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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI (Capitolo
XI) Parte
2
(61) Carruthers e Croft Con uno scatto di rabbia, Carruthers spegne il cellulare
e lo ficca con forza nella tasca del soprabito. Ormai la vocetta
registrata ed indifferente dell'operatrice gli dà sui nervi col
suo "l'utente non è al momento raggiungibile" che
deve aver ormai sentito una decina di volte. Dove accidenti ti sei ficcata, Rowles? Dopo essere uscito dalla Procura, se ne era rimasto in
giro per le strade per un tempo che non avrebbe saputo quantificare,
passeggiando distrattamente e sedendo di tanto in tanto sulla panchina
di qualche giardino e ad ogni pausa di questo percorso senza meta,
istintivamente la sua mano correva al piccolo apparecchio e, quasi
senza accorgersene, premeva il tasto della memoria che automaticamente
ricomponeva il numero della psicologa, ma sempre senza esito. Considerando il fatto che era dalla sera prima (o meglio,
dalla notte prima) che il cellulare di Jennifer risultava
disattivato e neanche la segreteria pareva in funzione, la cosa
cominciava ad impensierirlo. Aveva provato anche a chiamare casa
propria, per accertarsi che non gli avesse lasciato qualche messaggio,
ma anche questo senza risultato. D'un tratto, quello che al risveglio
gli era sembrato solo un cattivo pensiero causato dall'insonnia
e dal buio delle ore notturne, non gli era parso più così inverosimile,
e un'inquietudine sempre più acuta si stava impadronendo di lui. Il pensiero anche remoto che la donna potesse essere
in pericolo aveva rapidamente scacciato in un angolo perfino l'amarezza
e l'umiliazione provate nel colloquio con Ballister, e il poliziotto
era ripartito con passo deciso verso la centrale. Se il problema
si fosse rivelato un semplice guasto al cellulare, era possibile
che Jennifer si fosse fatta in qualche modo viva al suo ufficio
per avvisarlo, altrimenti l'inquietudine si sarebbe trasformata
in aperta preoccupazione. Giunto alla sua destinazione, prima di entrare prova
il numero inutilmente per l'ennesima volta e poi attraversa a passo
di carica le porte automatiche all'ingresso, dirigendosi verso l'agente
alla reception. "Bernie, mi ha cercato qualcuno?" "Sì, capitano." Con un largo sorriso, l'anziano
poliziotto si gira verso la bacheca alle sue spalle e ne estrae
un foglio ripiegato, tendendoglielo. "La dottoressa Rowles
le ha lasciato questo." Dio, ti ringrazio. Carruthers spiega il biglietto e ne scorre rapidamente
il contenuto. Sotto l'ora in cui il messaggio era stato lasciato,
le 10 e 30 del mattino, diligentemente segnalata dall'agente in
servizio, nella sua calligrafia chiara e ben calcata, Jennifer aveva
scritto: "George, mi si è guastato il cellulare. Non cercarmi
a casa, sto andando dal professor Sutherland. Te lo ricordi, vero?
Gli ho chiesto di assistermi nella consulenza e di farmi alcune
ricerche su questa faccenda, se sei d'accordo. Ma ora non ho tempo
di spiegarti. Ti chiamo io. J." Con un sospiro di sollievo ed un altro silenzioso ringraziamento
al cielo, Carruthers ripiega accuratamente il foglio e l'infila
in tasca. "Nient'altro?" chiede. "Sì." risponde una voce alle sue spalle. "Ci
sarei anch'io." Il poliziotto si volta di scatto, fissando lo sguardo
sul volto di un uomo sorridente e dall'aria cordiale che gli sta
tendendo la mano. "Permette, capitano? Mi chiamo Brian Croft, ed è
molto tempo che aspettavo d'incontrarla." "Ehi!" interviene l'agente facendo l'atto di
uscire da dietro il grande banco della reception. "Le
avevo detto di aspettare che fossi io a chiamarla." "Lascia stare, Bernie." Carruthers alza una
mano per fermare l'uomo. " Mi occupo io del signore." Con un'occhiataccia verso l'intruso, Bernie torna a sedere
al suo posto. "Allora, cosa posso fare per lei, signor... Croft,
mi pare abbia detto, vero? Non è un nome nuovo anche se non credo
di conoscerla." Brian che è rimasto con la mano tesa a mezz'aria, l'abbassa,
senza però perdere il suo cordiale sorriso. "No, infatti, ma non certo per colpa mia. Mi creda,
in questi mesi ho tentato più volte di venire a parlarle, ma sempre
senza successo." "Voleva parlarmi? E in relazione a cosa?" L'ufficiale di polizia è rimasto rigido ed immobile nella
sua posizione, con le mani nelle tasche del soprabito, fissando
il suo interlocutore, senza dare la minima impressione di volerlo
invitare nel suo ufficio o anche solo a sedersi. "Principalmente sulla strana morte della mia collega,
Cheryl Cooper, capitano. Non credo che l'abbia dimenticata. Mi risulta
che anche lei si sia interessato all'indagine." Carruthers getta un'occhiata di tralice al poliziotto
in servizio, poi torna a guardare Brian. "Allora, lei è un giornalista?" "Non me lo aveva detto, capitano." dice Bernie
facendo di nuovo per uscire, ma la mano di Carruthers lo ferma ancora. "Non importa, Bernie. Scrive anche lei per il View,
eh? Ma certo." aggiunge poi con un sorriso appena accennato
"Brian Croft. Ora ricordo di aver visto la sua firma su quella...
rivistucola." "Complimenti per il suo spirito di osservazione.
Il mio nome non è facile da trovare, in effetti." ribatte Brian
con un altro sorriso di risposta. "Beh, non depone sicuramente a favore della sua
professionalità." replica il poliziotto, voltandogli le spalle,
e allontanandosi. Ma Brian non ha nessuna intenzione di mollare
la preda appena azzannata, e scatta immediatamente al suo fianco. "Il View potrà anche essere una rivistucola,
come la definisce lei, ma questo non significa che chi vi lavora
conti meno quando viene ammazzato come un cane sulla soglia di casa." "Oh, per favore, Croft, si risparmi quel tono oltraggiato
con me. L'indagine sulla sua collega non è stata archiviata, ma
non mi riguarda più. Chieda del tenente Richards o del tenente O'
Bannon. Credo che se ne stiano occupando loro." "Lo so, grazie. Ci ho parlato più volte, ma sembra
che non riescano a cavare un ragno dal buco. Che strano, eh?" Arrivati davanti agli ascensori, Carruthers preme il
pulsante di chiamata e si volta verso il giornalista. "In ogni caso, io non so che dirle. Se adesso vuole
scusarmi..." L'ascensore si apre e Carruthers fa per entrarvi. Non penserai di scoraggiarmi così facilmente, pensa Brian e gioca la sua ultima
carta. O la va o la spacca. "Capisco" dice "avete le vostre gatte
da pelare, specialmente ora che The Ogre ha allargato i suoi
obiettivi." La figura di spalle del capitano Carruthers si blocca,
col piede esattamente sulla guida metallica della porta dell'ascensore,
come in un fermo-immagine. E ancora una volta, Brian capisce di
aver colpito una portaerei. "Che vorrebbe dire questo?" chiede il poliziotto,
girandosi lentamente a fissarlo di nuovo. La sua voce si è abbassata
di un paio di toni, ma in compenso si è arricchita di una nota ringhiosa
di minaccia. "Sì, già, a proposito" risponde Croft, sfoderando
la sua migliore aria indifferente "quasi dimenticavo. Era di
questo che ero venuto a parlarle, per la verità. Pare che quel mostro
non si accontenti più, se mi passa l'espressione, di rapire,
uccidere e fare altre innominabili cose ai bambini. Adesso colpisce
a casaccio anche i comuni passanti. La notizia getterà un bel po'
di panico tra la popolazione." "Si può sapere di che cazzo sta parlando, Croft?"
La porta dell'ascensore si richiude alle spalle di Carruthers
che non sembra più curarsene. "Beh, l'ho vista, ieri sera sul luogo di quel delitto,
sì, mi riferisco a quella poveretta con la gola squarciata... E'
vero che quel mostro ha bevuto il suo sangue? La notizia sta già
circolando e credo che sia solo questione di ore prima che qualcuno
la stampi." La faccia di Carruthers era un vero spettacolo. Brian
avrebbe voluto avere con sé una macchina fotografica, o magari uno
di quei telefonini con telecamera digitale incorporata, e immortalarla
per i posteri. In realtà, però era già troppo occupato a godere
pienamente della sua trovata. Non avrebbe neanche saputo dire come
gli era venuta. Fino a due minuti prima, aveva solo pensato di buttare
lì casualmente il fatto che l'aveva visto sulla scena del crimine,
ma la teoria che l'assassino attaccasse ora indiscriminatamente
tra la folla per bere il sangue delle sue vittime... oh, ragazzi,
quella era proprio un colpo di genio! "Non dica sciocchezze, Croft. Quella è stata solo
una lite tra vagabondi ubriachi finita male." "Sì, certo, come no, ci credo. Davvero. Come ci
crederanno i milioni di lettori della nostra rivistucola.
Capita di continuo che uno dei pezzi da novanta della polizia, tra
l'altro coordinatore unico dell'inchiesta su The Ogre, corra
in piena notte sul luogo di una rissa tra ubriachi." Carruthers che stava di nuovo per girarsi a richiamare
l'ascensore, si ferma ancora e lo guarda. "Le sue informazioni sono alquanto lacunose. Io
non sono più a capo dell'operazione, non da solo almeno." E la cosa non ti riempie proprio di gioia, eh? Brian non stacca gli occhi da quelli
del poliziotto, leggendovi tracce dell'ancora fresca ferita. Eri
dal procuratore. Mi chiedo cosa vi siate detti. "Già, è vero. L'ho sentito dire. Adesso fa parte
della task force. Non so fino a che punto la popolazione
possa sentirsi rassicurata, però. Quel tizio sembra inafferrabile.
Presto la gente comincerà a vederlo dappertutto."
"E immagino che il suo giornale non farà nulla per
rassicurare gli animi, vero? Si rende conto che propagare notizie
non fondate, per non dire assolutamente assurde come questa, ostacolerà
le indagini e non potrà che giovare a quel bastardo assassino?" Con un malcelato sforzo di volontà, il poliziotto si
gira e preme il pulsante, restando con lo sguardo fisso sulle porte
di metallo chiuse. "Oh, non credo che abbiate bisogno di noi per ostacolarvi
nelle indagini. Sono sicuro che ci riuscite benissimo da soli."
L'occhiata fulminante di Carruthers consiglierebbe chiunque di non
spingere troppo sul pedale, ma il giornalista non sembra darsene
per inteso. "Sa, capitano, c'è chi ritiene che le forze di
polizia di questa città siano inadeguate ad affrontare un problema
simile, e si chiede perché il procuratore non abbia ancora richiesto
l'intervento dei federali. Lei cosa ne pensa?" "Vada a chiederlo al procuratore. Non sono decisioni
che mi competono." Gli occhi di Carruthers erano adesso ostentatamente incollati
sul quadrante luminoso che indicava l'avvicinarsi dell'ascensore,
un piano dopo l'altro. 34... 33... 32... 31... Con le mani in tasca, imitandone la postura, Brian gi
si mette accanto. "Certo sarebbe un bello smacco per il procuratore
Ballister dover riconoscere ancora una volta l'incapacità
sua e del suo ufficio a gestire una situazione d'emergenza." 27... 26... 25... 24... "Dopo la faccenda dell'Amazzone, cioè. Questo
potrebbe costargli anche la poltrona, e qualunque ambizione politica." 20... 19... 18... 17... "Quella storia dell'Amazzone, però è stata
proprio strana. E non siete ancora riusciti ad individuarla, a quanto
pare, eh? Anche se non si è più sentito parlare di lei." 12... 11... 10... 9... "A volte mi viene da domandarmi come siano andate
davvero le cose. Se ne occupava proprio la mia collega, sa?
Curiosa coincidenza che sia stata uccisa più o meno in quel periodo,
non trova? Lei era andato a parlarci, vero?" 4... 3... 2... 1... "E' stato un piacere, signor Croft." dice Carruthers,
intanto che le porte della cabina si riaprono. "Ma ora devo
proprio lasciarla." "Sa, forse ci scriverò una serie di articoli sopra,
un giorno, o magari un libro." gli grida quasi dietro Brian,
mentre il capitano entra. "Ho trovato diverso materiale in
proposito, ma sarebbe bello se potessi contare sulla sua collaborazione." Si era trattato solo di un attimo, ma non era uno sguardo
di rigida indifferenza quello che aveva scorto negli occhi dell'altro,
all'ultimo istante, prima che le porte si richiudessero tra loro,
ingoiando la figura del poliziotto. Ma cos'era? Dubbio? O tentazione?
Aveva avuto quasi l'impressione che Carruthers fosse stato sul punto
di dire qualcosa. Qualcosa di meno banale delle frasi di circostanza
dette fino allora. E di molto più interessante. Che cosa sai, capitano? Cosa vorresti tanto raccontare?
Liberati la coscienza, figliolo, come gli diceva sempre padre Ryan
durante la confessione domenicale negli anni della sua infanzia.
Come se un bambino decenne avesse potuto avere chissà quale peso
sulla coscienza. Ma ora la frase rituale del suo vecchio parroco
irlandese gli sembrava si adattasse perfettamente all'occasione.
Il capitano Carruthers gli era parso un uomo che portasse sulle
spalle un fardello assai gravoso e di cui non sapesse come liberarsi.
Il suo istinto gli diceva di tenerlo d'occhio. Possibile che dopo
mesi di testardi ma inutili assalti, la fortezza dell'omertà mostrasse
una crepa, finalmente? Non era in grado di dirlo, ancora, ma se quella crepa
si era davvero aperta, aveva tutte le intenzioni di continuare a
picchiarci sopra con tutte le sue forze, fino a trasformarla in
una vera e propria breccia. Con la testa ancora piena di interrogativi, Brian rimane
a guardare, senza realmente vederli, i numeri luminosi che lampeggiano
verso l'alto. (62) Jennifer/Xena e Olimpia Un sogno. Solo un altro sogno. Con questo pensiero, Jennifer spalanca gli occhi sul
buio, ancora una volta. Ma stavolta non c'è quella sensazione estraniante
di fluttuare nel nulla. No, davvero. Anche se il luogo in cui si
trova è avvolto nella più profonda oscurità, il dolore atroce che
sente alla testa e il ruvido tessuto che avverte sotto la schiena
le dicono che, dovunque si trovi, quella molto probabilmente non
è l'oltretomba. Ma se lo fosse, potrebbe essere il paradiso, è il suo pensiero successivo, perchè
se la superficie sulla quale giace è grezza e scomoda, il peso che
invece avverte sopra di lei è liscio e morbido. Jennifer solleva la mano fino a che le sue dita tremanti
incontrano la pelle calda e vellutata di un braccio che le avvolge
la vita, quindi risalgono lentamente lungo quella che non può che
essere una schiena nuda, giungendo infine a fermarsi sui soffici
capelli della testa appoggiata sulla sua spalla. Ricacciando indietro le fitte che le percuotono il cranio
dalla fronte alla nuca, come se fosse stato attraversato da una
freccia ancora conficcata, Jennifer cerca di concentrare tutta la
sua attenzione sul corpo che le è disteso accanto, stretto a lei.
Le sue dita indulgono sulla capigliatura soffice e folta, accarezzandola
e godendone il contatto, mentre ora anche l'altra mano, il braccio
parzialmente imprigionato sotto quel dolce peso, risale dall'altra
parte strisciando lungo un fianco per arrivare a sfiorare un seno
morbido. Un lieve movimento della testa sulla sua spalla le indica
che la persona abbracciata a lei si è svegliata. "Ehi... Come ti senti? Meglio, direi, a giudicare
da come vagabondano le tue mani, eh?" dice una voce lieve e
soave come la più sublime delle melodie alle sue orecchie. Letteralmente paralizzata, Jennifer è incapace di emettere
il minimo fiato o di accennare anche il più lieve movimento, mentre
sente l'altra sollevarsi, uno strano graffiare di pietra contro
pietra, e un attimo dopo una fiammella accendersi alla sua destra,
illuminando l'intero ambiente. "Vediamo come vanno le ferite alla testa."
dice la donna e si volta verso di lei, ancora per metà adagiata
su quello scomodo giaciglio. E alla luce tremolante di una candela,
a Jennifer si rivela la visione più bella sulla quale potesse mai
sognare di posare lo sguardo. Ora la fanciulla, perché questo è, una splendida donna
ancora in fiore, tiene in mano la candela e l'avvicina a lei per
esaminare la sua fronte che sente pulsare senza sosta, e alla luce
della fiamma, Jennifer si trova a poca distanza dal viso, due seni
giovani e sodi con i capezzoli inturgiditi dall'aria decisamente
fredda che anche lei avverte, adesso che non ha più a stretto contatto
del suo il tepore del corpo dell'altra. E il suo sguardo scende
lungo il ventre e le gambe nude con il triangolo di delicata peluria
tra loro, appena visibile ma mostrato senza imbarazzo da una evidente
abitudine all'intimità. Jennifer sente il suo viso avvampare a quella visione
e sposta istintivamente lo sguardo di scatto, comprendendo all'istante
le ragioni del freddo che avvertiva, troppo distratta per rendersene
conto prima. Anche lei, sotto il fragile sipario di una coperta
rozza come il pagliericcio su cui giace, è completamente nuda. Non
sa come e perché si trovi in quello stato, ma i suoi occhi sono
nuovamente catturati da quelli della ragazza che sta scrutando con
attenzione la sua testa scostandole una frangia di capelli più corti
dagli occhi, e tastando la benda che le copre la fronte. Frangia? Non ho mai portato la frangia sulla fronte.
Il pensiero passa velocissimo, subito assorbito dalla
contemplazione del verde intenso degli occhi di... Olimpia.
Il nome le appare d'un tratto davanti come scritto in lettere di
fuoco. E improvvisamente, quello stato di stordimento quasi ipnotico
in cui si trovava viene spazzato via e Jennifer vede come
se fosse la prima volta, ed in fondo è proprio così, la giovane
donna che le sta accanto e che ora la osserva a sua volta, perplessa. "Che c'è? Perché mi guardi così?" Le labbra che hanno appena pronunciato quelle parole
("Ma cosa succede? Questa lingua non è la mia, eppure la
comprendo.") vorrebbero sorridere, ma qualcosa sembra impedirglielo,
come se un sospetto orribile si fosse acceso repentinamente nella
mente della giovane. La ragazza arretra, scendendo lentamente dal
letto e continuando a fissarla, e Jennifer può ammirarla in tutta
la sua bellezza. La fiamma della candela, che regge in una mano
adesso tremante, ondeggia mandando il suo riverbero sul seno eretto,
le spalle nude, i capelli biondi che incorniciano un viso su cui
ora si può leggere la paura. "Dèi dell'Olimpo." mormora con un filo di voce.
"Tu non sei Xena. Hai il suo corpo, ma non sei lei." In un attimo, prima che Jennifer possa anche solo provare
ad accennare una risposta, Olimpia le è addosso e con la mano libera
le afferra il collo, costringendola all'indietro sul duro pagliericcio. "Chi sei?" sibila, stringendole le dita intorno
alla gola e avvicinandole pericolosamente la fiamma al viso, facendone
colare due gocce roventi sulla guancia. "Cosa ne è stato di
Xena?" Jennifer, cui l'improvvisa aggressione ha riacutizzato
il dolore alla testa, riesce a biascicare solo alcune parole di
cui, in qualche modo, conosce il significato, ma non ricorda di
avere mai udito. Tanto meno dalla propria" bocca. "La...scia...mi. Ti prego, Jo-yss, mi fai male.
Io...non... lo... so." La vista le si appanna, mentre i suoi occhi si riempiono
di lacrime che sente scorrere dagli angoli, bagnando il tessuto
sottostante. L'immagine annebbiata della ragazza ora si allontana
e la pressione sulla sua gola diminuisce. "Chi sei?" ripete, ma con minor rabbia nella
voce. "E perché mi chiami con quel nome?" Ma Jennifer non può rispondere. I tormenti, il panico,
lo shock di quelle ore hanno rotto gli argini e la donna
cede, mentre il suo corpo, scosso da singhiozzi convulsi, lentamente
si piega su se stesso, come quello di un bambino terrorizzato. E ad occhi spalancati, con una mortale angoscia nel cuore,
Olimpia rimane a fissarla. "Ma come puoi dire che non è lei? Ti inganni. E'
Xena. Chi può essere se non lei?" Alexi si solleva dalla figura riversa sul giaciglio,
che adesso è immobile e con gli occhi chiusi, avvolta fino al mento
dalla coperta. L'espressione sul viso appare di profonda prostrazione
e la donna sembra caduta in un sonno inquieto. "Alexi, conosco Xena bene quanto me stessa, forse
meglio, e se ti dico che quella non è lei, puoi credermi." Olimpia, rivestitasi sommariamente, ma ancora senza stivali,
è seduta a terra in un angolo della minuscola stanza e il suo sguardo
non si sposta dalla forma sul letto. "Ma come è possibile?!" Il giovane si volta
verso di lei. "C'eravamo solo noi, in quel posto. E tra il
momento in cui l'ho vista scomparire tra gli alberi e quello in
cui tu l'hai estratta dalla buca non possono essere passati che
pochi momenti. Chi poteva...?" "Alexi." La voce di Olimpia trattiene a stento
l'esasperazione. "Quando dico che quella non è Xena, voglio
dire che lo spirito e la mente in lei, non sono i suoi, e ti assicuro
che è possibile. E' già successo. Non intendevo che l'hanno sostituita
con una sosia." Pausa. "Anche se pure questo c'è capitato,
a volte." "Ma come è possibile?" ripete Alexi, che evidentemente
non riesce proprio a conciliarsi con l'idea. "Vuoi dire che
è posseduta? Che il dèmone è entrato in lei?" "Qualcosa è entrato di sicuro" risponde Olimpia
con una nota di stanchezza nel tono "ma non direi che sia un
dèmone. Mi pare invece lo spirito di una donna smarrita e spaventata.
E ci scommetterei che le tue divinità onniscienti sanno qualcosa
anche di questo. E tu dovresti essere l'ultimo ad esserne sorpreso." Ma Alexi non risponde e continua a scrutare il viso della
donna addormentata. "Vorrei avere il tempo per poterti dire tutto quello
che penso dei tuoi numi burattinai che giocano con le nostre vite,
ma per adesso" e la ragazza si solleva dal pavimento, e si
avvicina all'uomo "preferisco conservare le energie per scoprire
cosa sia successo a Xena. Se lo spirito di questa donna, chiunque
sia, è in lei, il suo dov'è?" "Ancora però non riesco a capire come tu possa dirlo
con tanta sicurezza." mormora il giovane. "Abbiamo raccolto
Xena da quella buca e ti assicuro che finire là dentro può essere
un'esperienza sconvolgente per chiunque. Anche per "Non so spiegarti a parole come lo so. Avrei dovuto
accorgermene subito, ma prima la vista delle sue ferite e poi lo
svenimento, mi hanno impedito di concentrarmi su quella strana connessione
che ci unisce. Ma quando si è risvegliata, anche solo guardandola
bene negli occhi ho capito, e quando ho provato a sondarla con la
mente, di quel legame non vi era traccia. Questa non è Xena." Olimpia si siede con delicatezza sul bordo del letto
e cautamente rimbocca la coperta intorno al mento della donna. "C'è anche dell'altro, vero?" chiede Alexi,
guardandola. "Sì." risponde Olimpia, quasi con esitazione.
"Ma questo è ancora più difficile da spiegare. Dalla sua espressione...
non so come dire... dal suo sguardo... sembrava che mi avesse riconosciuta.
Ed è stato anche questo ad ingannarmi, all'inizio. Per questo non
ho pensato subito che non fosse Xena. Ma lei non è Xena, e allora...
mi chiedo... è forse qualcuno che conosco? Qualcuno dal passato?" "Questo temo che non potremo saperlo, almeno finché
non lo domandaremo direttamente a lei." dice Alexi. "C'è niente che tu possa fare?" "Un infuso d'erbe per calmarle il dolore, quando
si sveglierà." Il giovane guarda Olimpia e accenna un sorriso.
"Se è invece ai miei poteri che ti riferivi, credo che la mia
abilità nell'indurre la gente a pensare, dire o fare cose che altrimenti
non penserebbe, direbbe o farebbe, non ci sia di molta utilità in
queste circostanze." "Forse potrebbero servire a tranquillizzarla e spingerla
a raccontarci chi è e come è arrivata qui." "Forse." annuisce Alexi, riflettendo. "A
patto però, che lo sappia." "Dovremo tentare, comunque." dice Olimpia,
poi rivolge il suo sguardo sull'uomo. "Alexi, raccontami di
nuovo nei dettagli, quello che hai visto." "Te l'ho già detto, Olimpia. Non ho visto molto,
purtroppo." Appoggiandosi al muro, il giovane fissa lo sguardo
nel vuoto, come cercando di richiamare i suoi ricordi. "Mi
tenevo ad una certa distanza da... voi, e... lo ammetto, non ero
molto concentrato su quello che facevo. Vi sentivo discutere in
distanza, ma avevo deciso che la mia presenza non vi servisse, dopotutto." "Alexi..." "No, è vero, Olimpia, non negarlo. Non so neanche
perché Xena mi avesse voluto con voi. Dopo quello che è successo,
poi..." Olimpia, che è rimasta ad osservare il viso della donna
senza mai voltarsi verso di lui, ora si gira, fissandolo con una
traccia di evidente freddezza nello sguardo. "Non aspettarti scuse per quello." dice. "Non me le aspetto, infatti, e non le merito."
risponde Alexi, continuando a fissare davanti a sé. "Hai mille
volte ragione... ma questo non c'entra, adesso. Dicevo che me ne
stavo in disparte... quando mi è parso che Xena mi chiamasse. Forse
mi aveva chiamato più di una volta, non saprei, ma in quel momento...
pensavo ad altro. Comunque, mi sono scosso dalle mie riflessioni
e mi sono avvicinato... appena in tempo per vedere te distesa in
terra e qualcuno che mi è sembrato lei svanire dietro gli alberi.
Sono immediatamente accorso, ma tu ti stavi già riprendendo... e
il resto lo sai." conclude l'uomo, tornando a guardarla. "Siamo
corsi alla buca e ne abbiamo estratto Xena... o quella che credevamo
fosse lei." "Io non ricordo quasi nulla di quei momenti, invece."
mormora Olimpia. "Ricordo benissimo che stavamo avvicinandoci
al luogo in cui si trova la tana di... quella cosa. E poi... tutto
diventa confuso. Mi pare di aver sentito il pianto di un bimbo...
Xena che mi diceva qualcosa... Sembrava arrabbiata o spaventata... e d'un tratto ho visto te. Nel mezzo il buio
più assoluto." "Nient'altro?" "No... almeno mi sembra... Ma che sarà successo
per spingerla a gettarsi in quella buca?" "Forse è "Può darsi." Olimpia sospira. "Anzi, forse
è la spiegazione più probabile e l'influsso del dèmone potrebbe
aver colpito anche me, ma non so perché... ho l'impressione che
manchi qualche tassello importante a questa storia." "Cosa pensi di fare?" "Ancora non lo so bene." sospira Olimpia. "Improvviserò.
Di sicuro, cercherò di non spaventarla ulteriormente. La strada
per ritrovare Xena, dovunque sia, passa attraverso di lei."
La ragazza, lentamente, quasi con timore, muove una mano
verso la testa della donna e ne sfiora i capelli. "Dove sei, Xena?" sussurra. "Ti prego,
cerca di sentirmi." "Hai provato a connetterti a lei?" "Non faccio altro, ma non riesco a sentire nulla.
Dovunque sia il suo spirito, è troppo lontano." "Oppure..." comincia Alexi. "Non dirlo!" Olimpia non ha alzato
di un tono la voce, ma alle orecchie del giovane quelle parole risuonano
come un urlo. "Non pensarlo nemmeno. Xena è viva e io
la ritroverò. E la riporterò da me." Con un sospiro, Alexi si dirige verso la porta. "Vado a preparare un infuso caldo." dice. Olimpia sente appena il rumore della porta che si richiude,
mentre continua quasi meccanicamente ad accarezzare lievemente la
testa della donna addormentata. (63) Xena/Jennifer e Sutherland "Oh, Dio onnipotente! Jennifer! Ma cosa ha fatto
al collo?" Appena entrati nella sala con la parete trasparente,
Xena si era voltata istintivamente, ignorando il dolore alla gola
e in tutti i muscoli, ad osservare, ad un tempo meravigliata e perplessa,
quella strana cosa che scorrendo su invisibili ruote si era
aperta davanti a loro e immediatamente richiusa alle loro spalle
da sola. Era un muro o una porta? E quale stupefacente cristallo
di tanta pura lucentezza poteva consentire di guardarvi attraverso
senza quasi notare la sua presenza? In realtà, era questo che stupiva
maggiormente la guerriera, più che il fatto che si fosse mossa autonomamente
per permettere il loro ingresso. Per sua esperienza aveva avuto
molte volte a che fare con passaggi segreti e pannelli che si aprivano
e chiudevano da soli, azionati da corde e carrucole nascoste, ma
mai con uno così. Si era fermata ed aveva teso una mano a sfiorarlo,
avvertendo sotto i polpastrelli la fredda e perfetta levigatezza
della superficie. "Che c'è, mia cara?" le aveva chiesto il vecchio
a cui stava permettendo di continuare a condurla con mano anche
troppo decisa verso l'interno. "Non l'aveva ancora vista? E'
sempre la vecchia vetrata, ma vi ho fatto installare un congegno
di apertura automatica. I dolori non mi consentono più di fare troppi
sforzi e cerco di evitarmi tutti quelli inutili. Mi è costata un
po', ma..." Poi, parlando l'uomo doveva essersi voltato verso di
lei (che non poteva vederlo perché tutta la sua attenzione era per
quel prodigioso marchingegno) e aveva fissato il suo sguardo sul
suo collo, prorompendo in quell'esclamazione. Nel sentirlo, Xena si gira a sua volta a guardarlo e
i loro occhi s'incontrano per la prima volta, in piena luce. Istantaneamente
il vecchio lascia cadere la mano che le teneva sulla schiena e arretra
di un passo. "Non è niente." risponde la guerriera. "Spiegami
piuttosto questo miracolo, vecchio. E a cosa serve un passaggio
segreto se ci puoi guardare attraverso?" "Dio onnipotente!" mormora il vecchio, fissandola
ad occhi spalancati. "Lo hai già detto. Chi sei tu? E chi è questo dio
a cui rivolgi le tue suppliche di continuo?" Ora la donna avanza lentamente verso di lui e l'uomo anziano
arretra ancora. "E' a causa sua, se io mi trovo qui? Dimmelo." "Jennifer? In nome di... cioè, ma cosa le è successo?" Con una specie di ringhio, Xena lo afferra per le braccia,
tenendolo in una presa ferrea. "Rispondi alla mia domanda! E smettila di chiamarmi
con quel nome ridicolo! Che sia stato il tuo dio, o tu stesso ad
invocarmi qui, non fingere di non sapere chi sono. E già che ci
siamo, spiegami anche come riesco a parlare e comprendere questa
lingua barbara e sconosciuta che non ho mai udito prima." Lo sguardo del vecchio è incollato al suo e dentro Xena
vi legge timore, stupore, ma anche un inequivocabile baluginìo di
curiosità, e d'un tratto il suo respiro si fa affannoso e il viso
impallidisce, mentre l'uomo
sembra quasi afflosciarsi, costringendola a sostenerlo, prima che
cada. "Mi scusi, Jenn... mia cara. Il mio cuore è abbastanza
sano, ma l'età avanza e le emozioni troppo forti non fanno mai troppo
bene. Le dispiace accompagnarmi a sedere?" Appoggiandosi al bastone ed al suo braccio, l'uomo barcolla
fino all'ampia poltrona al centro della stanza e vi si lascia cadere
con un sospiro. "Grazie. Non si preoccupi, mi riprenderò subito."
dice con un sorriso. "Lei piuttosto non dovrebbe sforzare la
sua voce così. Scommetto che la gola le brucia terribilmente." Quasi senza accorgersene, Xena si porta la mano alla
gola sulla superficie della quale, avverte sotto le dita l'incavatura
ardente che il filo metallico le ha provocato, sussultando lievemente
al contatto. "Può dirmi cosa le è successo? E chi o cosa le glielo
ha procurato?" L'affanno adesso sembra essere sparito dal respiro del
vecchio, e questi in apparenza incurante del suo malore solleva
la schiena dalla poltrona e si sporge verso di lei. Xena lo fissa
con il suo sguardo gelido, ma risponde. "Qualcuno là fuori, stava cercando di strangolarmi...
o meglio, stava cercando di strangolare questo corpo in cui mi sono
ritrovata. E sono sempre convinta che tu possieda molte risposte
alle mie tante domande, vecchio." "Vuol dire che qualcuno l'ha aggredita? Qui? A casa
mia?" In quel momento, un suono argentino e ripetuto risuona
nell'ambiente facendoli sobbalzare. Xena, di scatto, gira su se
stessa, mettendosi in posizione di difesa, cercando d'individuare
l'origine del suono. "Oh, che sciocco." esclama l'uomo dopo un attimo,
cercando di rialzarsi. "Deve essere il taxi. Ho dimenticato
che aspettava fuori." D'istinto, Xena lo prende per un braccio, aiutandolo
nella difficile manovra. "Grazie, mia cara." la ricompensa il vecchio
con un sorriso. "Lei rimanga qui. E' meglio che non la vedano
in questo stato. Ci penso io." Ma la mano della guerriera non lascia la presa sull'esile
braccio, e il suo sguardo non ha bisogno di parole. "Non si preoccupi." la rassicura l'uomo. "Non
sarò così stupido da tentare di fuggire. Può fidarsi di me." I loro occhi restano incollati per qualche momento, poi
Xena allarga le dita, lasciandolo libero. "Torno subito. Mi aspetti qui." dice il vecchio
e con passo claudicante, sempre appoggiato al suo bastone, esce
dalla stanza. In piedi davanti al vialetto che conduce al portico,
il professor Sutherland rimane a guardare la macchina con la carrozzeria
gialla allontanarsi, mentre le luci dei fanalini posteriori si accendono
in prossimità della curva, prima di svoltare e scomparire. L'anziano studioso si appoggia per un momento al muretto
che circonda la sua proprietà. E' grato al caso che gli ha permesso
di occuparsi per un attimo di una questione pratica come pagare
la corsa a vuoto di un taxi, concedendogli così di riflettere con
freddezza su quegli strani avvenimenti, senza farsene coinvolgere
emotivamente. Nel dovere di ogni buon medico e uomo di scienza,
vi è innanzitutto l'obbligo di esaminare ogni fatto con occhio clinico,
prima di lasciarsi andare a ipotesi che con la scienza e la razionalità
hanno ben pochi rapporti, e quindi il professore aveva deciso di
dimenticare per il momento la luce che aveva visto nello sguardo
della donna quando i loro occhi si erano incontrati. Quello sarebbe
stato un elemento decisamente di disturbo per una serena disamina
dei fatti puri e semplici. La domanda principale a cui rispondere in fretta era,
naturalmente, cosa stava accadendo a Jennifer. La donna era visibilmente
non più in sé. Fin da quel pomeriggio, quando era arrivata da lui,
Sutherland si era reso conto guardandola e parlandole, che lo stato
depressivo che affermava di stare superando, stava in realtà solo
mutando in qualcosa di più insidioso e meno facilmente leggibile.
Come aveva cercato di farle capire, la sua mente era ben lungi dal
riconoscere ed accettare la tragica morte della sua amica, condizione
indispensabile per cominciare anche solo a percorrere il sentiero
della vera guarigione, ma era solo passata al livello successivo:
quello della ricerca di indizi che potessero rassicurarla nel convincimento
che la sua anima, il suo spirito fossero sopravvissuti oltre questa
vita. Ma quello che per molti rappresenta un rifugio dal dolore
per la perdita di una persona amata, nella sua particolare situazione
si stava trasformando in un'ossessione. A prezzo della sua stessa
salute mentale, Jennifer non si contentava di pensarlo o sperarlo,
lei voleva con tutte le sue forze che fosse così, e quella
macchina meravigliosa e terribile che è la mente umana le stava
costruendo un mondo di visioni e di miraggi in cui cercare le prove
di questo suo convincimento. In alcuni soggetti, questo sistema,
anche se un po' estremo, raggiunge comunque lo scopo di sedare l'inquietudine
e l'angoscia, cullandoli in una sicurezza interiore che li aiuta
a superare le difficoltà e tornare ad affrontare la vita. Ma in
alcuni altri, può avvitarsi su se stesso, imprigionandoli in un
universo di allucinazioni ed illusioni, da cui è poi difficile,
se non impossibile, trovare la volontà necessaria per uscire. E, se voleva mantenere ciò a cui aveva assistito poco
prima su un piano di puro raziocinio, il comportamento della donna
rappresentava un passo decisivo, forse senza più ritorno, in quella
direzione. Jennifer era caduta a tal punto nel suo sogno ad occhi
aperti, da aver ricreato in sé l'immagine, come la concepiva la
sua mente, dello spirito della guerriera che le aveva rubato la
donna che amava. Per sentirsi lei. Per essere lei. Trasferendo
in sé quell'immagine, che evidentemente aveva infestato i suoi incubi
per tutti quei mesi, pensava inconsciamente di dare corpo reale
alla speranza che Joyce fosse davvero ancora viva in chissà quale
tempo o dimensione e sotto quale forma, ma finiva anche per divenire
lei stessa il ricettacolo di quell'amore immenso e senza età di
cui proprio lui le aveva parlato. Ricordi, Michael Sutherland, vecchio idiota? Sei stato
tu a metterle in mente tutte quelle storie di reincarnazioni, di
anime gemelle e di amori destinati a vivere in eterno. La sola attenuante che riusciva a trovarsi era che quando
le aveva riferito di quelle antiche leggende, non aveva la minima
idea di quanto fosse profondo il sentimento di Jennifer per la sua
protetta, né tantomeno (e forse questo era più grave) di quanto
fossero precarie le sue condizioni mentali. Questo era ciò che lui, da studioso di psicologia e scienziato
avrebbe potuto e dovuto pensare sulla questione che si poneva. Ma non più dalla notte di Xena, e da quando il mondo
della razionalità e delle verità univoche aveva subito un totale
rovesciamento. Da allora, lui sapeva che non sarebbe mai più stato
in grado di dare nulla per scontato, che da quel momento in poi
ogni fatto insolito avrebbe avuto ai suoi occhi una doppia valenza
e che quella razionale non avrebbe più potuto essere né l'unica,
né la più probabile spiegazione. E questo lo riportava all'elemento che aveva volontariamente
accantonato all'inizio del suo ragionamento. Nel salotto, quando Jennifer si era voltata verso di
lui e l'aveva guardata negli occhi, aveva sentito come se all'improvviso
tutti i mesi trascorsi da quella notte fossero stati annullati,
come se una macchina del tempo mentale lo avesse trasportato istantaneamente
al momento, che non avrebbe dimenticato mai, in cui per la prima
volta aveva posato lo sguardo sulla Principessa Guerriera. Una visione
che andava al di là di ogni immaginazione. Quanto orgoglio, quanta
fierezza aveva visto in quegli occhi gelidi, ma velati da una sofferenza
che si poteva notare sottotraccia, specchio di un'anima tormentata
e forse consapevole di una maledizione destinata a non estinguersi
mai veramente. Non aveva mai visto due occhi così e aveva pensato che
non li avrebbe rivisti mai più. Fino a questa sera. Fino a cinque
minuti prima. Finché non aveva guardato in quelli di Jennifer, o
di colei che era stata Jennifer. E il tempo si era annullato. Il colpo era stato duro. L'emozione improvvisa aveva
rischiato quasi di aver ragione del suo vecchio cuore, ma con uno
sforzo era riuscito a tenerlo sotto controllo e la benedetta interruzione
del tassista spazientito gli aveva permesso di riprendersi e calmarsi
completamente. Beh, almeno per quanto possibile, date le circostanze. Buon Dio, dimmi, c'è davvero chi credo io nel mio salotto?
E se è davvero così, perché è tornata? E dov'è finita Jennifer? E poi c'erano quei segni impressionanti sul collo. Come
se li era fatti? Lo scienziato e studioso avrebbe risposto che se
li era probabilmente provocati da sola, magari in una crisi di follia
particolarmente violenta. Ma non il Michael Sutherland di adesso, non quello che
non dava più niente per scontato. Quel Sutherland sarebbe
tornato sui suoi passi per indagare, osservare, capire se possibile,
senza paraocchi né pregiudizi. E con un sospiro, il professore raddrizza la schiena
e lentamente torna verso la casa. Rientrato nel grande salotto illuminato, Sutherland si
guarda intorno. Subito non riesce a vedere Jennifer e, per un attimo,
di nuovo il suo cuore perde un battito. E' fuggita! pensa, mentre la sua testa gira a destra e a sinistra,
cercando con gli occhi la donna e sfidando pericolosamente l'incolumità
dei muscoli rinsecchiti del collo. E ora cosa faccio? Poi, con sollievo, scorge la figura familiare, mentre
in un angolo si osserva in uno specchio appeso alla parete. L'oggetto
ovale in una cornice intarsiata, è dell'inizio '800 e la sua superficie
leggermente opacizzata dal tempo rimanda l'immagine della donna
con uno strano riflesso dorato. Jennifer vi sta proprio davanti
e si sta passando una mano sul viso e poi sui capelli come se non
riconoscesse quello che vede. "Che sortilegio è questo?" chiede a bassa voce,
quasi parlando a se stessa, poi i loro sguardi s'incontrano nello
specchio. "Di chi è questo corpo? Questo volto, questi abiti...
In che mondo mi trovo?" La donna si volta verso di lui, gettandogli
uno sguardo in cui la gelida rabbia si confonde con un'inequivocabile
sottofondo di paura. "Chi sei tu e perché sono stata chiamata
qui?" "Io mi chiamo Michael Sutherland e sono il proprietario
di questa casa." risponde lentamente il professore, avvicinandosi
con cautela, ma fermandosi a una certa distanza. Meglio non sfidare
un altro attacco di quell'ira improvvisa. "E tu sei... o dovresti
essere, Jennifer Rowles, una mia cara amica." "Jen-ni-fer?" sillaba la donna adagio, come
se volesse sentire il sapore di quel nome in bocca, e riportando
la sua attenzione sull'immagine riflessa. "No. Io non ricordo
di averlo mai udito. Ma, invece" aggiunge all'improvviso, fissando
Sutherland nello specchio "credo di ricordare te." "Davvero? Ma se non sei la mia amica Jennifer, allora
chi saresti?" chiede il professore, cercando di ignorare il
groppo che sente in gola e di mantenere fermo il tono della voce. La donna si volta nuovamente a guardarlo. "Vuoi farmi credere che non lo sai? Che non sei
stato tu a chiamarmi?" "Se qualcuno ti ha chiamata, quello non sono io."
Sutherland si sposta lentamente, arretrando fino alla sua poltrona
e lasciandovisi cadere. Quindi accenna al divano di fronte. "Accomodati." "Resto in piedi, grazie." risponde la donna,
mettendoglisi davanti, con le gambe leggermente divaricate e le
braccia incrociate sul petto. Le spalle sono erette e l'intero portamento
della persona dà un senso di forza e decisione che a Sutherland
non ricordano affatto Jennifer, ma piuttosto... "Il mio nome è Xena, se davvero non lo sai."
afferma con risolutezza la donna, fissandolo per scrutarne ogni
reazione. " "Allora, mi conosci dopotutto." Lo sguardo
della donna assume una tonalità di gelo ancor più accentuata, se
possibile, avvicinandosi all'uomo anziano e accosciandosi di fronte
a lui, finché i loro occhi sono allo stesso livello. "Quindi
sai anche quello che potrei farti per indurti a parlare." "Qualunque cosa tu possa farmi, mia cara" dice
Sutherland appoggiandosi allo schienale della sua poltrona con un
sorriso "non potrai costringermi a dire quello che non so.
E ciò in cui posso risponderti, non hai che da chiederlo." Simulando una calma che è ben lontano dal provare, Sutherland
guarda negli occhi Jennifer, cercando nel suo sguardo qualcosa,
un indizio che gli permetta di comprendere davanti a cosa si trova
di fronte veramente. Con la mente, prova a richiamare alla memoria
espressioni ed atteggiamenti della psicologa per confrontarli con
quelli che vede ora nella donna, ma il risultato dell'esame non
appare decisivo in un senso o nell'altro. Non ricorda di aver mai
visto negli occhi di lei quello sguardo freddo che gli gela il sangue,
questo è certo, ma per rari che siano i casi di sdoppiamento di
personalità hanno dato luogo a vere e proprie trasformazioni nei
soggetti colpiti, come lui sapeva bene. Pure la postura e il modo
di camminare di Jennifer gli paiono cambiati, ma anche questi aspetti
si potevano ascrivere ad un'eventuale patologia mentale. Ma c'era
altro. Quando si era verificato il suo incontro con Xena, e
Intanto, però, la donna continua a guardarlo senza parlare,
forse un po' spiazzata dal suo atteggiamento, in apparenza fin troppo
calmo e rilassato, e dal sorriso gentile che gli aleggia sulle labbra.
E approfittando di quel suo momento di indecisione, Sutherland gioca
la sua carta. "Ma anche se non sono stato io a chiamarti qui,
Principessa Guerriera" dice nel suo miglior greco arcaico,
cercando di rammentare le inflessioni che le aveva sentito usare
quella volta "è comunque un grande onore accoglierti nuovamente
nella mia casa." Se l'avesse colpita in fronte con il bastone (se cioè
avesse avuto aspirazioni suicide), Sutherland dubitava che avrebbe
ottenuto un effetto di sorpresa maggiore. Nel sentirsi rivolgere
quella frase, la donna aveva avuto un evidente sobbalzo, rischiando
di perdere quasi l'equilibrio e di cadere a sedere per terra, ma
poi dimostrando un notevole sangue freddo si era subito ripresa
e l'espressione sul suo volto era tornata concentrata e decisa. "Avevo ragione." sibila minacciosamente. "Sono
già stata qui. Io e te ci conosciamo e tu parli la mia lingua. Sarà
bene che cominci a darmi qualche spiegazione, vecchio. La mia pazienza
non è infinita." "Io parlo la tua lingua." dice lentamente il
professore, meditando attentamente le parole prima di pronunciarle,
e senza mai abbassare lo sguardo da quello dell'altra. "E tu?
Se sei davvero chi dici di essere, come mai non mi rispondi nell'idioma
della tua terra di nascita?" La domanda resta sospesa tra loro, mentre nello sguardo
della donna passano fulminèe una serie di emozioni, dubbio, sconcerto,
allarme, e poi finalmente, dopo un tempo che a Sutherland è parso
interminabile, lei risponde e nella sua voce non vi è più minaccia,
ma un sottile senso di smarrimento. "Non lo so." sussurra, quasi come parlando
a se stessa, e i suoi occhi vagano confusi in giro per la stanza,
fino a fermarsi nuovamente in quelli del professore. "Io...
non ci riesco. Capisco quello che hai detto, ma non riesco a trovare
le parole per risponderti." Sutherland resta immobile, teso in avanti sulla poltrona,
a scrutare con attenzione in quello sguardo. Jennifer non avrebbe
potuto parlare in greco antico perché non lo conosceva, e quindi
questo sarebbe stato un elemento in favore della schizofrenìa, ma
se non lo conosceva, allora come poteva aver capito quello che lui
le aveva detto? Doveva provare ancora, ma questa volta con qualcosa
di più decisivo. E subito capisce come. "Sai, Xena" declama adagio nell'antica lingua,
come se fosse la battuta di uno spettacolo teatrale "un giorno
spero di vedere più da vicino quel tuo chakram." "Nessuno che l'abbia visto da vicino, mi è sembrato
mai molto contento." risponde immediatamente la donna senza
pensare, quasi con rabbia. Ed è come se tra loro si schiantasse un fulmine. I loro
sguardi s'incantenano, i loro occhi si spalancano ed entrambi, molto
lentamente si alzano, continuando a fissarsi come vicendevolmente
ipnotizzati. "Adesso ricordi, vero?" chiede Sutherland,
quasi in un bisbiglio. "Sì." mormora Xena. "Adesso ricordo."
(11 - continua) |
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