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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI (Capitolo
XIII) Parte
2
(69) Jennifer/Xena
e Olimpia Nonostante il buio
stesse calando sempre più rapidamente, Jennifer e Olimpia avevano
incontrato lungo la strada più gente di quanta pensassero, e spesso
le due donne erano state costrette ad abbassare ulteriormente il
cappuccio dei loro mantelli sul viso, prima di entrare effettivamente
nei confini del villaggio. Varcandone l'entrata, la mente di Olimpia
era tornata al momento del loro arrivo in quel luogo (quando? tre
o quattro giorni prima? Possibile che fosse passato davvero così
poco tempo?), sotto una pioggia torrenziale e con il fango fino
alle ginocchia e a quando Xena l'aveva sollevata tra le braccia
e l'aveva portata così fino all'interno della locanda, che adesso
scorgevano davanti a loro. La sua bocca, unico punto visibile del
viso per il resto nascosto dal cappuccio, si piega per un attimo
in un leggero sorriso malinconico. Poi, la sua espressione torna
a farsi determinata e la ragazza si volta appena verso l'altra che
la segue ad un passo o due di distanza. "Tutto bene?"
chiede a bassa voce. "Per ora."
risponde la donna, con la voce un po' soffocata dal tessuto del
mantello che si è avvolta anche intorno alla bocca. "Mi pare
che nessuno ci abbia notate." "Bene, ma sarà
meglio togliersi dalla strada al più presto. Le stalle sono laggiù."
dice Olimpia, indicando con un cenno della testa un capannone di
legno con due ampie porte spalancate, su un lato della grande piazza
che introduce nel villaggio vero e proprio. "Tu tienti ad una
certa distanza. Ti farò cenno io se potrai avvicinarti." Lasciandosi Jennifer
alle spalle, Olimpia lascia la strada principale deviando verso
il capannone, davanti al quale, seduto su di una lunga panca, c'è
un uomo piuttosto anziano con un filo di paglia stretto tra i denti.
L'ha già scorta venire verso di lui, e Olimpia si chiede che cosa
possa mai dirgli, senza insospettirlo. Non è riuscita a pensare
a nulla, ed ora può solo improvvisare. D'altro canto, cosa altro
avrebbe potuto fare per cercare d'individuare il misterioso amico
di Xena? Maledizione, Xena,
come odio a volte la tua mania di giocare agli indovinelli! E comunque, lei non
si era mai recata alle stalle, solo Xena l'aveva fatto per controllare
Argo, quindi c'erano buone probabilità che lo stalliere non la mettesse
in relazione con le due straniere che erano arrivate in paese, scatenando
il finimondo qualche giorno prima. A meno che, naturalmente, non
le avesse viste alla locanda... Beh, a questo punto non poteva fare
altro che sperare in un po' di aiuto della dèa bendata. "Salve."
saluta l'uomo che l'ha guardata avvicinarsi senza muovere un muscolo
e che ora la sta osservando in silenzio. "Io e mia sorella
siamo solo di passaggio e ci chiedevamo, visto che abbiamo ancora
una lunga strada da percorrere, se per caso non avessi un cavallo
da venderci." "Non vendo cavalli."
mormora l'uomo, continuando a scrutarla. "Li custodisco e basta." Sforzandosi di tenere
il cappuccio abbastanza alto da non insospettire l'uomo, ma al tempo
stesso non tanto da rischiare che qualche altro passante possa scorgerla
in viso, Olimpia cerca di sfoderare il suo miglior sorriso. "Beh, magari
un cavallo non ritirato o trattenuto in pagamento. Sei sicuro di
non poterci aiutare? Oppure dimmi se conosci qualcuno che potrebbe
averne uno." "Questa è l'unica
stalla del paese, mi dispiace." risponde l'uomo, alzandosi
dalla panca, improvvisamente disinteressato a quella conversazione,
e voltatele le spalle senza tante cerimonie, si allontana per tornare
al suo lavoro. "Aspetta!"
prova a richiamarlo Olimpia e fa per seguirlo, anche se non ha la
più vaga idea di cosa dirgli ancora, quando un movimento alla sua
destra la blocca. Cautamente la ragazza gira lievemente la testa,
cercando sempre di tenere il più nascosto possibile il viso, e vede
un altro uomo, un po' più giovane, con in mano un rastrello, che
sembra farle cenno da dietro un'alta catasta di legna, posata a
poca distanza. Perplessa, Olimpia
si volta verso Jennifer, rimasta dall'altra parte della strada,
fuori vista, e che ora la sta guardando senza capire e le indica
con un rapido gesto della mano di non muoversi. Poi, con fare casuale
si avvicina alla catasta di legna appoggiandovisi con la schiena. "Tu sei l'amica
di Xena." dice una voce sconosciuta alle sue spalle. "Ti
ho vista insieme a lei, l'altra sera alla locanda." "E tu chi sei?"
chiede Olimpia, giudicando inutile ogni tentativo di negare, e pregando
di stare facendo la scelta giusta. "Tu non puoi
ricordarti di me." dice la voce. "Ti ricordo a malapena
io stesso, anche se sembri proprio uguale ad allora." Cautamente Olimpia
gira intorno alla catasta fino a trovarsi faccia a faccia con l'uomo,
che le sorride. Un sorriso dolce e triste allo stesso tempo, che
risveglia per un attimo nella ragazza un'indefinibile sensazione
che però non riesce a precisare. "Mi chiamo Argolis."
dice. "Dov'è Xena?" Olimpia non risponde
subito, mentre cerca di definire l'impressione che l'ha colta, poi
si scuote. "E' un po' difficile
da spiegare." L'uomo la fissa dubbioso,
poi si guarda intorno. "Meglio non parlare
qui. Io abito dall'altra parte del villaggio. Adesso mi muovo. Tu
lasciami allontanare, poi seguimi senza darlo a vedere." E senza aggiungere
altro, Argolis posa il rastrello e si allontana, con l'andatura
lenta e le spalle curve di uno che torna a casa stanco dopo una
lunga giornata di lavoro. Senza perderlo di vista, Olimpia si gira
rapidamente verso Jennifer, che afferrata al volo la situazione,
le fa un cenno d'assenso e viene verso di lei. Poi, senza una parola,
le due donne cominciano a seguire la figura di Argolis che è già
quasi sparita in lontananza. Cercando di mantenere
un andatura che le permetta di restare di qualche passo dietro ad
Olimpia, come la ragazza le ha chiesto, per evitare di attirare
l'attenzione, Jennifer si rende conto di quanto sia difficile trattenere
quel corpo che sente pieno di energie pronte ad esplodere in ogni
momento. Quello è un corpo fatto per correre, saltare, combattere,
ogni sua fibra implora azione, ogni muscolo pulsa di vigore represso
e la sua mente, se è ancora sua, vorrebbe scatenarlo, liberare
quella forza a stento tenuta a freno, e deve fare appello a tutta
la sua volontà per mantenere il controllo. Ma c'è anche un'altra
cosa che quel corpo implora. Una cosa che Jennifer sempre più a
fatica reprime dentro di sé, qualcosa che più di ogni altra vorrebbe
poter liberare. E che più di ogni altra sa di non potere. Si chiede
solo cosa accadrà, quando prima o poi dovranno riposare, giacendo
forse l'una accanto all'altra. Per quanto riuscirà a trattenere
il desiderio che prova per Olimpia e che le fa dolere lo stomaco
anche solo a pensarci? E quale sarebbe la sua reazione, se alla
fine...? No! Jennifer stacca di
colpo la mente da quel pensiero, concentrandosi sull'uomo che stanno
seguendo, e distoglie lo sguardo dalla sua compagna (La mia compagna?
Davvero ho pensato questo? Quella non la mia compagna. E' la compagna
di Xena. E non devo dimenticarlo!) che la precede, totalmente
ignara del marasma che si agita dentro di lei. Totalmente ignara? Ma è
proprio così? Non è stata quella la sensazione che ha ricavato dal
loro colloquio di quel pomeriggio. Quando ha sentito Olimpia stringerla
in quell'abbraccio, non ha avvertito solo un tentativo di consolarla.
C'era di più, vero? C'era una sorta di eccitazione, di brama, un
sottile desiderio che scorreva tra i loro corpi, al semplice contatto
della loro pelle. Come le due metà di un intero che anelassero a
ricongiungersi. Basta! Per favore! Stringendo i denti,
con un supremo sforzo, Jennifer cerca di fissare la sua attenzione
sulla strada che stanno percorrendo e sullo sconosciuto che ogni
tanto senza farsi notare si volta verso Olimpia, per controllare
evidentemente di non averla persa per poi riprendere il suo cammino.
E' quello l'amico di Xena? Probabile. Se è così, sono state molto
fortunate, anche se non ha idea di come la cosa possa aiutarle.
E la sua impressione è che neanche Olimpia lo sappia ancora. Poi, il suo pensiero,
alla disperata ricerca di qualunque cosa possa distoglierlo da sentieri
pericolosi, vaga sul panorama che vede intorno. Il rapido succedersi
di avvenimenti dal suo arrivo non le aveva dato quasi modo di assimilare
il mondo in cui si è trovata catapultata improvvisamente, ma Jennifer
era tutto sommato sorpresa dalla propria risposta emotiva a quello
che poteva essere considerato ad ogni buon diritto un vero e proprio
viaggio nel tempo, indietro di quanto? duemila anni, forse,
se ricordava bene quello che le aveva raccontato il suo vecchio...insegnante
(la definizione esatta proprio non le tornava alla mente). Eppure
lei aveva reagito con relativa calma ad una situazione che avrebbe
reso isterica qualunque altra persona. Naturalmente il fatto di
essersi risvegliata nel corpo di una potente guerriera ed accanto
all'incarnazione originale della donna di cui era disperatamente
innamorata, doveva aver influito non poco sul suo stato d'animo,
ma preferiva non pensarci, e concentrarsi invece su un ambiente
di cui aveva solo letto, fino ad allora. Il villaggio che stavano
attraversando, ad esempio, mostrava un tenore di vita modesto, per
non dire povero, eppure la gente che vedeva vestiva con dignità
e nei loro volti, induriti da una vita in cui non potevano sognare
o ambire a niente di diverso, non si leggeva autocommiserazione,
come nei poveri della sua epoca. I problemi erano evidentemente
abituati a combatterli quotidianamente, che fossero una carestia,
un assalto di predoni, o un qualsiasi altro flagello interpretato
come una punizione di dèi crudeli e vendicativi che sfogavano sull'umanità
la loro ira, e non avevano tempo di piangersi addosso. Erano uomini
e donne del loro tempo, e potevano sperare solo di sopravvivere
un giorno dopo l'altro, mai osando guardare troppo oltre nel loro
futuro. Anche adesso, scrutando
da sotto il cappuccio le loro espressioni, li vedeva tesi ai loro
assilli e neanche parevano accorgersi delle due figure ammantellate
che camminavano in mezzo a loro. Quindi, Jennifer non avrebbe saputo
dire cosa l'aveva spinta d'un tratto a voltare la testa verso la
sua sinistra e fissare lo sguardo su un uomo che se ne stava appoggiato
al muro di una casa e che nel momento in cui i loro occhi si erano
incontrati aveva abbassato velocemente i suoi. Jennifer non ne era
sicura, ma avrebbe giurato di aver già visto quell'uomo in almeno
altre due occasioni dal loro ingresso nel villaggio. La prima volta
l'aveva appena notato nel momento in cui superavano le porte insieme,
prima che Olimpia le chiedesse di stare a distanza. Le era parso
che stesse guardando proprio loro, ma in quel momento si sentiva
addosso gli occhi di tutti e l'aveva interpretato solamente come
semplice nervosismo. La seconda volta era accaduto mentre Olimpia
parlava con lo sconosciuto accanto alla stalla, e anche allora non
ci aveva fatto troppo caso, incuriosita da quel misterioso colloquio.
Ma adesso, invece, non aveva potuto fare a meno di notarlo. Era
come se nel suo cervello fosse risuonato un segnale d'allarme. Dal
loro arrivo avevano percorso già un bel tratto, seguendo la loro
guida. Era possibile che quell'uomo facesse solo per caso la loro
stessa strada? Certo che era possibile, ma assai poco probabile,
le suggeriva il suo istinto e si era sorpresa a muovere la sua mano
quasi senza rendersene conto verso il suo fianco, stringendo però
il vuoto tra le dita. La parte di cervello nella sua testa che era
ancora Xena (o che lo stava tornando ad essere sempre più) si era
evidentemente aspettata di trovarci qualcosa. Ma certo, il chakram.
Solo che lo strano cerchio volante di Xena adesso pendeva dal fianco
di Olimpia, come la sua spada era legata alla schiena della ragazza. Jennifer resta per
un attimo dubbiosa sul da farsi, poi con improvvisa decisione allunga
il passo e si accosta ad Olimpia. "Siamo seguite."
sussurra al volo passandole accanto e fermandosi poco più avanti,
fingendosi interessata alla merce di una bancarella sul bordo della
strada. "Lo so."
risponde nello stesso tono Olimpia superandola di nuovo. "Cerca
di non fargli capire che l'abbiamo notato, e vediamo cosa fa." E la strana processione
prosegue disperdendosi nella folla. Dopo un'interminabile
sfilza di stradine e vicoli, in numero impressionante per un villaggio
che si sarebbe detto molto più piccolo, Olimpia e Jennifer che avevano
continuato a seguire l'uomo, senza mai perderlo di vista, ma attente
a non avvicinarsi abbastanza da far sospettare qualcun altro, oltre
il loro strano pedinatore, che fossero insieme, erano alla fine
sbucate in una strada più larga e sterrata, come quella che le aveva
condotte all'interno dell'abitato. Qui le case si facevano più rade
e quasi tutte avevano intorno appezzamenti di terreno, orti, stie
e capanne in legno evidentemente adibite al riparo di animali. Camminare per quegli
stretti vicoli, molto meno affollati della via principale, aveva
permesso a Jennifer di continuare a tenere d'occhio facilmente il
misterioso individuo che le seguiva, che però, pur tenendosi a sua
volta ad una certa distanza, non pareva preoccuparsi troppo che
le due donne lo notassero. Anzi, in certi momenti, le era sembrato
addirittura che volesse essere visto, come se non fosse ben sicuro
su cosa fare e attendesse quasi che fossero loro a fare la prima
mossa. A quel punto, Jennifer immaginava che anche Olimpia si fosse
resa conto dello strano gioco dello sconosciuto, anche se era stupita
che la ragazza se ne fosse accorta anche prima di lei e non riusciva
a capire come avesse fatto, dato che non l'aveva vista voltarsi
indietro neanche una volta, da quando erano entrate nel villaggio. D'altro canto, ripensandoci,
neanche lei aveva effettivamente visto qualcosa di strano
nel loro inseguitore. Era stato più un istinto a farglielo notare,
una specie di sesto senso, un... un... Dannazione! Jennifer era certa
che nella sua lingua ci fosse un'espressione adatta a descrivere
ciò che voleva dire, ma ormai quella lingua le suonava nella mente
come un antico ricordo che diveniva di momento in momento sempre
più lontano ed estraneo. Con una certa frustrazione smette di cercare
di ricordare, quando Olimpia che la precede solo di pochi passi,
si ferma d'improvviso davanti ad una casa non molto grande, separata
dalla strada da una bassa staccionata ed un piccolo orto. L'uomo
che aveva parlato con Olimpia sta varcando il cancelletto in legno
che immette in quella che è evidentemente la sua abitazione. Olimpia
e Jennifer si scambiano uno sguardo. Il nostro amico è
sempre lì, le sembra che le dicano gli occhi della ragazza. Lei
risponde solo un cenno d'assenso, poi entrambe, senza più mantenere
una finzione che non ha più ragione di essere, entrano a loro volta. "Xena."
dice Argolis con un sorriso, appena vede la figura avvolta nel mantello
sgusciare rapidamente dalla porta, dietro ad Olimpia. "Mi sembrava
di averti vista, ma non ero certo che fossi tu." "Lascia stare,
Argolis." lo interrompe Olimpia bruscamente, precipitandosi
ad una piccola finestra protetta da un'inferriata, accanto all'entrata.
"Vieni qua, invece, e dimmi se conosci quell'uomo dall'altra
parte della via." Perplesso, Argolis
si avvicina alla finestra e guarda fuori. "E' Tiros."
dice poi. "Il fratello della donna rimasta uccisa l'altra notte
alla locanda. Che ci fa qui?" "Sì, ora lo riconosco
anch'io." risponde Olimpia, scrutando con attenzione l'uomo
che adesso sta percorrendo il tratto di strada davanti alla casa,
lanciando occhiate indecise nella loro direzione. "Ci ha seguite
fin dal nostro ingresso nel villaggio. Mi domando come mai." "Non potrebbe
averlo mandato quel... come si chiama... Acros, di cui mi parlavi?"
azzarda Jennifer, sporgendosi anche lei al di sopra delle teste
degli altri due. "Acros?"
La voce di Argolis acquista un tono di disprezzo. "Non credo.
Pare che abbiano avuto una discussione piuttosto accesa e che il
Capo del Consiglio lo abbia cacciato, sostenendo che sia un blasfemo
e un pervertito. Come se non l'avesse mai saputo prima." "Che vuoi dire?"
chiede Olimpia, fissandolo. "Si diceva che
avesse rapporti con quella pazza della sorella e che il figlio che
lei aspettava fosse suo. E non c'è niente di ciò che si dice in
giro di cui Acros non sia al corrente." Olimpia continua a
fissare l'uomo sulla strada, con aria assorta. "Ora più che
mai" mormora, quasi soprappensiero "mi chiedo cosa voglia
da noi." "Quel che è certo
è che se vi ha riconosciute, correte un grosso rischio. Forse vuol
denunciarvi per tornare nelle grazie di Acros." dice Argolis. "No. Se fosse
così, sarebbe già andato a chiamarlo. Invece, se ne sta là fuori
a camminare su e giù." Olimpia si volta improvvisamente verso
di lui. "C'è un'altra uscita di qui?" chiede. "Sì, di là."
risponde Argolis, indicando un'altra porta che dà su di un corridoio
buio. "Che vuoi fare?" "Voi non muovetevi.
Io torno subito." E, sotto lo sguardo
stupito degli altri due, Olimpia si allontana di corsa. Tiros dà un'ultima
occhiata nervosa alla casa in cui ha visto entrare le due donne
ammantellate che ha seguito per quasi tutto il villaggio, e fa l'ennesimo
tentativo di muovere un passo in quella direzione, ma i suoi piedi
sembrano inchiodati al terreno. Per la verità, ripensandoci, non
riesce neanche a ricordare per quale ragione le abbia seguite. Le
aveva viste quasi per caso, uscendo dalla bottega di Minos, il macellaio
ed era rimasto ad osservarle mentre si allontanavano per la strada
principale, distanti tra loro di qualche passo come se non si conoscessero.
Non le aveva riconosciute immediatamente, anche se la statura della
donna che camminava dietro non poteva passare troppo inosservata,
ma ad un certo momento il suo cappuccio le era scivolato un po'
di lato e prima che lei potesse ritirarlo su, aveva lasciato intravedere
una lunga chioma corvina ed un paio di occhi azzurri che risaltavano
come diamanti su un volto affinato ed abbronzato dalla continua
vita all'aria aperta. Per poco, Tiros non si era lasciato sfuggire
una bestemmia che sicuramente avrebbe attirato tutte le attenzioni
su di lui. Ma era riuscito a trattenerla all'interno della bocca,
serrando le labbra e senza neanche sapere perchè aveva cominciato
a seguirle. Ed ora era lì, ad imprecare,
non più solo mentalmente, fuori dalla casa di Argolis lo stalliere,
contro il destino che sembrava non volerlo mai lasciare in pace.
Perché doveva capitare proprio a lui? Perché doveva essere lui a
vederle? Se fosse uscito da quella maledetta bottega un momento
prima o un momento dopo, ora non se ne sarebbe stato lì, con la
gola e lo stomaco resi due inestricabili grovigli annodati dalla
paura. Ma cosa restava a fare? Non avrebbe mai avuto il coraggio
di andare a bussare a quella porta. E perché poi? Cosa avrebbe mai
potuto dirgli se le avesse incontrate faccia a faccia? Se erano
proprio le due guerriere che si diceva fossero, quelle due avevano
bisogno di lui, quanto di una terza gamba. E comunque cosa gli faceva
credere che si sarebbero fidate? Lui era il fratello della donna
della cui uccisione erano state accusate e non era stato forse tra
la folla che minacciava di linciarle su ordine di Acros? Nel dubbio
avrebbero anche potuto ucciderlo, temendo che potesse denunciarle.
No, la cosa più saggia era quella di tornare indietro, alla propria
vita, che era già abbastanza complicata, e fare finta di non aver
visto nulla. Ma anche cercando
di dirigerle nella direzione opposta, le sue gambe non dimostravano
troppa voglia di ubbidirgli. Perché lui non aveva più alcuna vita
a cui tornare. Dopo la morte di Sarah,
gli pareva di essere in realtà morto lui stesso. Sua sorella era
divenuta nel tempo la sua unica ragione di vita, ora lo sapeva.
Non gli importava che la gente la considerasse matta e neanche i
continui sacrifici a cui era costretto per sorvegliarla in quei
giorni e quelle notti in cui diveniva troppo irrequieta per consentirgli
di lasciarla sola. E poi, quando proprio non ce la faceva più, e
voleva andarsi a fare un bicchiere, poteva sempre legarla al letto
o incatenarla in cantina. Ma la sua presenza aveva dato uno scopo
alla sua vita. E anche qualcosa di più. Non sapeva quale divinità
maligna gli avesse messo in testa quel pensiero, quella sera. Stava
legando Sarah al letto, come aveva fatto moltissime altre volte,
prima di allora. La ragazza gli era sembrata particolarmente agitata
e per tenerla ferma, mentre stringeva meglio i nodi ai legacci che
la tenevano bloccata per i polsi e le caviglie, le era montato sopra,
divaricando le gambe intorno ai suoi fianchi. Ed era stato allora
che l'aveva sentito. Le continue contrazioni del bacino della donna
contro il suo inguine gli stavano provocando un inequivocabile inturgidimento.
Mentre lottava per assicurare braccia e gambe di sua sorella al
letto, aveva cominciato, non sapeva quanto inconsapevolmente, a
sfregare il suo corpo contro quello di lei, finchè l'irrigidimento
tra le sue cosce non era stato quasi insostenibile. Per di più,
nella collutazione, la veste di Sarah si era aperta, esponendo due
seni freschi e sodi alla sua vista, e quella era stata la goccia
che aveva fatto traboccare il vaso. Tutto era finito in
pochi momenti, prima ancora che si rendesse interamente conto di
quello che stava facendo. Aveva rivestito alla meglio il corpo di
sua sorella che nel suo delirio non sembrava essersi accorta di
nulla, e si era ritirato velocemente su i pantaloni, tremante, cercando
di non pensare a quello che le aveva appena fatto. Ed era corso
ad ubriacarsi alla locanda come poche altre volte gli era capitato
prima. Aveva ricordi vaghi del resto di quella notte. Ma non dei
giorni seguenti, in cui gli pareva che tutti lo fissassero, come
se sapessero già della sua empietà, e anche se naturalmente era
impossibile, tuttavia la stranezza del suo comportamento doveva
aver sollevato la curiosità di molti. Aveva infatti preso sempre
più spesso ad uscire, a passare le sere alla locanda, e ad incatenare
Sarah nella cantina, perché solo l'idea di toccarla di nuovo, lo
faceva rabbrividire nel profondo. Aveva perfino incaricato un'anziana
vicina di occuparsi di lei per accudirla, quando l'esigenza di un
bagno diveniva non più procrastinabile, e questo era stato un errore,
perché non molto tempo dopo Acros, che l'aveva incrociato per strada,
gli aveva chiesto di parlargli. Gli era giunta voce,
come aveva spiegato la sera stessa nella sua casa, lontano da orecchie
indiscrete, ma non dai suoi due cani da guardia, Iacobus ed Ector,
da cui non si separava mai, che Sarah fosse stata impregnata da
seme corrotto e che avrebbe finito per dare alla luce una creatura
impura, un affronto agli Dèi, che avrebbe dovuto essere immediatamente
sacrificata alla sua nascita. Lui era completamente caduto dalle
nuvole. Il suo gesto immorale lo perseguitava nel pensiero da giorni,
ma non aveva mai neanche immaginato che sua sorella fosse incinta,
né riusciva a figurarsi come Acros fosse venuto a saperlo. Egli
era dunque davvero in comunicazione con gli Dèi, come da più parti
aveva sentito dire? Acros si era poi congedato, dicendogli che capiva
il suo sconcerto e gli lasciava il tempo di pensare, per poi recarsi
da lui per la decisione finale. Ma doveva rammentare che negare
il sacrificio avrebbe arrecato grave offesa agli Dèi e al loro Emissario
che essi stessi avevano inviato a ripulire il loro villaggio dalle
impurità che lo avevano invaso, e questo si sarebbe ripercosso su
tutti loro. Tiros aveva trascorso
due notti e un giorno a pensare. Il colpo era stato forte. Non soltanto
aveva abusato di sua sorella, ma le aveva addirittura messo in grembo
un figlio, e i sacerdoti parlavano chiaramente sui frutti di simili
depravazioni. Essi avrebbero dato luogo invariabilmente ad esseri
immondi, né uomini, né bestie, e disgrazie inenarrabili su coloro
che li avevano concepiti. E il suggerimento di Acros (più un ordine,
forse, che un suggerimento) gli era parso all'improvviso la cosa
più logica da fare. Sacrificare il bambino agli Dèi avrebbe significato
anche ripulire la sua coscienza, cancellando la prova materiale
della sua colpa. E così, all'alba, dopo la seconda notte insonne,
si era recato alla casa del Capo del Consiglio e, cadendo in ginocchio
e scoppiando a piangere, aveva chiesto perdono per la sua condotta,
e pregato Acros di intercedere con gli Dèi per lui. Quando il tempo era
giunto, il bambino era stato fatto nascere (una femmina, a quanto
gli era stato detto, con un solo occhio al centro della fronte e
mani e piedi palmati come quelli delle rane, tanto orribile a vedersi
che gli uomini di Acros l'avevano portata via avvolta in una coperta),
mentre lui restava nella sua stanza con le mani sulle orecchie,
per non sentire le urla di sua sorella. Ma già nel periodo
che aveva preceduto il parto di Sarah, aveva contribuito attivamente
agli oscuri disegni del vecchio. Acros gli aveva infatti suggerito
(un altro dei suoi suggerimenti) che per purificarsi definitivamente
agli occhi degli Dèi avrebbe dovuto farsi loro servo devoto ed eseguire
gli ordini che pervenivano da loro per suo tramite. E così era stato
costretto a partecipare alle opere di depurazione, come le
chiamava Acros, che consistevano nello scortare spesso lui o i suoi
uomini in passeggiate notturne fin nel profondo della boscaglia,
dove venivano depositati dei misteriosi fagotti sulla cui natura
lui non aveva mai voluto fare domande, desiderando tutte le volte
solo poter tornare al più presto al villaggio, mentre le ombre di
quella sinistra foresta sembravano prendere vita intorno a lui. Ora soltanto il suo
stato mentale di quei giorni, ai limiti della follia, poteva costituire
ai suoi stessi occhi un'attenuante, perché non riusciva a trovarne
altre. Quando aveva riacquistato un briciolo di lucidità, e soprattutto
aveva smesso di passare le notti ad ubriacarsi alla locanda, rendendosi
conto di ciò che aveva fatto, era troppo tardi. Sarah urlava notte
e giorno, senza sosta. Le sofferenze del parto sembravano averle
restituito una parvenza di ragione e la poveretta gridava che le
restituissero la figlia, lo malediceva ogni momento ed ormai trascorreva
tutto il tempo legata, al punto che i polsi e le caviglie sanguinavano,
ma lui non aveva il coraggio di avvicinarsi per liberarla. Intanto, nella sua
mente, non più offuscata dai fumi della birra e del vino, cominciava
a sorgere il dubbio che loro due fossero in realtà state vittime
dell'astuzia di Acros. Nel villaggio, anche se nessuno ne parlava
apertamente, girava sempre più la voce che l'Emissario degli Dèi
di Acros altro non fosse che un dèmone con cui egli era in combutta
e al quale forniva in pasto bambini appena nati in cambio della
sua protezione, e i parti di esseri impuri, come li chiamava,
stavano sospettosamente aumentando. Ma lui era troppo vigliacco
per andare a chiedere ragione di quelle voci ad Acros in persona.
E inoltre, a cosa sarebbe servito? Ormai la bambina, mostruosa o
no che fosse, non c'era più. Ma questo solo fino alla morte di Sarah. Il giorno in cui sua
sorella era caduta dalla finestra della stanza delle due straniere,
lui non aveva creduto neanche per un attimo che fossero state loro
a provocarne la morte come aveva asserito Acros. Aveva visto la
guerriera bruna andare verso le stalle e mentre entrava nella locanda
aveva altrettanto chiaramente individuato la figura di Iacobus salire
la scala che portava al piano superiore dove le due donne tenevano
sua sorella, fuggita, neanche lui sapeva come, dalla sua casa. Ma
chi avrebbe osato ribattere al Capo del Consiglio, specialmente
se spalleggiato dai suoi due scagnozzi? Perfino le guerriere avevano
preferito battere in ritirata davanti alle sue accuse, quindi cosa
ci si poteva aspettare da uno come lui? E così aveva preso parte
a quella gigantesca recita corale in cui tutti parevano dalla parte
di Acros e nessuno, ci avrebbe scommesso, credeva davvero a quello
che diceva. Forse, se avesse parlato
in quel momento, se avesse avuto il coraggio di dire ciò che pensava
davanti a tutti, le due guerriere avrebbero potuto aiutarlo, ma
non l'aveva fatto e quando le aveva viste scomparire nella foresta,
aveva creduto di veder scomparire insieme a loro ogni sua speranza
di giustizia. E la rabbia che aveva
provato verso se stesso l'aveva portato a fare irruzione nella casa
del Capo del Consiglio. Ma c'era voluto il sostegno di un'intera
bottiglia di sidro per trovare il coraggio di tenere testa ad Acros
e al suo sgherro. Lì aveva veramente temuto che per lui fosse finita,
ma incredibilmente invece l'avevano lasciato andare. Uscendo da
quella casa con la pelle ancora intatta, aveva creduto che questo
finalmente avrebbe messo fine ai suoi tormenti. E non gli importava
nemmeno troppo che da quello scontro, l'atmosfera intorno a lui
nel villaggio fosse mutata sottilmente fin dalla mattina dopo. Gruppi
di persone, quando si avvicinava, improvvisamente si disperdevano
in silenzio, le botteghe in cui entrava si svuotavano misteriosamente
e i negozianti sembravano desiderosi di servirlo al più presto perché
se ne andasse prima possibile, ed entrando alla locanda, aveva avuto
la netta impressione che il solito brusio s'interrompesse al suo
ingresso, per riprendere solo alle sue spalle dopo che era uscito.
Ma tanto lui aveva già deciso di andarsene, di abbandonare per sempre
quella terra maledetta e dimenticare con lei le sue sventure. Ed
ecco che, come in una condanna senza fine, il destino vile e baro
rimetteva sulla sua strada quelle due. E allora? Bastava
fingere di non aver visto nulla, tornare sui propri passi. Sarah
e la bambina erano morte e niente avrebbe potuto riportarle in vita. Vattene, idiota. Chi
te lo fa fare di metterti contro Acros e l'essere diabolico con
cui ha stretto un patto? Salva almeno la tua miserabile vita, visto
che sei stato incapace di salvare quella della tua famiglia. Ma le sue gambe non
vogliono saperne di muoversi, come se una forza invisibile lo tenesse
inchiodato al terreno, e quando sente una mano posarglisi sulla
spalla, e la punta di un pugnale pungolarlo alla schiena, attraverso
lo spesso tessuto della sua casacca, Tiros sa di non avere più scampo.
Con un sospiro rassegnato si volta verso due occhi verdi che lo
fissano da sotto un cappuccio, gelidi e decisi. "Ancora mi sembra
impossibile che tu e la tua amica sembriate esattamente come un
tempo. Ma tu manterrai la promessa e mi spiegherai questo prodigio,
vero?" Quando Olimpia era
uscita correndo dal retro, Jennifer e l'uomo che la ragazza aveva
chiamato Argolis erano tornati a guardare fuori dalla piccola finestra,
ma lo sguardo di lui si era subito rivolto alla figura della guerriera,
e Jennifer aveva sentito arrivare la domanda prima ancora che fosse
pronunciata. "Non so che dirti."
risponde con un sorriso indeciso, fissandolo di rimando. "Credo
che dovrai chiedere ad Olimpia." L'uomo la guarda perplesso,
scrutando con maggior attenzione nei suoi occhi e quella disamina
mette in imbarazzo la donna costringendola a distorglierli. "Perché mi guardi
così?" chiede, cercando di puntare tutta la sua concentrazione
sulla figura di Olimpia, che aveva appena visto sgattaiolare silenziosamente
alle spalle del loro ignaro inseguitore, ancora immobile al centro
della strada. "Ti prego di
perdonarmi." Argolis, come se si rendesse conto solo in quel
momento del suo atteggiamento, sposta a sua volta lo sguardo. "Non
volevo... Sei sicura di stare bene?" "Sto benissimo,
grazie. Vai ad aprire la porta, piuttosto." aggiunge poi, con
un baluginìo ironico negli occhi. "Credo che tu stia per ricevere
un'altra visita." A quelle parole, fa
subito eco un rapido bussare e un attimo dopo, l'uomo che li aveva
spiati da fuori entra, spinto all'interno senza troppi complimenti
da Olimpia. "Tiros."
lo saluta Argolis, mentre la bionda amazzone lo scorta fino ad una
sedia al centro della stanza, costringendolo a sedersi. "A
cosa debbo il piacere?" "Il nostro amico
qui si è divertito a seguirci per tutta la strada" Olimpia
si pianta davanti al suo prigioniero, con le braccia incrociate
sul petto, fissandolo freddamente "e adesso ci renderà partecipi
del suo divertimento. D'accordo, parla. Dicci perché ci seguivi.
Ti manda Acros?" A sentir pronunciare
quel nome, l'uomo fa per schizzare in piedi, ma la mano di Olimpia
lo risospinge con decisione sulla sedia. "Acros?! Non
voglio avere più niente a che fare con lui! Ti... ti sbagli. Non
vi stavo seguendo! Perché avrei dovuto?" "E quello che
sto chiedendo a te. Dimmelo tu." "Non è vero!"
tenta di protestare Tiros, cercando di alzarsi ancora, ma con una
rapidità straordinaria, la ragazza afferra il sottile pugnale che
aveva nascosto sotto l'ampio mantello e lo pianta fin quasi al manico
nella spalliera della sedia su cui sta il malcapitato. Tiros, con
uno strillo, si raggomitola su se stesso chiudendo gli occhi, e
Olimpia gli stringe il viso tra le dita di una mano obbligandolo
a riaprirli e a guardarla. "Ascoltami bene,
Tiros. Non ho tempo per i giochetti." gli sibila sul volto
terrorizzato. "Adesso, o mi dici per quale motivo ci seguivi,
o dovrò concluderne che stavi spiandoci per denunciarci ad Acros,
e in tal caso, non mi lascerai scelta. Deciditi!" Jennifer assiste sconcertata,
osservando l'espressione di gelida furia a stento contenuta nello
sguardo della ragazza. L'ha già sperimentta su se stessa non molto
tempo prima, quando Olimpia aveva improvvisamente compreso che la
donna che giaceva accanto a lei non era Xena, ma in fondo, pur nel
trauma di quel momento, dentro di sè aveva sentito che le
parole della ragazza, anche le dita che le stringevano la gola,
non rappresentavano un reale pericolo per lei. Anche se aveva capito
che non era Xena, il corpo che occupava era il suo e Olimpia non
le avrebbe mai fatto del male. Ma adesso non è del tutto convinta
che le minacce che sta rivolgendo a quell'uomo siano altrettanto
vuote. E ancora una volta le viene da pensare a Joyce, al suo sorriso
dolce, al suo sguardo smarrito. Olimpia conserva qualche aspetto
di lei, ma è una donna di quel mondo, una guerriera, la compagna
di Xena. Un altro piccolo promemoria per il suo cuore confuso. Tiros ora sta chiaramente
tremando. Jennifer riesce quasi sentire il suono dei suoi denti
che battono e evidentemente anche lui non ha molti dubbi sul fatto
che la sua vita sia attaccata ad un filo. "Io..."
comincia, balbettando. "Io non... non so perché. Vi ho riconosciute
e ho pensato... ho pensato... oh, non so neanch'io cosa ho pensato.
Ti prego, lasciami andare." Adesso l'uomo sta implorando con
le lacrime agli occhi. "Giuro che non mi vedrete più. Stavo
già per andarmene per sempre da questo luogo maledetto dagli Dèi,
e l'avrei già fatto se..." "Se non avessi
visto noi." conclude per lui Olimpia, afferrandolo per il bavero
e quasi sollevandolo dalla sedia di peso. "Allora, lascia che
sia io a dirti cosa hai pensato. Ti sei detto che se ci avessi seguito
e scoperto quello che avevamo intenzione di fare, avresti potuto
andarlo a raccontare ad Acros e tornare nelle sue grazie." "No! Non è vero!"
Ora il timbro della voce di Tiros si è alzato fino a sembrare quello
di una donna e il poveretto ha gli occhi quasi fuori dalle orbite. "Ah no? Argolis
dice che Acros ti ha cacciato dalla sua casa, accusandoti delle
peggiori nefandezze. Quale migliore occasione quindi per riscattarti
ai suoi occhi. Che ne dici, Xena? Ti pare credibile come ricostruzione?"
chiede improvisamente Olimpia, girandosi appena verso Jennifer,
senza però mollare la presa su Tiros. Jennifer che sta fissando
come ipnotizzata l'intera scena, non si rende quasi conto che la
ragazza sta parlando con lei, finché non si accorge delle occhiate
dubbiose che Argolis le sta lanciando, quindi cerca di riprendere
possesso dei nervi, provando a dare alla propria voce quello che
giudica un giusto tono. "Direi che mi
pare molto credibile, Olimpia." dice, e con passo più deciso
possibile, si avvicina ai due. "Ma credo anche che adesso Tiros
sia pronto a rispondere sinceramente alle nostre domande. Non è
vero, Tiros?" "Già." mormora
Olimpia, lasciando ricadere l'uomo sulla sedia. "Credo che
gli convenga. Perché, sai amico, di noi due quella gentile sono
io." Lo sguardo terrorizzato
dello sventurato corre dall'una all'altra delle due minacciose figure
chine su di lui, poi le sue spalle ricadono e l'uomo si abbatte
con il viso tra le mani, piangendo. "Non è stato
Acros a mandarmi, né ho mai avuto intenzione di denunciarvi a lui.
Lo giuro." farfuglia tra i singhiozzi. "Io volevo soltanto
parlarvi per chiedervi di aiutarmi a vendicare Sarah e quella povera
piccola infelice che non ha avuto neanche il tempo di emettere un
vagito, prima che quei... quei bastardi la portassero via,
dicendo che era un mostro. Sono loro i mostri! Loro e quell'essere
immondo che abita nella foresta! Gliene hanno portati tanti per
godere dei suoi favori, e anch'io, maledizione, anch'io! mi sono
reso loro complice e ora sarò dannato dagli Dèi per quello che ho
fatto! E se non mi credete, allora uccidetemi!
Uccidetemi subito! E che sia finita una volta per tutte." Partita con un confuso
balbettìo che si riusciva a stento a comprendere, la voce di Tiros
si era alzata di tono di frase in frase fino ad esplodere nelle
urla finali. Le tre persone presenti erano rimaste intorno a lui
a fissarlo. Jennifer aveva ascoltato con crescente pena lo sfogo
del pover'uomo, ma aveva cercato di mantenere un atteggiamento impassibile
per quanto le riusciva, perché in qualche modo sapeva che era quello
che avrebbe fatto Xena e in presenza di Argolis, che evidentemente
conosceva la guerriera, non voleva dare adito ad ulteriori sospetti.
Già le sembrava che da quando si erano incontrati, l'amico di Xena
la guardasse in modo strano. Probabilmente aveva già commesso qualche
errore nel modo di parlare o di muoversi. Mentre Olimpia interrogava
il loro pedinatore, si era chiesta se non avrebbe dovuto forse partecipare
di più, facendo a sua volta domande, o magari addirittura prendendo
il comando della situazione. Forse era per quello che la ragazza
l'aveva chiamata in causa, per farle capire che Xena non se ne sarebbe
stata in disparte a guardare. Ma aveva deciso che se avesse cercato
di imitare i modi e la condotta della Principessa Guerriera sarebbe
stata ridicola e avrebbe forse finito per rendersi ancor più sospetta,
quindi aveva optato per quello che giudicava un silenzio contegnoso
e gravido di minaccia che poteva rientrare nei comportamenti di
una guerriera come Xena, lasciando la parte più attiva ad Olimpia,
che peraltro sembrava cavarsela egregiamente. E il sistema almeno
con quel poveraccio pareva aver funzionato bene. Apparentemente svuotato
di ogni energia, ora che si è sfogato, Tiros sta piegato in due
sulla sedia, il volto praticamente sepolto in grembo e l'unico segno
vitale in lui è il sussultare della sua schiena in sintonia con
i suoi singhiozzi silenziosi. Istintivamente, Jennifer si sentirebbe
spinta a cercare di confortarlo, ma ancora una volta indecisa se
gesti del genere sarebbero in linea con i modi di Xena, resta immobile
ad osservarlo, mentre l'uomo lentamente si calma e solleva la testa,
fissando su di loro uno sguardo ormai privo di ogni cautela e difesa.
Gli occhi, arrossati dalle lacrime che gli bagnano copiosamente
tutto il viso, e la bocca leggermente contratta e con un filo di
saliva che gli scende lungo il mento, gocciolandogli sulla casacca,
dicono della sincerità delle sue parole, e guardando l'espressione
di Olimpia, Jennifer nota con sollievo che anche la ragazza nasconde
a fatica, dietro la sua posa apparentemente indifferente e spietata,
una profonda compassione verso la sofferenza di quel poveretto. Non sei così dura
come vuoi apparire, allora, pensa, sorridendo dentro di sé, ma senza lasciar
trasparire niente sul volto, da qualche parte là sotto c'è sempre
la mia Joyce. Allontanandosi dall'uomo,
Olimpia le fa cenno con la testa di seguirla e le due donne si fermano
a confabulare in un angolo, in modo da non essere udite. "Che cosa intendi
fare di lui?" le chiede Jennifer. "Non lo so."
risponde Olimpia, riflettendo. "Non possiamo lasciarlo libero,
mentre siamo nel villaggio." "Credi che andrebbe
a denunciarci? A me sembra sincero." Olimpia la guarda
negli occhi con un sospiro. "Anche a me."
dice. "Ma è un rischio ugualmente troppo grande. Anche se non
ci tradisse lui, Acros potrebbe farlo tenere d'occhio e se si insospettisse,
catturarlo e costringerlo a parlare. No, credo che ci sia una sola
cosa da fare." Jennifer la fissa. "Non vorrai...?" "Argolis."
chiama Olimpia, e questi nel sentire improvvisamente il suo nome,
sobbalza quasi, muovendosi per la prima volta dal punto in cui è
rimasto immobile per tutto il tempo ad osservare l'interrogatorio
di Tiros. "Hai una cantina
o una stanza senza finestre, qui?" gli chiede Olimpia, appena
si avvicina a loro. "Ho un ripostiglio
dove tengo la roba che non mi serve. E' sul retro della casa, vicino
all'uscita posteriore, ma ci si può tenere qualcuno senza che nessuno
se ne accorga. E' abbastanza grande, non ci sono finestre e i muri
sono molto spessi." risponde l'uomo che evidentemente ha capito
prima di Jennifer le intenzioni di Olimpia. "Bene."
La giovane guerriera si dirige nuovamente verso Tiros e lo solleva,
prendendolo per un braccio. "Mi dispiace, ma dovrai restare
ospite di Argolis per un po'. Non possiamo permetterci di lasciarti
andare." "Co... cosa...?"
L'uomo con la faccia ancora arrossata dal pianto li guarda uno ad
uno, spaventato. "Non... non mi rinchiuderete, vero? Io...
io non sopporto i luoghi chiusi." "Non abbiamo
molta scelta, Tiros." dice Olimpia, spingendolo risolutamente
a seguire Argolis che li precede per il corridoio scuro che conduce
sul fondo ad una porta chiusa. "E credimi, l'alternativa ti
piacerebbe anche meno." Con Jennifer a chiudere
il gruppetto, i quattro giungono di fronte alla porta e Argolis
inserisce una grossa chiave nella toppa, girandola con uno scatto
stridente. L'interno della stanza appare ancora più buio con alcuni
attrezzi appena visibili appoggiati alle pareti, scaffali e mensole
per lo più vuoti ed un piccolo tavolo ed una sedia al centro. "Non è così male
come sembra." Argolis accende una candela e la posa sul tavolo.
"A volte ci vengo anch'io, quando sento il bisogno di un po'
di silenzio." "Se non farai
storie, non ti legheremo." prosegue Olimpia, ferma sulla soglia,
squadrando Tiros che sta di nuovo tremando visibilmente. "Ma... ma è così
buio. Io... io non credo di poter resistere." "Ti lascerò la
candela, se prometti di non farmi scherzi." dice Argolis. "E
comunque qui dentro il primo a rimetterci saresti tu." Con aria quasi rassegnata
il poveretto entra con passo indeciso nella piccola cella, che ad
Olimpia ricorda quella che lei e Xena condividono nella casa di
Alexi, senza però la finestrella ed il pagliericcio. "Quanto ci dovrò
restare?" chede Tiros, quasi in un sospiro, guardandosi intorno
tristemente. La sua espressione disorientata costringe Jennifer
a voltare la faccia per non mostrare la pietà che sente per lui. "Non molto. Uno
o due giorni al massimo. Argolis si occuperà di te e ti porterà
da mangiare e da bere, vero?" dice la ragazza, guardando il
padrone di casa. "Certo."
conferma questi. "Me ne starò un po' a casa. Ho giusto bisogno
di riposo con la mia schiena. Mio cugino non farà obiezioni." Malinconicamente,
Tiros va lentamente a sedersi. "Non è una grave
condanna per quello che ho fatto." mormora. "Mi aspetta
ben di peggio, oltre i cancelli dell'Ade." Le tre persone ferme
sulla soglia della stanza restano a guardarlo ancora per un momento,
mentre china la testa sul petto, lo sguardo fisso sul pavimento,
alla debole fiamma della candela, poi Argolis, con un altro stridore
sinistro, richiude la porta. (13 - continua) |
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