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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo X)

Parte 1

(57) Jennifer

"Joyce! NO! Torna dentro!" aveva urlato disperata, per poi lanciarsi quasi in tuffo fuori dalla finestra, mentre il professore era riuscito a trattenerla a stento. E laggiù, sul prato illuminato a sprazzi dalla luce delle torce che saettavano tra il terreno e la vegetazione intorno, le due donne combattevano una al fianco dell'altra, colpendo spietatamente chiunque cercasse di avvicinarsi.  La loro intesa era perfetta, i loro movimenti così armoniosamente in sintonia, che anche lei, nonostante la paura che provava per l’amica, non poteva non sentirsi affascinata da ciò a cui stava assistendo. Il professor Sutherland, della cui presenza era solo vagamente cosciente, sembrava altrettanto incantato da quello spettacolo. Le grida dei poliziotti che facevano da sottofondo al tutto erano appena udibili nell’indiavolata battaglia che si stava svolgendo sotto i loro occhi...

E poi c'era stato lo sparo.

Era stato preceduto da un grido ("Fermo! NO! Non sparare!") emesso da chissà chi, forse lo stesso Carruthers, in quella confusione era difficile a dirsi... e da quel momento, il mondo era sembrato muoversi in un modo assurdamente lento. Non conservava che vaghe memorie della sua corsa in slow motion giù per le scale, a rotta di collo (e un paio di volte aveva davvero rischiato di rompersi qualcosa), perché la sua mente era già sull'erba di quel prato dove un attimo prima (o un mese, un anno?) aveva visto il corpo di Joyce scivolare al suolo, inutilmente trattenuto tra braccia dalla statuaria guerriera giunta dal passato al cui fianco stava combattendo, per amore della quale stava morendo...

E il resto erano solo frammenti, istantanee ingiallite dal tempo. Lei che stringeva il corpo abbandonato e ormai privo di vita della ragazza, l'urlo di battaglia della guerriera, più simile al ruggito di una belva ferita, e le altre urla, quelle dei poliziotti, che le arrivavano alle orecchie come attutiti rumori di sottofondo, privi di significato...

 

Jennifer sente  le suole dei suoi stivali da trecento dollari affondare lievemente nella terra umida del prato sul quale sta camminando lentamente, ripercorrendo ricordi di un passato che non l'ha mai abbandonata in quei mesi di vita sospesa, ma che non aveva mai osato rivivere così intensamente e da cui la sua mente fuggiva ogni volta che la finestra della memoria minacciava di spalancarvisi sopra.

I dettagli, erano soprattutto i dettagli a riacutizzare il suo dolore, quelli sui quali non si era mai concessa di soffermarsi, tra i quali lo sguardo spento di Joyce era il più atroce. Mai come in quel momento aveva compreso pienamente il significato della parola morte. Neanche quando era stata chiamata a riconoscere il corpo di sua sorella in quella fredda cella di obitorio aveva provato niente del genere. Allora si era semplicemente rivestita della sua corazza e non aveva permesso ai suoi sentimenti di emergere dal fondo in cui li aveva sepolti.

Ma lì, su quella stessa erba che ora stava calpestando, ogni protezione, ogni armatura, era caduta lasciandola nuda ed indifesa, esposta come mai prima agli strali della sofferenza. L'amore fa questo effetto. Per innamorarsi davvero, bisogna abbassare ogni difesa che la nostra mente ci abbia costruito intorno, gettarsi alle spalle ogni cautela e lasciare che la folle ed inebriante sensazione che quel sentimento provoca s'impadronisca di noi totalmente, senza remore, senza ostacoli. E lei l'aveva fatto. E ne aveva pagato il prezzo, fino in fondo.

Sul bel viso di Joyce non vi era più traccia del fulgore luminoso che l'aveva permeato e che attirava il suo sguardo come una falena alla fiamma. La bellezza c'era ancora tutta, ma era immobile, gelida, senza vita, come quella di una statua di marmo dalle fattezze perfette ma in cui lo scultore non fosse riuscito ad infondere il soffio vitale. Il suo spirito se n'era andato, per sempre, volato chissà dove. E in questo il professore aveva ragione: lei voleva con tutte le sue forze che quello spirito fosse sopravvissuto, e ritornato in qualunque mondo, qualunque tempo o qualunque dimensione, anche lontanissima, da cui fosse giunto, perché così anche la sua Joyce, o almeno una piccola parte di lei, sarebbe sopravvissuta, in un remoto angolo della mente o del cuore della donna chiamata Olimpia di Potidea.

Era un'idea folle? Forse. Ma era l'idea che l'aveva sorretta in quei mesi, che le aveva permesso di resistere nonostante tutto alla tentazione di lasciarsi cadere per sempre negli abissi dell'incoscienza per non riemergerne più.

E ora, quelle sensazioni, perché non voleva, non poteva credere che fossero allucinazioni, cosa significavano? La foresta che, ne era certa, aveva effettivamente visto dalla finestra della suo appartamento, poteva essere quella stessa che Joyce diceva di vedere nei suoi sogni? Avrebbe voluto che fosse così, ma non osava sperarlo. E quel sogno, se di un sogno davvero si trattava? E l'impressione netta, precisa, inequivocabile che Joyce fosse accanto a lei, quel pomeriggio in quel taxi? Quella come si poteva spiegare? Erano segni, premonizioni dell'arrivo di qualcosa? Di un destino che stava per ghermire anche lei? Si era talmente consumata nel suo dolore che qualche inimmaginabile entità, commossa, si stava chinando su di lei per prenderla a sua volta? Sapeva cosa avrebbe detto Sutherland se avesse potuto leggerle nel pensiero, ma almeno in una cosa si sbagliava. Lei non aveva paura. Ciò che aveva visto in quel taxi, ciò che aveva provato in quei momenti, le aveva aperto un orizzonte di cui solo ora si accorgeva, ma che dentro di lei doveva aver nutrito inconsapevolmente fin da quella notte, sepolto sotto le macerie di uno strazio obnubilante.

Sei tu che mi chiami, Joyce? Se è così, eccomi, sono qui. Vieni a prendermi.

Era per questo, vero? che aveva chiesto di uscire a passeggiare un po' in giardino, in attesa del taxi che il professore aveva chiamato, nonostante Sutherland le avesse consigliato di non farlo, temendo evidentemente che ripercorrere quei ricordi nel suo attuale stato mentale non potesse che nuocerle. Ma lei non lo aveva voluto ascoltare, perché sentiva che nel luogo in cui la donna che amava era morta, poteva esserci più possibilità che il mondo che l'aveva inghiottita, afferrasse anche lei. Come sarebbe potuto succedere? All'improvviso avrebbe visto comparire un baluginìo nell'aria e un portale luminoso si sarebbe aperto davanti a lei, come avveniva nei film di fantascienza? O le sarebbe apparsa Joyce stessa, in una veste bianca e fluttuante e le avrebbe offerto la mano perché lei la prendesse e la seguisse dovunque volesse portarla? O sarebbe stato scelto un altro modo? Come avrebbe attraversato quella soglia?   

Ti rendi conto che questa è pazzia, vero? le sussurra all'orecchio la vocina che ha imparato a riconoscere come la sua parte razionale, il lato della Jennifer Rowles pratica e positiva che una volta, prima che entrasse in una certa stanza d'ospedale e incrociasse il suo sguardo con quello di due occhi azzurri e smarriti di una giovane donna distesa in un letto, era la parte dominante della sua personalità, il cuore e il cervello della sua vita controllata ed organizzata, e che da quel fatidico istante giaceva prigioniera nel buio sottoscala della sua mente e a cui concedeva ormai solo quei fiochi ammonimenti.

Sì, lo so, ma non m'importa. Se il suo passaggio doveva avvenire attraverso la pazzia, che fosse. Forse il suo corpo sarebbe stato rinchiuso per sempre in una casa di cura per malattie mentali, incapace di muoversi, parlare, mangiare autonomamente, bisognoso di assistenza anche solo per urinare, ma il suo spirito sarebbe stato libero di viaggiare oltre questa realtà, in mondi che non riusciva neanche a sognare.

Era un costo accettabile.

Ma qualunque sia il sistema escogitato, è qui che deve succedere e adesso.

Non c'era più molto tempo. Ormai la macchina richiesta dal professore doveva essere quasi arrivata. Tra un paio di minuti o tre l'avrebbe sentito chiamarla e l'ncantesimo si sarebbe rotto, ancora, come era già successo una volta quel giorno...

Qui e adesso.

Il fruscìo che giunge dalle sue spalle è appena avvertibile all'udito. Jennifer fa per voltarsi e in quel momento qualcosa le passa leggero sul viso per poi stringersi soffocante intorno alla sua gola. Inutilmente la sua bocca cerca di emettere un grido. Le sue dita cercano disperatamente di allentare la sottile corda metallica che la sta strangolando, ma non riescono a fare presa. Il filo d'acciaio già le sta penetrando nella pelle, e il sangue, impedito a circolare, le sta gonfiando la testa. E mentre l'asfissia si fa strada nei suoi polmoni, la risposta alle sue domande le arriva alla mente.

Naturalmente. Avrebbe dovuto saperlo. L'unico modo per attraversare la soglia è la morte. 

Eccomi, Joyce. Sto arrivando.

Le braccia le scivolano lungo i fianchi, il suo corpo si abbandona e lei smette di lottare.

 

 

(58) Xena e Olimpia

 

Mentre corre dietro ad Olimpia nel relativamente breve tratto che separa il loro riparo dalla fila di alberi, Xena ha il tempo di maledire un paio di volte la sua debolezza nei confronti della compagna. La ragazza ha sempre saputo come arrivare a toccare le corde giuste su di lei per ottenere quello che desiderava e quasi sempre riuscire ad averlo. Ma questa volta non avrebbe dovuto cascarci.

E tuttavia il dubbio che potesse avere ragione l'aveva fatta esitare. E se davvero si fosse sbagliata? Se fossero arrivate davvero al momento giusto per salvare un altro bambino destinato ad essere divorato dalla Bestia e non lo avessero fatto, per seguire la sua intuizione? Non avrebbe mai potuto accettare il rischio. Non avrebbe mai potuto sopportare di guardarla di nuovo negli occhi, se davvero fosse stato così. Ed aveva ceduto, aveva allentato la presa un momento per dirle di aspettarla lì, che sarebbe andata lei a vedere. Ma aveva scordato quanto agile e veloce fosse Olimpia.

Eppure avrebbe dovuto ricordarsene. C'erano i loro frequenti scontri in allenamento a farle da promemoria. Quanto ogni volta diventasse sempre più difficile riuscire a rispondere a tutti i suoi colpi e parare i fendenti dei suoi acuminati pugnali orientali. La Poetessa Combattente metteva tutta la sua energia nel battersi con la Principessa Guerriera e riusciva di volta in volta a colmare sempre più il divario tra loro.

E la corsa ne era un'altra riprova. C'era stato un tempo in cui le sue lunghe gambe non avevano la minima difficoltà a distanziare quelle ugualmente snelle, ma più corte, di Olimpia, ma quel tempo era ormai trascorso. I muscoli nei polpacci della ragazza si erano rassodati ed altri ne erano cresciuti in posti di cui nessuno avrebbe mai sospettato l'esistenza in una giovane donna (e di questi Xena aveva potuto apprezzare l'efficienza anche in attività diverse dai combattimenti), rendendo le sue gambe due colonne di marmo scolpite, agili ed instancabili, anche sulle grandi distanze.

Allora, stringendo i denti e trattenendo il più possibile il fiato nei polmoni, Xena fa l'unica cosa che possa darle la possibilità di superare la compagna in quegli ultimi, disperati istanti, prima di giungere a toccare  la corteccia annerita dei primi tronchi che sono ormai a pochi passi. E lanciando il suo acuto urlo di battaglia, la Principessa Guerriera salta verso l'alto, ruotando su se stessa più volte nell'aria.

 

Con il fiato che le taglia i polmoni come una lama, Olimpia corre, cercando di non sentire il passo veloce e pesante di Xena alle sue spalle. Ha approfittato di un momento, un singolo rapidissimo momento di incertezza della sua compagna, per sfuggirle. Non c'era tempo per discutere. Non c'era tempo per farla ragionare. Le urla del bambino divenivano sempre più forti. Forse nel tempo che avrebbe messo a farle comprendere il suo punto di vista, l'orrendo pasto si sarebbe consumato, e questo non poteva permetterlo, neanche per il grande amore che provava per Xena. Anzi, soprattutto per quello. Il loro rapporto sarebbe stato a lungo, forse per sempre, compromesso da una macchia del genere.

Era destino che un bambino dovesse sempre mettersi tra loro due. Era accaduto con Speranza, sua figlia, nata dal seme infuocato di Dahak e destinata a preparare il mondo per l'arrivo di suo padre, ed era accaduto con Seleuco, il figlio sfortunato di Xena e Aristarco, condannato dalla maledizione di Antinea a non conoscere mai in vita i suoi genitori. In entrambi i casi, la morte dei loro due figli aveva rischiato di distruggere per sempre quello che c'era tra loro. Ed era successo di nuovo con Evi, quando Xena non aveva esitato a colpirla, quasi uccidendola, per salvare sua figlia. Al momento di scegliere non aveva esitato. Nonostante il loro amore immenso, il loro legame indissolubile, aveva scelto Evi e l'aveva colpita, spietatamente, alla testa con il suo chakram. Ed ora, ancora una volta, eccole l'una contro l'altra e ancora una volta per un figlio...

No, un momento. Ma che sto pensando? Quel bambino non è mio, né di Xena. Non è nostro figlio.

Cos'erano quei pensieri che le affollavano la mente proprio in quel momento? Lei era lì solo per cercare di salvare l'ennesima potenziale vittima dell'essere che viveva in quel luogo. Nient'altro. Cosa c'entravano Speranza, Seleuco o Evi? E perché stava ricordando la volta che Xena l'aveva colpita

(e quasi uccisa)

per sua figlia?

(Ha scelto lei.)

Lei stava per uccidere a sua volta Evi. L'aveva già accoltellata un paio di volte e le avrebbe vibrato il colpo fatale, se Xena non fosse intervenuta.

(Già, ma perché non colpirmi ad un braccio, o portarmi via il pugnale con il suo chakram, invece di mirare alla testa? Le ho visto compiere tiri assai più difficili in altre circostanze.)

No. Basta. Quelle erano cose che appartenevano al passato. Dimenticate e perdonate. Perché tornavano adesso?

E' lui. Non può che essere lui. E' lui che mi costringe a pensarle.

E in quell'attimo, l'urlo di Xena risuona alle sue spalle e poi su di lei e d'un tratto la Principessa Guerriera le è di fronte.

 

"Lasciami passare, Xena." L'espressione di Olimpia è risoluta, la mano intorno all'elsa della spada, la sua spada, ferma e salda, il corpo teso allo scontro. "Se tu sei capace di restare indifferente davanti ad una creatura che soffre, io no."

"E cosa pensi di fare? Aggredirmi con la mia stessa spada?" Anche lo sguardo di Xena è concentrato e i suoi muscoli pronti, ma sotto la rigidità dell'atteggiamento della guerriera vi è un sottile velo di tristezza.

"No, se non mi costringerai e ti farai da parte." Alle loro spalle, le grida del bambino diventano ancora più acute e nell'udirle Olimpia freme in tutto il corpo. "Non senti?! Togliti dalla mia strada!!"

"Lo sento, Olimpia." La voce di Xena è sorprendentemente pacata. "Ma è proprio questo il punto. Se ci fosse davvero un bambino, a quest'ora non lo sentiremmo più. Quell'essere lo avrebbe già ucciso. Non capisci che è una trappola? Quella cosa ti ha plagiata! Ha trovato un tuo punto debole e sta colpendo proprio lì."

Olimpia fissa la compagna, indecisa per un momento, lasciando sperare a Xena di aver toccato il tasto giusto, ma un nuovo strillo ancora più acuto e straziante dei precedenti, spazza via quel raggio di speranza. Senza più parlare, Olimpia si scaglia in avanti, l'arma stretta in pugno, con un grugnito di rabbia. Il suo braccio solleva la pesante spada, che anni prima avrebbe maneggiato con difficoltà anche con entrambe le mani, e l'abbassa rapidamente. Lo scopo evidente è quello di colpire Xena con l'elsa per metterla fuori combattimento, ma il movimento non è abbastanza rapido. Qualcosa all'interno della ragazza lo rallenta, di pochi attimi, non di più, ma sufficienti a permettere alla mano di Xena di scattare ed afferrarle il polso. Le due donne restano per un momento in quella posizione, con la spada levata tra di loro, lo sguardo di rabbia ed impotenza di Olimpia inchiodato in quello dell'altra.

"Che aspetti?" gli urla in faccia la ragazza. "Esiti, adesso? Eppure non esitasti, allora! Finisci la tua opera e uccidimi!"

Gli occhi spalancati di Xena si riempiono di lacrime, quando il significato di quelle parole giunge alla sua comprensione.

"Perdonami, amore." mormora e contemporaneamente la sua mano libera preme un nervo tra il collo e la spalla della compagna. La spada cade infilzandosi al suolo e il corpo di Olimpia le crolla letteralmente tra le braccia, privo di sensi. Xena rimane per un attimo a stringerlo al suo, mentre un ricordo improvviso le balena davanti agli occhi. Lei e

quel corpo, quello stesso corpo, eppure diverso in qualche modo, che le scivola tra le mani, due occhi che la fissano mentre la vita improvvisamente si spenge in loro, e intorno, tutto intorno, uomini vestiti di strani abiti e grida e luci accecanti e scoppi e

niente. In un sussulto, Xena si ritrova nella radura china sul corpo svenuto di Olimpia. La visione, se così la si può definire, è stata di una tale chiarezza da tramortirla quasi. Cos'era?

Sei stato tu, mostro maledetto? Ora che hai perso la tua presa su di lei, ci riprovi con me?

Allora forse, almeno su una cosa, aveva ragione. Si era sbagliata a pensare che Olimpia non fosse influenzabile dall'essere, ma questo sembrava proprio non poter controllare più di una mente alla volta. Il che significava che Olimpia per il momento era al sicuro, ma esponeva lei a nuovi rischi e quello che era peggio...

La spada! Le armi! Devo allontanarle da me! Non posso rischiare di averle a portata di mano.

"Alexi!" Xena gira intorno lo sguardo alla ricerca della figura del giovane, senza riuscire a vederlo. "Dove ti sei nascosto? Ho bisogno di te, adesso!"

Qualcosa improvvisamente fischia nell'aria alle sue spalle e la testa le pare frantumarsi in mille schegge. Nonostante la forza del colpo e la luce che sta offuscandosi nei suoi occhi, la guerriera prova ugualmente a balzare in piedi, voltandosi. Ma un altro colpo e un altro ancora la raggiungono alla tempia ed alla fronte in rapida successione e Xena cade sul corpo di Olimpia.

Nei vaghi sprazzi di coscienza che ancora le restano, avverte delle mani che l'afferrano alle caviglie e si sente trascinare sul terreno. Troppo debole per poter reagire, il suo corpo lotta ugualmente per tornare a muoversi ed un mugolio le sfugge dalla gola.

"Dannata donna." mormora una voce affannosa ed irriconoscibile alle sue orecchie, nelle quali risuona come un boato. "Cosa ci vuole per tenerti giù?"

Mentre continua a sentirsi trascinare sulla terra umida, Xena tenta con tutte le sue forze di riaprire almeno gli occhi, ma le palpebre le sembrano incollate tra loro, e il suo pensiero corre alla compagna.

Olimpia, no! Non devo cedere! Non posso abbandonarla ancora! Non posso...

Poi, d'improvviso, il movimento del suo corpo sul suolo cessa e lei sente il vuoto aprirsi sotto di lei.

 

 

(59) Jennifer/Xena e Olimpia

 

Non sa dove si trovi. Jennifer si sente fluttuare in una specie di spazio nero, senza suono e senza punti di riferimento. Ha la vaga impressione che delle braccia e delle gambe si muovano scompostamente intorno a lei come quelle di una persona che non sappia nuotare e stia annegando, ma non si trova sott'acqua anche se la sensazione che prova è molto simile, e non ha difficoltà a respirare. E non le pare che quelle braccia e gambe le appartengano. Il dolore che la stringeva alla gola è scomparso, ed insieme ad esso ogni altra sensibilità nel suo corpo. Non sa nemmeno se i suoi occhi siano aperti o chiusi. Le paiono chiusi, ma la percezione del buio che la circonda è quasi tangibile, e se sono davvero chiusi, preferisce lasciarli così, perchè se aprendoli scoprisse che l'oscurità che avverte è una realtà concreta quanto sembra, non osa neanche pensare a quale potrebbe essere la reazione della sua mente. Eppure, non prova paura.

E' questa la morte? pensa quasi pigramente. Un eterno fluttuare in una dimensione di tenebra senza più dolore. Uno spirito galleggiante nel nulla.

("Vieni Georgie, qui galleggiamo tuttiiii...") 

Dove aveva sentito questa frase? In un film? O forse l'aveva letta? E perché l'associava a un grottesco volto da clown e a tanti palloncini? Palloncini colorati come quelli che suo padre le comprava da bambina al luna park. Una volta, uno le era sfuggito di mano ed era rimasta a guardarlo allontanarsi verso il cielo, sempre più su, sempre più lontano, fluttuando, galleggiando... Una macchia rossa nel blu scuro della sera che avanzava.

Ma ora, qualcos'altro sta fluttuando. Qualcosa che al contrario sembra avvicinarsi. In lontananza, le sembra di scorgere

(Ma allora i miei occhi sono aperti?)

un movimento, un'ombra

(Ma può esistere un'ombra nel buio?)

un punto che lentamente si sta allargando sempre di più davanti a lei, un essere dalla forma aliena, se i contorni che le pare di distinguere possono essere definiti una forma. Alla sua mente, stranamente indifferente, richiama alla memoria l'immagine della gigantesca manta, come l'ha vista in alcuni documentari televisivi, l'immensa ed innocua creatura dell'oceano, nel suo placido e ondeggiante modo di nuotare (galleggiare)

verso di lei.

Ma è davvero questa la morte? Starsene a fluttuare nel niente a ricordare film e documentari?

Solo che questa cosa non pare avere niente di innocuo, e adesso quello che all'inizio pareva un punto lontano ha assunto dimensioni colossali, e non è forse una bocca, una grande bocca piena di svariate file di denti affilatissimi, quella che si sta spalancando al centro del suo corpo, sulla sua pelle nera e lucida?

("Era lungo e nero... con la pelle lucida e...")

... e, per l'amor di Dio, perché non mi muovo? Perché non scappo? Perché non urlo dal terrore?

Se quella era la morte, allora l'essere che ora incombeva su di lei era un dèmone. Un mostro dell'inferno giunto a divorare la sua anima. Ad eseguire la condanna. A che valeva in quel caso cercare di sfuggirgli? Meglio chiudere gli occhi, se già non lo erano, e lasciare che accadesse l'inevitabile.

Ed in quell'attimo, qualcosa, come un'esplosione di luce, alle sue spalle. Due braccia l'afferrano per la vita, estraendola, strappandola a quella dimensione impalpabile come una radice dall'alveolo e restituendola istantaneamente ad un mondo di suoni, di luci e di caos ed alla percezione fisica del suo corpo. E del dolore.

Un dolore lancinante alla testa che le sembra le si stia spaccando in due. Voci le rimbombano nelle orecchie. Voci rese irriconoscibili dal fragore che le echeggia nel cervello, e da qualcos'altro. Qualcosa che per il momento non riesce ad individuare.

"Xena! Xena! Dèi dell'Olimpo! Ma che le è successo?"

Xena?

Una voce di donna. Giovane. Piena di paura. Delle dita morbide e fresche le tastano con cautela le tempie.

"Non lo so. L'ho vista dirigersi verso l'albero, e poi l'ho persa. Ero troppo lontano."

Questa invece era la voce di un uomo. Anch'essa giovanile, anche se dal tono profondo. Con uno sforzo, divarica appena le palpebre, portandosi a fatica una mano alla fronte.

"Chiunque voi siate, vi prego, non urlate così."

Un volto giovane e bello, sotto un caschetto di capelli biondi, che si illumina in un sorriso. E' la prima cosa che Jennifer vede e le fa spalancare definitivamente gli occhi, non accorgendosi nemmeno della fitta che l'improvvisa luce che le colpisce le pupille provoca.

"Oddèi, o chiunque altro ci sia, vi ringrazio. Mi hai fatto morire di paura. Ma che hai combinato?"

Ora che il sollievo sta rapidamente sostituendo il terrore nella voce della ragazza, vi si avverte un sottofondo di rabbia montante, come quella di una madre che dopo aver riabbracciato il suo bambino, reduce da una marachella pericolosa, si prepari a sgridarlo.

"Noi ci..." comincia Jennifer, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quello della giovane "... conosciamo? Io ti conosco?"

E la seconda è più di una semplice domanda. Alle sue stesse orecchie suona come un'affermazione. Io ti conosco. Quegli occhi sono verdi, e non azzurri. La fronte coperta da una folta frangetta di capelli biondi color del grano, di una tonalità appena un po' più scura. Il viso più pieno e la bocca un po' più carnosa. Eppure...

"Jo-yss."

Il nome sorge sulle sue labbra in un sospiro e con difficoltà, come se non riuscisse a pronunciarlo nella maniera giusta.

"Cosa?" Lo sguardo perplesso che le rivolge la giovane donna, adesso è nuovamente tinteggiato di apprensione. "Cosa dici?"

"Deve essere stato il colpo." Ora è la voce dell'uomo a parlare. Giunge dalla sua sinistra, ma Jennifer non si volta nemmeno a guardarlo. I suoi occhi sono come mesmerizzati in quelli della ragazza.

"Oh, mio Dio. Jo-yss." Ripete. E di nuovo quell'incespicatura nel nome. Senza pensare, Jennifer cerca di alzarsi, ma immediatamente la colpisce un violento giramento di testa e d'un tratto lo stomaco sembra premerle in gola. Con un gemito ricade all'indietro, ma la mano della ragazza scatta ad afferrarla, sostenendole la schiena.

"Piano." le dice. "Ricorda quello che dici sempre a me. Non fare movimenti bruschi. Ti hanno colpita duramente. Hai un brutto taglio sulla fronte e perdi sangue anche dalla nuca. Se non avessi la testa dura che ti ritrovi..."

La voce della giovane si rompe, nel tentativo di scherzare, e Jennifer vede i suoi occhi appannarsi. Senza provare più a parlare, tende una mano verso il suo viso e vi posa leggera una carezza. Una lacrima  scende lungo la guancia della ragazza che le prende la mano nella sua, premendosela contro la bocca e baciandola.

"Oh, Xena. Se ti perdessi di nuovo, io... io..."

Xena?

Singhiozzi scuotono la figura che adesso il sole illumina controluce, accendendo i suoi capelli di colori stupefacenti, e mentre la luce si spegne intorno a lei, e la voce della giovane s'allontana ("Sta perdendo di nuovo i sensi. Alexi, presto, aiutami. Dobbiamo fare una lettiga per trasportarla a casa."), la mente confusa di Jennifer si distacca dalla realtà per adagiarsi nelle tenebre dell'incoscienza con un sorriso sulla bocca ed un ringraziamento nel cuore.

 

 

(60) Xena/Jennifer e Sutherland

 

E di colpo, il vuoto che aveva sentito circondarla per qualche attimo, non c'è più. La sua schiena è posata su solida terra, anzi su erba umida, e la splendida giornata di sole si è mutata in un momento nel tenue chiarore del crepuscolo avanzato, ma la guerriera non ha tempo di riflettere sulla stranezza dell'evento. La morte sta bussando alla sua porta. La sua gola è serrata da un cappio sempre più stretto e i suoi polmoni lottano alla ricerca disperata di aria.

Non ha idea di come si trovi in una situazione simile, ma neanche questo ha importanza al momento. Negli attimi che passano rapidi, la mente di Xena enumera e scarta fulmineamente le varie opzioni di cui può disporre. Non perde tempo a cercare di allentare la stretta al collo. Dalla pressione che avverte, sa che ormai le ha quasi penetrato la carne. Alla cieca spinge le braccia dietro la testa, cercando di afferrare l'aggressore, o almeno il capo del filo metallico che la sta strangolando, ma l'uno pare fuori dalla sua portata (Mi si sono accorciate le braccia?) e l'altro, teso allo spasimo, non offre presa alle sue dita.

Con un colpo di reni, allora, la guerriera prova a rimettersi in piedi, ma le sue gambe all'improvviso sembrano aver perso ogni energìa e la sua schiena resta solidamente incollata al terreno, mentre luci cominciano a danzarle negli occhi e il rumore del flusso del sangue nelle orecchie quasi le sfonda i timpani.

E' finita?

La domanda le lampeggia nel cervello per un momento, ma poi...

No. Non così. Non in questo posto sconosciuto. Non senza rivedere Olimpia.

Esercitando ogni minima porzione di energia nel suo corpo e grugnendo nello sforzo, Xena riesce a sollevare il busto da terra, sentendo contemporaneamente allentare per un istante brevissimo la tensione nel cavo alle sue spalle. Ma quell'istante le è sufficiente.

La guerriera, con un ultimo supremo sforzo si solleva da terra e si volta, afferrando contemporaneamente e saldamente questa volta il cavo di metallo e tirandolo con tutte le sue forze. Ma il filo d'acciaio cede all'improvviso e per il contraccolpo, Xena cade nuovamente a terra, mentre un rapido fruscio che scompare tra le siepi e l'erba di quello strano luogo le indica che il suo assalitore se ne è andato.

L'istinto la spingerebbe a rialzarsi di nuovo e ad inseguire chi ha appena cercato di ucciderla, ma i suoi polmoni ormai quasi svuotati e il corpo che le duole in ogni muscolo, le rendono impossibile ogni ulteriore movimento.

Distesa al suolo, ansimante e con il cuore che sente batterle nel petto come impazzito, Xena prova a recuperare le forze e con cautela ad allentare almeno lievemente il cappio che le è rimasto stretto intorno alla gola, quasi conficcato nella pelle. Stringendo i denti, finalmente sente il bruciore intorno al collo attenuarsi, mentre si libera del metallo, facendoselo passare sulla testa, e lo getta lontano.

Dolorosamente, i suoi polmoni tornano ad allargarsi sotto l'afflusso di nuova aria che la guerriera aspira avidamente, incurante della gola in fiamme. Poi, i suoi occhi cadono sulle sue mani, sulle sue braccia, sugli abiti che indossa...

"Ma cosa...?"

E la frase resta a mezz'aria. Perché pur attraverso la griglia infuocata che è divenuta la sua trachea, quella che ode non è la sua voce. E le parole che pronuncia non appartengono alla sua lingua.

Per alcuni istanti, la mente di Xena ruota follemente su se stessa, incapace di comprendere ciò che sta accadendo, poi un rumore di passi in avvicinamento la richiama all'ordine e l'istinto della guerriera riprende il sopravvento. Pronta ad un'eventuale nuova lotta, ignorando la pena che ogni singola giuntura di quel corpo, che non è più così sicura sia il suo, le rimanda, la donna si rialza su piedi che avverte avvolti in calzature più morbide e leggere di quelle che ricordava, scrutando nell'oscurità che ormai si è impadronita di gran parte del paesaggio circostante. E un momento dopo, il rumore di passi si precisa nell'immagine di un vecchio che appoggiandosi ad un bastone sta venendo verso di lei.

"Jennifer, la stavo chiamando. Non mi ha sentito? C'è il taxi..."

Nel vederla, l'uomo si blocca, lievemente chinato sul suo bastone, poi riprende il cammino, accellerandolo.

"Mio Dio, ma cosa le è successo? Il suo vestito... i suoi capelli... E' caduta? Si è sentita male di nuovo?"

Xena fissa il vecchio, senza parlare. Capisce le sue parole (almeno quasi tutte. Cos'è un ta-xi?) e sa che potrebbe rispondergli in quella lingua nella quale per chissà quale sortilegio adesso sembra in grado di esprimersi, ma non vi riesce, perché la situazione in cui si trova sta diventando di attimo in attimo sempre più folle.

Quello in cui si trova non è più il suo corpo, adesso ne è certa. Non solo per gli abiti e per braccia e gambe che sembrano rimpicciolite in lunghezza e spessore, ma perché niente all'interno di esso, risponde come dovrebbe. Il battito del cuore è accellerato ed aritmico rispetto al suo, muscoli che dovrebbero essere abituati a sopportare sforzi ben superiori le dolgono terribilmente per averli costretti al semplice movimento di balzare in piedi e torcersi contemporaneamente per afferrare il cavo che la stava strangolando. Quello non era certo il corpo di una persona che abitualmente compiva salti all'indietro con avvitamenti e capriole ed era in grado di battersi alla spada contro molti avversari insieme senza il minimo affanno.

Quello era il corpo di una donna il cui maggior sforzo fisico era forse quello di vestirsi al mattino e spogliarsi la sera prima di andare a dormire.

E questo non era il suo mondo. Anche su questo c'erano pochi dubbi. Aver perso i sensi (Ma come era accaduto?) nel mezzo di una foresta selvaggia e ritrovarsi su un prato ben curato e con siepi tagliate simmetricamente ne era solo una delle evidenti riprove. Il giorno pieno divenuto in un attimo notte nascente e quella strana lingua che d'improvviso sapeva parlare e comprendere erano altre.

Ma tutte queste cose, per strane che fossero, non avrebbero dovuto meravigliare più di tanto una donna che era morta e risorta numerose volte, che aveva viaggiato per i territori dell'oltretomba popolati dalle anime perse destinate all'eterna sofferenza e percorso quelli dell'eterno gaudio dei Campi Elisi, che aveva intrattenuto rapporti e combattuto con dèmoni e divinità, e che più di una volta si era trovata proiettata in altri corpi. La sua vita l'aveva allenata alle più strane esperienze, eppure questa, in qualche modo sembrava superarle tutte.

Appena i suoi occhi si erano posati sul vecchio, aveva saputo che quello non era uno sconosciuto. La sua mente si era come spalancata, e lei si era trovata come in un sogno all'interno di un sogno, in una stanza, illuminata da una sorgente di luce che non dava calore, sotto lo sguardo sorridente di quello stesso uomo.

Bene, mia cara, finalmente ci conosciamo. Così le aveva detto nella lingua del mondo da cui lei proveniva, e per tutta risposta si era vista estrarre la spada e puntargliela alla gola.

Ma in un lampo quell'immagine mentale, ma tanto realistica da esserle sembrata vera, era scomparsa e lei era di nuovo lì, in piedi, con la testa che le turbinava, davanti a quel vecchietto, innocuo in apparenza, che la guardava preoccupato.

"Mia cara, ma lei non sta bene affatto. Venga, è meglio che si fermi qui per stanotte." Sollecitamente, l'uomo le circonda la vita con un braccio, sorreggendola e spingendola gentilmente verso quella che sembra una ricca dimora, e per un attimo, un attimo solo, un altro squarcio si apre nella sua memoria.

"Ferma! Non vogliamo farti del male! Getta le armi e arrenditi!", tuona una voce con potenza inaudita, mentre luci bianche e violente la colpiscono agli occhi, e lei, in quello stesso prato, davanti a quella stessa casa, stringe in pugno la spada e il suo chakram e, digrignando i denti come una belva intrappolata, si prepara alla battaglia.

Ma anche questa volta lo strappo nel tessuto del tempo si richiude, riportandola istantaneamente a quel momento, qualunque fosse, in cui il vecchio con fare gentile la sta scortando.

"Non si preoccupi. Penserò io al taxi. Lei pensi solo a riposare." le dice l'uomo.

E Xena, troppo confusa per reagire, lascia che quella mano estranea continui a sospingerla verso il riparo della grande casa.

Ma in nome di tutti gli dèi, che diavolo è questo ta-xi?

(10 - continua)





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