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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA GUERRIERA"

CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT

E SVILUPPATA DA R.J.STEWART

E SULLA SERIE INTERNET "XENA WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON"

DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E TNOVAN

 

Nonostante sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA,  questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia, il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni) e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati, ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda.

Dei due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..." riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al termine di quella storia.

La scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet della serie televisiva, scritto da Melissa Good.

Capitolo IV - parte prima

Parte seconda

SECONDA PARTE: LA TANA DELLA BESTIA

 

 

(20) Xena e Olimpia

 

Con le gambe ancora un po' traballanti, Xena esce sulla porta della casa, stringendo gli occhi alla luce di un giorno non ancora completamente fatto, ma certamente già lontano dall'alba. Con un bel respiro, la guerriera che in questo momento non si sarebbe sentita in grado neanche di affrontare un micino, si trascina fino ad una panca in legno sul portico, abbattendovisi sopra. Si è alzata, più per l'abitudine di svegliarsi prima della compagna che per la reale voglia di farlo, con molta cautela temendo di destare Olimpia, timore rivelatosi poi totalmente ingiustificato visto che la ragazza era ancora in un sonno talmente profondo da non aver nemmeno emesso il minimo brontolio di protesta quando lei le era abilmente scivolata via di sotto. Un'abitudine a lungo coltivata che le permetteva di svolgere il suo addestramento mattutino, farsi un rapido bagno nell'acqua fredda e ristoratrice di fiumi e laghi presso cui avevano cura spesso di fermarsi per la notte, e tornare in tempo per la colazione. Qualche volta poi, tornava anche prima, quando Olimpia dormiva ancora, e si fermava a guardarla. Questo accadeva raramente, anzi, che rammentasse, non si verificava più da molti anni, e difatti di lei in quelle occasioni, aveva il ricordo di un viso addormentato ancora giovanissimo, i lunghi capelli morbidi che le ricadevano sul viso, il lieve respiro che le faceva alzare ed abbassare ritmicamente la schiena.

Olimpia si adagiava sempre su un fianco con la guancia appoggiata su un braccio a farle da cuscino, nel periodo in cui dormivano ancora in giacigli separati. Quando ancora quasi non osava neanche sfiorarla. In quelle notti trascorse spalla a spalla, ingoiando il desiderio di stringerla tra le braccia per timore delle sue reazioni, di rovinare la loro amicizia, ignorando stupidamente che dall'altra parte, lei combatteva una battaglia speculare alla sua.

Ed ora le sembrava impossibile che ci fosse potuto essere un periodo del genere, perché lei l'aveva amata dal primo momento in cui l'aveva vista, con quel suo sguardo fiero e rabbioso, con tutto il coraggio che emanava da quel corpo ancora acerbo, mentre si ribellava al capo di quei predoni che avevano catturato lei e tutti gli altri contadini. L'aveva amata subito, adesso lo sapeva, molto prima di scoprire che le loro anime e i loro destini erano legati da un vincolo più forte della vita e della morte. Anche se continuava a dubitare che la questione delle anime gemelle e del destino che le legava riguardasse davvero il loro amore. Il suo cuore le diceva che incontrando Olimpia, si sarebbe innamorata di lei comunque, indipendentemente da vincoli spirituali o d'altro genere. Il legame che condividevano aveva forse solo elevato al massimo livello un sentimento che sarebbe nato ugualmente. Ma allora simili idèe sarebbero state inconcepibili per lei.

E pensare che solo pochi momenti prima, ed era stato questo più di ogni altro pensiero a provocarle il pianto durante il racconto di Alexi, quando non aveva potuto fare a meno di vedere le somiglianze della sua storia con quella di Aristis, era intenta a seppellire le sue armi, perché nessuno potesse ritrovarle, se avessero invece ritrovato il suo corpo in fondo a quella scarpata, poco fuori Potidea. E invece, improvvisamente, quella vita che non aveva più un senso né uno scopo, aveva scorto un inaspettato raggio di sole nello sguardo di una ragazzina dai capelli biondi di cui non conosceva neanche il nome. Naturalmente tutto questo, in quel momento non poteva saperlo. Aveva solo visto delle persone indifese ed in pericolo e il suo istinto aveva preso il sopravvento, rendendola incurante del fatto di essere disarmata e ricoperta solo di una leggera veste di fronte ad una mezza dozzina di predoni, feroci ed armati invece fino ai denti.

A volte le veniva da pensare quanto tutto fosse cambiato in lei, in quanto, un anno? forse meno. Prima del suo incontro con Hercules, vedere, desiderare e prendere erano tre atti per lei automatici e consequenziali. Si era spesso chiesta, con un inevitabile brivido, cosa sarebbe accaduto se la strada di Olimpia e la sua si fossero incrociate tempo prima. Forse sarebbe stata al posto dell'uomo che l'aveva catturata, forse avrebbe ugualmente provato desiderio per lei, ma l'avrebbe sfogato subito, selvaggiamente, lasciandola poi come una bambola rotta dietro di sé, senza voltarsi, ignorando il dono che la vita le aveva destinato e distruggendolo, come un bambino viziato, mai sazio di nulla. Ma ringraziando gli dèi, o forse il dio senza volto, predicato da Belur, le cose non erano andate così. Le loro vite si erano unite e avevano attraversato ogni avversità e la morte stessa, sempre ritrovandosi anche nelle circostanze più impossibili. E quando lei nella confusione della sua mente aveva pensato di dover rinunciare a tutto questo, di non esserne degna e di dover essere punita per averlo avuto, Olimpia non si era arresa e l'aveva scossa costringendola a ripensare alla sua decisione. Qualche volta le era capitato anche di chiedersi se non fosse stata proprio lei, mettendo in opera un elaboratissimo piano psicologico a metterla nelle condizioni di dover tornare. Non ne sarebbe stata sorpresa.

Il loro matrimonio in realtà si era celebrato molto tempo prima che la cerimonia amazzone l'ufficializzasse e sicuramente era stato consumato fino in fondo. Non che non avesse avuto, come tutti i sodalizi, i suoi alti e bassi, per usare un eufemismo, ma entrambe erano comunque sempre riuscite a mantenersi fedeli l'una all'altra e a conservare sotto controllo i loro impulsi. Anche se con un'unica grave eccezione da parte sua, durante quell'avventura in Egitto in cui si era trovata a dover impersonare la defunta Cleopatra ed aveva quasi ceduto al fascino di Marco Antonio, un uomo malvagio che pareva la sintesi di tutti quelli che aveva conosciuto, ma che alla fine aveva trovato la forza di uccidere, cancellando con lui quasi simbolicamente anche tutti coloro che l'avevano preceduto. Ma Olimpia aveva saputo accettarla completamente, nel bene e nel male, esplorando in lei le vette di forza e gli imprevedibili abissi di debolezza che vi si spalancavano improvvisamente.

Parlando di cambiamenti, il suo era stato nulla in confronto a quello di Olimpia, da entusiasta ragazzina inesperta a donna consapevole e sicura di sé, da volonterosa allieva a guerriera abile e coraggiosa, da timida compagna di letto in quella locanda, in quella notte dei Baccanali quando avevano consumato la loro prima volta, alla vorace amante che solo poche ore prima l'aveva presa con una forza ed un desiderio tali da farla urlare di piacere e poi lasciarla spossata, ma di una stanchezza placida e felice che ancora la riempiva tutta.

Le era piaciuto soprattutto il modo in cui Olimpia aveva preso il gioco nelle sue mani, senza chiedere, senza esitare. La ragazza sapeva che a lei di tanto in tanto non dispiaceva affatto farsi preda, anziché predatore, un'alternativa che teneva ben riposta, sfruttandola solo quando ne avvertiva prepotentemente l'esigenza. Probabilmente un retaggio di tempi in cui permetteva ai suoi amanti di possederla con violenza in un gioco intrigante e sottilmente perverso in cui lei finalmente poteva interpretare quel ruolo femminile che la vita che si era scelta non le consentiva. Aristarco in testa, ma passando prima e dopo di lui attraverso innumerevoli altri, spesso compagni di una sola notte, come l'enorme schiavo nubiano muto di cui non non aveva mai saputo il nome, catturato su una nave di mercanti, che aveva fatto impiccare al pennone della sua nave il mattino dopo, per aver cercato di ucciderla e fuggire; o più a lungo termine, come quel nobile romano che un giorno avrebbe cercato di proclamarsi imperatore, con cui aveva pensato addirittura di dividere il proprio destino e che l'aveva invece tradita, e il cui nome, Giulio Cesare, ormai le ispirava solo indifferenza.

Ma pur evidentemente apprezzando molto questa variante nel loro rapporto, Olimpia sapeva aspettare sempre che fosse lei a proporgliela, come gustando l'attesa di un pietanza particolarmente prelibata. Fino a quella notte, in cui aveva smesso di attendere e si era servita da sola, in abbondanza. E Xena non l'aveva fermata, no di certo, e si era lasciata trascinare via senza controllo dalla corrente di quel fiume in piena, provando come non le accadeva quasi mai, se le era mai veramente accaduto, l'ebrezza indescrivibile di sentirsi per una volta l'oggetto del piacere e non il suo motore. Non sapeva se quel selvaggio desiderio che le aveva travolte, fosse o no un effetto collaterale del potere esercitato da Alexi, ma se era così, sperava con tutta se stessa che non si esaurisse tanto presto. 

E questo la riporta con la mente agli avvenimenti convulsi del giorno prima. Il fatto che quella giornata avesse poi trovato un finale tanto perfetto, non doveva farle dimenticare tutte le cose accadute in uno spazio di tempo così limitato da farle sembrare quasi un sogno assurdo. La comparsa improvvisa di quella donna che invocava la sua bambina e la sua altrettanto improvvisa morte; lo strano atteggiamento degli abitanti del paese che sembravano intenzionati a nascondere ciò che stava succedendo; la loro fuga nella foresta e l'incontro, se vogliamo definirlo così, con questa strana famiglia; e soprattutto quei rumori tra gli alberi.

Nelle ultime ore non aveva avuto molto tempo per ripensare alle sensazioni provate, mentre se ne stava accovacciata dietro i cespugli ad aspettare chi o cosa stesse avanzando tra la vegetazione, ma soffermandocisi adesso non poteva impedire ad un piccolo brivido di correrle lungo la schiena. Alexi l'aveva chiamato lui, come se fosse un uomo, un essere umano, ma qualcosa in profondità, nel modo in cui aveva pronunciato quella parola, le aveva comunicato ben altro. Come se in realtà non esistesse un modo per chiamarlo e avesse dovuto ricorrere a quell'innocuo pronome per definire l'indefinibile.

Con un sospiro, Xena si appoggia alla parete alle sue spalle, fissando il prato davanti a sé su cui i raggi di sole si stanno facendo più decisi.

"In che razza di storia ci siamo infilate, questa volta?" mormora.

 

Il volto della donna è davanti a lei, ma nel buio sembra quasi che la testa fluttui nell'aria, priva di un corpo a sostenerla.

Oh, no! No! Vi prego!

Le parole le esplodono dalle labbra, mentre ricordi e sensazioni confuse si ammassano gli uni sulle altre.

Non ancora! Non di nuovo! Non lo sopporterei! Questa volta non sopravviverei!

Una testa poggiata sulla base del collo reciso, palpebre chiuse dalla morte su occhi il cui colore non potrà più contendere il primato a quello del cielo.

No! No!! Lei è viva! E' tornata! Tutto questo non è vero! Non più!

Ma d'improvviso la testa apre gli occhi e il colore non è quello che ricordava. Gli occhi sono castani e d'un tratto anche i lineamenti del volto e il colore dei capelli sono diversi. E la testa comincia a parlare.

Ma quelle parole, quei suoni non hanno significato... O lo hanno?

Lei è lì, ferma, immobile nel buio, ad ascoltare parole in una lingua sconosciuta e il suono di una voce che dentro di lei, in qualche recondito angolo oscuro della sua mente, sa di avere già sentito...

Con un sobbalzo, Olimpia si sveglia. In principio, non si rende conto di cosa l'abbia svegliata, poi la mano tasta accanto a lei. Xena non c'è e una nuova inesprimibile angoscia le afferra la gola. I terrori risvegliati dal sogno sembrano d'un tratto reali. Ma solo per un attimo.

Poi la porta semi aperta e il raggio di sole che ne filtra riportano la realtà alle sue giuste dimensioni. E i ricordi della notte trascorsa riaffiorano, annullando all'istante ogni paura e recando con sé un senso di pace, unito ad uno strano bruciore sulla schiena. Tirandosi su perplessa, Olimpia se la tasta con attenzione.

 

La profonda riflessione di Xena è interrotta dal rumore di passi sulla soglia e un attimo dopo il suo volto si distende in un sorriso.

"Ehi."

"Ehi, tutto a posto?"

"Più o meno." risponde la guerriera con uno sguardo malizioso. "Mi hai distrutta, stanotte."

"Mmh, allora è vero che stai invecchiando." dice Olimpia, sedendosi sulla panca accanto a lei. "Io invece non mi sono mai sentita meglio."

"Sì?" chiede Xena guardandola perplessa. "Perché hai il mantello allora? Non mi pare faccia tanto freddo."

Senza una parola, Olimpia abbassa il tessuto denudandosi parzialmente una spalla, dove spiccano chiaramente visibili cinque sottili linee rosse parallele.

"Non ho ancora controllato, ma dal bruciore direi che dovrei averne altrettante anche dall'altra parte." dice poi con una lieve nota di rimprovero scherzoso nella voce.

Xena sfiora la pelle graffiata della compagna con le dita.

"Mi dispiace, scusami. Dovrei avere ancora dell'unguento. Ti lenirà il fastidio."

"Non preoccuparti. Non è niente. Certo che quel potere è straordinario, eh?" dice Olimpia ricoprendosi la schiena.

"Assolutamente. Credi che ci abbiano sentite?"

"Credo che non sentire te fosse difficile. Urlavi come una gatta in calore."

"Non è vero!" protesta Xena colpendola con una gomitata, poi vede la smorfia sul viso di Olimpia. "Scusami. Non è vero." aggiunge a voce più bassa.

"Eccome, se lo è." risponde Olimpia sempre sorridendo.

"E comunque, è colpa tua."

"Cosa?!"

"Eri scatenata! Mi hai praticamente... " a voce ancora più bassa " ... violentata. Non mi sorprenderebbe..." Poi Xena s'interrompe guardandola di sottecchi con un'ombra d'imbarazzo.

Olimpia la fissa, aspettando che finisca la frase.

"... se mi avessi messa incinta." conclude con un'espressione indecifrabile.

La compagna resta per un momento in silenzio, poi il suo sguardo sbalordito si scioglie in una risata. "Ma smettila! Stai scherzando!" Quindi china la testa per guardarla meglio. "Stai scherzando?"

"Chi lo sa?" risponde Xena, fissandola con un sorriso sbarazzino negli occhi. "Con noi due non si può mai dire."

Questa volta è Olimpia a colpirla con una gomitata ed il gesto improvviso le procura un'altra lieve fitta bruciante alla spalla arrossata, provocandole di riflesso una risatina nervosa che si comunica rapidamente alla compagna, finché le due donne non si ritrovano a ridacchiare incontrollabilmente dandosi di gomito l'un l'altra. Poi entrambe con un sospiro si appoggiano alla parete con una strana, esilarante sensazione di pace interiore.

"Oh sì." dice Olimpia. "Davvero straordinario quel potere."

"Puoi dirlo forte." risponde Xena.

Poi un lungo silenzio si posa tra loro, mentre due menti inseguono ognuna i propri pensieri.

"Xena."

"Mmmh?"

"Forse c'è una cosa che dovrei dirti."

L'improvviso tono serio nella voce di Olimpia allarma Xena che subito la fissa preoccupata.

"Qualcosa non va? Che hai?"

"No. Probabilmente non è nulla." dice, cercando di tornare a sorridere la ragazza, ma la cosa non le riesce molto bene. "E' che faccio dei sogni... Sogni piuttosto strani..."

"Incubi?"

"Sì... no...non proprio. Beh, anche se quello di stanotte ci somigliava parecchio. Ma di solito, no. Continuo a vedere un viso... un viso di donna... Una persona che non ho mai visto in vita mia... ne sono sicura... e che pure... mi sembra di conoscere. Non so come spiegartelo."

Olimpia incrocia le braccia sul seno sbuffando, sentendosi incapace di mettere in parole ciò che prova.

"Magari è qualcuno che hai visto, senza neanche notarlo, ma la tua mente invece l'ha incamerato... per qualche ragione." azzarda Xena guardando fisso davanti a sé.

"Sì, forse è così. Hai ragione..." Scuotendosi, Olimpia si alza in piedi. "Beh, lasciamo andare. Abbiamo cose più importanti di cui occuparci."

"D'accordo" dice la guerriera facendo altrettanto. "Andiamo a vedere come sta il vecchio... e che fine ha fatto Alexi."

E le due donne si dirigono verso la porta della casa.

"Un viso di donna, eh?"

"Già."

"Bella?"

"Xenaaa!"

 

 

(21) Jennifer

 

"E' lei."

Dooley indica oltre la finestrella in vetro sulla porta della stanza degli interrogatori. All'interno, attraverso il piccolo riquadro in cui Jennifer sbircia, c'è una donna dall'età indefinibile, avvolta in un cappotto visibilmente liso in più punti e con il colletto di pelliccia parzialmente strappato e spelacchiato. La donna stringe le braccia attorno al petto come abbracciando qualcosa di invisibile e le sue spalle sono scosse da singhiozzi violenti, mentre le sue labbra formulano parole inudibili attraverso la pesante porta insonorizzata. Il microfono collegato all'altoparlante non era evidentemente ancora attivato, ma lo sarebbe stato per quando il colloquio avesse avuto inizio.

"Come si chiama?" chiede Jennifer, voltandosi appena verso l'agente e continuando a fissare la figura seduta al tavolo al centro della stanza.

"Beh, qui tutti la chiamano la vecchia Rose, ma non si sa molto di lei. Ogni tanto la fermiamo per ubriachezza molesta, ma nel complesso è innocua."

"Quando l'avete arrestata le avrete preso le impronte, no?" La voce secca di Carruthers risuona alle loro spalle. "Cosa dicono gli archivi?"

"Niente di particolare. Ha qualche precedente ma nulla di serio." A rispondere è stato il sergente Price, il maggiore in grado al momento in servizio al diciottesimo distretto. Price aveva collaborato per anni con Carruthers e quando Dooley l'aveva chiamato raccontandogli cosa era successo, lui non aveva esitato e aveva immediatamente contattato il capitano. Sapeva che i suoi diretti superiori non avrebbero fatto salti di gioia, ma tutti erano al corrente che Carruthers era più o meno ufficialmente l'incaricato del caso dei bambini scomparsi e quindi riteneva di aver fatto comunque la cosa giusta, allertandolo nel più breve tempo possibile, soprattutto dopo quello che era accaduto quella stessa mattina.

"Insomma, non vi siete mai interessati troppo a lei, eh?" chiede Jennifer in tono lievemente amaro.

"Perché avremmo dovuto? I suoi trascorsi non riguardavano questo stato. E da noi non ha mai combinato guai grossi."

"Ci bastava tenerla in cella per qualche ora, in attesa che smaltisse la bornia" interviene Dooley in soccorso del suo sergente "e poi la lasciavamo tornare in quel vicolo che chiama casa. Non c'erano ragioni per trattenerla."

"Non avete parlato di ubriachezza molesta?"

"Quello è solo il termine giuridico. In realtà, la vecchia Rose si limitava a piangere e a lamentarsi nel sonno. Solo che la cosa infastidiva la gente che abita lì vicino, e così..."

Jennifer sente come una stilettata nel petto. Le parole del poliziotto e l'immagine che ha davanti agli occhi, l'hanno riportata per un attimo ad un'altra stanza, quella di un ospedale, e ad una figura pallida ed esile stesa in un letto con gli occhi chiusi da cui scivolano lacrime silenziose, mentre parole altrettanto silenziose escono dalle sue labbra.

Xena, ti prego, torna da me.

La psicologa avverte anche troppo bene la gola chiudersi e la vista offuscarsi e ricaccia con rabbia indietro quelle sensazioni.

Basta, Rowles! Riprenditi! Non puoi continuare così!

Con uno sforzo erculeo, ingoia il nodo soffocante che le impediva di deglutire, e cercando di dare un tono deciso alla sua voce, fissa lo sguardo sul riquadro trasparente finché l'appannamento delle lacrime non scompare.

"D'accordo. Io entro. Datemi una mezz'ora."

I tre uomini intorno a lei si allontanano un po', lasciandole spazio e Jennifer afferra la maniglia della porta e l'abbassa con uno scatto.

 

La donna seduta non solleva neanche lo sguardo al suo ingresso. La testa china, gli occhi fissi sul piano del tavolo, continua a mormorare senza posa la stessa quasi indecifrabile litanìa. Jennifer si avvicina con cautela per non spaventarla e siede sulla sedia di fronte.

Solo ora la donna sembra accorgersi della sua presenza. Solleva la testa e fissa lo sguardo su di lei. Jennifer scorge immediatamente righe di lacrime sulle guance ingrigite dalla sporcizia e dagli stenti. Ma gli occhi tra le palpebre arrossate dal pianto, le appaiono ora vivi e consapevoli.

"Il mio bambino... Hanno ucciso il mio bambino."

All'inizio, Jennifer fatica ad afferrare le parole poco più che biascicate, che escono dalle labbra livide e screpolate della donna, dietro a cui s'intravedono i pochi superstiti di una dentatura che una volta, molto tempo prima, poteva essere stata bella e forte. Poi, aiutata anche dall'espressione disperata della poveretta, riesce ad intuirne il significato. Sempre con molta cautela, la psicologa si china in avanti e tende una mano, poggiandola delicatamente sulle dita ossute della donna dall'altra parte del tavolo.

"Chi..." riesce appena ad articolare a sua volta, affascinata suo malgrado dagli abissi d'orrore che può percepire nel fondo di quelle pupille dilatate. "Chi ha ucciso il tuo bambino?"

Per un attimo la donna sembra quasi sorpresa dalla domanda, come se l'idea non l'avesse neanche sfiorata fino a quel momento, poi il suo sguardo, pur continuando a rimanere fisso in quello di lei, acquista un tono diverso come se non vedesse più lei, ma qualche cosa oltre le sue spalle, e abbassando ancora di più la voce si china a sua volta verso Jennifer.

"Il Diavolo." mormora. "Il Diavolo ha ucciso il mio bambino e l'ha divorato per imprigionare la sua anima."

Quelle parole dette con un tono di certezza assoluta, mandano un brivido lungo la schiena di Jennifer che non riesce a staccare, come ipnotizzata, gli occhi da quelli della donna.

"Il... Diavolo?" chiede.

"Io l'ho visto. Era buio, e lui era tutto nero, ma la sua pelle scura era lucida e le luci vi si riflettevano sopra. Lui ha nascosto il sacco con il mio bambino sotto un albero, ma quando si è allontanato, io sono corsa e l'ho liberato dalla terra..."

Mentre parlava, la donna aveva afferrato la mano di Jennifer e ora la stringeva tra quelle dita scheletriche con una forza inimmaginabile in un corpo tanto esile. Ma Jennifer quasi non se ne accorge. Tutta la sua attenzione è catturata da quegli occhi che la fissano e che ora le paiono divenuti enormi, mentre la stanza sembra contrarsi intorno a lei, facendola sentire d'un tratto piccola e indifesa.

(Nonna, che occhi grandi hai!)

(E' per guardarti meglio, piccola mia.)

Il suo stomaco pare improvvisamente volerle risalire attraverso la gola e la bocca per sederlesi in grembo e solo con un enorme sforzo di volontà, la psicologa riesce a riprendere il controllo di se stessa e raccogliendo tutta la sua capacità professionale, cerca di costruire un muro tra quelle sensazioni alterate che le stanno invadendo la mente e la sua razionalità di cui è sempre andata fiera.

Calma Rowles! le intima nel cervello una voce imperiosa, Calmati! E' solo un attacco di panico. Controllati! Sei qui in veste professionale e cerca di ricordartene e di comportarti compatibilmente! Pensa che figura faresti davanti a quelli là fuori, se ti facessi prendere da una crisi isterica.

L'ultimo avvertimento, quello relativo agli uomini (Carruthers compreso!) che la stavano osservando dall'esterno, sembra avere una certa efficacia su di lei, e Jennifer avverte il respiro che sentiva strozzarsi in gola, fluire più liberamente nei suoi polmoni, e con atteggiamento più professionale possibile torna a rivolgere la sua attenzione alla donna di fronte a lei, testimone inconsapevole della battaglia mentale che si è appena svolta.

"Voi mi aiuterete, vero?" le chiede improvvisamente questa, avvicinandosi ancora di più a lei e investendole il viso con una zaffata d'alito densa di denti marci e alcool di pessima qualità, rischiando di vanificare ogni sforzo di Jennifer di trattenere dentro il fortunatamente scarso pasto fatto la sera prima.

"Cosa?" Jennifer guarda confusa la sua interlocutrice, cercando di riannodare i fili e ridare un minimo di coerenza al tutto.

"Mi aiuterete a mandare il mio bambino in Paradiso?" ripete lentamente la donna, con la massima naturalezza, come se avesse chiesto che le portassero un bicchiere d'acqua, allargando la bocca in un sorriso sdentato.

(E che bocca grande hai.)

(E' per mangiarti meglio.)

Smettila! Smettila!! SMETTILA!!!

"Certo..." sussurra quasi, Jennifer cercando disperatamente di frenare il tremito che l'ha presa. "Certamente." dice con tono di voce più alto, provando a distendere a sua volta il volto in un sorriso, ma non ben certa di esserci riuscita in modo convincente. "Ma adesso, lei dovrebbe raccontarmi esattamente cosa è successo. Come ha fatto a trovare... il suo bambino?

La donna, sempre con gli occhi spalancati in chissà quale allucinante visione interiore, si china ancora di più sul piccolo tavolo, provocando d'istinto in Jennifer l'insopprimibile impulso di scostarsi per quanto possibile senza farlo notare agli osservatori fuori dalla stanza e senza allarmare l'altra, che adesso sta sbirciando intorno con diffidenza come se temesse che qualcun'altro possa ascoltarla.

"Stanotte non riuscivo a dormire. Nonostante mi fossi fatta più di mezza bottiglia di buon rhum. Non quella schifezza che vendono allo spaccio in fondo alla strada, no..." aggiunge ridacchiando sinistramente.

" No... quella era roba buona... di marca. Ne ho tenuto da parte un po'. Non capita spesso di riuscire a metterci le mani sopra."

D'un tratto la donna scruta negli occhi Jennifer e fa uno scatto all'indietro.

"Ehi, non farti strane idee! Non l'ho mica rubata, sai?!?" esclama a voce alta.

"No... certo che no. Non l'ho mai pensato." risponde di getto la psicologa.

"Sì, invece..." Ora la donna si è ritirata indietro sulla sua sedia, alleviando l'odore d'alito maleodorante, con grande sollievo di Jennifer. "Sì che l'hai pensato. Beh, ti sbagli di grosso. La vecchia Rose non è una ladra. Me l'ha portato uno dei commessi di Sorrentino. Loro sono bravi con la vecchia Rose e la vecchia Rose è brava con loro... se capisci quello che voglio dire, eh, giovanotta?"

E una risata più simile ad un cachinno le erompe dalla gola, trasformandosi subito in un soffocante accesso di tosse che piega l'esile figura in due.

Preoccupata, Jennifer fa per alzarsi ed andare ad aiutarla, non ben sicura di riuscirci, ma con suo grande sollievo, l'improvvisa crisi si esaurisce quasi subito, e come se niente fosse, Rose torna a fissare uno sguardo acquoso in quello della psicologa, asciugandosi con il dorso della mano, il filo di bava giallastra che le cola da un angolo della bocca.

Jennifer, dopo il tentativo poco convinto di alzarsi fatto un attimo prima, e a cui era stata felice di poter rinunciare, era tornata ad essere letteralmente inchiodata al suo posto, con le gambe attorcigliate come serpenti intorno a quelle della sedia all'altezza delle caviglie, come se temesse di sentirsela sfuggire di sotto, e le mani solo in apparenza tranquillamente conserte davanti a sé. In realtà, le unghie erano talmente conficcate nei palmi, da darle la quasi certezza che quando le avesse riaperte, vi avrebbe scorto le inequivocabili tracce rosse a mezza luna causate dal sangue emerso in superficie. In più di un momento, violenti attacchi di nausea avevano minacciato di travolgerla e la vista di quel filo di saliva gialloverdastro rimasto su un lato del labbro della barbona non le era d'aiuto.

Mantieni la calma, Rowles. Non è niente. Solo una povera donna confusa dall'alcol e dalla miseria.

Ma neanche la voce interiore dal tono imperioso a cui aveva fatto spesso ricorso in quei mesi difficili, quando il controllo davvero minacciava di scivolarle via dalle mani, sembrava avere molto effetto in quella claustrofobica stanzetta, alla distanza di un respiro, e di un respiro nauseabondo per di più, da quel patetico esempio di un essere umano. Il suo stato nervoso era in peggiori condizioni di quanto avesse immaginato e, francamente, non vedeva l'ora che tutto questo finisse. Ma la sua forza di volontà, o forse più semplicemente il terrore che muovendosi da quella posizione, il panico potesse prendere il sopravvento su di lei, la tenevano saldata alla sedia, mentre le sue braccia le sembravano talmente irrigidite da darle l'impressione netta di non sentirle più, come se fossero diventate parte del legno del tavolo.

Ma tutta questa tempesta di emozioni che le attraversava la mente e il corpo non aveva apparentemente riscontro sull'espressione del suo viso che manteneva ferma e risoluta, anche se a chi la conoscesse bene sarebbe potuta apparire un po' troppo rigida per essere naturale, mentre stava cercando disperatamente di ritrovare in sé almeno un briciolo di quella umana pietà che l'aveva sempre accompagnata nel suo lavoro, ma senza riuscirci. Quella Jennifer sembrava morta per sempre come se la corazza che si era costruita intorno l'avesse soffocata. Le uniche sensazioni che la donna emaciata, seduta di fronte a lei, le  ispirava erano ribrezzo e nausea.

E' finita. La voce le giunge alla mente come una sentenza. Non potrai mai più fare questo mestiere.

Ma intanto, ignara di tutto e troppo presa dal suo racconto, la vecchia Rose continua a parlare.

"Beh, comunque... Allora mi alzo e faccio un giretto... tanto per conciliare il sonno, no? Così mi dirigo verso i giardini pubblici in fondo alla strada. E là, dietro i cespugli sento un fruscìo..."

Per un attimo, Rose s'immobilizza fissando la parete sopra la testa di Jennifer, come cercando di esprimere un concetto particolamente ostico.

"No... non proprio un fruscìo... un rumore strano... come qualcuno che stesse scavando la terra... Lì per lì, ho pensato che fosse un cane e stavo per allontanarmi... Non mi piacciono i cani... Mi abbaiano sempre contro... E una volta uno mi ha morso... Stava per staccarmi una mano...Guarda qua."

E tende il palmo della mano ossuta dove è ancora chiaramente visibile una lunga cicatrice.

"Quindici punti... Mi aveva quasi staccato la carne quel botolo merdoso... e io non gli avevo fatto nulla..."

La sua voce stava ricominciando ad assumere il solito tono lamentoso. Cercando di evitare di guardare troppo a lungo la cicatrice malricucita che Rose le sta sventolando sotto gli occhi, Jennifer fissa lo sguardo sulla faccia della sua interlocutrice.

"Per favore, Rose, torniamo al punto." dice con il tono di voce più fermo che le sia possibile, ed evidentemente l'effetto che ne ricava deve essere migliore di quanto pensasse, perché un po' intimidita la donna ritira indietro la mano e riprende il racconto.

"Sì, insomma... avevo paura e stavo per andarmene, quando da dietro il cespuglio esce lui!"

"Lui?"

"Lui! Il Diavolo... Lucifero... Chiamalo come ti pare... ma io l'ho riconosciuto subito. Era lungo e nero... con la pelle lucida e due grandi corna sulla testa... Io mi sono nascosta... perché si sa... se il Diavolo si accorge che l'hai visto ti prende e ti porta con lui all'inferno. Ma lui non si è accorto di nulla. Si è guardato intorno e se ne è andato, scomparendo tra le siepi..."

"E lei cosa ha fatto?"

"Che dovevo fare? Tremavo tutta. Sono rimasta ancora un po' nascosta... poi quando sono stata sicura che se ne era proprio andato, sono corsa a vedere cosa aveva sotterrato..."

Rose s'interrompeva quasi ad ogni frase, forse per una sua difficoltà a coordinare logicamente i ricordi, o forse come lei sospettava in realtà, perché stava cercando di fare quelle che si chiamano pause teatrali, ma comunque fosse, quelle lunghe attese tra una frase e l'altra rischiavano di peggiorare il suo stato e le rendevano sempre più difficile mantenere il controllo sui suoi nervi, messi già a dura prova. E così Jennifer stringe i denti, sperando che quell'interminabile tortura mentale finisca al più presto.

"Avevo paura... quasi me la facevo sotto... ma io sono curiosa... E se il Diavolo avesse sotterrato dell'oro o delle pietre preziose?" E qui, la donna si produce in quella che nella sua fantasia doveva probabilmente essere uno sguardo furbo, ma che in quegli occhi arrossati dava al tutto un sapore di patetica follia.

Mio Dio, questa donna non è solo un'ubriacona alcolizzata. E' pazza, pensa Jennifer, vergognandosi nel momento stesso in cui formula questo pensiero, indegno di un medico specializzato nella cura della psiche. E nella sua mente risuona d'improvviso la voce stentorea del professor Teague, il suo insegnante preferito negli anni dell'università: "Non esistono i pazzi" aveva detto ad un'aula piena in ogni ordine di posti il primo giorno di lezione, "ma solo persone psichicamente disturbate. Individui in cui la percezione della realtà è stata in qualche modo alterata. E compito vostro sarà porvi rimedio con le armi della psicologia medica".

Mi perdoni, professore. Jennifer proietta il proprio pensiero verso il suo antico docente, morto aveva saputo un anno prima di un improvviso malore. So di contravvenire ad ogni suo insegnamento, ma i pazzi esistono, eccome. Ed una l'ho proprio qui davanti a me.

"Se così fosse stato, avrebbe avuto il coraggio di prenderle?" chiede, tentando di riportare tutta la sua concentrazione su quel momento, isolandosi da pensieri e ricordi che potevano esserle solo d'ostacolo.

Questo dialogo sta diventando sempre più assurdo. Eccoti qua, Rowles, la solita vocina le sussurra all'orecchio, a parlare del Diavolo con una vecchia pazza alcolizzata. Niente male come carriera, eh?

Ignorandola, Jennifer inchioda gli occhi in quelli della donna di fronte a lei.

"Certo che le avrei prese..." risponde Rose, continuando ad ammiccare furbescamente. " La vecchia Rose è povera, ma non è stupida... Avrei fatto la vita da gran dama, e il Diavolo non avrebbe mai saputo chi lo aveva derub... alleggerito del suo oro e dei suoi diamanti... e del resto lui ne ha talmente tanti... Ma non c'era oro... né gioielli... né diamanti..."

Lo sguardo della donna si fa per un attimo distante, mentre tra le sue palpebre tornano a baluginare le lacrime, poi torna a fissarsi in quello di Jennifer.

"C'erano solo quelle povere ossicine... Le ossicine del mio bambino..."

"Perché crede che siano le ossa del suo bambino, Rose?"

"Perché è così!" La donna fa uno scatto verso di lei, gettandole in faccia un'altra zaffata maleodorante. Non ha sollevato d'un tono il volume della voce, ma in qualche modo a Jennifer sembra che stia urlando.

"Il Diavolo si è portato via il mio bambino tanto, tanto tempo fa, e adesso..." sussurra, riabbattendosi sulla sua sedia "...è venuto a seppellirlo vicino a casa mia... per farmi soffrire..."

"E perché crede che fosse il Diavolo?"

"E chi potrebbe essere? E' lui! Il Signore della Menzogna. E' lui che venne a portarmi via il mio bambino! Oh, allora non aveva le corna. Non poteva mostrarle. Non di giorno, quando tutti potevano vederlo... Ma io sapevo che era lui! E quando stanotte l'ho rivisto..." E non più trattenute, le lacrime della donna cominciano a scorrerle copiosamente lungo le guance. "...ho capito. Lui ha ucciso il mio bambino e l'ha seppellito in terra sconsacrata perchè la sua anima non trovi mai la strada del Paradiso. Ma voi lo impedirete, vero? Voi mi aiuterete!!!"

Non era più un'implorazione, una richiesta quella. Rose si era tirata su dalla sedia, un po' traballante, ma in maniera sorprendentemente energica per il suo stato, e l'aspetto che stava mostrando di sé in quel momento non aveva nulla di patetico, confermando in modo decisamente minaccioso le impressioni di Jennifer. Come l'aveva definita prima quel poliziotto, di cui non ricordava il nome? Ah sì, innocua nel complesso. Nel suo insieme, insomma. Ma la parte che Jennifer stava vedendo ora, non faceva parte dell'insieme, dell'immagine complessiva che la vecchia lamentosa ma in fondo simpatica Rose dava di sé. Oh, no. Quel lato di lei, forse solitamente sommerso nelle nebbie dell'ubriachezza, non aveva niente di lamentoso, né di simpatico, né tanto meno di innocuo. Quegli occhi, spalancati e dalle iridi nere come la notte più fonda dicevano, Voi mi aiuterete! TU mi aiuterai!! O io ti squarterò con le mie mani! 

Con le mani strette sui bordi del tavolo fino a far sbiancare le nocche, Jennifer cerca di sostenere lo sguardo folle della donna, senza darle il minimo indizio (né a lei, né a quelli che le stavano osservando da fuori) di quanto il suo unico desiderio in quel momento sia di alzarsi da quel tavolo e scappare via da quella stanza urlando.

"Certo... certo, Rose." riesce a dire, mettendo insieme la migliore imitazione di un sorriso rassicurante che sia in grado di produrre. "Faremo tutto il possibile per aiutare te e il tuo bambino. Ma ora cerca di descrivermi meglio l'u... il demonio che hai visto."

La furia omicida che per qualche attimo Jennifer aveva intravisto negli occhi della barbona, pareva essersi dissolta, e Rose riabbatte l'esile corpo sulla sua sedia con aria esausta.

"Che c'è da descrivere? Lui è il Diavolo, proprio come appare in quegli antichi dipinti. Alto, secco e con grandi corna, con la pelle lucida e nera come la pece. Non ho fatto in tempo a vedere altro, mi sono nascosta, ma in fondo che altro c'era da vedere? E' il Diavolo, e tanto basta. Ora sono stanca. Vi ho detto tutto ciò che ho visto. Adesso tocca a voi."

Con la coda dell'occhio, Jennifer scorge un movimento dietro il vetro della porta e lancia uno sguardo ammonitore all'agente che negli ultimi minuti è stato più di una volta sul punto di abbassare la maniglia e entrare. Quindi torna a fissare Rose che adesso ha abbassato nuovamente il viso nella stessa posizione che aveva quando lei è entrata. Ma questa volta la sua bocca non si muove in qualche incomprensibile litanìa, e anche gli occhi si sono chiusi come se la donna fosse caduta in un sonno profondo.

Perplessa la psicologa allunga un braccio e fa per toccare la figura abbandonata sulla sedia di fronte, quando questa come risvegliata da quel leggerissimo sfioramento, ha un sussulto improvviso, sgrana gli occhi all'inverosimile e comincia ad urlare.

"IL MIO BAMBINO! MALEDETTI! RIDATEMI IL MIO BAMBINO!!" 

E afferra in una stretta d'acciaio le braccia di Jennifer, serrandogliele contro il corpo. La psicologa è così sorpresa dalla mossa improvvisa che resta immobile, come pietrificata, mentre la porta alle sue spalle si spalanca e l'agente Dooley ed un altro poliziotto si precipitano all'interno della stanza, gettandosi sulla mendicante e afferrandole i polsi, cercando di staccare le mani, le cui dita Jennifer sente come se le si stessero conficcando nella carne attraverso il tessuto del soprabito.

Ma Rose resiste in modo incredibile e il dolore comincia a farsi insostenibile, quando finalmente gli sforzi congiunti dei due uomini hanno ragione della donna, liberando le braccia dolenti di Jennifer che di riflesso arretra, lo sguardo ancora pieno di sorpresa  e paura ora non più dissimulabile, e si affretta ad uscire dalla stanza.

L'ultimo sguardo che lancia all'interno, le mostra una Rose in preda ad una specie di attacco epilettico che si rotola sul pavimento, con la bocca coperta di bava giallastra, mentre Dooley e il suo collega cercano disperatamente di tenerla ferma.

"Presto! Tirale fuori la lingua, prima che l'ingoi!"

Le grida del poliziotto la raggiungono soffocate dalla pesante porta che si richiude dietro di lei, mentre Carruthers sorreggendola quasi di peso la porta via, senza che Jennifer neanche se ne renda conto.

 

 

(22) Xena e Olimpia

 

Con estrema cautela, Olimpia apre la porta ed introduce la testa all'interno di una stanza non molto più grande della loro. La scarsa luce proveniente dalla finestra nell'angolo investe parzialmente una coperta, evidentemente distesa su di un corpo. Il silenzio assoluto è appena rotto da un respiro roco e affaticato, ma abbastanza regolare. Lentamente la ragazza spinge ancora un po' la porta ed entra, seguita dalla compagna. Sul letto, anch'esso all'apparenza non molto migliore di quello che hanno diviso lei e Xena (ma loro due erano troppo occupate per valutarne obiettivamente qualità e difetti), giace il vecchio Aristis. Così abbandonato, con quegli occhi spaventosamente serrati e la bocca semi aperta, sembra ancora più vecchio e fragile di quanto fosse apparso la sera prima, almeno finché non aveva quasi polverizzato le loro menti. L'uomo addormentato è solo nella stanza. La sedia accanto al letto, sulla quale giace un'altra coperta ripiegata e dove presumibilmente ha trascorso la notte Alexi, è vuota. Le due donne si avvicinano il più silenziosamente possibile al vecchio disteso e Xena gli posa leggermente due dita sul polso.

"Come sta?" sussurra Olimpia.

"Il polso è un po' accellerato, ma nella norma direi." risponde la guerriera. "Credo che stia recuperando."

Olimpia che era rimasta due passi dietro a Xena si affianca alla compagna guardando l'uomo sul letto.

"Sembra così indifeso." dice.

"Ieri sera non mi ha dato questa sensazione."

"Lo so. E' questo che intendevo. E' come se lo sforzo mentale che ha fatto lo avesse svuotato."

Xena volta la testa lievemente verso di lei, guardandola in tralice.

"Non lasciarti commuovere, Olimpia. Ne sappiamo ancora troppo poco di questa storia per poterci schierare da una parte o dall'altra. In realtà non sappiamo neanche quali siano le parti."

"Chiamalo istinto, se vuoi, ma io sono convinta che Alexi e suo padre siano brave persone."

"Anche se a momenti ci friggevano il cervello?"

"Andiamo, Xena. E' stato solo Aristis e si tratta chiaramente di un uomo molto vecchio e provato. E probabilmente non più in grado di pensare lucidamente."

"Parla per te, giovane insolente."

La voce bassa e arrochita, ma sorprendentemente chiara risuona all'improvviso nella stanza, richiamando istantaneamente gli sguardi delle due donne sull'uomo disteso sul letto. Il vecchio non pare aver mosso un muscolo e sembra ancora profondamente addormentato, ma quando Xena e Olimpia stanno cominciando a chiedersi se la voce che hanno udito, l'abbiano sentita solo nelle loro menti, le labbra rinsecchite del vecchio si muovono. Lievemente, ma si muovono.

"Uscite dalla mia stanza. Tutte e due. Mio figlio sta tornando. Mandatelo da me. Devo parlargli da solo."

"Non credi che sia ora di finirla con tutti questi misteri, Aristis?" chiede Xena, incrociando le braccia sul petto e fissando le palpebre ricucite del vecchio come se guardasse nei suoi occhi, e con la netta impressione che sia proprio così.

"Saprai quello che devi sapere quando lo deciderò io, guerriera, e non un momento prima."

Xena e il vecchio continuano a squadrarsi, questa è la sensazione di Olimpia, arretrata di nuovo di un paio di passi dietro alla compagna, dopo il secco rimprovero incassato da Aristis, anche se l'uomo è rimasto assolutamente immobile, con la testa abbandonata sul cuscino e i suoi occhi non esistano, almeno fisicamente, da anni.

"Ora fa' come ti ho detto, donna." continua quella voce inquietante, che sembra provenire dalla sua bocca e contemporaneamente da ogni angolo della stanza. "A meno che tu non voglia assaggiare nuovamente il mio potere."  

"Sai, Aristis, comincio ad averne abbastanza di te e della tua prosopopea." ribatte Xena. "Ieri sera mi hai dato una bella scossa, te lo concedo, ma guarda come ti ha ridotto. Per poco non ti ha ucciso. Ho l'impressione che il tuo potere sia qualcosa che fai sempre più fatica a gestire. Sbaglio?"

L'uomo non risponde e Xena prosegue, incurante di Olimpia che sta cercando di tirarla per un braccio.

"No, eh? L'immaginavo. E, correggimi ancora, ma ho anche la sensazione che se tu provassi adesso a rifare qualcosa del genere, questa volta potresti restarci davvero. E' così?"

"Xena..."

"Piantala, Olimpia." E Xena si scrolla con uno strattone dalla compagna, gettandole uno di quegli sguardi che Olimpia ha imparato a riconoscere bene negli anni e torna a rivolgersi al suo improvvisamente silenzioso interlocutore. "Allora? Dimmi, Aristis, sono giuste queste mie impressioni?"

"Vuoi mettermi alla prova, guerriera?"

Adesso la voce del vecchio ha assunto un tono gelido e minaccioso e l'aria della stanza, che ad Olimpia sembra ancora più piccola di quanto sia in realtà, si sta caricando di una tensione palpabile. Ed è con enorme sollievo che sente un passo alle sue spalle e la voce tranquilla di Alexi che spezza istantaneamente l'atmosfera tesa intorno a loro.

"Padre. Ti sei svegliato, grazie agli Dèi."

"Alexi." Il tono del vecchio non ha perso in gelo e minaccia, mentre si rivolge a suo figlio. "Porta fuori di qui queste donne, e poi torna. Devo parlarti."

"Un momento..."

"Xena! Vieni via!"

Afferrandola saldamente per il polso, questa volta, Olimpia trascina fuori la compagna, che la segue riluttante con un ultimo sguardo di sfida ad Aristis.

 

"Ma che ti prende?"

"A me?! Sei stata tu a tirarmi via, prima che potessi fargli sputare cosa sta succedendo!"

"Voglio dire, cos'era quell'atteggiamento? Mi aspettavo che da un momento all'altro vi metteste testa contro testa come due ragazzini che vogliono fare a botte."

Senza rispondere, Xena si siede sbuffando sulla panca, dove ora al centro fa mostra di sè un grande paniere pieno di bacche rosse. E Olimpia fissa Alexi che le ha seguite sul portico.

"E' opera tua anche questo?"

"Non credo." risponde con un sorriso timido, il giovane. "L'effetto residuo del mio potere si è esaurito questa notte, direi. Ampiamente."

Tra le due donne scorre uno sguardo imbarazzato, mentre Alexi abbassa gli occhi, e si schiarisce la gola rumorosamente.

"Per la verità, credo che si tratti di mio padre. A volte con i suoi modi, dà sui nervi anche a me. Ora se volete scusarmi."

E il giovane rientra nella casa senza voltarsi.

Olimpia si siede all'altra estremità della panca, pure lei in silenzio, passando distrattamente le dita nelle bacche del paniere tra loro.

"Scusami." dice dopo una lunga pausa. "Non avrei dovuto."

"No, avevi ragione." risponde Xena. " Non è da me perdere la calma in quel modo. Non so esattamente quali siano i poteri di quell'uomo, ma tra quelli c'è sicuramente quello di farmi infuriare."

"A me invece dà i brividi, Xena. E nel vederti sfidarlo, non ho potuto fare a meno di pensare a quello che avrebbe potuto farti se ti avesse colpita di nuovo come ieri sera... Io non riesco a sopportare l'idea che possa succederti qualcosa. Oh, accidenti!" esclama asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. "Ma che mi succede? Non faccio che piangere ultimamente. Forse sono io quella incinta." conclude con un mezzo sorriso, lanciandole uno sguardo di sottecchi.

"Ehi, piccola." Xena si alza dal suo posto e sposta il paniere per sedersi accanto a lei, e Olimpia le appoggia la testa contro la spalla, crogiolandosi nel suo abbraccio protettivo. "Per quello che può valere con la vita che facciamo, ti prometto che farò tutto il possibile perché non mi accada niente e possa sempre tornare da te."

"Ti prendo in parola." dice Olimpia, tirando su con il naso. "E te lo ricorderò tutte le volte che vorrai fare qualcosa di stupidamente coraggioso. Ci puoi contare."

"Ci conto, infatti. Conto su di te perché tu possa sempre rammentarmi con la tua presenza quanto io sia fortunata ad averti accanto, e quanto sia idiota metterlo a rischio per un puntiglio."

Con un sorriso, un po' più deciso, Olimpia che ha continuato a rigirarsi tra le dita due o tre delle bacche rosse del paniere, se ne porta una alla bocca e le dà un morso.

"Oh, Dèi dell'Olimpo!" esclama piano quasi tra sè, chiudendo gli occhi, al contatto del dolcissimo succo che ne fuoriesce scorrendole sulla lingua.

"Che c'è?" chiede subito Xena, fissandola allarmata.

"Oddèi, Xena. Assaggia un po' questa."

E prima che la compagna possa dire altro le infila in bocca una delle bacche. La guerriera la mastica lentamente.

"Mmh, niente male." dice poi, ingoiandola.

"Niente male?!" Olimpia la guarda quasi scandalizzata. "Niente male?!? E' tutto qui quello che riesci a dire? Xena, è la cosa più sublime che abbia mai assaggiato in tutta la mia vita! Così dolce, così succosa, così... dolce!"

"Lo hai già detto. Sì, è buona, Olimpia, ma non ti sembra di esagerare? E poi per me, è forse un po' troppo dolce. Lo sai che preferisco una giusta miscela di dolce e amaro." dice Xena, con uno sguardo malizioso.

"Già. Dovrei saperlo, eh?" risponde la ragazza, con un sorriso ugualmente malizioso. "Oh, beh, peggio per te. Vorrà dire che le mangerò tutte io, quelle che Alexi riuscirà a procurarmi."

"Se vedrà quanto ti piacciono, te ne porterà a cataste, tante che non saprai più dove metterle."

"Lo spero." dice Olimpia, ingoiando un'altra bacca e socchiudendo di nuovo gli occhi in un'espressione estatica. "Potrei perfino lasciarmi sedurre per abbastanza di queste."

Xena spalanca gli occhi a quelle parole, poi con uno sguardo maligno tende le dita verso Olimpia.

"Davvero? Beh, non te la caverai così, o Poetessa Combattente. Tu dimentichi che io posseggo l'arma definitiva per indurti ad abbandonare i tuoi propositi libertini."

"Ah si? E cosa sarebbe, o Principessa Guerriera?" chiede Olimpia riaprendo gli occhi e solo allora vedendo la posizione delle mani della compagna. "Oh no. Non oserai."

"Vuoi scommettere?"

E le dita di Xena scattano spietate colpendola ai fianchi, sotto le ascelle, sotto il collo, provocando risatine isteriche e squittii incontrollati.

"Xena!! Smettila!!! Lo sai che non sopporto il solletico!"

"Troppo tardi, Olimpia. Non mi fermerò stavolta, non finché ti avrò ridotta ad un informe ammasso ridacchiante."

E le due donne proseguono nella loro lotta, tra risa e gridolini, senza neanche accorgersi del paniere che rovesciato con un calcio giace ora al suolo col suo dolce contenuto che rotola in ogni angolo.

 

"Eccomi, padre."

Con passo esitante, Alexi si avvicina al letto sul quale giace immobile il vecchio. I suoi occhi scrutano con apprensione il volto pallido e stanco su cui le rughe sembrano essersi approfondite nelle ultime ore. E il suo cuore si stringe a quella vista.

Nel sentire la sua voce, la mano di Aristis si solleva dal petto e si tende verso di lui. E' il primo movimento fatto da quando ha ripreso conoscenza, e anche la mano del giovane in risposta si tende a stringere delicatamente quelle dita rinsecchite.

"Alexi, figlio, che notizie mi porti?" La mano resta immobile per un momento nella sua, poi lentamente, quasi con rassegnazione, si stacca e torna a posarsi sul petto. "Hai trovato altre tracce, vero? Più vicine."

Alexi si siede sulla sedia accanto al letto con un sospiro.

"E' così, padre. Devono essere di questa notte. Sono ancora molto fresche. Questa volta si è spinto fin quasi all'ultima fila di alberi."

"Sta diventando più forte." dice Aristis con un filo di voce. Ora quella forza e quella decisione sfoggiate davanti alle loro ospiti sembrano svanite e il vecchio che giace su quel letto non appare più tanto minaccioso. "Ed io più debole. E quel maledetto demonio lo sa. Lo ha sentito."

"Padre..."

"E' vero, Alexi, e anche noi due lo sappiamo bene. La guerriera aveva ragione. Ho lasciato che il mio stupido orgoglio l'avesse vinta sul buon senso ed ora non so più quanto potrò ancora tenerlo a distanza."

"Padre, non devi lasciarti abbattere. Già altre volte abbiamo avuto delle difficoltà, ma siamo sempre riusciti a superarle.Vedrai che quando avrai recuperato le tue energie..."

Ma il vecchio solleva la mano, arrestando all'istante ogni obiezione di Alexi.

"Inutile farci illusioni, figlio. Da quando Coloro Che Sanno ci hanno condotti in questo luogo, non vi è stato un giorno in cui quell'essere abominevole non abbia aumentato le sue forze. E fino ad oggi è occorsa ogni stilla del mio potere per tenerlo imprigionato nella foresta e impedirgli di uscirne, ma negli ultimi tempi temo che neanche questo possa più essere un grave impedimento per lui."

"Se intendi riferirti al fatto che è riuscito a mettersi in comunicazione con quegli uomini, non è te che devi rimproverare, ma solo l'infinita avidità degli esseri umani."

"Ma c'è di più." dice Aristis con tono ancora più cupo."Questa notte, Loro mi hanno mandato un sogno."

A queste parole, Alexi s'irrigidisce e si spinge fin sull'orlo della sedia, avvicinando il volto a quello del vecchio e abbassando la voce fino quasi ad un sussurro.

"Un sogno da oltre la Soglia? Padre, era molto tempo che non accadeva."

"Gli avvenimenti stanno precipitando, Alexi. Mi auguro che le due guerriere siano davvero quelle inviate da Coloro Che Sanno."

"Padre, questi dubbi non sono da te. Tu non hai mai messo in discussione i loro ordini."

La testa di Aristis si gira di scatto verso il figlio e Alexi, mordendosi la lingua per ciò che si è lasciato sfuggire, è sicuro che se in quelle orbite incavate e sigillate ci fossero ancora due occhi li vedrebbe fiammeggiare dall'ira.

"Come osi anche solo pensare che io metta in dubbio la loro volontà?" sibila il vecchio. "Sono le tue capacità di giudizio quelle che mi preoccupano. Tu le hai portate qui. E sei tu ad affermare che sono quelle indicate da Loro. I sogni parlavano di un guerriero."

"Padre, non può essere altrimenti." protesta Alexi. "I sogni a volte sono da interpretare, tu stesso me lo hai detto tante volte. Sono due donne, è vero, ma sono guerriere e legate da un vincolo spirituale e di sangue più forte della morte stessa, come una sola anima. Ed entrambe hanno viaggiato oltre la Soglia e non ne hanno memoria. Non possono essere che loro."

Nella foga del suo discorso, Alexi si alza e percorre su e giù la piccola stanza.

"Ma la più giovane ricorda qualcosa, e questo potrebbe essere un ostacolo." dice Aristis.

"Solo sogni, vaghi sogni, padre." Alexi si ferma e torna ad avvicinarsi al letto. "E poi tu non hai visto la fermezza e la determinazione nei loro occhi che ne fanno lo strumento sicuro ed affidabile di Coloro Che Sanno."

In quel momento, strilli acuti e risate risuonano dall'esterno.

"Xena! No!! Ti prego! Pietà! Fermati!!"

"Niente mi fermerà, Olimpia." Pausa. "Quasi niente."

Alexi volta la faccia verso la finestra da cui adesso non proviene più alcun rumore udibile. Poi, torna a guardare suo padre, lieto che non possa vedere il violento rossore che gli ha invaso il volto.

"Credimi, padre, sono loro." dice schiarendosi la voce.

"Lo spero. Lo spero davvero. Ne va di molte vite innocenti." risponde Aristis dopo un lungo silenzio. "E forse dell'esistenza stessa di due mondi."





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