voce sospetto, riponendolo al suo posto. "Devo essermi preso un raffreddore d'inizio stagione. Ma la prego, prosegua."

Jennifer, che ha appena notato l'interruzione del suo interlocutore, riprende, concentrandosi sulla descrizione delle sue sensazioni.

"... e d'un tratto, l'ho sentita, sentita davvero, come se fosse stata seduta nel posto vicino a me, e tuttavia ero bloccata, non riuscivo a girarmi. Mi sembrava di essere in una specie di sogno. Avevo paura e nello stesso tempo un desiderio fortissimo di farlo, e la certezza, la certezza assoluta, che se fossi riuscita a voltarmi l'avrei vista. E stavo per farcela, quando..."

"Quando...?" la esorta Sutherland, nel momento in cui Jennifer s'interrompe.

"Quando è arrivato lei." conclude guardandolo.

Il professore si riappoggia allo schienale della sua poltrona con uno sguardo vagamente imbarazzato.

"Mi dispiace, non immaginavo...".

"Non è colpa sua." gli sorride di nuovo Jennifer. "Come avrebbe potuto? E comunque non è la prima volta che mi accade."

"Davvero?" L'espressione del vecchio torna a farsi intenta.

"Esattamente. Mi è capitato già qualcosa del genere, ieri. Mi sono assopita involontariamente sul divano e improvvisamente ero da qualche altra parte. Sulla terrazza di una casa, una grande terrazza di un appartamento lussuoso, un luogo che non conosco, ma io ero praticamente nuda." Jennifer è talmente presa dalla rievocazione che non si accorge nemmeno del leggero rossore che ha invaso le guance di Sutherland. "O quasi, comunque, con solo un asciugamano avvolto intorno al corpo ed un bicchiere in mano e a poca distanza da me, sotto un ombrellone, stesa su di una sedia a sdraio, c'era Joyce. Ancora una volta, professore, le giuro che era proprio lì, non un fantasma, non una visione. Io l'ho toccata, ho sentito le sue dita intorno alle mie, il calore della sua pelle, come ora sento il tessuto di questa poltrona. E ricordo ogni minima sensazione di quei momenti come se fossero avvenuti un minuto fa... no, ancora meglio, come se stessero avvenendo in questo preciso istante!"

Jennifer smette di parlare e rivolge lo sguardo al suo vecchio docente.

"Che ne pensa?" chiede.

Adagiato confortevolmente sulla sua poltrona, il vecchio la fissa per qualche istante senza parlare, poi si solleva e si gira verso il tavolo, per prendere la teiera e versarsi un'altra tazza.

"Perché non mi dice prima che cosa ne pensa lei?" dice, portandosela alle labbra e continuando a guardarla, con espressione assorta.

"Vedo che non ha perso le sue vecchie abitudini." osserva Jennifer con un lieve sorriso.

"Ad esempio?"

"Ad esempio, quella di rispondere alle domande con altre domande."

"Se lo faccio, mia cara," dice Sutherland, sorbendo fino all'ultimo sorso il suo tè "è perché sono sostanzialmente convinto che spesso chi fa una domanda, possegga già dentro di sé la risposta, ma per qualche ragione non può o non vuole vederla. Quando lei venne da me quel giorno, con la registrazione delle parole pronunciate da Joyce durante la sua crisi di sonnanbulismo, non cercava una risposta, ma solo una conferma a qualcosa che lei prima di tutti aveva capito."

"E lei crede che sia così anche ora?" chiede Jennifer. "Beh, stavolta si sbaglia, professore. Le confesso che la mia mente annaspa in qualcosa che non riesco a capire. Prima, in quel taxi, desideravo così tanto vederla, eppure ne ero anche completamente terrorizzata come se d'improvviso fossi sull'orlo di un abisso che potesse inghiottirmi da un momento all'altro. Ho visto..." La donna s'interrompe d'improvviso, esitando. "O meglio, ho creduto di scorgere accanto a me una specie di luminescenza, ma è svanito tutto, prima che mi rendessi conto di che cosa si trattasse."

"E tutto questo cosa le ha ricordato?"

Jennifer lancia un'occhiata al vecchio che, posata la tazza, sta continuando a studiarla con attenzione.

O leggendomi nella mente?, pensa. Sono così trasparente?

"Direi che anche lei mi ha appena fatto una domanda per la quale sta solo cercando una conferma. Non è così?"

"Risponda alla domanda, per favore."

"D'accordo." esplode in tono quasi alterato dall'esasperazione di quell'interminabile duello di sguardi e mezze frasi, Jennifer. "Che cosa vuole sentirmi dire? Che ho ripensato ai sogni ricorrenti di Joyce? A quel luogo in cui diceva di camminare, quella foresta che le pareva più concreta addirittura di questo mondo? Sì, è così. Ci ho pensato. Sa che l'altra notte ce n'era una fuori dalla mia finestra?"

"Una?" chiede Sutherland, perplesso.

"Una foresta! Proprio così!" Incapace di stare ferma più a lungo, Jennifer si alza e cammina fino alla portafinestra, guardando fuori lo splendido giardino inondato dai raggi del sole. "Lei non è ancora venuto a trovarmi dove abito adesso, ma le assicuro che non c'è l'ombra di un albero per interi isolati tutto intorno. Eppure, l'altra sera, ho visto con i miei occhi le chiome degli alberi agitate dal vento, come ora vedo lei. Glielo giuro, professore. Ma quando mi sono avvicinata per vedere meglio, non c'era più niente."

Jennifer si volta di nuovo verso di lui, e nonostante il suo viso sia in controluce e Sutherland non riesca a scorgerne i tratti distintamente, avverte un lieve singhiozzo nella sua voce e capisce che la donna sta sforzandosi di trattenere le lacrime.

"Jennifer, mia cara..."

"No." La psicologa alza una mano per fermarlo e il vecchio che stava alzandosi dalla poltrona per andare verso di lei si arresta. "Vuole sapere cosa penso, professore? Cosa penso davvero?"

Ora, Jennifer è completamente voltata verso di lui, il viso acceso dall'intensità delle emozioni che sta cercando di esprimere.

"I sogni che faceva Joyce, le cose che vedeva e sentiva, erano una specie di richiamo. Qualcosa, un mondo al di là di questo la stava reclamando ed alla fine se l'è ripresa. E ora sta accadendo anche a me."

Mentre parla, Jennifer tiene lo sguardo fisso in quello di Sutherland, ma la sua mente è distante e ruota come impazzita intorno a quel concetto che sta esponendo anche a se stessa per la prima volta e che tuttavia capisce di avere sempre nutrito in fondo ai suoi pensieri.

Allora è così. Ha ragione, professore. Le risposte che vogliamo abitano già dentro di noi.

"Faccio sogni come faceva lei. Vedo cose che non ci sono o che non ci dovrebbero essere, proprio come lei." mormora con tristezza, girandosi lentamente di nuovo verso il grande giardino, oltre le vetrate.

A poche decine di metri dal punto che sta guardando in quel momento, Joyce aveva trovato la morte, quella tragica notte di sei mesi prima.

Mio Dio, è davvero trascorso così poco tempo?

Nei suoi incubi. quegli attimi si erano ripetuti infinite volte, tanto da darle la sensazione che ne fosse passato molto di più, e nello stesso momento, che continuasse ad accadere, in ogni istante della sua vita. Ed ora che cominciava ad uscire da quello stato mentale in cui si era autosegregata ed il tempo aveva ricominciato ad avere una prospettiva calcolabile, si rendeva conto con una sorta di sgomento di quanto poco in realtà ne fosse passato.

Persa nei suoi pensieri, Jennifer avverte appena la mano del professore, posarlesi su una spalla.

"Non deve parlare così." sente la sua voce sussurrarle accanto all'orecchio. "Joyce viveva in questo mondo, ma in realtà non vi apparteneva. Non sapremo mai cosa l'aveva portata tra noi e non smetterò mai di ringraziare qualunque forza mi abbia concesso di incontrarla. Ma quello a cui noi due abbiamo avuto il privilegio di assistere è stato un prodigio. Un evento unico ed irripetibile. Lei, invece, Jennifer è di questo mondo e non c'è dimensione che possa reclamarla altrove di qui."

"Davvero?" chiede Jennifer, continuando a fissare come ipnotizzata fuori dalla vetrata. "Ne è davvero sicuro? Io invece non sono più sicura di nulla."

"Beh" dice Sutherland, lasciando che la sua mano le scivoli lungo il braccio e tornando verso la sua poltrona "avevo preparato qualche appunto sulla questione per cui voleva consultarmi, ma immagino che non sia il momento adatto per parlarne."

"No, invece. Parliamone." La psicologa si scuote dalla sua immobilità e con un evidente sforzo di volontà si sposta dalla vetrata e lo segue al centro della stanza. "Qualunque cosa mi stia succedendo, non mi aiuterà starmene in un angolo a fissare il vuoto. Credo sia meglio cercare di tenere la mente occupata in qualche modo."

"Jennifer" cerca di obiettare, perplesso Sutherland "visto il suo attuale stato, non so se è il caso di affrontare cose di questo genere."

"Il mio stato non ha niente a che vedere con il mio lavoro. La prego, professore. La ringrazio per la sua premura, ma sto bene adesso, mi creda."

Il tono della donna sembra quasi di implorazione e a Sutherland non resta che rimettersi a sedere con un sospiro, estraendo dalla tasca alcuni fogli di carta coperti dalla sua scrittura fitta e minuta, che spiega e posa davanti a sé.

"Ho dovuto fare qualche ricerca perché come capirà questa non è una materia in cui io sia molto versato." comincia il professore, aggiustandosi le lenti sul naso e tuffandosi nei suoi appunti. "Ho fatto riferimento ad un eminente antropologo, il professor Lindsay, della California University. Ne ha sentito parlare?"

Jennifer scuote la testa e il professore, che si è rialzato gli occhiali sulla fronte per guardarla, li rimette e riprende a leggere.

"Beh, le risparmio i cenni storici" dice, scorrendo rapidamente le pagine "come quello sui cinocefali o su Cristoforo Colombo..."

"Cristoforo Colombo?" chiede Jennifer, sorpresa.

"Già." risponde Sutherland con una risatina. "Sapeva che il termine cannibale pare derivi da una delle numerose cantonate prese da quel brav'uomo? In fondo la faccenda è anche piuttosto curiosa e divertente. Quando Colombo approdò a San Salvador, entrò in contatto con la tribù degli Arawak, la prima popolazione indigena che incontrò. Cercando di stabilire una qualche comunicazione con loro, colse nel loro linguaggio incomprensibile soprattutto una parola, "Cariba", che essi riferivano a loro stessi e che significava coraggioso. Ma Colombo capì invece "caniba",  "canis", e la accostò al termine "cinocefali", uomini selvaggi e feroci dalla testa di cane, di cui erano pieni racconti e leggende dei marinai e di cui gli scrittori parlavano fin dall'antichità, situandoli in estremo oriente, e le ricordo che lui credeva di essere giunto nelle Indie. Da allora, ogni volta che gli esploratori europei venivano a contatto con popoli bellicosi di quelle zone, si parlò di "caniba" e il significato dell'espressione mutò presto in "uomini che mangiano altri uomini", anche se poi questo senso che gli si volle dare fu più frutto di fantasia che altro."

"Sicché le feroci tribù cannibali di cui tanto si è fantasticato nei secoli avrebbero avuto origine da un equivoco?" chiede Jennifer, quasi involontariamente divertita dalla cosa.

"Beh, no. Non proprio. Anche se ci fu chi lo ipotizzò, come l'antropologo William Arens, che affermava non esistessero prove materiali concrete. Ma il cannibalismo rituale, ad esempio, pare fosse una pratica diffusa tra i popoli primitivi. Si mangiava la carne e si beveva il sangue del nemico per assumerne la forza vitale. In fondo, per certi versi, era anche un modo di onorare gli sconfitti, assimilandone la vita per farla propria e permetterle in qualche modo di perpetuarsi. Tracce di pasti cannibalistici sarebbero state trovate in grotte abitate in epoche preistoriche dall'Uomo di Neanderthal. Ma leggenda o realtà che sia, il cannibalismo resta comunque sostanzialmente uno dei grandi tabù del pensiero ad accompagnare la storia dell'umanità attraverso i secoli, e nella sua forma rituale, riaffiora sia pur attraverso la sublimazione del concetto, anche nella religione cristiana. Nei Vangeli, si descrive l'istituzione dell'Eucarestia, raccontando come Gesù invitasse gli Apostoli a mangiare il suo corpo ed a bere il suo sangue, divenuti pane e vino, ed il rito è ripetuto ancora oggi con la Comunione nelle funzioni cattoliche. Ai giorni nostri, la pratica vera e propria è quasi estinta anche se alcune sacche di resistenza ancora si registrano in paesi come la Cambogia, dove tempo fa due addetti ai forni crematori furono sorpresi a pasteggiare con vino e carne umana e furono sorprendentemente assolti in quanto in quel paese la cosa non costituisce reato se non accompagnata dall'omicidio. Ma per lo più, il cannibalismo è stato praticato in epoca recente solo in circostanze eccezionali, come ad esempio nel 1972, quando in seguito ad un incidente aereo, una squadra di rugby uruguaiana rimase isolata per molte settimane sulle Ande e i sopravvissuti furono costretti per restare in vita a cibarsi della carne dei loro compagni morti, oppure in gravi psicopatologie, come nel caso di Jeffrey Dahmer, il cosiddetto cannibale di Milwaukee, arrestato e condannato anni fa per aver ucciso e mangiato le sue vittime. Inoltre, è opinione comune tra gli studiosi, anche se non esistono abbastanza casi su cui basarsi oggettivamente, che in quasi tutti i soggetti che si sono sottoposti continuativamente al consumo delle proteine contenute nella carne umana, si siano poi riscontrati sintomi di malattie degenerative del cervello o di altro genere, come lo sviluppo di prioni nella Sindrome di Creutzfeldt-Jakob."

Sutherland solleva lo sguardo dai suoi appunti e lo rivolge a Jennifer che lo sta osservando con ancora un leggero pallore sul viso.

"Tutto bene, mia cara?" chiede. "E' sicura che questi argomenti non la sconvolgano?"

"Professore, ho fatto anche un'anno di medicina generale, prima di passare a psicologia. Ho avuto anch'io la mia piccola parte di esperienze in materia. Non si preoccupi." La donna torna a sedersi e riprende la sua tazza dal tavolo, riempiendola con il poco liquido ancora caldo rimasto sul fondo della teiera. "Continui pure. Anzi, ha trovato qualcosa su riti che includano il seppellimento delle ossa, dopo... l'atto?"

"No, ma non significa niente. Secondo i miti, esistono molti rituali legati al cannibalismo in epoche remote, e dei più diversi, dalla scarnificazione delle ossa alla loro riduzione in polvere, provenienti dai più lontani angoli del mondo, quindi ci può essere benissimo qualcosa del genere. Poi, naturalmente" prosegue Sutherland, spulciando di nuovo le pagine sparse davanti a lui. "potremmo citare tutte le leggende sorte nei secoli sulle orride storie dei mangiatori di carne umana, come quelle dei lupi mannari, probabilmente originate da quei cinocefali  di cui parlavo prima, dei vampiri o..."

"O degli orchi." conclude per lui, Jennifer, fissandolo da sopra la tazza.

"O degli orchi, già. "conferma il professore, togliendosi gli occhiali e posandoli sui fogli. "L'orco delle fiabe è naturalmente il primo che viene in mente quando se ne parla, "Pollicino", "Il fagiolo magico" e così via, ma in verità quella dell'orco è una figura mitologica, quanto quella dei ciclopi o del minotauro, che risale addirittura all'antica Roma e forse ancora più indietro, quando l'orco, o meglio l'Orco, con l'iniziale maiuscola era considerato un sovrano degli inferi e il divoratore di umani per eccellenza con il suo fedele cane Cerbero."

Jennifer posa la tazza sul tavolo con aria improvvisamente assente.

"Insomma si tratterebbe di un essere demoniaco, allora?" chiede.

"Esattamente. O così era in origine, almeno. Prima che i racconti popolari lo trasformassero in un gigante dalla forma umana e divoratore di bambini." risponde Sutherland, guardandola nuovamente preoccupato. "Che c'è, cara? E' sicura di stare bene? Vuole che smettiamo?"

La donna non risponde, fissando assorta la parete di fronte.

Il Diavolo... Il Diavolo ha ucciso il mio bambino.

"Jennifer?"

Era lungo e nero... con la pelle lucida e due grandi corna sulla testa...

"Jennifer?" Adesso l'ansia è tangibile nella voce del professore.

"Cosa?" La psicologa si scuote, accorgendosi finalmente dello sguardo apprensivo che Sutherland le sta rivolgendo. "Oh, no, non è niente, mi scusi." dice subito, e nel vederla sorridere il vecchio emette un sonoro sospiro di sollievo.

"Meno male. Per un momento, ho creduto..."

"No. Tutto a posto. Solo che quello che mi ha detto mi ha fatto tornare in mente una cosa...".

"Di che si tratta?"

"La donna, Rose, la mendicante che ha trovato lo scheletro infantile nel parco... Carruthers mi aveva chiesto di interrogarla... e lei mi ha parlato... beh, era tutto molto confuso, e francamente non ho dato molto peso a quello che diceva... ma lei mi ha parlato... di un demonio..."

"Cosa?" Sutherland la fissa perplesso.

"Sì... lo so che sembra assurdo... e quella donna aveva la mente sconvolta... credeva che quel bambino fosse il suo... ma affermava decisa di avere visto il Diavolo sotterrarlo...e se...?"

"E se...?" ripete il professore alzandosi dalla sua poltrona ed avvicinandosi a lei. "Vuol dire se fosse vero?"

"E' pazzesco, eh? Ma è più pazzesco di una guerriera di duemila anni fa che rivive di colpo tra noi? O di una ragazza di vent'anni nel cui corpo alberga lo spirito antichissimo della sua compagna?" Jennifer alza lo sguardo su Sutherland che ora è in piedi accanto a lei. "E se il loro arrivo fosse stato solo l'annuncio di qualcosa di più grave, di molto più terrificante che stava per accadere? Se avesse rotto un equilibrio tra questo mondo e qualcos'altro là fuori? E se fosse un essere proveniente dal loro mondo?"

Le ultime parole di Jennifer erano state pronunciate a voce così bassa che Sutherland si chiede per un attimo se ha capito bene.

"Mia cara, lei è ancora scombussolata da quello che le è successo. Forse, ha sbagliato a rituffarsi nel lavoro, soprattutto in un lavoro del genere, mentre sta ancora uscendo da una lunga depressione..."

"Oh, la prego, professore, non mi deluda. Ho smesso un attimo fa di farle i complimenti dentro di me per la sua apertura mentale. Non me li faccia rimangiare." Jennifer stenta a contenere l'esasperazione e si alza di scatto ponendosi di fronte al vecchio e fissandolo negli occhi. "Ha già dimenticato quando era lei a cercare di convincermi della bontà delle sue teorie su Xena e su quello che stava capitando a Joyce? E alla fine ha avuto ragione. Lo so che tutto questo sembra illogico e irrazionale, ma se fosse vero? Se il killer fosse un essere soprannaturale, questo potrebbe spiegare come abbia fatto a sottrarre quei bambini senza che nessuno se ne accorgesse. Se la sente di escluderlo categoricamente?"

"Va bene, Jennifer, le concedo il punto." dice Sutherland, infilando le mani nelle tasche della giacca. "Ammetto che dovremmo considerare ogni possibilità, anche quelle più improbabili, visto quello di cui già siamo stati testimoni, io e lei. Ma per onestà intellettuale, non possiamo negare che possano esistere spiegazioni più razionali per le imprese di The Ogre. Io non sono un poliziotto nè un criminologo, ma sarà d'accordo con me se le dico che c'è più di un sistema con cui un rapitore in carne ed ossa avrebbe potuto sottrarre quei bambini."

"Ad esempio?"

"Ad esempio, una carrozzina. Chi potrebbe sospettare di una donna che se ne andasse in giro con una carrozzina? Al momento giusto, afferra il bambino e lo mette dentro coprendolo con una copertina e sparendo in un attimo. Oppure, meglio ancora, un uomo con una grossa borsa, sportiva o da viaggio. I bambini scomparsi erano molto piccoli. Soffocarli, stringendoli al collo, e infilarli in una borsa non richiederebbe che pochi secondi. Il soffocamento, inoltre, spiegherebbe perché nessuno dei bambini è stato sentito piangere al momento della sottrazione."

"Mi pare più probabile." ammette Jennifer pensosa, annuendo. "Muoversi con una carrozzina, soprattutto se devi andartene alla svelta non è agevole. E tutti noterebbero e ricorderebbero un uomo, ma anche una donna, che si allontanasse velocemente con una carrozzina dalla scena del rapimento di un bambino. Inoltre una borsa si può gettare in un attimo nel portabagagli di un'auto, e sparire così nel giro di pochi istanti."

"Vede, dunque?" dice Sutherland con un sorriso. "E senza richiedere l'intervento di dèmoni o altre creature dell'oltretomba."

"Sì, come ricostruzione potrebbe essere verosimile." Jennifer abbassa la testa e con passo lento si avvicina nuovamente alla grande vetrata che dà sul giardino, dove adesso i raggi del sole, che si è abbassato sull'orizzonte, indicano il pomeriggio avanzato.

"Inoltre..." Sutherland si dirige verso alcuni giornali spiegazzati accanto al divano al centro della stanza. "Come ha detto che si chiama quella mendicante che ha interrogato?"

"La chiamano la vecchia Rose, ma in realtà non è tanto vecchia." risponde Jennifer, senza voltarsi, e continuando a guardare il giardino. "Abita in una specie di baracca dietro Sorrentino, mi pare, e ora non ricordo il suo nome esatto, ma..."

"E' Rosebud Benedectine Fouraux, forse?"

La donna si volta di scatto verso di lui. Il professore stringe tra le mani una copia del Tribune del mattino. Jennifer la riconosce dal titolo a lettere cubitali dedicato in prima pagina all'imminente viaggio del segretario di stato in Europa. Ma Sutherland sta leggendo qualcosa in una pagina interna, e gliela indica con un cenno del capo, mentre lei gli si avvicina per leggere da dietro la sua spalla.

"Ne ero quasi certo. L'ho notato per caso, ma il nome mi è rimasto impresso a causa di quel film di Orson Welles, Quarto potere, ma non pensavo che...".

In un angolo basso della pagina, in un breve articolo su una sola colonna, Jennifer legge:

 

 

 

FEROCE ASSASSINIO DI UNA BARBONA

 

Il cadavere di Rosebud Benedictine Fouraux, meglio nota come Rose, una donna di 45 anni, che viveva di espedienti, è stato rinvenuto davanti alla baracca in cui abitava in un vicolo dietro Centre Street, con la gola squarciata probabilmente da una bottiglia rotta. La polizia che è accorsa sul posto chiamata da un uomo che si stava recando in visita dalla donna non è ancora riuscita ad individuare il movente o un sospetto per il delitto. Anche se appare plausibile l'ipotesi che la donna sia rimasta uccisa in una collutazione tra ubriachi per il possesso di una bottiglia, forse proprio quella con cui si è poi consumato il delitto, la polizia non esclude per ora altre piste.

 

L'articolo proseguiva ancora per qualche rigo, elencando alcuni precedenti penali di Rose e un paio di notizie del suo passato, ma, e Jennifer se ne accerta subito strappando praticamente il giornale dalle mani di Sutherland, non faceva menzione del coinvolgimento della donna nel caso di The Ogre. Quindi la polizia era stata molto attenta a che una simile notizia non trapelasse e anche se non si facevano nomi, la psicologa sentiva la presenza di Carruthers nell'affare.

"Una vita ed una morte tragica liquidate in poche righe." osserva Sutherland tristemente.

"E' impossibile. Non può essere un caso." Jennifer continua a scorrere il breve articolo, come nella speranza di trovarci altre notizie, nascoste tra le righe. "Questa donna, esaltata o meno che fosse, era l'unica testimone. L'unica che avesse potuto almeno dare una fuggevole occhiata all'assassino e immediatamente viene uccisa. Non può essere una coincidenza."

"E con tutta probabilità non lo è." dice il professore. " Ma questa, se abbiamo ragione, è la migliore prova di quello che dicevo. Le hanno tagliato la gola con una bottiglia rotta. Non mi pare il modus operandi di un essere diabolico."

"Anche di un essere diabolico che si serva di un veicolo umano?" mormora quasi tra sé Jennifer. Poi, staccato lo sguardo dalla pagina, ripiega il giornale e lo riconsegna a Sutherland, con un sospiro. "Lasci stare. Forse ha ragione lei. Tutto quello che è successo in questi mesi ha completamente sconvolto il mio mondo fatto di positivismo e certezze scientifiche e ora mi pare di vedere fantasmi ed eventi soprannaturali dappertutto."

"Io non mi preoccuperei. A me sembra naturale." dice il vecchio con un sorriso di conforto.

"Davvero?"

"Certo. Posso parlarle francamente, Jennifer?" chiede Sutherland, riprendendo gli occhiali, e poi ripulendoli prima di rimetterseli.

"La prego."

"Lei voleva molto bene a Joyce..."

"Io l'amavo, professore. E non ho mai smesso." lo interrompe la donna. "E avrei voluto essere capace di dirlo allora con la stessa facilità con cui riesco a dirlo oggi."

"Sì, appunto." prosegue il vecchio con un po' d'imbarazzo. "La sua morte è stato un trauma grandissimo per lei, e quindi è normale che il suo subconscio si aggrappi all'idea della sua sopravvivenza in qualche altro luogo, in qualche altro tempo, perfino in qualche lontanissima dimensione parallela. Tutti vorremmo poter pensare che i nostri cari continuano a vivere, anche se lontani da noi. Le religioni stesse nascono per darci l'illusione che le nostre vite abbiano uno scopo dopotutto, e noi tutti confidiamo che sia effettivamente così, ma non ne avremo la certezza finché noi stessi non saremo passati dall'altra parte. Solo allora sapremo."

Jennifer si è rimessa a sedere, ascoltando il professore, ma i suoi occhi non sono rivolti a lui, ma continuano a fissare il giardino oltre la vetrata.

"Lei mi sta dicendo che il mio desiderio di credere con tutte le mie forze che Joyce sia davvero ancora in vita chissà dove e quando, mi fa interpretare tutto in questa chiave? Al punto di pensare che perfino un ributtante infanticida cannibale come questo, possa esserne un indizio, è così?" Jennifer distoglie la sua attenzione dalla visuale esterna per appuntarla con uno sguardo rabbioso su Sutherland. "Ma sbaglio, o fu proprio lei a farmelo pensare, dicendo che sperava che dovunque fossero finite, Xena e Olimpia fossero di nuovo insieme?"

"Infatti, e non lo nego." afferma con decisione l'anziano studioso. "Lo speravo, e lo spero tutt'ora. Ma è appunto solo questo, Jennifer, una speranza, e non può essere nient'altro. Non deve trasformarsi in un'ossessione, nel..." Il professore esita un attimo di troppo sull'orlo di una parola. "Nel disperato sogno di rivederla." conclude poi.

Jennifer annuisce guardandolo con una lieve ombra di ironia.

"Disperato? O non stava forse per dire folle?"

"La prego di non fraintendermi." Sutherland le si avvicina e si china lievemente su di lei, per quanto gli consente la fitta che continua ad avvertire tra il fondoschiena e la gamba. "Non era mia intenzione offenderla o intromettermi nella sua vita privata, ma io le sono sinceramente affezionato, Jennifer, e mi piange il cuore vederla soffrire e distruggersi così. Lei è una donna intelligente, una valente psicologa. Aveva davanti a sé una brillante carriera, e può ancora averla se metterà da parte il passato. Non le sto chiedendo di dimenticare Joyce, ma la riponga in un angolo del suo cuore e la lasci là, dove la troverà sempre e dove vivrà sempre con lei, e si riprenda la sua vita."

Jennifer non risponde per qualche momento, con lo sguardo basso, poi lo risolleva, ma guarda oltre Sutherland, verso la grande vetrata sul giardino che sta oscurandosi man mano che il sole si abbassa sull'orizzonte.

"Sta facendosi tardi." dice. "Le spiacerebbe chiamarmi un taxi? Aspettando, farò una passeggiata in giardino."

 

 

(56) Xena e Olimpia

 

Man mano che avanzavano attraverso la vegetazione, il passo dei tre si era fatto sempre più lento e cauto. Ogni tanto, Xena alzava una mano per indicare ad Olimpia di fermarsi e lei faceva altrettanto con Alexi che continuava a seguirle a rispettosa distanza. Olimpia gli aveva lanciato, camminando, un paio di occhiate di sottecchi e lo aveva sorpreso entrambe le volte a fissarla con una strana espressione nello sguardo. Il giovane aveva immediatamente distolto gli occhi da lei, fingendo di osservare il terreno, ma la ragazza aveva comunque fatto in tempo a coglierla. C'era forse un po' di giustificato timore in quello sguardo, misto a sorpresa e rabbia, a nessun uomo fa piacere essere steso con un pugno da una donna, e inoltre il labbro di Alexi cominciava già a mostrare un evidente gonfiore nel punto in cui si era scontrato con le sue nocche, ma Olimpia credeva di scorgervi anche qualcos'altro. Qualcosa che non riusciva bene a comprendere e che tuttavia la inquietava vagamente, senza che potesse capirne l'origine. Ma si era più volte, istintivamente, assicurata che i suoi sai e le armi che Xena le aveva affidato fossero bene a portata, in caso di necessità. Non che temesse una qualche aggressione da parte di lui, ma gli ormai lunghi anni di esperienza accanto alla Principessa Guerriera le avevano insegnato a non sottovalutare mai un istinto per vago che fosse, e a quella regola si atteneva.

Solo per un momento, Olimpia aveva dimenticato Alexi, Xena e la ragione per cui si trovavano là. Era accaduto una trentina di passi prima. Lei stava camminando, facendo molta attenzione a dove posare i piedi, quando d'un tratto le era parso come se la terra, improvvisamente le fosse mancata sotto lo stivale ed aveva rischiato di cadere in avanti, riuscendo a mantenere l'equilibrio solo con uno sforzo di volontà. Immediatamente aveva guardato gli altri, ma Xena, evidentemente tesa a cogliere il minimo segnale, fisico o mentale, della presenza dell'essere, non sembrava essersene accorta, e Alexi, alle sue spalle, se si era reso conto di qualcosa non l'aveva dato a vedere. Ma il mondo nell'attimo in cui era accaduto, aveva vorticato intorno a lei, e in quel vortice, con gli occhi della mente, aveva visto la donna del sogno.

La ragazza era rimasta senza fiato. Non poteva essere un'allucinazione perché l'immagine le era apparsa solo nel pensiero, e non poteva essere un altro sogno, perché lei era sveglia e perfettamente cosciente, e pur tuttavia ne aveva avuta una sensazione indefinibile nella sua brevità, di estraniamento, come se, per un attimo e solamente per un attimo, si fosse trovata da un'altra parte. Il volto della sconosciuta le era apparso davanti, ma lievemente di profilo e proprio mentre stava per voltarsi verso di lei, era scomparso e lei si era ritrovata nel fitto dell'erba, con le gambe irrigidite che la sostenevano appena.

Che succede? aveva pensato. E' la Bestia? E' quell'essere che sta cercando di entrare nella mia mente?

Ma se l'immagine che aveva visto era una manifestazione dei poteri della Bestia, in qualche modo la sua mente doveva essere riuscita a scacciarla. Forse, dopotutto aveva avuto ragione Xena ad affidare a lei le armi. Forse davvero quella cosa non poteva nulla contro di lei. Ma Olimpia sentiva che non poteva essere così. In quella storia, l'essere diabolico che abitava la foresta non c'entrava niente. La donna che le era apparsa in sogno tante volte e che aveva appena visto in un lampo mentale che l'aveva lasciata stordita, era una faccenda che riguardava lei e lei soltanto.

Adesso però, non c'era il tempo di pensarci. Qualunque cosa significasse doveva metterla da parte, dimenticarla. Xena aveva bisogno di lei e di tutta la concentrazione di cui era capace. Non poteva lasciarsi distrarre da nient'altro. La misteriosa sconosciuta avrebbe dovuto attendere il suo turno.

Qualche passo avanti a lei, Xena si ferma ancora, alza un braccio, guardando verso terra, poi fa cenno di seguirla e, deviando lievemente dal suo cammino, riprende ad avanzare lentamente. Olimpia sospetta che quelle fermate, quasi sempre seguite da una leggera deviazione a destra o a sinistra abbiano uno scopo preciso: impedirle di vedere i resti di altri corpicini mezzi sepolti tra il terreno e l'erba, e il suo animo è combattuto tra la gratitudine per la sua compagna, che vuole evitarle altri tristi spettacoli, e la rabbia verso chi ha permesso che simili tragedie avvenissero senza muovere un dito. Stringendo i denti, resistendo alla tentazione di voltarsi verso Alexi per esprimergli ancora una volta almeno con lo sguardo tutto il suo disprezzo, Olimpia continua a seguire con attenzione le mosse di Xena per essere sicura di percorrere lo stesso sentiero tracciato da lei, cercando di escludere dalla mente ogni altro pensiero o emozione che possano in qualche modo distrarla.

Poi, improvvisamente, Xena si arresta, puntando lo sguardo verso qualcosa che lei dalla sua posizione non può ancora vedere, e si accoscia a terra, divaricando alcuni steli d'erba particolarmente alti. Cercando di fare meno rumore possibile, Olimpia si avvicina, abbassandosi a sua volta, ma la sua statura, inferiore a quella della guerriera, le impedisce di scorgere la cosa che evidentemente ha talmente catturato l'attenzione della compagna al punto da farle dimenticare di compiere la sua solita segnalazione. Quindi, sempre molto cautamente, Olimpia si solleva di quel tanto necessario a darle una migliore visuale.

A qualche decina di passi, venti, forse trenta, là dove l'erba alta d'improvviso s'interrompe, s'intersecano sul terreno le radici scure e contorte di molti alberi. Alberi dai tronchi larghi e dai rami fitti che coprono quella piccola zona, impedendo anche al minimo raggio di sole di filtrarvi attraverso. La terra in quel punto appare secca ed arida e intorno non vi cresce erba nè vegetazione d'altro genere. Se quello è il luogo dove si trova la tana della Bestia, Olimpia non lo riconosce. La sera prima, quando si è lanciata sulle tracce di Xena, ricorda di aver attraversato una porzione di foresta che non le sembra assolutamente quella in cui sono adesso. Poi capisce. Xena ha fatto fare loro un giro, per arrivare sul posto dalla direzione opposta, alle spalle, per così dire, della tana, giungendovi controvento. Olimpia non può fare a meno di sorridere. Non importava contro quale mostro o dèmone, magari dotato dei poteri più incredibili, Xena credesse di dover combattere, i suoi istinti di cacciatore non venivano mai meno. La preda la si avvicina sempre controvento, le aveva spiegato fin dalle prime settimane della loro vita insieme, quando lei era solo una ragazzina che aveva ancora difficoltà a seguirla, trascinandosi dietro il suo poco pratico abito da campagnola, con quella gonna lunghissima che era ormai già ridotta ad uno straccio a forza di impigliarsi in ogni rovo o cespuglio. E quella regola valeva sempre nel Manuale della perfetta Principessa Guerriera, sia che si dovesse dare la caccia ad un cervo o a chissà quale demoniaco avversario.

Avvicinatasi ancora un po' alla compagna, Olimpia la osserva in volto. Senza timori evidenti, Xena sta scrutando con la fronte aggrottata la fila di alberi che si staglia davanti a loro. Nel suo atteggiamento non pare esservi traccia di tensione, se non quella del guerriero cosciente di trovarsi in territorio nemico, ma da piccole, quasi invisibili indicazioni, che solo lei sa interpretare, la ragazza nota che il comportamento della compagna non è controllato come al solito. Le mani stringono i lunghi ciuffi d'erba con forza, le nocche quasi sbiancate e le unghie che si conficcano nei palmi; gli occhi ridotti a due fessure da cui traspare appena l'azzurro delle pupille; la bocca serrata in una linea sottile in cui le labbra sono praticamente scomparse. Tutti segnali che al suo occhio esperto rivelano uno stato di nervosismo inusuale in una persona abituata a dominare le proprie emozioni, almeno davanti agli altri.

"Sei riuscita ad individuarla?" le bisbiglia in un orecchio e il sussulto, lievissimo ma indiscutibile, di Xena alla sua domanda, le conferma che le sue impressioni sono fondate.

"Sì." risponde la guerriera dopo un attimo di esitazione. Poi indica lo spazio tra due alberi, nella macchia centrale più folta. "Dovrebbe essere là, dove quelle radici più grandi si sollevano dal terreno. Vedi?"

Olimpia si sporge un poco per vedere meglio il punto che Xena le sta indicando e, aguzzando la vista, questa volta immediatamente riconosce il luogo in cui appena la sera prima lei e Xena si sono scontrate. I rami più bassi ancora recano le tracce dei colpi di spada che la Principessa Guerriera aveva vibrato. Nel buio e nella concitazione del momento, non si era resa conto della furia che la guerriera aveva messo nei colpi. Rami grossi come braccia o gambe muscolose, pendevano staccati quasi di netto dai loro tronchi, altri giacevano al suolo ridotti in frammenti. E alcuni di quei colpi erano stati diretti a lei. Se anche uno solo avesse raggiunto il bersaglio...

"Allontanati, ora." sussurra Xena che pare di nuovo totalmente concentrata sul suo obiettivo. La guerriera non la sta guardando, ma proprio per questo Olimpia sa che lo stesso pensiero adesso si agita anche nella sua mente, il pensiero di avere rischiato quasi di ucciderla, e fa per posare una mano sulla spalla di lei, per confortarla, ma il gesto si ferma a mezz'aria.

All'inizio non riesce a capire esattamente cosa stia sentendo. Le sembra un miagolio, lontano, soffocato e tuttavia perfettamente percepibile. Un gattino smarritosi nella foresta? O un suo parente più grosso e selvatico in caccia? Ma in quel posto non pareva esistessero animali. Ne avevano percorso a più riprese varie zone e non ne avevano mai incontrato o sentito nessuno, come se tutti gli abituali abitanti della foresta fossero fuggiti o si fossero rifugiati così in profondità dentro di essa da esserne divenuti solo un'altra parte, muta ed immobile quanto la vegetazione. Poi i suoni si precisano nella sua coscienza e lo sguardo di Olimpia corre alla compagna, in cerca di una conferma.

"Lo senti anche tu?"

La risposta di Xena non necessita di essere espressa in parole. La sua testa ruota per un attimo verso Olimpia e poi torna a fissare gli alberi, ma quell'attimo è stato sufficiente alla ragazza per comprendere che anche l'altra ha sentito.

"E' il pianto di un neonato. Quei bastardi gli hanno portato un'altra vittima sacrificale." La rabbia nella voce di Olimpia sta rapidamente montando. Un fruscio alle loro spalle indica che anche Alexi si sta avvicinando. Xena si volta nella sua direzione.

"Che fai qua? Ti ho detto di restare indietro."

Il giovane si arresta al secco rimprovero.

"Ma ho sentito..." comincia a dire.

"Torna immediatamente alla tua posizione! E tu" dice la guerriera rivolta altrettanto seccamente alla compagna "sta' con lui e assicurati che non si muova!"

"Xena, ma quel bambino..."

"Olimpia, è un trucco." Adesso, Xena riesce a fatica a mantenere la voce calma. "Quella cosa agisce a livello mentale. Percepisce i nostri punti deboli. Ieri sera ci ha provato con me usando i miei rimorsi e i miei sensi di colpa e adesso sta facendo la stessa cosa con te."

Olimpia rimane a guardarla, come se non credesse alle sue orecchie.

"Ma Xena, quello è un bambino! Ascolta!" La ragazza afferra la compagna per le braccia, inchiodando i suoi occhi in quelli di lei. Nel silenzio che segue a quel gesto, mentre le due donne si fissano vicendevolmente, Alexi che si è allontanato le guarda a sua volta perplesso, e anche il tempo sembra immobilizzarsi, il pianto in lontananza riprende con rinnovata energìa. Il gemito straziante di una creatura indifesa.

"Lo senti?!" Olimpia ha quasi gli occhi fuori dalle orbite. "Muoviamoci!"

La ragazza fa per gettarsi oltre il precario riparo dell'erba alta, verso gli alberi, ma il suo slancio è bloccato dalle forti braccia di Xena che l'afferrano, costringendola a terra.

"Xena! Lasciami!!"

Olimpia lotta per sottrarsi a Xena che fa valere tutto il suo peso sul corpo della compagna, e contemporaneamente le sfila la spada, il chakram e i due sai di dosso, gettandoli da parte.

"Ragiona, Olimpia!" Il tono della guerriera è affannoso ora nello sforzo di trattenerla sotto di sé. "Io ero al villaggio ieri sera e ho ascoltato i discorsi di Acros. Non ha fatto menzione di dover fare niente del genere per oggi. Non credi che l'avrebbe detto, altrimenti?"

La giovane donna cessa di lottare e i suoi occhi si riempiono di lacrime, mentre le due compagne restano a guardarsi l'una distesa sopra l'altra.

"Ma come puoi essere così gelida, Xena?" Olimpia fissa la compagna con una tale pena nello sguardo che Xena sente il suo cuore lacerarsi. "E se ti sbagliassi? Sei dovuta scappare via, ricordi? E se avessi perso una parte delle sue parole? Forse c'è davvero un bambino là, un bambino che possiamo salvare. Te la senti di rischiare?"

Ancora una volta, in distanza, come in risposta a quella domanda rimasta sospesa, giungono acute urla infantili. La guerriera esita e allenta la presa e in un lampo, il corpo snello e robusto sotto di lei scatta scivolando di lato e in una rapida capriola afferra la spada rimasta sul terreno e balza in piedi, gettandosi poi in corsa verso la macchia d'alberi.

La sorpresa non dura più di un attimo.

"Maledizione! Olimpia, torna qui!" grida senza più cautele Xena e si lancia all'inseguimento.

(10 - continua)





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