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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI (Capitolo
XVI) Parte
1
(78) Jennifer/Xena e
Olimpia La giornata era trascorsa in
modo esasperatamente lento. Il suo terzo (o quarto?) giorno in quel
corpo, in quel mondo. Sembrava stare perdendo gradualmente la capacità
di calcolarli. E questo non solo per l'assoluta mancanza di quegli
oggetti che nel suo universo erano dappertutto scandendo le giornate
della gente. Oggetti di cui conservava un vago ricordo, che pian
piano però andava sbiadendo sempre di più, ma di cui assolutamente
non riusciva a rammentare il nome. In realtà nella lingua che parlava
ora non c'era neanche una parola per definirli (perché avrebbe dovuto
visto che non esistevano?), ma era proprio l'idea che stava diventandole
sempre più aliena nella testa. Aveva cercato di
imparare a misurare lo scorrere del tempo attraverso gli
strumenti utilizzati da tutti: pali infissi nel terreno, la cui
ombra sotto i raggi del sole si allungava ed accorciava, durante
il giorno, e per la notte, candele incise ad intervalli regolari
per tutta la loro lunghezza, ma in qualche modo anche questi espedienti
sembravano sfuggire ai suoi calcoli. Era come se le giornate durassero
di più in questo mondo. Il sole pareva spostarsi nel cielo più lentamente
e le tenebre notturne sembravano non avere mai fine. Ma non sapeva
se queste fossero impressioni con un fondamento di verità, o semplicemente
causate dallo sfasamento nella sua mente. Si era svegliata nel cuore della
notte, convinta che ormai fosse mattino fatto, per scoprire che
invece era ancora buio e tutto lasciava supporre che lo sarebbe
rimasto ancora a lungo, e aveva cominciato ad avvertire quell'irrequietezza
che partiva dalle viscere per comunicarsi a tutto il resto del corpo
e che le rendeva impossibile rimanere distesa. Allora si era alzata
ed era andata alla finestra a guardare fuori, cercando di fare piano
per non svegliare Olimpia che al contrario adesso dormiva profondamente,
e riuscirci doveva esserle costato un lungo e faticoso sforzo. Trovava in qualche modo confortante,
sentire il suo respiro regolare, e per un attimo aveva pensato di
sedersi accanto a lei ad osservarla dormire, ma se la ragazza si
fosse svegliata, cosa le avrebbe detto? Per cui, con un piccolo,
sottile rimpianto, aveva optato per starsene alla finestra a respirare
almeno un po' d'aria fresca. Così aveva visto finalmente
le prime luci dell'alba di un giorno di sole tingere il cielo notturno,
sollevandosi all'orizzonte e cancellando ad una ad una le stelle.
Stelle che, pur non essendo un'astronoma, le sembrava mantenessero
posizioni diverse da quelle che le pareva di ricordare nelle notti
del suo mondo, ma anche questa era una sensazione sulla quale non
poteva sperare in conferme o smentite. Beh, però, almeno il colore
dell'alba sembrava quello giusto. Un rosa pallido che lentamente
(troppo lentamente?), sarebbe diventato sempre più luminoso sino
ad assumere il giallo splendente che avrebbe illuminato una nuova
giornata. Un rumore alle sue spalle l'aveva
fatta voltare. Olimpia si era svegliata e tiratasi su a sedere la
stava guardando con aria attenta anche se ancora un po' stordita
dal sonno. "Che c'è?" le aveva
chiesto, quasi allarmata. "Come mai sei già sveglia?" "Niente." aveva risposto
lei. "Non riuscivo più a dormire. Stai bene?" "Certo. Perché me lo chiedi?" Olimpia sembrava sempre sulla
difensiva con lei. "Così. Ti sei girata e
rigirata per tutta la notte. Brutti sogni?" "A volte." aveva risposto
la ragazza distogliendo lo sguardo. "Nulla di preoccupante.
Capita." Capita. Certo. Quando non hai
accanto Xena,
aveva pensato Jennifer guardandola alzarsi e dirigersi verso il
secchio d'acqua che Argolis aveva lasciato loro per sciacquarsi
il viso. Ma ancora una volta aveva serrato le labbra. Non era proprio
il momento di lasciarsi sfuggire osservazioni inopportune come quella.
"Quando pensi di muoverti?"
aveva chiesto per distogliere il pensiero da quell'argomento. "Al più presto." Olimpia
si era rialzata, asciugandosi vigorosamente e avvicinandosi a sua
volta alla finestra per guardare fuori. La luce rosata dell'alba
le illuminava la pelle umida e i capelli ancora gocciolanti che
le spiovevano sugli occhi, accendendola quasi di un'aura luminosa. Jennifer era rimasta incantata
a fissarla, finché la ragazza non si era voltata verso di lei, gettandole
il panno. "Dai. Datti una rinfrescata
anche tu. Poi, mangiamo qualcosa e partiamo." le aveva detto
sbrigativamente, ma sempre senza guardarla negli occhi, uscendo
rapidamente dalla stanza. Stringendo nel pugno lo straccio
inumidito, Jennifer era rimasta immobile, a guardarlo. Poi se lo
era portata al viso, chiudendo gli occhi e aspirando intensamente
l'odore che ne emanava. Il profumo dei suoi capelli, della sua pelle. Dèi dell'universo, aiutatemi! Quindi, con passo esitante e
strascicato si era diretta verso l'acqua. Dopo una rapida colazione (a
cui però non aveva partecipato Tiros che era stavolta rimasto nel
suo stanzino), le due donne erano uscite dirette verso la casa di
Cadmio, sulla scorta delle indicazioni che Argolis aveva dato loro
per arrivarci. L'uomo aveva cercato di nuovo di convincere Olimpia
a permettergli di accompagnarle, ma la ragazza era stata irremovibile,
e gli aveva anche chiesto di non trattenere oltre quella stessa
sera Tiros, se non le avesse viste tornare. "Entro stanotte, questa
storia dovrà finire, in un modo o nell'altro." aveva detto,
guardando dritto negli occhi lo stalliere. "Ti ringrazio per
tutto quello che hai fatto per noi." E con un ultimo saluto,
Olimpia e Jennifer si erano allontanate. Ancora una volta, sotto gli
ampi mantelli, era la giovane guerriera a nascondere le armi, la
spada e il chakram di Xena e i suoi due lunghi pugnali orientali,
infilati negli appositi foderi agli stivali, mentre Jennifer non
portava altro che gli abiti della Principessa Guerriera e la sua
leggera armatura. Non aveva fatto nessun tipo di obiezione alla
cosa, era già contenta che questa volta Olimpia l'avesse voluta
con sé. "Ehi." aveva richiamato
la sua attenzione, evidentemente concentrata ad identificare con
lo sguardo le strade che le avrebbero portate a destinazione, camminandole
al fianco a passo rapido.. "Sì?" Olimpia le aveva
gettato appena uno sguardo con la coda dell'occhio, subito tornando
all'esame della via da percorrere. "Volevo dirti solo che
mi fa piacere che tu mi abbia portata con te." "Non avevo molta scelta."
aveva risposto la ragazza senza rallentare. "Se Acros o i suoi
uomini, una volta preso il bambino si dirigessero subito verso la
foresta, non avrei il tempo di tornare a prenderti, e la tua presenza
nel momento in cui il dèmone dovesse uscire dal suo rifugio è indispensabile." "Non mi hai ancora detto
cosa pensi di fare." "Perché ancora non lo so
esattamente. Dipende da come andranno le cose. Ma se il dèmone uscirà
per impadronirsi della sua preda..." risponde Olimpia. "Quell'essere
sarà anche invisibile, ma non è intangibile. Quando si muove tra
la vegetazione, deve spostare i rami degli alberi. L'ho visto con
i miei occhi. Quindi è fatto di materia, come noi. E tutto ciò che
si può toccare, si può colpire, ferire e uccidere." "Intendi assalirlo con
la spada?" aveva chiesto Jennifer dubbiosa. "Ma se..." Olimpia non l'aveva neanche
lasciata finire. "Conto che l'arrivo di
Acros e la fame gli confondano la mente abbastanza a lungo
da permettermi di prenderlo di sorpresa. Sembra che per qualche
ragione non riesca a controllare più di una mente alla volta. Quando
era occupato con Xena, io ho potuto avvicinarmi e salvarla senza
pericolo. Beh, se non quello di essere affettata dalla sua spada."
aggiunge poi con un sorriso. "E quando è entrato nella mia
testa, invece Xena ha potuto agire liberamente. Quindi forse è incapace
di affrontare più avversari alla volta, o forse è stato lo scontro
mentale con Aristis a indebolirlo." "Ci sono un paio di cose
che non mi convincono, però." aveva ribattuto Jennifer, riflettendo
sulle sue parole. "E cioè?" "Da ciò che mi hai raccontato,
è stato comunque abbastanza potente da influenzare la mente di Xena
che era addirittura qui nel villaggio, facendole credere che tu
eri in pericolo, vero?" "Sì, ma..." "E come mai, quando ti
sei risvegliata vicino alla caverna, mi hai ritrovata... voglio
dire, hai ritrovato il corpo di Xena all'interno della cavità? Secondo
te, come c'era arrivata e perché?" "Non lo so." aveva
risposto Olimpia, un po' indecisa. "Forse nel momento in cui
sono finita fuori combattimento, lui ha potuto impadronirsi della
mente di Xena e indurla a gettarsi nella sua tana." "Ma io... cioé Xena aveva
delle ferite alla testa. Come se le era procurate? Te lo sei chiesto?" "Forse se le è fatte cadendo
in quella buca." "Olimpia." Jennifer
si era fermata, prendendola gentilmente per un braccio. La guerriera
bionda si era arrestata a sua volta, girandosi a fissarla. "Questo
è il tuo mondo e io sono solo un'ospite, temporanea spero, ma non
ti sembra che in questa storia ci siano troppi forse? E per
aggiungercene un altro: non sarà che forse ci sono alcuni
pezzi di questo mosaico che ancora ci sfuggono?" "Può darsi." aveva
detto Olimpia, gli occhi di un verde impossibile che luccicavano
nella penombra del cappuccio e che non cessavano mai di affascinare
Jennifer ogni volta che ne incontrava lo sguardo. "Ma di nuovo,
non ho molta scelta. Lo spirito di Xena è stato risucchiato via
in quella caverna. Potrebbe essere uno di quei punti in cui il tessuto
tra gli universi tende a lacerarsi. Dopotutto il dèmone è spuntato
proprio da là. E quindi potrebbe essere la mia unica speranza per
riaverla." "E io cosa dovrei fare?"
aveva chiesto Jennifer, ma la risposta stava cominciando ad apparirle
spaventosamente ovvia. "Se il dèmone uscirà, io
lo attaccherò, e tu ne approfitterai per entrare in quella caverna."
aveva risposto con gelida risolutezza la ragazza. "E speri che così i nostri
spiriti tornino nei loro corpi?" E' una follia. Il pensiero
le era apparso così chiaro nella mente che per un attimo aveva temuto
di averlo formulato ad alta voce. "Non posso che sperarlo."
aveva ribattuto Olimpia e in un lampo Jennifer aveva letto nei suoi
occhi tutta la sua disperazione. "Tu hai un'idea migliore?" Lei era rimasta immobile nel
mezzo della via, senza una risposta coerente da dare, mentre la
giovane si era voltata, aggiustandosi il cappuccio sulla testa. "Ora, andiamo." le
aveva detto, riprendendo il cammino. "Abbiamo ancora molta
strada da fare." Non avevano avuto grosse difficoltà
a trovare la casa di Cadmio. Argolis ne aveva fatta una descrizione
sufficientemente accurata e, arrivate sul posto, Olimpia l'aveva
individuata subito. Un edificio basso, costruito in pietra e con
il tetto spiovente in pece e paglia, un po' discosto dagli altri,
con alla destra un piccolo recinto dove una famigliola di maiali
si rotolava allegramente nel fango. Un lieve filo di fumo proveniente
dal comignolo indicava che qualcuno era in casa in quel momento,
e Olimpia e Jennifer si erano fermate sul bordo opposto della strada
ad osservare. "Cosa facciamo, ora?"
aveva chiesto Jennifer. "Non possiamo starcene
qui in piedi ad aspettare. Finiremmo per dare nell'occhio."
aveva risposto Olimpia. "E poi gli uomini di Acros hanno detto
che l'appuntamento era sul retro e di qui non vedremmo niente." La giovane si era guardata intorno
irrequietamente, alla ricerca di un'idea. "Facciamo così." aveva
concluso poi. "Io vado a fare un giro di perlustrazione intorno
alla casa e vedo se trovo un punto da cui poter sorvegliare la porta
posteriore senza destare sospetti. Tu resta qui e guarda se esce
qualcuno, ma nel caso non seguirlo. Sappimi dire solo in che direzione
va. Io cercherò di tornare subito." E la ragazza si era allontanata
velocemente sparendo subito tra la folla di passanti e carri. Jennifer
era rimasta sul margine della via piuttosto trafficata che conduceva
poco distante da lì ad una delle entrate del villaggio, cercando
di non perdere di vista la porta dell'abitazione, malgrado il continuo
passaggio di carri guidati da buoi e cavalli le coprisse continuamente
la visuale, costringendola a tenere alta la concentrazione sul suo
compito e impedendole di distogliere l'attenzione verso pericolosi
voli di fantasia. Ad un certo momento, la porta
si era spalanca e ne era uscito un uomo grassoccio e piuttosto basso
con una specie di tinozza. Jennifer si era estesa per tutta la sua
adesso notevole statura. Era alta anche nel suo vecchio corpo, ma
in quello di Xena torreggiava di almeno una spanna sulla folla e
quindi era riuscita a seguire senza fatica tutto l'itinerario dell'ometto
che si era diretto verso il recinto, gettando al suo interno il
contenuto del recipiente che aveva in mano e sollevando l'immediato
entusiasmo della famigliola suina, precipitatasi subito su quello
che evidentemente costituiva il loro pasto. L'uomo era rimasto ad
osservarli per un po' appoggiato alla staccionata, poi si era caricato
la tinozza vuota su una spalla ed era rientrato in casa. "Siamo fortunate." L'affermazione era giunta talmente
inattesa che Jennifer aveva sobbalzato quasi nel rendersi conto
solo allora che Olimpia era di nuovo accanto a lei. "Perché?" aveva chiesto,
cercando di evitare che l'altra si accorgesse del suo trasalimento. "C'è una locanda con dei
tavoli all'aperto dall'altra parte a poca distanza dalla casa."
aveva risposto la ragazza. "Ci permetterà di starcene comode,
mentre sorvegliamo il retro. E' un po' defilata, ma meglio così.
Non rischieremo che qualcuno possa notarci uscendo o avvicinandosi
alla casa. Novità?" le aveva chiesto poi. "E' uscito un uomo, un
momento fa." le aveva risposto lei. "Ma è stato fuori
solo il tempo di dare da mangiare ai maiali." "Com'era?" "Basso e tracagnotto." "Doveva essere Cadmio.
La descrizione di Argolis corrisponde. Vieni." Olimpia si era incamminata e
Jennifer l'aveva seguita attraverso l'intenso traffico, tra carri
e cavalieri che procedevano per la loro strada senza rallentare
o deviare e senza la minima preoccupazione di investire qualcuno.
Evitati miracolosamente gli zoccoli di un cavallo da tiro che per
poco non le aveva schiacciato un piede e la ruota di un carro carico
di barili che stava per triturarle un ginocchio, era finalmente
approdata sulla sponda opposta della strada, praticamente davanti
alla casa di Cadmio, e aveva proseguito, sempre alle calcagna della
giovane, verso un vicolo che girava intorno all'edificio. Dopo pochi
passi le due donne si erano trovate in uno slargo su cui si affacciavano
solo muri privi di porte o finestre, chiuso su tre lati e con soltanto
un cancelletto di legno in fondo, attraverso cui s'intravedeva un
cortile incolto. "Quello è l'ingresso posteriore
della casa di Cadmio." aveva detto Olimpia, indicandolo con
un cenno della testa. "Non si può vedere la casa, ma chiunque
voglia entrare o uscire deve passare per forza da lì." "Dov'è la taverna di cui
mi parlavi?" aveva chiesto Jennifer. "Ho la gola talmente
piena di terra che potrei coltivarci delle zucche." "Benvenuta nel mio mondo."
aveva sorriso Olimpia, e malgrado la tristezza e l'angoscia nel
suo sguardo, il suo viso si era illuminato. "Presumo che nel
tuo le strade siano tirate a lucido come i pavimenti di una reggia." Sei bellissima quando sorridi.
Dovresti farlo più spesso, aveva pensato Jennifer, ed era stata sul punto di dirlo,
ma non l'aveva detto. "Questo no." aveva
risposto invece, sorridendo a sua volta. "Ma almeno non facciamo
indigestione di polvere ogni volta che le attraversiamo. E bisognerebbe
anche discutere della vostra educazione stradale." "Della nostra cosa?"
Olimpia l'aveva guardata, perplessa e divertita. "Ridi pure, ma per poco
non ci rimettevo un piede in mezzo a quei pazzi." "Serve a mantenere i riflessi
pronti." aveva ribattuto la bionda amazzone con un luccichìo
ironico negli occhi e, battendole affettuosamente una mano sulla
spalla (ma senza trattenercela), le aveva fatto strada verso la
taverna, la cui entrata si scorgeva già dietro l'angolo. Seduta a uno dei tavoli davanti
al locale, Olimpia gettava di tanto in tanto uno sguardo verso il
cancelletto che dava sul retro della casa di Cadmio. Il tavolo che
avevano scelto era quello posto più all'estremità del piccolo portico
esterno della taverna, e ne permetteva una visuale parziale ma soddisfacente.
Dalla loro posizione se ne poteva scorgere una buona metà ed era
inoltre perfettamente visibile l'entrata del vicolo che portava
ad esso. Nessuno avrebbe potuto avvicinarsi all'edificio da quella
parte senza che loro lo vedessero. Stranamente, nonostante l'indiscutibile
ansia che avvertiva dentro, si sentiva più rilassata. Forse perché
finalmente dopo tante parole era l'ora dell'azione, o forse perché... Comincio a sentirmi a mio agio
con lei. Era vero. Per quanto si ostinasse
a non pensarci e a cercare di mantenere la concentrazione sul suo
obiettivo, non poteva negare l'evidenza. Per un attimo, pochi momenti
prima, quando si erano scambiate l'un l'altra quelle battute, le
era parso di ritrovare quella leggerezza di spirito delle canzonature
che si lanciavano continuamente lei e Xena. Aveva quasi dimenticato
che non era lei. Non poteva negarlo. Man mano
che passava il tempo, faceva sempre più fatica a mantenere un atteggiamento
rigido con la donna al suo fianco. A non vedere in lei la sua compagna,
la sua sposa, la Xena che amava. E' logico. Che ti aspettavi,
scema? Quello è il suo corpo. Ma non era così logico. Lei
ricordava bene uno dei periodi più angoscianti e confusi della loro
vita. Quando Callisto, con la complicità di Marte, aveva preso possesso
del corpo di Xena, relegando il suo spirito a rimpiazzarla nell'Ade.
Lei era ancora molto giovane, non aveva esperienza su quello che
spiriti e dèi potessero fare, ed era poco che viaggiavano insieme,
eppure aveva capito subito che c'era qualcosa che non andava. Quella
donna poteva aver il corpo di Xena, ma era Callisto, in ogni attimo,
in ogni movimento, in ogni parola. Qui, invece, era molto più difficile
rilevare la differenza. E ad ogni momento sembrava diventarlo sempre
di più. Dopo qualche iniziale goffaggine, Jenna aveva rapidamente
cominciato a muoversi come Xena, camminare come lei, con il suo
passo elastico e determinato, a parlare come lei, con quell'inflessione
un po' strascicata che avrebbe potuto riconoscere tra milioni di
voci, e in certi momenti le pareva perfino di vederle negli occhi
quel certo sguardo... No! aveva rimosso frettolosamente
la mente da quei pensieri. Sono solo movimenti autonomi, sopravvissuti
nel suo corpo alla dipartita del suo spirito, si era detta.
E poi, non poteva dimenticare
il loro vincolo. Il legame che le univa oltre il cuore e
la mente e che rendeva le loro anime un tutt'uno. Era stata l'assenza
di quel segnale, quando l'aveva sondata, come il buio improvviso
in una stanza sempre illuminata, a farle comprendere che dietro
quel viso, quegli occhi, quella bocca, non c'era Xena. E da quel
momento, non aveva neanche più provato a cercarlo. Era stata troppo
occupata a pensare ad altro. A che scopo, comunque? Lo spirito della
sua compagna non era lì, ed era altrove che andava trovato. Ma ora
si chiedeva se non ci fosse stata, inconsciamente, un'altra ragione.
E se tornando a sondarla l'avesse avvertito di nuovo? Se insieme
a quella lenta e costante trasformazione nei comportamenti, ne stesse
avvenendo una simile in quell'angolo segreto dell'anima in cui viveva
la loro connessione? No! Smettila! E' impossibile!
Non c'è nessuna trasformazione, e non dovrei neanche pensare queste
cose. Io condivido
l'anima con Xena, e soltanto con lei, si era rimproverata aspramente,
ficcando il viso nel boccale di sidro che teneva davanti a lei,
per affogarvi tutti i suoi dubbi. "Ehi, piano! Così ti strozzerai!"
"Cosa?" aveva chiesto,
ripiombando improvvisamente sulla terra. L'altra l'aveva guardata con
un sorriso un po' preoccupato. "Ho detto che puoi bere
piano. Nessuno ha intenzione di portarti via il boccale." "Forse sono più assetata
di quanto credessi." aveva risposto, con un pizzico d'imbarazzo,
tornando a guardare verso il vicolo. "Manca ancora molto al
tramonto. Non potremo restare qui tutto il giorno a sorvegliare
la casa. Qualcuno potrebbe insospettirsi." "E perché mai?" aveva
risposto Olimpia con un'alzata di spalle. "Perdigiorno e viandanti
trascorrono spesso tutto il loro tempo a questi tavoli. Non temere.
Finché avremo di che riempire i nostri boccali, nessuno ci disturberà." E così il tempo era trascorso
molto lentamente a fissare l'imboccatura del vicolo e il piccolo
cancelletto di legno che erano rimasti deserti ed immobili, senza
che nemmeno un passante casuale rompesse la monotonia
di quello squallido panorama, e Jennifer aveva avuto modo
di sperimentare fino in fondo quanto interminabile potesse essere
una giornata d'attesa. Un paio di volte, alternativamente, si erano
alzate ed allontanate per sgranchire gambe e schiena ed espletare
altri impellenti bisogni. L'andirivieni dei pochi altri clienti
costituiva l'unica distrazione, ma le due donne avevano proseguito
a sorvegliare instancabilmente il loro obiettivo, evitando d'incrociare
lo sguardo con i presenti. Tuttavia, mentre il sole lentamente (quanto
lentamente!) stava finalmente decidendosi a scendere sull'orizzonte
e le ombre degli edifici intorno iniziavano ad allungarsi all'avvicinarsi
della sera, Jennifer non aveva potuto fare a meno di notare una
coppia di avventori seduti al lato opposto del portico ed evidentemente
un po' alticci, che continuavano a tenerle d'occhio insistentemente,
e quando infine uno dei due si alza per dirigersi verso di loro,
allunga un piede sotto il tavolo, toccando quello di Olimpia. La
ragazza non dà segno di essersene accorta. "Olimpia." bisbiglia. "L'ho visto." risponde
semplicemente la giovane guerriera, sempre senza alzare lo sguardo
dal boccale. L'uomo termina il suo tragitto
non esattamente lineare tra i tavoli, per finire ad appoggiarsi
contro il loro in un atteggiamento che avrebbe voluto sembrare disinvolto,
ma che probabilmente serviva più ad impedirgli di crollare a terra.
Che fosse completamente ubriaco, Olimpia e Jennifer se ne erano
rese conto molto prima che aprisse la bocca per sbuffare da un'orrida
cavità delimitata da due file di denti rosi ed anneriti, un rutto
che sapeva di pessimo vino. "Salute a voi, belle fanciulle."
dice, con una personalissima versione di quello che evidentemente
riteneva un sorriso affascinante. "Io e il mio amico laggiù,
vi stiamo guardando da un po', e ci chiedevamo, visto che voi siete
sole e noi siamo soli, perché non tenerci compagnia." "Grazie per l'offerta."
La voce di Olimpia suona particolarmente gelida da sotto il cappuccio
che le copre la testa. "Ma siamo stanche per il lungo viaggio
e tra poco dovremo rimetterci in cammino." "Oh, non è una buona idea,
sapete?" biascica l'uomo. "Sta per calare la sera e può
essere molto pericoloso per due innocenti fanciulle come voi, vagare
da sole per le strade." "Non siamo più fanciulle.
E tantomeno innocenti." Jennifer aveva sentito quelle
parole uscirle dalla bocca, praticamente senza averle neanche pensate,
e i muscoli delle gambe e delle spalle flettersi quasi autonomamente,
mentre si solleva dalla sedia in tutta la sua altezza, superando
l'uomo, che ora la sta osservando da sotto in su, di tutta la testa.
Sotto il cappuccio, i suoi occhi sono due lame azzurre che si conficcano
in quelli semichiusi ed arrossati dell'importuno, che però è troppo
ubriaco per comprenderne l'evidente minaccia. "Ehi, chi ti credi di essere?"
farfuglia in modo quasi incomprensibile, afferrandola per un braccio.
"Pensi di impressionarmi? E io che volevo essere gentile..." Anche ripensandoci in seguito,
Jennifer non era riuscita a ricordare esattamente la sequenza degli
avvenimenti. Solo una serie di immagini staccate l'una dall'altra,
che le sarebbero sembrate foto incollate su un album di ricordi,
se solo fosse riuscita a rammentare cosa fossero. La prima era quella
dell'uomo che la teneva per il braccio; nella seconda, quello stesso
uomo era disteso a una decina di passi di distanza, in mezzo a dozzine
di piatti e suppellettili varie sparse tutte intorno in mille pezzi;
in quella successiva, l'altro uomo con la faccia arrossata dal vino
e dalla rabbia si lanciava verso di lei, impugnando un coltellaccio,
e nell'ultima, il secondo aggressore fissava stolidamente il proprio
stomaco sventrato da un lungo pugnale a lama fine, stretto nel pugno
insanguinato di Olimpia. Con un indefinibile gorgoglio,
emesso dalla gola e che probabilmente voleva essere una parola,
l'uomo morente cade in ginocchio, provocando una lacerazione anche
più ampia, e Olimpia fa appena a tempo a ritirare la mano prima
che una cascata di interiora insanguinate ne fuoriescano spargendosi
sul pavimento, seguite subito dopo dal corpo che vi si dimena sopra
in preda alle convulsioni mortali, schiacciandole sotto il suo stesso
peso. Le due donne restano immobili
al centro della scena, mentre gli altri presenti non riescono a
staccare gli occhi dall'uomo che continua a scuotersi al suolo inzuppato
nel proprio sangue, come un bambino che si rotola in una pozzanghera. "Calma." dice Olimpia
tenendo il braccio armato di sai, da cui cadono larghe gocce
scarlatte, teso davanti a lei. "Non siamo in cerchia di noie.
Ma, come vedete, non ci tiriamo indietro se necessario. Quindi,
se qui c'è qualche amico di questi due..." "Amico di quei due?"
Il vecchio con la barba incolta e uno straccio su una spalla, che
più volte in quel lungo giorno aveva portato al loro tavolo boccali
colmi, si avvicina all'uomo che ormai dopo un ultimo rigurgito di
sangue e bava si è immobilizzato con lo sguardo vitreo della morte,
e sputa sul cadavere. "Questa feccia ha infestato la mia taverna
per troppo tempo. Da me non riceverete che ringraziamenti. Dovreste
preoccuparvi piuttosto di Demostenes." "E chi è?" "L'uomo che la tua amica
ha messo fuori combattimento. Lui e il morto erano come fratelli
e..." "Anche Demostenes è morto." "Cosa?" Jennifer, che dopo la sua fulminea
e inattesa reazione, se ne era rimasta ferma, come inchiodata al
pavimento di legno, ritrova la mobilità e si volta di scatto nella
direzione della voce che ha udito e che sembra provenire da oltre
la piccola folla che si è radunata intorno a loro ed al cadavere
insanguinato ai loro piedi. Il gruppetto si apre per permettere
alla donna di vedere l'uomo che ha parlato, un giovane inginocchiato
accanto all'altro corpo disteso, la cui testa appare piegata ad
un'angolazione innaturale. "Ha il collo spezzato."
spiega il giovane. "Non potrà più vendicare nessuno." Jennifer lo fissa come se non
riuscisse a capire. "Cosa?" ripete, incredula.
"Ma io non..." La donna sente il sangue gelarlesi
nelle vene e un sudore freddo bagnarle la fronte. E quasi non si
accorge della mano che le si posa delicatamente sulla spalla. "Andiamo." le sussurra
Olimpia. "Non pensarci ora. Abbiamo un compito da svolgere.
Ricordi?" Senza riuscire ad emettere neanche un fiato, Jennifer
si lascia portare via. "Ehi, tutto bene?"
le chiede Olimpia, appena hanno svoltato l'angolo più vicino, lasciandosi
alle spalle il teatro del loro imprevisto spettacolo. Alla richiesta
della ragazza, Jennifer sembra destarsi come da una profonda meditazione,
cercando di focalizzare la sua attenzione sul suo viso allarmato.
"S...ì" risponde faticosamente.
"C... credo di sì." "Sei sicura? Hai la fronte
imperlata di sudore e stai tremando." "No. Non è niente."
La donna si passa il dorso della
mano sulla fronte, avvertendo il contatto con i capelli umidi, ma
la pelle è gelida. "E' naturale che tu sia
sconvolta." dice Olimpia, carezzandole un braccio. "Non
devi..." "No. Non è questo."
la interrompe Jennifer, e il tono della sua voce suona strano perfino
alle sue stesse orecchie. Calmo e distaccato, senza nessuna traccia
dell'emozione o dello spavento che avrebbe pensato di trovarci.
Anche il battito del suo cuore non pare accellerato più di tanto.
"E'... è esattamente il contrario. Ho appena ucciso un uomo...
e un altro è morto sventrato ai miei piedi. Non mi era mai capitato
niente del genere. Dovrei essere isterica o paralizzata dall'orrore...
E invece non provo quasi nulla." "Beh" mormora la giovane
fissandola preplessa "meglio così, no? Non mi parrebbe il momento
adatto questo, per mettersi a piangere e urlare." "Sì, certo." dice
l'altra, appoggiando la schiena al muro dietro di lei. "In
questo momento, hai sicuramente ragione, ma non so se è davvero
meglio in assoluto." "Che vuoi dire?" "Avrei dovuto dirtelo prima.
Avevi ragione, mi sta succedendo qualcosa, Olimpia. E' come se...
non so come dire... mi stessi abituando a questo corpo. Come se
la mia mente, i ricordi di quella che ero, stessero appannandosi
progressivamente e gli istinti della guerriera stessero prendendo
il sopravvento." "Ascolta." Olimpia
l'afferra per entrambe le braccia, costringendola a guardarla negli
occhi, e Jennifer li fissa, stupita di scorgervi un'ombra di paura
dietro. "Ti stai solo lasciando suggestionare. Xena è Xena
e tu sei tu. Quello che stai pensando non è possibile, capito? Quando
lo spirito di Xena è stato portato via da questo corpo, se n'è andato
con tutti i suoi pensieri, i suoi istinti da guerriera e qualunque
altra cosa facesse parte di lei. Un momento fa, tu hai soltanto
dimostrato quello che cercavo di spiegarti ieri da Argolis. Il corpo
di Xena è stato addestrato ad agire con estrema rapidità in condizioni
di pericolo, perché in certi momenti non c'è tempo per pensare.
L'immediatezza dell'azione può fare la differenza tra vivere e morire.
Solo che Xena è abituata ad usarlo, sa come gestirlo e quanta forza
mettere in ogni singolo movimento. Tu no. Sei come un bambino al
comando di una quadriga di purosangue. Hai fatto un gesto che nel
tuo vecchio corpo avrebbe provocato al massimo un livido a quell'idiota,
e invece la forza e i muscoli di Xena l'hanno ucciso. Non devi fartene
una colpa. Se quei due ubriaconi se ne fossero rimasti a sedere
al loro posto, avrebbero probabilmente avuto ancora molto tempo
da vivere e molte botti da scolare." Olimpia allenta la presa,
ma i suoi occhi non lasciano quelli di Jennifer. "In questo
mondo, non c'è tempo per i rimpianti, Jenna. Fai quello che devi
fare e prosegui per la tua strada, senza voltarti. L'ho imparato
a mie spese." Jennifer guarda il volto della
ragazza, lo sguardo cupo e determinato nei suoi bellissimi occhi
(Chi stai cercando di convincere? Me o te stessa?) e un velo
di tristezza si posa su di lei. "E tu come stai?"
le chiede. "Hai appena ucciso anche tu per difendermi. Cosa
provi?" "Te l'ho appena detto,
no?" risponde Olimpia, freddamente. "Vado per la mia strada,
senza voltarmi." "Ehi, voi. Cosa è successo?" Il richiamo in distanza blocca
le due donne, l'una di fronte all'altra. Fulminea, Olimpia spinge
Jennifer contro il muro e facendole da schermo si sporge oltre l'angolo.
A un centinaio di passi da loro, un uomo alto e robusto sta rivolgendosi
al taverniere, il vecchio con la barba e lo straccio sulla spalla.
Dietro di questi, alcuni uomini sono intenti a trascinare via i
cadaveri dei due uccisi. "Niente, Iacobus."
risponde il taverniere, asciugandosi ansiosamente le mani sullo
straccio. "Solo una lite tra due ubriaconi finita a coltellate." Iacobus! Olimpia tira immediatamente
indietro la testa. L'uomo le volta le spalle, ma quel poco che ha
visto le è bastato. "E lui!" sussurra
a Jennifer. "E' uno degli uomini della cascina. Uno dei guardaspalle
di Acros." Jennifer fa per sporgersi a
sua volta, ma Olimpia la trattiene, scuotendo la testa per farle
capire di non muoversi. Poi, si appoggia anche lei al muro, tendendo
l'orecchio. "D'accordo." dice
la voce dell'uomo. "Ora non ho tempo. Ma domattina, passa a
raccontarci come sono andati i fatti." "Sì, Iacobus. Non mancherò."
risponde la voce del taverniere, e immediatamente il rumore sordo
dei passi di Iacobus che si allontana, incoraggia Olimpia ad affacciarsi
ancora una volta cautamente. L'uomo robusto ora è all'altezza
del vicolo che porta alla casa di Cadmio e sta parlando a bassa
voce con un altro. Le prime ombre della sera rendono difficile a
quella distanza distinguere di chi si tratti, ma l'altro uomo, proprio
in quel momento si muove e la luce della torcia che illumina l'insegna
della taverna lo colpisce in viso, illuminandolo. E subito, Olimpia
si schiaccia di nuovo contro il muro alle sue spalle e i suoi occhi
brillano, mentre guarda Jennifer che le è accanto immobile. "Ci siamo." dice.
"C'è Acros in persona insieme a lui." "Li seguiamo?" chiede
Jennifer. Le sue pulsazioni hanno ripreso un ritmo totalmente normale
e ora che si è tuffata nell'azione, anche quello stato di irrequietezza
che l'aveva perseguitata pare scomparso, lasciando il posto ad una
calma quasi irreale. Era come se tutto quello riguardasse un altro
e lei fosse solo una spettatrice distaccata. "No." risponde Olimpia.
"Aspettiamoli qui. Dovranno tornare per forza indietro per
questa stessa strada." La ragazza si sporge di nuovo oltre
il muro. "E poi, mi preoccupa il fatto che non vedo l'altro
uomo, quell'Ector. Non vorrei fosse qui in giro a coprirgli le spalle." Intanto i due uomini erano spariti
nel vicolo, e Jennifer ed Olimpia rimaste nascoste dietro il loro
riparo, non possono fare altro che attendere. Ma, a differenza di
Olimpia, Jennifer non può nemmeno vedere quello che succede, appiattita
contro la parete, e d'un tratto i suoi altri sensi concentrati quasi
inconsapevolmente sull'obiettivo, colgono due voci lontane, troppo
per comprenderne le parole, e poi un altro suono inconfondibile:
il pianto di un neonato. "Lo senti anche tu?"
chiede ad Olimpia. La ragazza si volta verso di
lei. I suoi occhi la scrutano. "Delle voci e il pianto
di un bambino." dice. "Ma non sono troppo lontane
per sentirle da qui?" "Non per noi." mormora
Olimpia. "Non per Xena. E' stata lei ad insegnarmelo. La capacità
di isolare ogni suono per poter sentire e riconoscere anche quelli
più distanti. E' un'arte che una volta imparata, non dimentichi
più finché diventa parte di te. Silenzio, adesso." ordina improvvisamente,
tirandosi nuovamente indietro di colpo. "Eccoli, stanno tornando."
Il rumore soffocato di due passi
distinti, infatti echeggia nello stretto vicolo, avvicinandosi,
insieme al suono ora fortemente attenuato del pianto, e Olimpia
e Jennifer rimangono ferme cercando di nascondersi il più
possibile, nel timore che Acros e il suo complice stiano
venendo proprio nella loro direzione, ma ad un certo punto i passi
si allontanano di nuovo, indicando che i due uomini hanno svoltato
per una strada adiacente. Solo dopo essersi accertata che nessun
altro sia in vista, Olimpia le fa un gesto con la mano, abbandonando
il suo riparo, e Jennifer immediatamente la segue. E le due donne
scompaiono silenziosamente nell'intrico di stradine, all'inseguimento
di quei passi che si perdono in lontananza. (79) Croft Con la gola chiusa e il respiro
mozzato, come un aspirante sub alla sua prima immersione,
Brian Croft supera la porta a vetri che conduce nel vasto atrio
della redazione dell'Inside View, e si dirige verso gli ascensori
che salgono agli uffici del giornale. Passa davanti al grande tavolo
della reception con aria casuale, fingendo di non notarlo
nemmeno. E' la prima prova, no? Se il suo ufficio è già stato sgombrato,
l'addetta al banco deve essere stata la prima ad essere avvisata,
e sicuramente tra un attimo o due sentirà la sua voce richiamarlo.
Stringendo i denti e incassando la testa nelle spalle, Brian supera
a passo studiatamente lento questa prima possibile linea di demarcazione
tra una nuova giornata lavorativa e invece il primo giorno di una
nuova vita da disoccupato. L'impiegata è tutta presa dalle chiamate
telefoniche, e l'uomo si chiede se non sia il caso di farle notare
la sua presenza, con un saluto o una domanda. Qualunque cosa purché,
se c'è una brutta notizia all'orizzonte, lo sappia subito, risparmiandosi
l'umiliazione di passare in mezzo alle occhiate pietose dei colleghi,
per giungere fino alla porta del suo ufficio e scoprire che ne stanno
già staccando la targhetta con il suo nome. Ecco. La donna lo ha visto,
senza neanche che abbia avuto bisogno di dire nulla o fare il minimo
gesto. Il suo sguardo si è focalizzato su di lui. In questo momento
i collegamenti nel suo cervello scattano per portarle alla mente
il suo nome. Fra un secondo, anche meno, i suoi occhi si accenderanno
nell'identificazione e la mano si alzerà per richiamare la sua attenzione. Signor Croft, potrei parlarle
un attimo? "Buongiorno, signor Croft." "Eh?" Brian si blocca all'altezza
del banco, fissando la donna come se questa gli avesse detto qualcosa
di totalmente inaspettato. Perché in effetti, è proprio così. "Ho detto, buongiorno."
risponde la receptionist, guardandolo perplessa. "Qualcosa
non va?" "Cosa? Oh. No, nulla, nulla
davvero. Ero... soprappensiero. Mi scusi. Buona giornata anche a
lei, Harriet." E con un sorriso un po' forzato,
il giornalista si allontana sotto lo sguardo incerto della donna. Calmati, che diamine! A quanto
pare non ti hanno ancora buttato fuori, o quanto meno Hannigan si
è trattenuto per potertelo comunicare guardandoti negli occhi. Sarebbe stato proprio da lui.
Già se lo vedeva, quel piccolo frocetto isterico, mentre sollevava
il suo culo rinsecchito come una prugna in scatola, e si elevava
in tutto il suo metro e mezzo d'altezza, dietro la sua scrivania
con la gioia che gli sprizzava da quelle sue piccole pupille da
topolino. E smettila! Anche se ti avessero
licenziato, che importa? Mio Dio, come fai a pensare a una cosa
stupida come uno stupidissimo impiego in questa fogna del giornalismo
americano, quando appena ieri sera ti sei scontrato faccia a faccia
con un autentico miracolo? O forse, era proprio per questo?
La sera prima aveva attraversato quei momenti come in un sogno,
dovuto allo shock o alle abbondanti libagioni non avrebbe
saputo dirlo, e quando si era svegliato quella mattina, ancora vestito
come si era buttato sul letto la notte precedente, quella sensazione
gli era apparsa rafforzata, e ci aveva messo qualche minuto per
convincersi che li aveva davvero vissuti. Il tempo perché il dolore
al braccio si risvegliasse a sua volta abbastanza da confermarglielo.
Ma il dolore adesso era più che sopportabile, grazie alle pronte
cure del professore, e alzandosi Brian aveva scoperto di poter fare
a meno della fasciatura. Quindi aveva deciso di non pensarci per
il momento. Aveva bisogno di tempo. Doveva lasciar decantare lentamente
le informazioni accumulate nella sua testa. Assorbirle come una
spugna, senza se o ma, finché non smettevano di fluttuargli
nella mente e si depositavano sul fondo. E nel frattempo, pensare
ad altro, concentrare tutta la sua attenzione su questioni pratiche,
come l'annosa domanda: ho ancora un lavoro oppure no? In fondo, per togliersi il dubbio,
gli sarebbe bastato telefonare, e avrebbe potuto così evitarsi
la tensione del viaggio in macchina fino alla redazione e il nodo
allo stomaco che l'aveva preso percorrendo le stanze e i corridoi
che portavano al suo ufficio alla ricerca di indizi che gli anticipassero
una risposta in un senso o nell'altro. Ma non l'aveva fatto. Si
era lavato, rasato, vestito. Aveva ingoiato velocemente una tazza
di caffè ed era partito per la solita destinazione di ogni giorno.
Come se niente fosse cambiato. Come se il suo maggior problema fosse
stato realmente rischiare il licenziamento per l'ennesima assenza
sul lavoro. E non l'aver assistito a quello che qualunque suo collega
(o se per questo qualunque giornalista, anche delle testate più
prestigiose) avrebbe dato volentieri un occhio per poter vedere.
Perché aveva bisogno di tempo. Giunto all'angolo del corridoio
dietro il quale si trovava, o almeno avrebbe dovuto trovarsi, la
porta dell'ufficio con il suo nome sopra, Brian svolta senza esitare
e un secondo dopo, il suo sguardo si posa sulla porta in legno con
la targhetta regolarmente al suo posto, e d'un tratto tutto il fiato
che inconsapevolmente aveva trattenuto fino ad allora, gli esce
d'un colpo dai polmoni, lasciandolo quasi svuotato di ogni energia. Naturalmente, era ancora tutto
possibile. Magari, Hannigan gli avrebbe lasciato il tempo di andarsi
a sedere sulla sua poltrona in pelle, crogiolandosi in un rinnovato
senso di sicurezza, prima di fargli arrivare la chiamata fatale.
Proprio come un dio crudele che risparmi la vita di un uomo in un
terrificante incidente automobilistico, per farlo morire poi per
uno scivolone in bagno. Anche questo sarebbe stato da lui. Ma adesso, nella relativa tranquillità
del suo rifugio privato in mezzo al caos del View, si stava
accorgendo improvvisamente che l'ipotesi non l'angosciava più come
aveva creduto fino a pochi momenti prima, e i suoi occhi vagano
per la stanza fino a soffermarsi su un viso sorridente in una foto
che va lentamente sbiadendosi appesa alla parete. Eccolo allora il tuo segreto,
eh, Coop? Così ben nascosto che neanche tu ne eri consapevole, pensa, mentre un
sorriso triste gli si disegna sul volto, ma era proprio così?
O forse, qualcosa sotto sotto sospettavi? Altrimenti perché quella
cassetta di sicurezza? Questo però non risolve la mia promessa.
Ti avevo giurato che avrei scoperto cosa ti era successo, ma questo
era solo il primo passo. Ora non mi resta che riuscire a provarlo.
Sarà dura, ma adesso, comincio davvero a credere che ce la farò. L'immagine sul muro non fa una
piega e il suo sorriso enigmatico resta immobile, fissato per sempre
in un tempo ormai lontano. Se ti dicessi chi ho incontrato
la notte scorsa, non ci crederesti. O forse sì? Sai, ho cercato
il tuo sguardo nei suoi occhi, e magari, anche se solo per un attimo,
è stato come se tu fossi ancora qui. L'immagine sta perdendo definizione
nei contorni, e Brian si rende conto che tra le sue palpebre si
sta formando un velo di lacrime. Passandosi una mano sugli occhi
e ingoiando a fatica, distoglie lo sguardo posandolo sull'apparecchio
telefonico in un angolo della scrivania, e come animato da quello
sguardo il cicalino comincia a ronzare. "Buona giornata anche te,
stronzo." mormora l'uomo e allunga la mano verso il ricevitore. "Brian?" chiede una
voce femminile dall'altra parte della linea. "Tess. Ciao, piccola."
risponde Croft, rilassandosi automaticamente. "Mi fa piacere
sentirti. Credevo proprio che fosse Hannigan." "Oh, il gran capo ha ben
altro da fare al momento." ridacchia la centralinista. "Non
la sai l'ultima, allora?" "No. Anch'io ho avuto piuttosto
da fare. Che è successo?" "E' in malattia. E ne avrà
per un bel po', pare." continua la donna, e anche se Brian
non può vederla giurerebbe di averla sentita sogghignare. "Ecco la ragione per cui
ancora non lo avevo sentito sbraitare." dice il giornalista.
"Che accidenti gli è capitato? Mi auguro qualcosa di molto
doloroso e imbarazzante. Non è più riuscito a sfilarsi il vibratore
dal culo?" "Piantala!" esplode
in una risata, Tess. "Non farmi ridere. Sto prendendo il caffè.
Me lo fai andare di traverso. No, si è preso il morbillo." "Cosa?!?" chiede Croft,
incredulo, indeciso se sia più sorpreso o divertito. "Già, sembra che se lo
sia beccato giocando con il bambino della sorella. A quanto pare
non lo aveva mai avuto e neanche lo sapeva." "Oh, cazzo. Ma allora,
oltre che brutto, adesso è anche tutto pustoloso." sbotta ridendo
l'uomo. "Giuro che pagherei per vederlo." "Comunque, per il momento
a capo della redazione, hanno messo Di Marco." dice, soffocando
le risatine, la donna. "Bene. Una buona notizia,
finalmente." Brian conosceva bene Tony Di Marco. Un brav'uomo
che era venuto su dalla gavetta. Avrebbe dovuto diventare lui caporedattore,
se Hannigan non gli avesse soffiato il posto perché era simpatico
a qualche pezzo grosso della dirigenza. La giornata stava girando
sorprendentemente bene per come era cominciata. "Passerò dopo
a fargli le congratulazioni. Altre novità altrettanto saporite?"
"Niente di così sfizioso."
ribatte la centralinista. "Oh, c'era della posta per te in
un altro ufficio. Avevano sbagliato l'indirizzo. Me la sono fatta
lasciare. Appena posso te la porto." La voce di Tess su quell'ultima
frase era diventata di colpo vellutata. "Ehm, no, non disturbarti."
risponde subito Brian. "La mando io a prendere." "Sbaglio o io e te avevamo
un discorsetto in sospeso?" chiede la donna. "Spero tu
non l'abbia dimenticato?" "Tess! Vuoi scherzare?!"
ride Croft. "Certo che no! Come potrei? Ho avuto un po' da
fare, in questi giorni, te l'ho detto, ma appena avrò risolto un
paio di cosette, ti prometto una cena e una serata che non dimenticherai." "Guarda che ci conto, canaglia."
sussurra Tess nel ricevitore. "Fidati di me. Non ti deluderò."
risponde Brian nello stesso tono. Povera Tess. Aveva ragione a dargli
della canaglia. Erano anni che gli moriva dietro, e lui continuava
a sfruttare questo suo punto debole in ogni occasione, senza mai
ripagarla dei fastidi che le procurava. Ma stavolta, pensa,
la sorprenderò davvero. E' una promessa solenne. E non ho nemmeno
incrociato le dita. Sta già riattaccando, quando
dal ricevitore esplode la voce della donna. "Brian!" "Che c'è?" chiede
quasi spaventato, riportando la cornetta all'orecchio. "Che stupida! Dimenticavo
la cosa più importante. Ti avevo chiamato apposta." dice la
centralinista con un leggero affanno. "Aspetta... ah, sì, ecco.
Ti ha cercato un uomo stamattina. Gli ho risposto che non eri ancora
arrivato e mi ha detto che avrebbe richiamato. Doveva parlarti assolutamente,
mi ha detto." "Ma non ha lasciato un
numero? Un nome?" "Non ha voluto. Ha insistito
sul fatto che avrebbe richiamato lui quanto prima e di attenderlo.
Dal tono, sembrava una cosa seria." conclude Tess, gravemente. "D'accordo." risponde
Croft con un sospiro. "Tanto non credo che mi muoverò da qui
per ora. Passamelo appena chiama." Chiusa la comunicazione, Brian
si appoggia al morbido schienale in pelle della sua poltrona, immerso
nelle sue riflessioni. E ora, che diavolo poteva significare questo
nuovo sviluppo? La notizia dell'incoveniente di Hannigan
e la schermaglia scherzosa con Tess l'avevano inaspettatamente appena
rimesso di buon umore, che ecco d'improvviso nuove nuvole si affacciavano
all'orizzonte. Un uomo che non aveva voluto lasciare il nome nè
un numero. Di chi poteva trattarsi? E cos'era quella strana sensazione
che sentiva da qualche minuto? Come se all'improvviso gli fosse
venuto in mente qualcosa che fosse sparita subito dopo di nuovo,
lasciandogli però la netta percezione della sua presenza. Per un
attimo, una frazione di secondo, o forse anche meno, aveva intravisto
qualcosa. Aveva creduto di aver trovato qualcosa. Aveva allungato
la mano per afferrarla... ma si era ritrovato a stringere il nulla. Con la mente confusa, Brian
accende il computer, collegandosi al sito delle news ventiquattr'ore
su ventiquattro. Visto che doveva aspettare in ufficio, tanto valeva
informarsi sulle ultime novità nelle indagini. Questa volta pareva
proprio che il procuratore non sarebbe riuscito ad evitare l'intervento
dei federali, e Brian si chiedeva come avesse fatto ad evitarlo
fino ad allora. Anche se si trattava di crimini locali, i rapimenti
rientravano sotto la loro giurisdizione, e il buon Ballister doveva
aver smosso tutte le sue conoscenze per impedire la fastidiosa ingerenza.
Ma la cosa doveva aver finito per sfuggirgli di mano. Brian scuote la testa, guardando
le immagini che mostrano la polizia in attività frenetica, mentre
una foto del bambino scomparso campeggia in alto sullo schermo.
Povero piccolo. Quante speranze c'erano di ritrovarlo, prima che...
Poche, per non dire nessuna. Forse già in quello stesso momento... Il ronzio del telefono rompe
bruscamente il filo dei suoi pensieri, e Brian allunga una mano,
senza smettere di guardare lo schermo. "Sì?" "C'è quel tipo, Brian."
dice Tess, quasi a bassa voce, come se temesse che l'altro potesse
sentirla. "Si comporta in modo molto misterioso. Sei sicuro
di volerci parlare?" "Sì, sta' tranquilla. Chiunque
sia non credo che possa uccidermi per telefono." risponde Croft
sorridendo. "Va bene. Te lo passo,
allora." La donna sembra poco convinta. "Sì, grazie, Tess."
Il giornalista attende che la
linea gli venga inoltrata e immediatamente i rumori inconfondibili
di una strada, motori, clacson, voci di passanti in lontananza,
riempiono il ricevitore, ma nessuno parla. "Pronto?" chiede.
"Sono Brian Croft. Lei ha chiesto di parlare con me? Sono qua,
mi dica." Silenzio ora totale come se
la persona dall'altra parte avesse coperto la cornetta con una mano. "Pronto? C'è nessuno lì?"
insiste Croft, ma la sua richiesta è seguita dal suono ugualmente
inconfondibile della linea interrotta. "Ma... cosa...?" Brian
fissa il ricevitore come se si aspettasse una risposta da lui. Poi
riattacca e spinge il pulsante dell'interfono. "Sì?" chiede puntuale
la voce della centralinista. "Tess." risponde Croft.
"Controlla se è caduta la linea. Non ho sentito nessuno." "Non saprei. Qui è tutto
regolare." Qualche attimo di pausa. "No, Brian. Deve aver
riattaccato lui. Te l'ho detto che mi sembrava un tipo strano." "Riattaccato? Perché mai
qualcuno dovrebbe chiamare più volte per poi riattaccare, quando
riesce a parlare con la persona che cercava?" ribatte Brian,
un po' più bruscamente di quanto intendesse. "Non so che dirti, mi dispiace."
Tess sembrava avvilita come se fosse colpa sua. "Beh, tu non c'entri."
la consola il giornalista. "Ma dato che l'hai sentito, mi sapresti
dire almeno che tipo di voce aveva? Era giovane o anziano?" "Non mi è parsa la voce
di un uomo giovane." dice Tess in tono riflessivo. "Ma
non sembrava neanche un vecchio. Direi di mezza età. Più o meno.
Oh" aggiunge poi "e credo che chiamasse da una cabina
telefonica, perché mi pare di aver sentito il suono della moneta
spinta nell'apparecchio, tutte le volte che rispondevo." "Ho capito." risponde,
con un attimo di esitazione, Croft. "Lascia perdere. Se vuole
davvero parlarmi richiamerà." E Brian riattacca, riuscendo
a malapena a cogliere distrattamente le ultime parole che gli lancia
la donna ("Non dimenticarti della posta!") prima che la
comunicazione sia interrotta. E ancora una volta, un'idea, o meglio
il fantasma di un'idea gli fa capolino nella mente, ma subito la
corrente impetuosa di pensieri che scorre ininterrottamente nella
sua testa la trascina via, prima ancora che ne sia consapevole.
Bene, ecco un altro bel mistero.
Proprio quello di cui avevo bisogno. Naturalmente la faccenda poteva
essere totalmente estranea ai suoi attuali problemi, ma qualcosa
gli diceva invece che non era così. Un uomo di mezza età. Chi tra
le persone più o meno coinvolte in quella storia poteva corrispondere
a questa vaghissima descrizione? Il professor Sutherland? Improbabile.
A parte che doveva aver superato da almeno una ventina di primavere
la mezz'età, cosa avrebbe potuto avere di nuovo da dirgli dalla
sera prima? E inoltre, aveva il suo numero di cellulare, e lui aveva
già controllato sulla segreteria del piccolo apparecchio che aveva
trovato ad attenderlo sulla scrivania dell'ufficio, e non risultavano
chiamate. Quindi perché avrebbe dovuto cercarlo al centralino del
giornale? E perché da una cabina? No. E allora, chi? E d'un tratto, un'intuizione
gli appare, accendendogli lo sguardo di eccitazione, e soffocando
all'istante il lontano campanello d'allarme che chissà dove e chissà
perché ha ricominciato a suonare nella sua testa. Ehi! E se fosse... Non aveva molto a cui aggrapparsi
per assecondare questa ipotesi. L'espressione di uno sguardo, colto
per un solo attimo, un secondo prima che le porte di un ascensore
si chiudessero, e che lui poteva avere interpretato in modo sbagliato.
Ma certo che se la sua intuizione si fosse rivelata giusta, si potevano
aprire interessanti prospettive. Se chi lo aveva cercato era
proprio la persona che pensava, probabilmente in quel momento era
fortemente combattuto. Forse gli aveva telefonato senza neanche
essere pienamente convinto di quello che faceva, più seguendo un
impulso che un ragionamento. Per questo lo aveva fatto da una cabina.
Perché la telefonata non fosse rintracciabile. Per lasciarsi una
possibile scappatoia. Si adattava bene al personaggio. E all'ultimo
non aveva avuto il coraggio di andare fino in fondo. Sì, più ci pensava e più la
cosa lo convinceva. Ma anche se ho ragione, pensa, non posso
far altro che aspettare. Devo dargli il tempo di pensare. Di lasciar
decantare la sua decisione. Esattamente. E con un sospiro, Croft cerca
di tornare a concentrarsi sullo schermo del computer, ancora invaso
dalle immagini dei servizi sul bambino rapito, mentre i suoi pensieri
mulinano disordinatamente intorno alla sua ispirazione, risucchiando
nel loro gorgo l'eco di una frase, e lasciandola a sedimentare sul
fondo del suo cervello. Insieme al suono lontano e quasi inudibile
di un campanello che da qualche parte nella sua testa, continua
a suonare vanamente. Nello stesso momento, ad un
paio di isolati di distanza una mano lascia scorrere le guide arrugginite
della porta di una vecchia cabina telefonica, ed a fatica il corpo
robusto di un uomo si fa strada nello stretto spazio creatosi, riuscendo
alla fine a scivolarvi attraverso e ad uscire col respiro un po'
affannoso. "George Carruthers"
mormora tra sé "sei proprio un idiota." E a schiena china, con la faccia
seminascosta nel bavero rialzato del cappotto, il poliziotto si
allontana. (16 - continua) |
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