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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI (Capitolo
XV) Parte
1
(75) Jennifer/Xena e
Olimpia Jennifer e Argolis avevano consumato
il pasto quasi in silenzio, seduti ai due capi del tavolo nella
modesta stanza dello stalliere. Jennifer aveva cominciato a mangiare
svogliatamente, il pensiero rivolto alle parole che le aveva detto
Olimpia prima di andarsene, che continuavano a risuonarle nella
mente incessantemente, ma poi piano piano quasi senza accorgersene,
il ritmo del suo cucchiaio nella scodella preparata dal padrone
di casa era aumentato, mentre lei si rendeva conto con sorpresa
di quanto in realtà fosse affamata e, ripensandoci, non c'era da
stupirsene. Non aveva più messo niente sotto i denti da quando aveva
mangiato quelle strane bacche al mattino. E poi, il contenuto era
davvero saporito, una specie di zuppa di verdure varie raccolte
da Argolis nel proprio orto, con in più pezzi di carne essicata
che a contattto con il brodo caldo nel quale erano stati immersi
avevano riacquistato un sapore ricco che lei non ricordava di aver
mai sentito nella carne del suo mondo. Un paio di volte era stata
sul punto di chiedere quali fossero gli ingredienti, ma poi aveva
rinunciato, perché ogni volta aveva sorpreso lo sguardo dell'uomo
su di lei. Questi aveva sempre cercato di spostarlo frettolosamente,
ma non era mai stato abbastanza rapido da impedirle di accorgersene,
e stranamente la cosa la infastidiva più di quanto sarebbe stato
normale. Per la verità tutte le sue sensazioni
sembravano accentuate. Se ne stava rendendo conto man mano che il
tempo passava. Suoni e odori parevano essere diventati più forti,
più definiti. Dal passaggio di un carro sulla strada, avrebbe saputo
dire quanti cavalli lo tiravano, soltanto udendolo attraverso le
imposte chiuse della stanza. I mille odori della casa di Argolis
cominciavano a diventare distinguibili uno ad uno al suo naso. Di
una mosca che ronzava intorno al tavolo si sentiva in grado non
solo di seguire attimo per attimo il volo senza mai perderla di
vista, ma dentro di sé più volte aveva dovuto trattenersi con forza
per impedire alla sua mano di scattare, sicura che l'avrebbe acchiappata
al primo colpo. Non voleva allarmare il suo ospite, aumentando il
nervosismo tra loro. Tutti i suoi sensi, insomma,
parevano esaltati e l'intero suo corpo sembrava preda di una tensione
continua pronta a scoppiare alla minima provocazione. Jennifer immaginava
che quello fosse uno stato più o meno normale per una guerriera
come Xena. Una donna che era chiamata a mantenere sempre l'attenzione
desta in una vita in cui il pericolo poteva sempre essere in agguato
dietro ogni angolo, ma capiva anche i timori di Olimpia. Non poteva
fidarsi di lei. Se in condizioni di relativa tranquillità come quelle
attuali, riusciva a stento a trattenere i suoi istinti, come avrebbe
potuto reagire se si fossero trovate di fronte ad un pericolo? Se
quella potenza irrefrenabile che pareva essere rimasta presente
nel corpo della guerriera anche in assenza del suo spirito, avesse
finito per avere il predominio sulla sua mente, o almeno quella
porzione di mente che ancora le apparteneva, spingendola a commettere
una stupidaggine? Qualcosa che avrebbe messo in pericolo le loro
vite. Che avrebbe potuto causare la sua morte... o quella di Olimpia.
Non importava quanto si sentisse
inutile, se l'alternativa poteva rivelarsi infinitamente peggiore.
Doveva rassegnarsi a starsene da parte e lasciare l'azione alla
compagna di Xena. E questo apriva un altro capitolo
che avrebbe fatto bene a tenere a mente con estrema attenzione.
Olimpia non era Joyce. Se lo era già detto mille volte durante
quella giornata, ma non avrebbe fatto male continuare a ripeterselo
come una specie di mantra ad ogni momento, per evitare che
potessero ricapitare cose come quella successa quella sera proprio
in quella stessa stanza. Non avrebbe saputo dire quanto
ci fosse di Xena e quanto di lei nel gesto che si era sorpresa a
fare verso la ragazza, ma sapeva che non avrebbe dovuto più permettersi
niente del genere, o le conseguenze avrebbero potuto essere disastrose.
C'era evidentemente qualcosa di più di un profondo legame psichico
fra quelle due. Qualcosa che le coinvolgeva a livello fisico, che
faceva sì che i loro corpi fossero irresistibilmente attratti l'uno
dall'altro e che funzionava pienamente anche adesso, malgrado lo
spirito di Xena fosse altrove. Per questo lei avrebbe dovuto doppiamente
sforzarsi per mantenere il controllo, evitando qualunque contatto
che avrebbe potuto causare reazioni difficilmente gestibili dall'una
o dall'altra parte. Sì, certo, come se fosse facile. Tutti i buoni propositi del
mondo sarebbero crollati miseramente al primo sguardo, Jennifer
ne era ben cosciente, o al primo tocco anche casuale delle loro
mani, e con un sospiro di vaga disperazione lascia cadere il cucchiaio
con un rumore secco nella sua scodella ormai vuota. "Che c'è?" chiede,
sobbalzando Argolis. "Non... non ti piace?" Richiamata bruscamente dai suoi
pensieri, Jennifer guarda l'uomo come se non avesse capito cosa
gli ha detto, poi riesce a mettere insieme la parvenza di un sorriso
per rispondergli. "No, anzi. E' davvero buona.
Non farci caso. Ero solo soprappensiero. Non credi" aggiunge
subito per evitare di approfondire l'argomento, tenendo gli occhi
inchiodati nella scodella "che dovremmo portarne un po' anche
a quel poveretto che hai rinchiuso?" "Stavo per andare."
dice Argolis, ma resta immobile a sedere, guardandola indeciso.
Finché Jennifer non può fare a meno di sollevare il viso restituendogli
lo sguardo. "Che vuoi, Argolis?"
chiede. "Se vuoi farmi delle domande, falle e smettila di fissarmi
come se avessi due teste." "Scusami, non volevo importunarti."
risponde lo stalliere arrossendo fino alla radice dei capelli. "Ma
mi sembra tutto ancora così... incredibile. Tu vieni davvero da
un altro mondo, o da un altro tempo?" Sospirando Jennifer solleva
la scodella vuota verso di lui. "Ne avresti ancora? Ho
scoperto di avere una fame da lupo." "Certo!" Argolis schizza
in piedi, afferra la scodella che la donna gli sta tendendo e corre
alla pentola appesa al camino ancora fumante. La colma con grandi
mestolate e gliela riporta. "Cosa vorresti sapere esattamente?"
chiede Jennifer, riprendendo a mangiare di gusto. In fondo, l'espressione
di genuina meraviglia negli occhi dello stalliere era quasi divertente
e sarebbe servita almeno a distrarla da pensieri molesti. "Cosa ricordi del mondo
da cui provieni? E' uguale al nostro? E cosa hai provato nel trovarti
nel corpo di Xena?" "Sempre meno. Decisamente
no. Grande confusione, ma ora va meglio. Ti basta o vuoi sapere
altro?" La donna getta un'occhiata da sopra il bordo del piatto
verso l'uomo che ora la guarda inequivocabilmente deluso, e sorride.
"Stavo scherzando. Ma credevo che queste cose accadessero comunemente
in questo universo di stregoni, demoni e guerrieri. Perché ti stupisci
tanto?" "Quando io e i miei fratelli
eravamo piccoli, nostro padre ci raccontava spesso storie e leggende
di eroi, mostri e fantasmi, giganti e ciclopi, per divertirci."
ricorda Argolis. "Ma la verità è che non ci ho mai creduto
veramente. Dentro di me ho sempre pensato che fossero solamente
quello, storie appunto, buone al massimo per spaventare i bambini.
Tutti sanno che le divinità reggono le sorti del mondo e le vite
di noi tutti, ma in fondo chi mai le ha viste? Non io certamente.
Marte, Giove, Giunone o Mercurio sono solo nomi, o al massimo statue
votive che i sacerdoti dei templi utilizzano come monito o minaccia
per arricchirsi." E' Jennifer adesso a fissarlo
incuriosita. "Da quando sono qui"
dice "ho incontrato solo gente che dava per scontata l'esistenza
di queste entità. Olimpia poi ne parla come se le avesse conosciute
personalmente. Tu sei la prima persona che sembra ragionare in modo
razionale in questo mondo." "Ma non sono certo l'unico."
continua Argolis. "Per la maggior parte della gente è così,
ed anche se quasi tutti si dicono devoti a questa o quella divinità,
in realtà penso che ben pochi ci credano davvero." "Beh, almeno in questo,
credo che i nostri due mondi si somiglino." sorride Jennifer.
"Ma tu parli come se adesso la pensassi diversamente."
"E forse è così."
risponde l'uomo. "Credo che sia avvenuto quando ti ho vista...
cioè, quando ho visto Xena, l'altra sera. Era esattamente la stessa
donna che avevo conosciuto da bambino. Lo stesso corpo giovane e
bello di tanto tempo fa." dice, lasciando scorrere lo sguardo
lungo la figura della donna seduta di fronte a lui. "Come era
possibile? Allora ho capito che forse non tutte le leggende che
ci raccontava nostro padre erano frutto di fantasia." "E il dèmone della foresta?"
chiede ancora Jennifer. "Non credevi neanche in quello?" "Sì e no. Sapevo che doveva
esserci qualcosa nel folto, ma penso di aver sempre pensato in fondo
che fosse qualche stratagemma di Acros per acquisire potere, ma
ora, con quello che sta succedendo... non lo so più." conclude. "C'è sicuramente qualcosa
in quella foresta, Argolis." dice la donna, guardandolo seria.
"Io vengo da un tempo e da un mondo in cui, come dici tu, la
gente non crede più in nulla, e fino a poco tempo fa anch'io la
pensavo così, ma quando mi sono risvegliata nel corpo di Xena, ho
sperimentato di persona l'effetto di trovarmi nella caverna di quel
dèmone e... ho visto qualcosa." "Cosa?" Spalancando gli occhi, Argolis
guarda Jennifer, e d'un tratto dentro di lei si ridesta un ricordo.
Un ricordo che non puo essere suo. Il volto di un bimbo che ad occhi
ugualmente spalancati la sta fissando si sovrappone per un attimo
a quello dell'uomo e con sorpresa, avverte il bruciore di una lacrima
all'angolo dell'occhio. "C'era... c'era" sente
la sua voce tremare a quella sensazione improvvisa "una specie
di enorme... essere marino." Per quanto si sforzi di ricordare
il nome, la sua mente non risponde a quella sollecitazione. "Nero
e con tanti denti affilati. O almeno è quello che mi è sembrato
di vedere." conclude frettolosamente. "Ma ora, ti prego,
porta da mangiare a quell'uomo." La gola sembra esserlesi chiusa
d'un colpo e Jennifer affonda il viso nella scodella perché l'altro
non se ne accorga. Perplesso, Argolis la fissa
preoccupato, poi si alza lentamente. "Ti spiace se lo porto
qui?" chiede. La donna scuote la testa senza
parlare, continuando a svuotare la scodella. Perfetto, pensa ancora tremante,
mentre l'uomo scompare oltre la soglia, adesso comincio ad avere
anche i suoi ricordi coscienti. La cosa la stava spaventando
moltissimo. Fino a quel momento, poteva aver subito l'influsso degli
istinti bellicosi o carnali di Xena, ma i ricordi, o quello che
ne rimaneva, erano i suoi. Non rammentava niente di quello
che Xena avesse fatto o pensato prima del suo arrivo. La guerriera
sembrava aver portato con sé ogni pensiero, progetto o memoria che
le appartenesse, proprio come era accaduto a lei, nel trasferimento.
E quindi ora come entrava nel quadro generale quell'immagine che
così improvvisamente le era apparsa davanti agli occhi? Quello era
Argolis. Argolis da bambino. Così come lo aveva conosciuto Xena
chissà quanti anni prima. Di conseguenza, come poteva averlo ricordato
lei? E se le nostre menti si stessero
fondendo? Forse anche a Xena stava accadendo
la stessa cosa. Forse si trattava di qualcosa di più di un trasferimento
momentaneo dei loro spiriti. E se fossero state destinate a rimanere
ognuna nel corpo dell'altra per il resto delle loro vite, in mondi
a cui non appartenevano? No, è impossibile! Che senso
avrebbe? E chi aveva mai detto che tutto
questo avesse un senso? Forse semplicemente si illudevano pensando
che in quella storia facessero tutti parte di un disegno più grande,
destinato a salvare gli universi dall'invasione di dèmoni di altre
dimensioni. Forse erano soltanto burattini nelle mani del caso o
di divinità folli che come bimbi capricciosi si divertivano a giocare
con le loro esistenze, incuranti della loro sorte finale. Comunque sia, smettila e calmati.
Questo atteggiamento non serve a nulla. Nella sua altra vita lei studiava
la psiche. Doveva concentrarsi su quello. Sforzarsi di ricordare
quello che sapeva in materia. Qui non doveva trattarsi di un ricordo
a lungo termine come quelli conservati per anni. L'incontro con
Argolis doveva aver scatenato nell'inconscio di Xena un richiamo
alla memoria cosciente dell'immagine di Argolis bambino che le era
rimasta impressa e quando lui aveva assunto quell'espressione, automaticamente
la sua mente l'aveva ritrovata. Sì, pensa con un sospiro
di sollievo, è così che deve essere andata. Non devo agitarmi.
Non è successo niente. La sua mente era ospite di Xena,
i suoi pensieri e i suoi ragionamenti viaggiavano attraverso le
sinapsi di quel cervello, ma erano i suoi. E lei era tutt'ora
Jen-if-er Ro... Rol... Beh, non aveva importanza se non riusciva
più a pronunciarlo e neanche a pensarlo. Era lei. E tenere
bene a mente questo l'avrebbe aiutata anche a mantenere meglio il
controllo su quel corpo e sugli istinti che lo muovevano. L'ingresso di Tiros seguito
da Argolis interrompe la sua meditazione e Jennifer fissa l'uomo
appena entrato che sfugge il suo sguardo e va a sedersi a capo chino
dalla parte opposta del tavolo. "Ti dò una scodella e un
cucchiaio." gli dice il padrone di casa, tirando giù l'occorrente
da una mensola e posandoglielo davanti. Poi finisce di svuotare
quel che resta della zuppa nel piatto di Tiros, che sempre senza
parlare comincia a sorbire lentamente il suo cibo. Il silenzio che si è stabilito
nella stanza viene improvvisamente interrotto da un bussare concitato
alla porta sul retro, e Jennifer ed Argolis si guardano, mentre
anche Tiros sospende la sua contemplazione dell'interno della scodella
per guardarsi intorno. Argolis si alza ed esce dalla stanza dirigendosi
verso la porta. "Olimpia?" sussurra
quasi. "Sì." risponde una
voce ben nota da fuori. "Aprimi. Presto." Il rumore del pesante chiavistello
che scorre precede solo di pochi attimi l'entrata di una Poetessa
Combattente trafelata e scarmigliata sotto il pesante mantello con
cappuccio. La giovane si libera dell'indumento e si lascia cadere
col respiro affannoso su una sedia, la frangia di capelli biondi
e fradici di sudore che le pende sugli occhi. "Stai bene?" le chiedono
quasi contemporaneamente Jennifer ed Argolis. La ragazza annuisce
scostandosi i capelli bagnati dalla fronte. "Sì." dice. "Lasciatemi
solo riprendere un po' di fiato. Me la sono fatta di corsa dalla
cascina di Acros a qui, e in più ho dovuto fare una deviazione per
non rischiare di imbattermi nei suoi uomini." "Li hai visti?" Jennifer
si alza dal suo posto per avvicinarsi a lei accosciandosi al suo
fianco. I loro occhi s'incrociano per un momento, poi Olimpia risponde. "Sì, ma loro non hanno
visto me. Avevi ragione, Argolis." dice rivolta allo stalliere
"Quel posto è una specie di deposito per le donne in attesa
di partorire. Le tengono nel sotterraneo, in condizioni disumane." "Ne hai trovate?"
chiede l'uomo, mentre Jennifer prende la mano della ragazza visibilmente
scossa e questa gliela stringe di rimando. Attenta, risuona un monito
da qualche angolo nascosto della sua mente, sei in una zona pericolosa.
Ma lei l'ignora. "No, purtroppo." risponde
Olimpia, e la sua voce si rompe quasi in un singhiozzo. "Mi
hanno praticamente ammazzato l'ultima sotto gli occhi. O magari
era già morta. Prego che sia così." E d'un tratto tutta la tensione
trattenuta dalla ragazza esplode in un pianto dirotto e Jennifer
non può fare a meno di stringerla a sé in un abbraccio (Al diavolo.
Chi se ne importa?), lasciando che si sfoghi. Anche Olimpia
non sembra fare caso a quell'impulso nato così spontaneamente e
senza esitazioni o dubbi nasconde il viso contro la sua spalla allacciando
le braccia intorno al collo di Jennifer, mentre i singhiozzi la
scuotono quasi incontrollabilmente. "Quei bastardi!" farfuglia
la sua voce, in modo quasi incomprensibile, rotta dal pianto e dalla
rabbia e soffocata dalla pressione del corpo dell'altra. "Se
ne stavano lì a bere e ridere, mentre il cadavere di quella sventurata
giaceva chiuso in un sacco accanto a loro. Avrei voluto saltargli
addosso e squartarli con le mie stesse mani." "Shhh." sussurra
Jennifer, scostandola delicatamente da sé, con il cuore in tumulto
e le farfalle nello stomaco, ma cercando con tutte le sue forze
di ignorare quelle sensazioni. "Non pensarci ora. Respira a
fondo e calmati." I loro occhi s'incontrano, iridi
di smeraldo ed iridi di topazio incrociano i propri sguardi tuffandosi
le une nelle altre e rimanendovi immerse, mentre pensieri inconsapevolmente
speculari si affacciano nelle loro menti. Dei, pensa Olimpia,
in questo momento giurerei che sia proprio Xena. Quando piange così, pensa Jennifer,
sembra proprio Joyce. Ed è quasi con sollievo reciproco
che il suono di una gola che si schiarisce alle loro spalle, ricorda
loro delle altre due persone presenti nella stanza, spezzando l'incantesimo. "Scu... scusami" osa
timidamente Argolis "ma li hai riconosciuti? Erano Iacobus
e Ector, vero?" "Quello più grosso"
risponde Olimpia, riacquistando un po' di calma "ha chiamato
l'altro Ector, ed erano sicuramente i due uomini che ho visto nella
locanda quella notte insieme ad Acros. Sì, erano senza dubbio loro." "Cosa hanno detto?"
chiede Jennifer, con un po' troppa fretta, ansiosa di gettarsi in
quel discorso per non pensare ad altre cose. "Parlavano delle donne
che hanno stuprato e ucciso, del luogo dove vanno a seppellirle,
ma non so dov'è. Hanno parlato anche di noi..." dice la ragazza
guardando Jennifer, poi si blocca. "Cioè di Xena e di me. Ma
la cosa più importante" continua rianimandosi all'improvviso
"è che hanno qualche progetto per domani sera. Hanno detto
che Acros si è messo d'accordo con qualcuno che consegnerà loro
un bambino." "Un bambino?" L'informazione
cancella immediatamente ogni altro pensiero dalla mente di Jennifer.
"Allora è l'opportunità che aspettavamo." esclama. Solo dopo aver pronunciato quelle
parole si rende conto di aver usato il plurale, e resta un attimo
in sospeso attendendo una reazione dall'altra che non c'è. Ma l'espressione
sul viso di Olimpia torna cupa. "L'ho pensato anch'io,
ma purtroppo non hanno fatto nomi. So soltanto che si tratta del
padre del piccolo. Lo consegnerà di nascosto dalla moglie, ma non
ho idea di chi sia, e non abbiamo molto tempo per scoprirlo." "Tu" Jennifer si volta
verso Argolis "potresti scoprirlo più facilmente." "Forse" risponde lo
stalliere dubbioso "ma avrei bisogno di qualche indicazione
in più. Chiunque sia non va certo in giro a vantarsene." "Deve essere un bambino
con qualche grave difetto fisico." aggiunge Olimpia ricordando
la discussione tra i due uomini. "Hanno parlato di uno sgorbio
minorato. Ti suggerisce niente?" "Mi dispiace, ma..."
comincia Argolis. "E' Cadmio." La voce risuona all'improvviso
ammutolendo all'istante ogni altra nella stanza e tre paia di occhi
convergono contemporaneamente verso l'uomo seduto al lato opposto
del tavolo, che aveva fino allora continuato a sorbire silenziosamente
il suo pasto. "Sei sicuro?" E' Argolis
il primo a rompere il silenzio solidificatosi su di loro. "Come
fai a saperlo?" chiede rivolto a Tiros che ora ha smesso di
mangiare svogliatamente e li sta guardando a braccia conserte. "L'ho visto io, l'altra
sera." spiega. "Ero andato da Acros per dirgli che non
volevo avere più niente a che fare con i suoi traffici e Cadmio
stava uscendo proprio in quel momento. Né lui né Acros erano particolarmente
felici che li avessi visti parlare." "Questo Cadmio ha avuto
un figlio di recente?" chiede Jennifer. All'improvviso la donna
chiusa e silenziosa che se ne era stata appartata in un angolo,
sembrava essere scomparsa per lasciare il posto ad una personalità
più decisa e comunicativa. Ad Olimpia questo non pareva dispiacere
e per lei tanto bastava. "Sua moglie Fedora ha avuto
un figlio l'altro mese, ma lo sanno in pochi. Cadmio ha pagato la
levatrice perché giurasse che il bambino era nato morto." risponde
Tiros, senza emozione nella voce. "E perché mai?" "Questo l'ho sentito dire
e quindi non lo so personalmente" spiega l'uomo "ma pare
che il piccolo sia nato senza mani e piedi. Cadmio voleva sopprimerlo
subito, ma poi non ha trovato il coraggio." "Dei dell'Olimpo."
mormora Argolis. "E ora vorrebbe darlo ad Acros in sacrificio?" Tiros non risponde, limitandosi
ad alzare le spalle. "Che facciamo?" chiede
Jennifer voltandosi nuovamente verso Olimpia che ha ripreso il controllo
dei nervi. La ragazza si alza in piedi, rivolgendosi ad Argolis. "Tu sai dove abita questo
Cadmio?" chiede e Argolis annuisce. "Bene. Allora domattina
ci spiegherai come arrivare alla sua casa. L'appuntamento dovrebbe
essere per la sera, ma è meglio non fidarsi. Io e Jenna lo terremo
d'occhio per tutto il giorno e non appena vedremo Acros o i suoi
li seguiremo." Nel sentirsi includere il cuore
di Jennifer dà un balzo. "E io?" Argolis le
guarda speranzoso. "Tu rimarrai qui, Argolis.
Hai fatto e stai facendo già troppo per noi." risponde Olimpia
avvicinandosi all'uomo e posandogli una mano sulla spalla. "Non
è giusto esporti ad altri rischi." "Ma io non ho paura."
protesta l'uomo. "Ne sono sicura."
Olimpia gli sorride. "Ma io e Jenna abbiamo molti motivi per
giocare questa partita. Tu no. Se le cose dovessero andare male,
non voglio avere anche te sulla coscienza." "Ma se vi troverete faccia
a faccia con... qualunque cosa ci sia nella foresta" Argolis
la fissa costernato "cosa pensate di poter fare da sole?" Il volto di Olimpia torna serio
e i suoi occhi vanno a quelli di Jennifer. "Questa è una delle ragioni
per cui non ti voglio con noi, Argolis. Non lo so." dice, mentre
un'ombra le vaga nello sguardo. Nella pallida luce lunare che
filtra attraverso le finestre, Olimpia si rigira per l'ennesima
volta sul ruvido pagliericcio che Argolis ha steso per lei accanto
ad una parete della stanza, la stessa in cui avevano mangiato e
che ora serve da improvvisata camera da letto per lei e Jennifer
che riposa su un giaciglio identico alla parete opposta. Lo stesso
Argolis e Tiros stanno presumibilmente riposando. Il primo nella
sua stanza, e Tiros nello stretto sgabuzzino dove si è lasciato
ricondurre senza dire una parola, terminato il suo pasto. Per la verità Argolis aveva
offerto l'uso della sua stanza e del suo letto alle due donne, ma
Olimpia e Jennifer quasi all'unisono avevano rifiutato. Olimpia
con un po' più di decisione dell'altra. Dormire nello stesso letto
non pareva assolutamente una buona idea. Ed ora la giovane amazzone
bionda ne è sempre più convinta. Sente le viscere contrarlesi dalla
tensione. Ogni più piccola parte del suo corpo reclama la vicinanza
dell'altra, il contatto della sua pelle, il rassicurante battito
fermo e costante del suo cuore, e Olimpia deve esercitare tutta
la sua forza di volontà per mantenersi rigida ed immobile. Non è lei. Non è lei. Non è
lei,
continua a ripeterle il suo cervello, mentre le sue pupille
danzano incessantemente dietro palpebre ostinatamente chiuse. Non
devo dimenticarlo. Non importa quanto il suo respiro, il profumo
della sua pelle o dei suoi capelli sembrino i suoi. Non importa
neanche quanto mi sia parso di abbracciare proprio lei poco fa,
quanto l'espressione dei suoi occhi fosse proprio la sua. Anche
quell'inaspettata iniziativa di prenderla tra le braccia, quando
era scoppiata a piangere, apparteneva tutta a Xena. Era proprio
quello che avrebbe fatto lei, e le parole che le aveva rivolto,
erano quelle che le avrebbe detto lei. Ne è certa. E quando aveva
sentito la dolce pressione del suo corpo contro il proprio l'aveva
stretta a sé, dimenticando tutto, desiderando solo ancora una volta
di immergersi nel suo tocco, nel suo odore, lasciando il resto del
mondo fuori dalla loro porta. Quindi cosa sarebbe potuto accadere
se avesse accettato l'offerta di Argolis? Si sarebbe addormentata
quietamente per ritrovarsi al risveglio tra le braccia dell'altra?
E d'altronde era già successo. La prima notte dopo l'incidente nella
foresta, quando lei ancora non si era resa conto che quella non
era Xena e aveva dormito stretta a lei era un ricordo che ancora
l'inquietava sottilmente (Come era potuto succedere.? Ad Argolis,
un uomo che non l'aveva praticamente più vista da quando era un
bambino, era bastato stare con lei pochi momenti per capire, ed
a lei, la sua compagna, la sua sposa, era occorsa un'intera notte
per accorgersene?), e che cercava il più possibile di tenere nascosto
riposto in un angolo della sua mente. Ma almeno allora non sapeva.
Quale sarebbe stata la sua reazione se fosse accaduto di nuovo?
Era un rischio che non si sentiva di correre. Serrando labbra e palpebre,
Olimpia si ripiega su se stessa, invocando un sonno che porti finalmente
via ogni angoscia, almeno fino al mattino. Gli occhi spalancati nella penombra,
Jennifer tende l'orecchio al respiro della ragazza che dorme dall'altra
parte della stanza. O che almeno dovrebbe dormire, ma il ritmo della
sua respirazione le dice chiaramente che proprio come lei non riesce
a trovare riposo. Per quanto la riguarda, ha smesso ormai da tempo
di provarci. Non saprebbe quantificare esattamente il tempo trascorso
da quando si sono distese su quel pavimento di pietra, la cui durezza
è appena mitigata dal raffazzonato giaciglio procurato da Argolis,
ma ricorda che la luna non era ancora sorta, mentre adesso brilla
pallida al centro della piccola finestra su di loro. Quando lo stalliere
aveva offerto loro il suo letto, Jennifer aveva esitato forse un
momento di troppo, ma il gentile ma deciso rifiuto di Olimpia aveva
preceduto solo di pochissimo il suo. Dormire insieme non era assolutmente
il caso. Non dopo che il corpo che l'ospitava aveva dimostrato tanto
chiaramente di essere troppo esposto ai propri istinti. E anche
Olimpia doveva aver pensato la stessa cosa. Senza dubbio. Se per
lei era dura controllare l'attrazione magnetica, ecco la
parola giusta, che sentiva per la ragazza che nei suoi ricordi era
stata Joyce, cosa doveva provare l'altra, vedendo Xena,
sentendo la sua voce, guardando nei suoi occhi, ma consapevole
che in realtà non era lei? Quasi come una risposta alle
sue domande, dal buio alla sua destra giunge un gemito, mentre altri
rumori soffocati raccontano di un nuovo infruttuoso tentativo della
giovane di trovare sonno. Jennifer si gira in quella direzione.
Ora, la debolissima luce che proviene dalla finestra illumina parzialmente
il punto in cui Olimpia giace alla vana ricerca di un po' di riposo,
e il suo viso voltato verso di lei è visibile nell'oscurità circostante.
Gli occhi sono ostinatamente chiusi, nonostante che un leggerissimo
battito di ciglia ne denunci chiaramente lo stato di veglia e Jennifer
si chiede se sia il caso di rompere quel momento comunque di quiete.
La giovane guerriera dai capelli biondi non deve averne avuti molti
di recente. Il suo viso è tirato e stanco, il braccio che tiene
ripiegato sotto la guancia come un cuscino è scosso costantemente
da piccoli, invisibili fremiti. La donna si limita a registrarli
senza domandarsi come faccia a notarli in quella poca luce, e realizzando
solo dopo, quasi inconsciamente che non li vede, ma li sente,
dentro se stessa. Più di una volta, la sua bocca
si apre e la sua gola si contrae per farne uscire il fiato necessario
a formulare parole che le bruciano sulle labbra. Ma poi si richiude
e l'aria emessa dai polmoni trova il suo sfogo solo attraverso le
narici in un sospiro silenzioso e rassegnato. E d'altronde, cosa potrebbe
dirle? Sai, Olimpia, di tanto in tanto
ho dei ricordi strani... anzi, più che ricordi... sembrano memorie
istintuali. Memorie basate sull'istinto. Cose che il nostro corpo
fa abitualmente, anche indipendentemente dalla nostra volontà cosciente.
Cose semplici come camminare. Noi gli mandiamo un ordine e lui esegue,
ma non dobbiamo costantemente controllarlo mentre lo fa. Noi continuiamo
comunque a camminare anche mentre la nostra attenzione è posta ad
altre cose. Una cosa che il corpo ha imparato a fare continua a
farla sia che noi glielo diciamo oppure no. E poi ci sono altre
cose. Cose che ci entrano in profondità... a tal punto da sentirci
quasi come... se ci mancasse qualcosa quando non le possiamo fare.
Come la tentazione di abbracciare la persona che amiamo e tenerla
stretta a noi quando è angosciata o impaurita... o ha solo bisogno
di un po' di conforto che l'aiuti a trovare pace e riposo in una
notte inquieta... Ecco cosa avrebbe voluto poterle
dire. Le parole che la sua mente voleva disperatamente spingere
fuori dalle sue labbra strette fino quasi a dolerle. Ma non poteva.
Perché riusciva ad immaginare
senza troppa fatica lo sguardo di quegli occhi verdi come lo smeraldo
e altrettanto freddi su di lei se le avesse rivolto un discorso
simile. Tu non sei lei. Tu non sei lei.
Tu non sei lei. E con l'anima lacerata in due,
la donna si gira dall'altra parte e affonda il viso nel ruvido tessuto
sotto di sé. (15 - continua) |
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