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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI BASATO SUI PERSONAGGI DELLA SERIE TV "XENA PRINCIPESSA
GUERRIERA" CREATA DA JOHN SCHULIAN E ROBERT TAPERT E SVILUPPATA DA R.J.STEWART E SULLA SERIE INTERNET "XENA
WARRIOR PRINCESS SUBTEXT VIRTUAL SEASON" DI MELISSA GOOD, SUSANNE BECK E
TNOVAN
Nonostante
sia pubblicato circa quattro anni dopo IDENTITA' SEPOLTA, questo NE' DEMONI O DEI si svolge in un periodo
di tempo successivo cronologicamente di solo pochi mesi agli avvenimenti
del romanzo precedente (anche se come scoprirete nel corso della storia,
il concetto della linearità del tempo subirà alcuni rudi scossoni)
e ritrova i personaggi pressappoco nel momento in cui li avevamo lasciati,
ancora alle prese con i postumi drammatici di quella vicenda. Dei
due capitoletti iniziali, quello intitolato "Prima..." è
collocabile precedentemente al primo romanzo e ne costituisce in pratica
l'elemento di avvio, mentre l'altro intitolato "Poi..."
riprende Xena e Olimpia poco tempo dopo che si sono reincontrate al
termine di quella storia. La
scena del matrimonio amazzone, per concludere, è tratta da "Not
Even Death", diciassettesimo episodio della settima stagione
della "Xena Warrior Princess Subtext Virtual Seasons", più
semplicemente nota tra i fans come SVS, l'ideale seguito su internet
della serie televisiva, scritto da Melissa Good. SECONDA
PARTE: LA TANA DELLA BESTIA
(20) Xena e Olimpia
Con le gambe ancora
un po' traballanti, Xena esce sulla porta della casa, stringendo gli
occhi alla luce di un giorno non ancora completamente fatto, ma certamente
già lontano dall'alba. Con un bel respiro, la guerriera che in questo
momento non si sarebbe sentita in grado neanche di affrontare un micino,
si trascina fino ad una panca in legno sul portico, abbattendovisi
sopra. Si è alzata, più per l'abitudine di svegliarsi prima della
compagna che per la reale voglia di farlo, con molta cautela temendo
di destare Olimpia, timore rivelatosi poi totalmente ingiustificato
visto che la ragazza era ancora in un sonno talmente profondo da non
aver nemmeno emesso il minimo brontolio di protesta quando lei le
era abilmente scivolata via di sotto. Un'abitudine a lungo coltivata
che le permetteva di svolgere il suo addestramento mattutino, farsi
un rapido bagno nell'acqua fredda e ristoratrice di fiumi e laghi
presso cui avevano cura spesso di fermarsi per la notte, e tornare
in tempo per la colazione. Qualche volta poi, tornava anche prima,
quando Olimpia dormiva ancora, e si fermava a guardarla. Questo accadeva
raramente, anzi, che rammentasse, non si verificava più da molti anni,
e difatti di lei in quelle occasioni, aveva il ricordo di un viso
addormentato ancora giovanissimo, i lunghi capelli morbidi che le
ricadevano sul viso, il lieve respiro che le faceva alzare ed abbassare
ritmicamente la schiena. Olimpia si adagiava
sempre su un fianco con la guancia appoggiata su un braccio a farle
da cuscino, nel periodo in cui dormivano ancora in giacigli separati.
Quando ancora quasi non osava neanche sfiorarla. In quelle notti trascorse
spalla a spalla, ingoiando il desiderio di stringerla tra le braccia
per timore delle sue reazioni, di rovinare la loro amicizia, ignorando
stupidamente che dall'altra parte, lei combatteva una battaglia speculare
alla sua. Ed ora le sembrava impossibile che ci fosse potuto essere un periodo del genere, perché lei l'aveva amata dal primo momento in cui l'aveva vista, con quel suo sguardo fiero e rabbioso, con tutto il coraggio che emanava da quel corpo ancora acerbo, mentre si ribellava al capo di quei predoni che avevano catturato lei e tutti gli altri contadini. L'aveva amata subito, adesso lo sapeva, molto prima di scoprire che le loro anime e i loro destini erano legati da un vincolo più forte della vita e della morte. Anche se continuava a dubitare che la questione delle anime gemelle e del destino che le legava riguardasse davvero il loro amore. Il suo cuore le diceva che incontrando Olimpia, si sarebbe innamorata di lei comunque, indipendentemente da vincoli spirituali o d'altro genere. Il legame che condividevano aveva forse solo elevato al massimo livello un sentimento che sarebbe nato ugualmente. Ma allora simili idèe sarebbero state inconcepibili per lei. E pensare che solo pochi
momenti prima, ed era stato questo più di ogni altro pensiero a provocarle
il pianto durante il racconto di Alexi, quando non aveva potuto fare
a meno di vedere le somiglianze della sua storia con quella di Aristis,
era intenta a seppellire le sue armi, perché nessuno potesse ritrovarle,
se avessero invece ritrovato il suo corpo in fondo a quella scarpata,
poco fuori Potidea. E invece, improvvisamente, quella vita che non
aveva più un senso né uno scopo, aveva scorto un inaspettato raggio
di sole nello sguardo di una ragazzina dai capelli biondi di cui non
conosceva neanche il nome. Naturalmente tutto questo, in quel momento
non poteva saperlo. Aveva solo visto delle persone indifese ed in
pericolo e il suo istinto aveva preso il sopravvento, rendendola incurante
del fatto di essere disarmata e ricoperta solo di una leggera veste
di fronte ad una mezza dozzina di predoni, feroci ed armati invece
fino ai denti. A volte le veniva da
pensare quanto tutto fosse cambiato in lei, in quanto, un anno? forse
meno. Prima del suo incontro con Hercules, vedere, desiderare e prendere
erano tre atti per lei automatici e consequenziali. Si era spesso
chiesta, con un inevitabile brivido, cosa sarebbe accaduto se la strada
di Olimpia e la sua si fossero incrociate tempo prima. Forse sarebbe
stata al posto dell'uomo che l'aveva catturata, forse avrebbe ugualmente
provato desiderio per lei, ma l'avrebbe sfogato subito, selvaggiamente,
lasciandola poi come una bambola rotta dietro di sé, senza voltarsi,
ignorando il dono che la vita le aveva destinato e distruggendolo,
come un bambino viziato, mai sazio di nulla. Ma ringraziando gli dèi,
o forse il dio senza volto, predicato da Belur, le cose non erano
andate così. Le loro vite si erano unite e avevano attraversato ogni
avversità e la morte stessa, sempre ritrovandosi anche nelle circostanze
più impossibili. E quando lei nella confusione della sua mente aveva
pensato di dover rinunciare a tutto questo, di non esserne degna e
di dover essere punita per averlo avuto, Olimpia non si era arresa
e l'aveva scossa costringendola a ripensare alla sua decisione. Qualche
volta le era capitato anche di chiedersi se non fosse stata proprio
lei, mettendo in opera un elaboratissimo piano psicologico a metterla
nelle condizioni di dover tornare. Non ne sarebbe stata sorpresa.
Il loro matrimonio in
realtà si era celebrato molto tempo prima che la cerimonia amazzone
l'ufficializzasse e sicuramente era stato consumato fino in fondo.
Non che non avesse avuto, come tutti i sodalizi, i suoi alti e bassi,
per usare un eufemismo, ma entrambe erano comunque sempre riuscite
a mantenersi fedeli l'una all'altra e a conservare sotto controllo
i loro impulsi. Anche se con un'unica grave eccezione da parte sua,
durante quell'avventura in Egitto in cui si era trovata a dover impersonare
la defunta Cleopatra ed aveva quasi ceduto al fascino di Marco Antonio,
un uomo malvagio che pareva la sintesi di tutti quelli che aveva conosciuto,
ma che alla fine aveva trovato la forza di uccidere, cancellando con
lui quasi simbolicamente anche tutti coloro che l'avevano preceduto.
Ma Olimpia aveva saputo accettarla completamente, nel bene e nel male,
esplorando in lei le vette di forza e gli imprevedibili abissi di
debolezza che vi si spalancavano improvvisamente. Parlando di cambiamenti,
il suo era stato nulla in confronto a quello di Olimpia, da entusiasta
ragazzina inesperta a donna consapevole e sicura di sé, da volonterosa
allieva a guerriera abile e coraggiosa, da timida compagna di letto
in quella locanda, in quella notte dei Baccanali quando avevano consumato
la loro prima
volta, alla vorace amante che solo poche ore
prima l'aveva presa con una forza ed un desiderio tali da farla urlare
di piacere e poi lasciarla spossata, ma di una stanchezza placida
e felice che ancora la riempiva tutta. Le era piaciuto soprattutto
il modo in cui Olimpia aveva preso il gioco nelle sue mani, senza
chiedere, senza esitare. La ragazza sapeva che a lei di tanto in tanto
non dispiaceva affatto farsi preda, anziché predatore, un'alternativa
che teneva ben riposta, sfruttandola solo quando ne avvertiva prepotentemente
l'esigenza. Probabilmente un retaggio di tempi in cui permetteva ai
suoi amanti di possederla con violenza in un gioco intrigante e sottilmente
perverso in cui lei finalmente poteva interpretare quel ruolo femminile
che la vita che si era scelta non le consentiva. Aristarco in testa,
ma passando prima e dopo di lui attraverso innumerevoli altri, spesso
compagni di una sola notte, come l'enorme schiavo nubiano muto di
cui non non aveva mai saputo il nome, catturato su una nave di mercanti,
che aveva fatto impiccare al pennone della sua nave il mattino dopo,
per aver cercato di ucciderla e fuggire; o più a lungo termine, come
quel nobile romano che un giorno avrebbe cercato di proclamarsi imperatore,
con cui aveva pensato addirittura di dividere il proprio destino e
che l'aveva invece tradita, e il cui nome, Giulio Cesare, ormai le
ispirava solo indifferenza. Ma pur evidentemente
apprezzando molto questa variante nel
loro rapporto, Olimpia sapeva aspettare sempre che fosse lei a proporgliela,
come gustando l'attesa di un pietanza particolarmente prelibata. Fino
a quella notte, in cui aveva smesso di attendere e si era servita
da sola, in abbondanza. E Xena non l'aveva fermata, no di certo, e
si era lasciata trascinare via senza controllo dalla corrente di quel
fiume in piena, provando come non le accadeva quasi mai, se le era
mai veramente accaduto, l'ebrezza indescrivibile di sentirsi per una
volta l'oggetto del piacere e non il suo motore. Non sapeva se quel
selvaggio desiderio che le aveva travolte, fosse o no un effetto collaterale
del potere esercitato da Alexi, ma se era così, sperava con tutta
se stessa che non si esaurisse tanto presto. E questo la riporta
con la mente agli avvenimenti convulsi del giorno prima. Il fatto
che quella giornata avesse poi trovato un finale tanto perfetto, non
doveva farle dimenticare tutte le cose accadute in uno spazio di tempo
così limitato da farle sembrare quasi un sogno assurdo. La comparsa
improvvisa di quella donna che invocava la sua bambina e la sua altrettanto
improvvisa morte; lo strano atteggiamento degli abitanti del paese
che sembravano intenzionati a nascondere ciò che stava succedendo;
la loro fuga nella foresta e l'incontro, se vogliamo definirlo così,
con questa strana famiglia; e soprattutto quei rumori tra gli alberi.
Nelle ultime ore non
aveva avuto molto tempo per ripensare alle sensazioni provate, mentre
se ne stava accovacciata dietro i cespugli ad aspettare chi o cosa
stesse avanzando tra la vegetazione, ma soffermandocisi adesso non
poteva impedire ad un piccolo brivido di correrle lungo la schiena.
Alexi l'aveva chiamato lui,
come se fosse un uomo, un essere umano, ma qualcosa in profondità,
nel modo in cui aveva pronunciato quella parola, le aveva comunicato
ben altro. Come se in realtà non esistesse un modo per chiamarlo e
avesse dovuto ricorrere a quell'innocuo pronome per definire l'indefinibile. Con un sospiro, Xena
si appoggia alla parete alle sue spalle, fissando il prato davanti
a sé su cui i raggi di sole si stanno facendo più decisi. "In che razza di
storia ci siamo infilate, questa volta?" mormora.
Il volto della donna
è davanti a lei, ma nel buio sembra quasi che la testa fluttui nell'aria,
priva di un corpo a sostenerla. Oh, no! No! Vi prego! Le parole le esplodono
dalle labbra, mentre ricordi e sensazioni confuse si ammassano gli
uni sulle altre. Non ancora! Non di nuovo!
Non lo sopporterei! Questa volta non sopravviverei! Una testa poggiata sulla
base del collo reciso, palpebre chiuse dalla morte su occhi il cui
colore non potrà più contendere il primato a quello del cielo. No! No!! Lei è viva!
E' tornata! Tutto questo non è vero! Non più! Ma d'improvviso la testa
apre gli occhi e il colore non è quello che ricordava. Gli occhi sono
castani e d'un tratto anche i lineamenti del volto e il colore dei
capelli sono diversi. E la testa comincia a parlare. Ma quelle parole, quei
suoni non hanno significato... O lo hanno? Lei è lì, ferma, immobile
nel buio, ad ascoltare parole in una lingua sconosciuta e il suono
di una voce che dentro di lei, in qualche recondito angolo oscuro
della sua mente, sa di avere già sentito... Con un sobbalzo, Olimpia
si sveglia. In principio, non si rende conto di cosa l'abbia svegliata,
poi la mano tasta accanto a lei. Xena non c'è e una nuova inesprimibile
angoscia le afferra la gola. I terrori risvegliati dal sogno sembrano
d'un tratto reali. Ma solo per un attimo. Poi la porta semi aperta
e il raggio di sole che ne filtra riportano la realtà alle sue giuste
dimensioni. E i ricordi della notte trascorsa riaffiorano, annullando
all'istante ogni paura e recando con sé un senso di pace, unito ad
uno strano bruciore sulla schiena. Tirandosi su perplessa, Olimpia
se la tasta con attenzione.
La profonda riflessione
di Xena è interrotta dal rumore di passi sulla soglia e un attimo
dopo il suo volto si distende in un sorriso. "Ehi." "Ehi, tutto a posto?" "Più o meno."
risponde la guerriera con uno sguardo malizioso. "Mi hai distrutta,
stanotte." "Mmh, allora è
vero che stai invecchiando." dice Olimpia, sedendosi sulla panca
accanto a lei. "Io invece non mi sono mai sentita meglio." "Sì?" chiede
Xena guardandola perplessa. "Perché hai il mantello allora? Non
mi pare faccia tanto freddo." Senza una parola, Olimpia
abbassa il tessuto denudandosi parzialmente una spalla, dove spiccano
chiaramente visibili cinque sottili linee rosse parallele. "Non ho ancora
controllato, ma dal bruciore direi che dovrei averne altrettante anche
dall'altra parte." dice poi con una lieve nota di rimprovero
scherzoso nella voce. Xena sfiora la pelle
graffiata della compagna con le dita. "Mi dispiace, scusami.
Dovrei avere ancora dell'unguento. Ti lenirà il fastidio." "Non preoccuparti.
Non è niente. Certo che quel potere è straordinario, eh?" dice
Olimpia ricoprendosi la schiena. "Assolutamente.
Credi che ci abbiano sentite?" "Credo che non
sentire te fosse difficile. Urlavi come una gatta in calore." "Non è vero!"
protesta Xena colpendola con una gomitata, poi vede la smorfia sul
viso di Olimpia. "Scusami. Non è vero." aggiunge a voce
più bassa. "Eccome, se lo
è." risponde Olimpia sempre sorridendo. "E comunque, è
colpa tua." "Cosa?!" "Eri scatenata!
Mi hai praticamente... " a voce ancora più bassa " ... violentata.
Non mi sorprenderebbe..." Poi Xena s'interrompe guardandola di
sottecchi con un'ombra d'imbarazzo. Olimpia la fissa, aspettando
che finisca la frase. "... se mi avessi
messa incinta." conclude con un'espressione indecifrabile. La compagna resta per
un momento in silenzio, poi il suo sguardo sbalordito si scioglie
in una risata. "Ma smettila! Stai scherzando!" Quindi china
la testa per guardarla meglio. "Stai scherzando?" "Chi lo sa?"
risponde Xena, fissandola con un sorriso sbarazzino negli occhi. "Con
noi due non si può mai dire." Questa volta è Olimpia
a colpirla con una gomitata ed il gesto improvviso le procura un'altra
lieve fitta bruciante alla spalla arrossata, provocandole di riflesso
una risatina nervosa che si comunica rapidamente alla compagna, finché
le due donne non si ritrovano a ridacchiare incontrollabilmente dandosi
di gomito l'un l'altra. Poi entrambe con un sospiro si appoggiano
alla parete con una strana, esilarante sensazione di pace interiore. "Oh sì." dice
Olimpia. "Davvero straordinario quel potere." "Puoi dirlo forte."
risponde Xena. Poi un lungo silenzio
si posa tra loro, mentre due menti inseguono ognuna i propri pensieri. "Xena." "Mmmh?" "Forse c'è una
cosa che dovrei dirti." L'improvviso tono serio
nella voce di Olimpia allarma Xena che subito la fissa preoccupata. "Qualcosa non va?
Che hai?" "No. Probabilmente
non è nulla." dice, cercando di tornare a sorridere la ragazza,
ma la cosa non le riesce molto bene. "E' che faccio dei sogni...
Sogni piuttosto strani..." "Incubi?" "Sì... no...non
proprio. Beh, anche se quello di stanotte ci somigliava parecchio.
Ma di solito, no. Continuo a vedere un viso... un viso di donna...
Una persona che non ho mai visto in vita mia... ne sono sicura...
e che pure... mi sembra di conoscere. Non so come spiegartelo." Olimpia incrocia le
braccia sul seno sbuffando, sentendosi incapace di mettere in parole
ciò che prova. "Magari è qualcuno
che hai visto, senza neanche notarlo, ma la tua mente invece l'ha
incamerato... per qualche ragione." azzarda Xena guardando fisso
davanti a sé. "Sì, forse è così.
Hai ragione..." Scuotendosi, Olimpia si alza in piedi. "Beh,
lasciamo andare. Abbiamo cose più importanti di cui occuparci." "D'accordo"
dice la guerriera facendo altrettanto. "Andiamo a vedere come
sta il vecchio... e che fine ha fatto Alexi." E le due donne si dirigono
verso la porta della casa. "Un viso di donna,
eh?" "Già." "Bella?" "Xenaaa!"
(21) Jennifer
"E' lei." Dooley indica oltre
la finestrella in vetro sulla porta della stanza degli interrogatori.
All'interno, attraverso il piccolo riquadro in cui Jennifer sbircia,
c'è una donna dall'età indefinibile, avvolta in un cappotto visibilmente
liso in più punti e con il colletto di pelliccia parzialmente strappato
e spelacchiato. La donna stringe le braccia attorno al petto come
abbracciando qualcosa di invisibile e le sue spalle sono scosse da
singhiozzi violenti, mentre le sue labbra formulano parole inudibili
attraverso la pesante porta insonorizzata. Il microfono collegato
all'altoparlante non era evidentemente ancora attivato, ma lo sarebbe
stato per quando il colloquio avesse avuto inizio. "Come si chiama?"
chiede Jennifer, voltandosi appena verso l'agente e continuando a
fissare la figura seduta al tavolo al centro della stanza. "Beh, qui tutti
la chiamano la vecchia Rose, ma non si sa molto di lei. Ogni tanto
la fermiamo per ubriachezza molesta, ma nel complesso è innocua." "Quando l'avete
arrestata le avrete preso le impronte, no?" La voce secca di
Carruthers risuona alle loro spalle. "Cosa dicono gli archivi?" "Niente di particolare.
Ha qualche precedente ma nulla di serio." A rispondere è stato
il sergente Price, il maggiore in grado al momento in servizio al
diciottesimo distretto. Price aveva collaborato per anni con Carruthers
e quando Dooley l'aveva chiamato raccontandogli cosa era successo,
lui non aveva esitato e aveva immediatamente contattato il capitano.
Sapeva che i suoi diretti superiori non avrebbero fatto salti di gioia,
ma tutti erano al corrente che Carruthers era più o meno ufficialmente
l'incaricato del caso dei bambini scomparsi e quindi riteneva di aver
fatto comunque la cosa giusta, allertandolo nel più breve tempo possibile,
soprattutto dopo quello che era accaduto quella stessa mattina. "Insomma, non vi
siete mai interessati troppo a lei, eh?" chiede Jennifer in tono
lievemente amaro. "Perché avremmo
dovuto? I suoi trascorsi non riguardavano questo stato. E da noi non
ha mai combinato guai grossi." "Ci bastava tenerla
in cella per qualche ora, in attesa che smaltisse la bornia"
interviene Dooley in soccorso del suo sergente "e poi la lasciavamo
tornare in quel vicolo che chiama casa. Non c'erano ragioni per trattenerla." "Non avete parlato
di ubriachezza molesta?" "Quello è solo
il termine giuridico. In realtà, la vecchia Rose si limitava a piangere
e a lamentarsi nel sonno. Solo che la cosa infastidiva la gente che
abita lì vicino, e così..." Jennifer sente come
una stilettata nel petto. Le parole del poliziotto e l'immagine che
ha davanti agli occhi, l'hanno riportata per un attimo ad un'altra
stanza, quella di un ospedale, e ad una figura pallida ed esile stesa
in un letto con gli occhi chiusi da cui scivolano lacrime silenziose,
mentre parole altrettanto silenziose escono dalle sue labbra. Xena, ti prego, torna
da me. La psicologa avverte
anche troppo bene la gola chiudersi e la vista offuscarsi e ricaccia
con rabbia indietro quelle sensazioni. Basta, Rowles! Riprenditi!
Non puoi continuare così! Con uno sforzo erculeo,
ingoia il nodo soffocante che le impediva di deglutire, e cercando
di dare un tono deciso alla sua voce, fissa lo sguardo sul riquadro
trasparente finché l'appannamento delle lacrime non scompare. "D'accordo. Io
entro. Datemi una mezz'ora." I tre uomini intorno
a lei si allontanano un po', lasciandole spazio e Jennifer afferra
la maniglia della porta e l'abbassa con uno scatto.
La donna seduta non
solleva neanche lo sguardo al suo ingresso. La testa china, gli occhi
fissi sul piano del tavolo, continua a mormorare senza posa la stessa
quasi indecifrabile litanìa. Jennifer si avvicina con cautela per
non spaventarla e siede sulla sedia di fronte. Solo ora la donna sembra
accorgersi della sua presenza. Solleva la testa e fissa lo sguardo
su di lei. Jennifer scorge immediatamente righe di lacrime sulle guance
ingrigite dalla sporcizia e dagli stenti. Ma gli occhi tra le palpebre
arrossate dal pianto, le appaiono ora vivi e consapevoli. "Il mio bambino...
Hanno ucciso il mio bambino." All'inizio, Jennifer
fatica ad afferrare le parole poco più che biascicate, che escono
dalle labbra livide e screpolate della donna, dietro a cui s'intravedono
i pochi superstiti di una dentatura che una volta, molto tempo prima,
poteva essere stata bella e forte. Poi, aiutata anche dall'espressione
disperata della poveretta, riesce ad intuirne il significato. Sempre
con molta cautela, la psicologa si china in avanti e tende una mano,
poggiandola delicatamente sulle dita ossute della donna dall'altra
parte del tavolo. "Chi..." riesce
appena ad articolare a sua volta, affascinata suo malgrado dagli abissi
d'orrore che può percepire nel fondo di quelle pupille dilatate. "Chi
ha ucciso il tuo bambino?" Per un attimo la donna
sembra quasi sorpresa dalla domanda, come se l'idea non l'avesse neanche
sfiorata fino a quel momento, poi il suo sguardo, pur continuando
a rimanere fisso in quello di lei, acquista un tono diverso come se
non vedesse più lei, ma qualche cosa oltre le sue spalle, e abbassando
ancora di più la voce si china a sua volta verso Jennifer. "Il Diavolo."
mormora. "Il Diavolo ha ucciso il mio bambino e l'ha divorato
per imprigionare la sua anima." Quelle parole dette
con un tono di certezza assoluta, mandano un brivido lungo la schiena
di Jennifer che non riesce a staccare, come ipnotizzata, gli occhi
da quelli della donna. "Il... Diavolo?"
chiede. "Io l'ho visto.
Era buio, e lui era tutto nero, ma la sua pelle scura era lucida e
le luci vi si riflettevano sopra. Lui ha nascosto il sacco con il
mio bambino sotto un albero, ma quando si è allontanato, io sono corsa
e l'ho liberato dalla terra..." Mentre parlava, la donna
aveva afferrato la mano di Jennifer e ora la stringeva tra quelle
dita scheletriche con una forza inimmaginabile in un corpo tanto esile.
Ma Jennifer quasi non se ne accorge. Tutta la sua attenzione è catturata
da quegli occhi che la fissano e che ora le paiono divenuti enormi,
mentre la stanza sembra contrarsi intorno a lei, facendola sentire
d'un tratto piccola e indifesa. (Nonna, che occhi grandi
hai!) (E' per guardarti meglio,
piccola mia.) Il suo stomaco pare
improvvisamente volerle risalire attraverso la gola e la bocca per
sederlesi in grembo e solo con un enorme sforzo di volontà, la psicologa
riesce a riprendere il controllo di se stessa e raccogliendo tutta
la sua capacità professionale, cerca di costruire un muro tra quelle
sensazioni alterate che le stanno invadendo la mente e la sua razionalità
di cui è sempre andata fiera. Calma Rowles! le
intima nel cervello una voce imperiosa, Calmati! E' solo un
attacco di panico. Controllati! Sei qui in veste professionale e cerca
di ricordartene e di comportarti compatibilmente! Pensa che figura
faresti davanti a quelli là fuori, se ti facessi prendere da una crisi
isterica. L'ultimo avvertimento,
quello relativo agli uomini (Carruthers compreso!) che la stavano
osservando dall'esterno, sembra avere una certa efficacia su di lei,
e Jennifer avverte il respiro che sentiva strozzarsi in gola, fluire
più liberamente nei suoi polmoni, e con atteggiamento più professionale
possibile torna a rivolgere la sua attenzione alla donna di fronte
a lei, testimone inconsapevole della battaglia mentale che si è appena
svolta. "Voi mi aiuterete,
vero?" le chiede improvvisamente questa, avvicinandosi ancora
di più a lei e investendole il viso con una zaffata d'alito densa
di denti marci e alcool di pessima qualità, rischiando di vanificare
ogni sforzo di Jennifer di trattenere dentro il fortunatamente scarso
pasto fatto la sera prima. "Cosa?" Jennifer
guarda confusa la sua interlocutrice, cercando di riannodare i fili
e ridare un minimo di coerenza al tutto. "Mi aiuterete a
mandare il mio bambino in Paradiso?" ripete lentamente la donna,
con la massima naturalezza, come se avesse chiesto che le portassero
un bicchiere d'acqua, allargando la bocca in un sorriso sdentato. (E che bocca grande
hai.) (E' per mangiarti meglio.)
Smettila! Smettila!!
SMETTILA!!! "Certo..."
sussurra quasi, Jennifer cercando disperatamente di frenare il tremito
che l'ha presa. "Certamente." dice con tono di voce più
alto, provando a distendere a sua volta il volto in un sorriso, ma
non ben certa di esserci riuscita in modo convincente. "Ma adesso,
lei dovrebbe raccontarmi esattamente cosa è successo. Come ha fatto
a trovare... il suo bambino? La donna, sempre con
gli occhi spalancati in chissà quale allucinante visione interiore,
si china ancora di più sul piccolo tavolo, provocando d'istinto in
Jennifer l'insopprimibile impulso di scostarsi per quanto possibile
senza farlo notare agli osservatori fuori dalla stanza e senza allarmare
l'altra, che adesso sta sbirciando intorno con diffidenza come se
temesse che qualcun'altro possa ascoltarla. "Stanotte non riuscivo
a dormire. Nonostante mi fossi fatta più di mezza bottiglia di buon
rhum. Non quella schifezza che vendono allo
spaccio in fondo alla strada, no..." aggiunge ridacchiando sinistramente. " No... quella
era roba buona... di marca. Ne ho tenuto da parte un po'. Non capita
spesso di riuscire a metterci le mani sopra." D'un tratto la donna
scruta negli occhi Jennifer e fa uno scatto all'indietro. "Ehi, non farti
strane idee! Non l'ho mica rubata, sai?!?" esclama a voce alta. "No... certo che
no. Non l'ho mai pensato." risponde di getto la psicologa. "Sì, invece..."
Ora la donna si è ritirata indietro sulla sua sedia, alleviando l'odore
d'alito maleodorante, con grande sollievo di Jennifer. "Sì che
l'hai pensato. Beh, ti sbagli di grosso. La vecchia Rose non è una
ladra. Me l'ha portato uno dei commessi di Sorrentino.
Loro sono bravi con la vecchia Rose e la vecchia Rose è brava con
loro... se capisci quello che voglio dire, eh, giovanotta?" E una risata più simile
ad un cachinno le erompe dalla gola, trasformandosi subito in un soffocante
accesso di tosse che piega l'esile figura in due. Preoccupata, Jennifer
fa per alzarsi ed andare ad aiutarla, non ben sicura di riuscirci,
ma con suo grande sollievo, l'improvvisa crisi si esaurisce quasi
subito, e come se niente fosse, Rose torna a fissare uno sguardo acquoso
in quello della psicologa, asciugandosi con il dorso della mano, il
filo di bava giallastra che le cola da un angolo della bocca. Jennifer, dopo il tentativo
poco convinto di alzarsi fatto un attimo prima, e a cui era stata
felice di poter rinunciare, era tornata ad essere letteralmente inchiodata
al suo posto, con le gambe attorcigliate come serpenti intorno a quelle
della sedia all'altezza delle caviglie, come se temesse di sentirsela
sfuggire di sotto, e le mani solo in apparenza tranquillamente conserte
davanti a sé. In realtà, le unghie erano talmente conficcate nei palmi,
da darle la quasi certezza che quando le avesse riaperte, vi avrebbe
scorto le inequivocabili tracce rosse a mezza luna causate dal sangue
emerso in superficie. In più di un momento, violenti attacchi di nausea
avevano minacciato di travolgerla e la vista di quel filo di saliva
gialloverdastro rimasto su un lato del labbro della barbona non le
era d'aiuto. Mantieni la calma, Rowles.
Non è niente. Solo una povera donna confusa dall'alcol e dalla miseria. Ma neanche la voce interiore
dal tono imperioso a cui aveva fatto spesso ricorso in quei mesi difficili,
quando il controllo davvero minacciava di scivolarle via dalle mani,
sembrava avere molto effetto in quella claustrofobica stanzetta, alla
distanza di un respiro, e di un respiro nauseabondo per di più, da
quel patetico esempio di un essere umano. Il suo stato nervoso era
in peggiori condizioni di quanto avesse immaginato e, francamente,
non vedeva l'ora che tutto questo finisse. Ma la sua forza di volontà,
o forse più semplicemente il terrore che muovendosi da quella posizione,
il panico potesse prendere il sopravvento su di lei, la tenevano saldata
alla sedia, mentre le sue braccia le sembravano talmente irrigidite
da darle l'impressione netta di non sentirle più, come se fossero
diventate parte del legno del tavolo. Ma tutta questa tempesta
di emozioni che le attraversava la mente e il corpo non aveva apparentemente
riscontro sull'espressione del suo viso che manteneva ferma e risoluta,
anche se a chi la conoscesse bene sarebbe potuta apparire un po' troppo
rigida per essere naturale, mentre stava cercando disperatamente di
ritrovare in sé almeno un briciolo di quella umana pietà che l'aveva
sempre accompagnata nel suo lavoro, ma senza riuscirci. Quella Jennifer
sembrava morta per sempre come se la corazza che si era costruita
intorno l'avesse soffocata. Le uniche sensazioni che la donna emaciata,
seduta di fronte a lei, le ispirava erano ribrezzo e nausea. E' finita. La
voce le giunge alla mente come una sentenza. Non potrai mai più fare
questo mestiere. Ma intanto, ignara di
tutto e troppo presa dal suo racconto, la vecchia Rose continua a
parlare. "Beh, comunque...
Allora mi alzo e faccio un giretto... tanto per conciliare il sonno,
no? Così mi dirigo verso i giardini pubblici in fondo alla strada.
E là, dietro i cespugli sento un fruscìo..." Per un attimo, Rose
s'immobilizza fissando la parete sopra la testa di Jennifer, come
cercando di esprimere un concetto particolamente ostico. "No... non proprio
un fruscìo... un rumore strano... come qualcuno che stesse scavando
la terra... Lì per lì, ho pensato che fosse un cane e stavo per allontanarmi...
Non mi piacciono i cani... Mi abbaiano sempre contro... E una volta
uno mi ha morso... Stava per staccarmi una mano...Guarda qua."
E tende il palmo della
mano ossuta dove è ancora chiaramente visibile una lunga cicatrice. "Quindici punti...
Mi aveva quasi staccato la carne quel botolo merdoso... e io non gli
avevo fatto nulla..." La sua voce stava ricominciando
ad assumere il solito tono lamentoso. Cercando di evitare di guardare
troppo a lungo la cicatrice malricucita che Rose le sta sventolando
sotto gli occhi, Jennifer fissa lo sguardo sulla faccia della sua
interlocutrice. "Per favore, Rose,
torniamo al punto." dice con il tono di voce più fermo che le
sia possibile, ed evidentemente l'effetto che ne ricava deve essere
migliore di quanto pensasse, perché un po' intimidita la donna ritira
indietro la mano e riprende il racconto. "Sì, insomma...
avevo paura e stavo per andarmene, quando da dietro il cespuglio esce
lui!" "Lui?" "Lui!
Il Diavolo... Lucifero... Chiamalo come ti pare... ma io l'ho riconosciuto
subito. Era lungo e nero... con la pelle lucida e due grandi corna
sulla testa... Io mi sono nascosta... perché si sa... se il Diavolo
si accorge che l'hai visto ti prende e ti porta con lui all'inferno.
Ma lui non si è accorto di nulla. Si è guardato intorno e se ne è
andato, scomparendo tra le siepi..." "E lei cosa ha
fatto?" "Che dovevo fare?
Tremavo tutta. Sono rimasta ancora un po' nascosta... poi quando sono
stata sicura che se ne era proprio andato, sono corsa a vedere cosa
aveva sotterrato..." Rose s'interrompeva
quasi ad ogni frase, forse per una sua difficoltà a coordinare logicamente
i ricordi, o forse come lei sospettava in realtà, perché stava cercando
di fare quelle che si chiamano pause teatrali,
ma comunque fosse, quelle lunghe attese tra una frase e l'altra rischiavano
di peggiorare il suo stato e le rendevano sempre più difficile mantenere
il controllo sui suoi nervi, messi già a dura prova. E così Jennifer
stringe i denti, sperando che quell'interminabile tortura mentale
finisca al più presto. "Avevo paura...
quasi me la facevo sotto... ma io sono curiosa... E se il Diavolo
avesse sotterrato dell'oro o delle pietre preziose?" E qui, la
donna si produce in quella che nella sua fantasia doveva probabilmente
essere uno sguardo furbo, ma che in quegli occhi arrossati dava al
tutto un sapore di patetica follia. Mio Dio, questa donna
non è solo un'ubriacona alcolizzata. E' pazza, pensa Jennifer, vergognandosi
nel momento stesso in cui formula questo pensiero, indegno di un medico
specializzato nella cura della psiche. E nella sua mente risuona d'improvviso
la voce stentorea del professor Teague, il suo insegnante preferito
negli anni dell'università: "Non esistono i
pazzi" aveva detto ad un'aula piena in ogni ordine
di posti il primo giorno di lezione, "ma solo persone
psichicamente disturbate. Individui in cui la percezione della realtà
è stata in qualche modo alterata. E compito vostro sarà porvi rimedio
con le armi della psicologia medica". Mi perdoni, professore.
Jennifer proietta il proprio pensiero
verso il suo antico docente, morto aveva saputo un anno prima di un
improvviso malore. So di contravvenire ad ogni suo insegnamento,
ma i pazzi esistono, eccome. Ed una l'ho proprio qui davanti a me.
"Se così fosse
stato, avrebbe avuto il coraggio di prenderle?" chiede, tentando
di riportare tutta la sua concentrazione su quel momento, isolandosi
da pensieri e ricordi che potevano esserle solo d'ostacolo. Questo dialogo sta diventando
sempre più assurdo. Eccoti qua, Rowles,
la solita vocina le sussurra all'orecchio, a
parlare del Diavolo con una vecchia pazza alcolizzata. Niente male
come carriera, eh? Ignorandola, Jennifer
inchioda gli occhi in quelli della donna di fronte a lei. "Certo che le avrei
prese..." risponde Rose, continuando ad ammiccare furbescamente.
" La vecchia Rose è povera, ma non è stupida... Avrei fatto la
vita da gran dama, e il Diavolo non avrebbe mai saputo chi lo aveva
derub... alleggerito del suo oro e dei suoi diamanti... e del resto
lui ne ha talmente tanti... Ma non c'era oro... né gioielli... né
diamanti..." Lo sguardo della donna
si fa per un attimo distante, mentre tra le sue palpebre tornano a
baluginare le lacrime, poi torna a fissarsi in quello di Jennifer. "C'erano solo quelle
povere ossicine... Le ossicine del mio bambino..." "Perché crede che
siano le ossa del suo bambino, Rose?" "Perché è così!"
La donna fa uno scatto verso di lei, gettandole in faccia un'altra
zaffata maleodorante. Non ha sollevato d'un tono il volume della voce,
ma in qualche modo a Jennifer sembra che stia urlando. "Il Diavolo si
è portato via il mio bambino tanto, tanto tempo fa, e adesso..."
sussurra, riabbattendosi sulla sua sedia "...è venuto a seppellirlo
vicino a casa mia... per farmi soffrire..." "E perché crede
che fosse il Diavolo?" "E chi potrebbe
essere? E' lui! Il Signore della Menzogna. E' lui che venne a portarmi
via il mio bambino! Oh, allora non aveva le corna. Non poteva mostrarle.
Non di giorno, quando tutti potevano vederlo... Ma io sapevo che era
lui! E quando stanotte l'ho rivisto..." E non più trattenute,
le lacrime della donna cominciano a scorrerle copiosamente lungo le
guance. "...ho capito. Lui ha ucciso il mio bambino e l'ha seppellito
in terra sconsacrata perchè la sua anima non trovi mai la strada del
Paradiso. Ma voi lo impedirete, vero? Voi
mi aiuterete!!!" Non era più un'implorazione,
una richiesta quella. Rose si era tirata su dalla sedia, un po' traballante,
ma in maniera sorprendentemente energica per il suo stato, e l'aspetto
che stava mostrando di sé in quel momento non aveva nulla di patetico,
confermando in modo decisamente minaccioso le impressioni di Jennifer.
Come l'aveva definita prima quel poliziotto, di cui non ricordava
il nome? Ah sì, innocua nel complesso.
Nel suo insieme, insomma. Ma la parte che Jennifer stava vedendo ora,
non faceva parte dell'insieme, dell'immagine complessiva che la vecchia
lamentosa ma in fondo simpatica Rose dava di sé. Oh, no. Quel lato
di lei, forse solitamente sommerso nelle nebbie dell'ubriachezza,
non aveva niente di lamentoso, né di simpatico, né tanto meno di innocuo.
Quegli occhi, spalancati e dalle iridi nere come la notte più fonda
dicevano, Voi
mi aiuterete! TU mi aiuterai!! O io ti squarterò con le mie mani! Con le mani strette
sui bordi del tavolo fino a far sbiancare le nocche, Jennifer cerca
di sostenere lo sguardo folle della donna, senza darle il minimo indizio
(né a lei, né a quelli che le stavano osservando da fuori) di quanto
il suo unico desiderio in quel momento sia di alzarsi da quel tavolo
e scappare via da quella stanza urlando. "Certo... certo,
Rose." riesce a dire, mettendo insieme la migliore imitazione
di un sorriso rassicurante che sia in grado di produrre. "Faremo
tutto il possibile per aiutare te e il tuo bambino. Ma ora cerca di
descrivermi meglio l'u... il demonio che hai visto." La furia omicida che
per qualche attimo Jennifer aveva intravisto negli occhi della barbona,
pareva essersi dissolta, e Rose riabbatte l'esile corpo sulla sua
sedia con aria esausta. "Che c'è da descrivere?
Lui è il Diavolo, proprio come appare in quegli antichi dipinti. Alto,
secco e con grandi corna, con la pelle lucida e nera come la pece.
Non ho fatto in tempo a vedere altro, mi sono nascosta, ma in fondo
che altro c'era da vedere? E' il Diavolo, e tanto basta. Ora sono
stanca. Vi ho detto tutto ciò che ho visto. Adesso tocca a voi." Con la coda dell'occhio,
Jennifer scorge un movimento dietro il vetro della porta e lancia
uno sguardo ammonitore all'agente che negli ultimi minuti è stato
più di una volta sul punto di abbassare la maniglia e entrare. Quindi
torna a fissare Rose che adesso ha abbassato nuovamente il viso nella
stessa posizione che aveva quando lei è entrata. Ma questa volta la
sua bocca non si muove in qualche incomprensibile litanìa, e anche
gli occhi si sono chiusi come se la donna fosse caduta in un sonno
profondo. Perplessa la psicologa
allunga un braccio e fa per toccare la figura abbandonata sulla sedia
di fronte, quando questa come risvegliata da quel leggerissimo sfioramento,
ha un sussulto improvviso, sgrana gli occhi all'inverosimile e comincia
ad urlare. "IL MIO BAMBINO!
MALEDETTI! RIDATEMI IL MIO BAMBINO!!"
E afferra in una stretta
d'acciaio le braccia di Jennifer, serrandogliele contro il corpo.
La psicologa è così sorpresa dalla mossa improvvisa che resta immobile,
come pietrificata, mentre la porta alle sue spalle si spalanca e l'agente
Dooley ed un altro poliziotto si precipitano all'interno della stanza,
gettandosi sulla mendicante e afferrandole i polsi, cercando di staccare
le mani, le cui dita Jennifer sente come se le si stessero conficcando
nella carne attraverso il tessuto del soprabito. Ma Rose resiste in modo
incredibile e il dolore comincia a farsi insostenibile, quando finalmente
gli sforzi congiunti dei due uomini hanno ragione della donna, liberando
le braccia dolenti di Jennifer che di riflesso arretra, lo sguardo
ancora pieno di sorpresa e
paura ora non più dissimulabile, e si affretta ad uscire dalla stanza. L'ultimo sguardo che
lancia all'interno, le mostra una Rose in preda ad una specie di attacco
epilettico che si rotola sul pavimento, con la bocca coperta di bava
giallastra, mentre Dooley e il suo collega cercano disperatamente
di tenerla ferma. "Presto! Tirale
fuori la lingua, prima che l'ingoi!" Le grida del poliziotto
la raggiungono soffocate dalla pesante porta che si richiude dietro
di lei, mentre Carruthers sorreggendola quasi di peso la porta via,
senza che Jennifer neanche se ne renda conto.
(22) Xena e Olimpia
Con estrema cautela,
Olimpia apre la porta ed introduce la testa all'interno di una stanza
non molto più grande della loro. La scarsa luce proveniente dalla
finestra nell'angolo investe parzialmente una coperta, evidentemente
distesa su di un corpo. Il silenzio assoluto è appena rotto da un
respiro roco e affaticato, ma abbastanza regolare. Lentamente la ragazza
spinge ancora un po' la porta ed entra, seguita dalla compagna. Sul
letto, anch'esso all'apparenza non molto migliore di quello che hanno
diviso lei e Xena (ma loro due erano troppo occupate per valutarne
obiettivamente qualità e difetti), giace il vecchio Aristis. Così
abbandonato, con quegli occhi spaventosamente serrati e la bocca semi
aperta, sembra ancora più vecchio e fragile di quanto fosse apparso
la sera prima, almeno finché non aveva quasi polverizzato le loro
menti. L'uomo addormentato è solo nella stanza. La sedia accanto al
letto, sulla quale giace un'altra coperta ripiegata e dove presumibilmente
ha trascorso la notte Alexi, è vuota. Le due donne si avvicinano il
più silenziosamente possibile al vecchio disteso e Xena gli posa leggermente
due dita sul polso. "Come sta?"
sussurra Olimpia. "Il polso è un
po' accellerato, ma nella norma direi." risponde la guerriera.
"Credo che stia recuperando." Olimpia che era rimasta
due passi dietro a Xena si affianca alla compagna guardando l'uomo
sul letto. "Sembra così indifeso."
dice. "Ieri sera non
mi ha dato questa sensazione." "Lo so. E' questo
che intendevo. E' come se lo sforzo mentale che ha fatto lo avesse
svuotato." Xena volta la testa
lievemente verso di lei, guardandola in tralice. "Non lasciarti
commuovere, Olimpia. Ne sappiamo ancora troppo poco di questa storia
per poterci schierare da una parte o dall'altra. In realtà non sappiamo
neanche quali siano le parti." "Chiamalo istinto,
se vuoi, ma io sono convinta che Alexi e suo padre siano brave persone." "Anche se a momenti
ci friggevano il cervello?" "Andiamo, Xena.
E' stato solo Aristis e si tratta chiaramente di un uomo molto vecchio
e provato. E probabilmente non più in grado di pensare lucidamente." "Parla per te,
giovane insolente." La voce bassa e arrochita,
ma sorprendentemente chiara risuona all'improvviso nella stanza, richiamando
istantaneamente gli sguardi delle due donne sull'uomo disteso sul
letto. Il vecchio non pare aver mosso un muscolo e sembra ancora profondamente
addormentato, ma quando Xena e Olimpia stanno cominciando a chiedersi
se la voce che hanno udito, l'abbiano sentita solo nelle loro menti,
le labbra rinsecchite del vecchio si muovono. Lievemente, ma si muovono.
"Uscite dalla mia
stanza. Tutte e due. Mio figlio sta tornando. Mandatelo da me. Devo
parlargli da solo." "Non credi che
sia ora di finirla con tutti questi misteri, Aristis?" chiede
Xena, incrociando le braccia sul petto e fissando le palpebre ricucite
del vecchio come se guardasse nei suoi occhi, e con la netta impressione
che sia proprio così. "Saprai quello
che devi sapere quando lo deciderò io, guerriera, e non un momento
prima." Xena e il vecchio continuano
a squadrarsi, questa è la sensazione di Olimpia, arretrata di nuovo
di un paio di passi dietro alla compagna, dopo il secco rimprovero
incassato da Aristis, anche se l'uomo è rimasto assolutamente immobile,
con la testa abbandonata sul cuscino e i suoi occhi non esistano,
almeno fisicamente, da anni. "Ora fa' come ti
ho detto, donna." continua quella voce inquietante, che sembra
provenire dalla sua bocca e contemporaneamente da ogni angolo della
stanza. "A meno che tu non voglia assaggiare nuovamente il mio
potere." "Sai, Aristis,
comincio ad averne abbastanza di te e della tua prosopopea."
ribatte Xena. "Ieri sera mi hai dato una bella scossa, te lo
concedo, ma guarda come ti ha ridotto. Per poco non ti ha ucciso.
Ho l'impressione che il tuo potere sia qualcosa che fai sempre più
fatica a gestire. Sbaglio?" L'uomo non risponde
e Xena prosegue, incurante di Olimpia che sta cercando di tirarla
per un braccio. "No, eh? L'immaginavo.
E, correggimi ancora, ma ho anche la sensazione che se tu provassi
adesso a rifare qualcosa del genere, questa volta potresti restarci
davvero. E' così?" "Xena..." "Piantala, Olimpia."
E Xena si scrolla con uno strattone dalla compagna, gettandole uno
di quegli sguardi che Olimpia ha imparato a riconoscere bene negli
anni e torna a rivolgersi al suo improvvisamente silenzioso interlocutore.
"Allora? Dimmi, Aristis, sono giuste queste mie impressioni?" "Vuoi mettermi
alla prova, guerriera?" Adesso la voce del vecchio
ha assunto un tono gelido e minaccioso e l'aria della stanza, che
ad Olimpia sembra ancora più piccola di quanto sia in realtà, si sta
caricando di una tensione palpabile. Ed è con enorme sollievo che
sente un passo alle sue spalle e la voce tranquilla di Alexi che spezza
istantaneamente l'atmosfera tesa intorno a loro. "Padre. Ti sei
svegliato, grazie agli Dèi." "Alexi." Il
tono del vecchio non ha perso in gelo e minaccia, mentre si rivolge
a suo figlio. "Porta fuori di qui queste donne, e poi torna.
Devo parlarti." "Un momento..." "Xena! Vieni via!"
Afferrandola saldamente
per il polso, questa volta, Olimpia trascina fuori la compagna, che
la segue riluttante con un ultimo sguardo di sfida ad Aristis.
"Ma che ti prende?" "A me?! Sei stata
tu a tirarmi via, prima che potessi fargli sputare cosa sta succedendo!" "Voglio dire, cos'era
quell'atteggiamento? Mi aspettavo che da un momento all'altro vi metteste
testa contro testa come due ragazzini che vogliono fare a botte." Senza rispondere, Xena
si siede sbuffando sulla panca, dove ora al centro fa mostra di sè
un grande paniere pieno di bacche rosse. E Olimpia fissa Alexi che
le ha seguite sul portico. "E' opera tua anche
questo?" "Non credo."
risponde con un sorriso timido, il giovane. "L'effetto residuo
del mio potere si è esaurito questa notte, direi. Ampiamente." Tra le due donne scorre
uno sguardo imbarazzato, mentre Alexi abbassa gli occhi, e si schiarisce
la gola rumorosamente. "Per la verità,
credo che si tratti di mio padre. A volte con i suoi modi, dà sui
nervi anche a me. Ora se volete scusarmi." E il giovane rientra
nella casa senza voltarsi. Olimpia si siede all'altra
estremità della panca, pure lei in silenzio, passando distrattamente
le dita nelle bacche del paniere tra loro. "Scusami."
dice dopo una lunga pausa. "Non avrei dovuto." "No, avevi ragione."
risponde Xena. " Non è da me perdere la calma in quel modo. Non
so esattamente quali siano i poteri di quell'uomo, ma tra quelli c'è
sicuramente quello di farmi infuriare." "A me invece dà
i brividi, Xena. E nel vederti sfidarlo, non ho potuto fare a meno
di pensare a quello che avrebbe potuto farti se ti avesse colpita
di nuovo come ieri sera... Io non riesco a sopportare l'idea che possa
succederti qualcosa. Oh, accidenti!" esclama asciugandosi gli
occhi con il dorso della mano. "Ma che mi succede? Non faccio
che piangere ultimamente. Forse sono io quella incinta." conclude
con un mezzo sorriso, lanciandole uno sguardo di sottecchi. "Ehi, piccola."
Xena si alza dal suo posto e sposta il paniere per sedersi accanto
a lei, e Olimpia le appoggia la testa contro la spalla, crogiolandosi
nel suo abbraccio protettivo. "Per quello che può valere con
la vita che facciamo, ti prometto che farò tutto il possibile perché
non mi accada niente e possa sempre tornare da te." "Ti prendo in parola."
dice Olimpia, tirando su con il naso. "E te lo ricorderò tutte
le volte che vorrai fare qualcosa di stupidamente coraggioso. Ci puoi
contare." "Ci conto, infatti.
Conto su di te perché tu possa sempre rammentarmi con la tua presenza
quanto io sia fortunata ad averti accanto, e quanto sia idiota metterlo
a rischio per un puntiglio." Con un sorriso, un po'
più deciso, Olimpia che ha continuato a rigirarsi tra le dita due
o tre delle bacche rosse del paniere, se ne porta una alla bocca e
le dà un morso. "Oh, Dèi dell'Olimpo!"
esclama piano quasi tra sè, chiudendo gli occhi, al contatto del dolcissimo
succo che ne fuoriesce scorrendole sulla lingua. "Che c'è?"
chiede subito Xena, fissandola allarmata. "Oddèi, Xena. Assaggia
un po' questa." E prima che la compagna
possa dire altro le infila in bocca una delle bacche. La guerriera
la mastica lentamente. "Mmh, niente male."
dice poi, ingoiandola. "Niente male?!"
Olimpia la guarda quasi scandalizzata. "Niente male?!? E' tutto
qui quello che riesci a dire? Xena, è la cosa più
sublime che abbia mai assaggiato in tutta la mia
vita! Così dolce, così succosa, così... dolce!" "Lo hai già detto.
Sì, è buona, Olimpia, ma non ti sembra di esagerare? E poi per me,
è forse un po' troppo dolce.
Lo sai che preferisco una giusta miscela di dolce e amaro." dice
Xena, con uno sguardo malizioso. "Già. Dovrei saperlo,
eh?" risponde la ragazza, con un sorriso ugualmente malizioso.
"Oh, beh, peggio per te. Vorrà dire che le mangerò tutte io,
quelle che Alexi riuscirà a procurarmi." "Se vedrà quanto
ti piacciono, te ne porterà a cataste, tante che non saprai più dove
metterle." "Lo spero."
dice Olimpia, ingoiando un'altra bacca e socchiudendo di nuovo gli
occhi in un'espressione estatica. "Potrei perfino lasciarmi sedurre
per abbastanza di queste." Xena spalanca gli occhi
a quelle parole, poi con uno sguardo maligno tende le dita verso Olimpia. "Davvero? Beh,
non te la caverai così, o Poetessa Combattente. Tu dimentichi che
io posseggo l'arma definitiva per indurti ad abbandonare i tuoi propositi
libertini." "Ah si? E cosa
sarebbe, o Principessa Guerriera?" chiede Olimpia riaprendo gli
occhi e solo allora vedendo la posizione delle mani della compagna.
"Oh no. Non oserai." "Vuoi scommettere?" E le dita di Xena scattano
spietate colpendola ai fianchi, sotto le ascelle, sotto il collo,
provocando risatine isteriche e squittii incontrollati. "Xena!! Smettila!!!
Lo sai che non sopporto il solletico!" "Troppo tardi,
Olimpia. Non mi fermerò stavolta, non finché ti avrò ridotta ad un
informe ammasso ridacchiante." E le due donne proseguono
nella loro lotta, tra risa e gridolini, senza neanche accorgersi del
paniere che rovesciato con un calcio giace ora al suolo col suo dolce
contenuto che rotola in ogni angolo.
"Eccomi, padre." Con passo esitante,
Alexi si avvicina al letto sul quale giace immobile il vecchio. I
suoi occhi scrutano con apprensione il volto pallido e stanco su cui
le rughe sembrano essersi approfondite nelle ultime ore. E il suo
cuore si stringe a quella vista. Nel sentire la sua voce,
la mano di Aristis si solleva dal petto e si tende verso di lui. E'
il primo movimento fatto da quando ha ripreso conoscenza, e anche
la mano del giovane in risposta si tende a stringere delicatamente
quelle dita rinsecchite. "Alexi, figlio,
che notizie mi porti?" La mano resta immobile per un momento
nella sua, poi lentamente, quasi con rassegnazione, si stacca e torna
a posarsi sul petto. "Hai trovato altre tracce, vero? Più vicine."
Alexi si siede sulla
sedia accanto al letto con un sospiro. "E' così, padre.
Devono essere di questa notte. Sono ancora molto fresche. Questa volta
si è spinto fin quasi all'ultima fila di alberi." "Sta diventando
più forte." dice Aristis con un filo di voce. Ora quella forza
e quella decisione sfoggiate davanti alle loro ospiti sembrano svanite
e il vecchio che giace su quel letto non appare più tanto minaccioso.
"Ed io più debole. E quel maledetto demonio lo sa. Lo ha sentito." "Padre..." "E' vero, Alexi,
e anche noi due lo sappiamo bene. La guerriera aveva ragione. Ho lasciato
che il mio stupido orgoglio l'avesse vinta sul buon senso ed ora non
so più quanto potrò ancora tenerlo a distanza." "Padre, non devi
lasciarti abbattere. Già altre volte abbiamo avuto delle difficoltà,
ma siamo sempre riusciti a superarle.Vedrai che quando avrai recuperato
le tue energie..." Ma il vecchio solleva
la mano, arrestando all'istante ogni obiezione di Alexi. "Inutile farci
illusioni, figlio. Da quando Coloro Che Sanno ci hanno condotti in
questo luogo, non vi è stato un giorno in cui quell'essere abominevole
non abbia aumentato le sue forze. E fino ad oggi è occorsa ogni stilla
del mio potere per tenerlo imprigionato nella foresta e impedirgli
di uscirne, ma negli ultimi tempi temo che neanche questo possa più
essere un grave impedimento per lui." "Se intendi riferirti
al fatto che è riuscito a mettersi in comunicazione con quegli uomini,
non è te che devi rimproverare, ma solo l'infinita avidità degli esseri
umani." "Ma c'è di più."
dice Aristis con tono ancora più cupo."Questa notte, Loro
mi hanno mandato un sogno." A queste parole, Alexi
s'irrigidisce e si spinge fin sull'orlo della sedia, avvicinando il
volto a quello del vecchio e abbassando la voce fino quasi ad un sussurro. "Un sogno da oltre
la Soglia? Padre, era molto tempo che non accadeva." "Gli avvenimenti
stanno precipitando, Alexi. Mi auguro che le due guerriere siano davvero
quelle inviate da Coloro Che Sanno." "Padre, questi
dubbi non sono da te. Tu non hai mai messo in discussione i loro ordini." La testa di Aristis
si gira di scatto verso il figlio e Alexi, mordendosi la lingua per
ciò che si è lasciato sfuggire, è sicuro che se in quelle orbite incavate
e sigillate ci fossero ancora due occhi li vedrebbe fiammeggiare dall'ira. "Come osi anche
solo pensare che io metta in dubbio la loro volontà?" sibila
il vecchio. "Sono le tue capacità di giudizio
quelle che mi preoccupano. Tu le hai portate qui. E sei tu ad affermare
che sono quelle indicate da Loro. I sogni parlavano
di un guerriero." "Padre, non può
essere altrimenti." protesta Alexi. "I sogni a volte sono
da interpretare, tu stesso me lo hai detto tante volte. Sono due donne,
è vero, ma sono guerriere e legate da un vincolo spirituale e di sangue
più forte della morte stessa, come una sola anima. Ed entrambe hanno
viaggiato oltre la Soglia e non ne hanno memoria. Non possono essere
che loro." Nella foga del suo discorso,
Alexi si alza e percorre su e giù la piccola stanza. "Ma la più giovane
ricorda qualcosa, e questo potrebbe essere un ostacolo." dice
Aristis. "Solo sogni, vaghi
sogni, padre." Alexi si ferma e torna ad avvicinarsi al letto.
"E poi tu non hai visto la fermezza e la determinazione nei loro
occhi che ne fanno lo strumento sicuro ed affidabile di Coloro Che
Sanno." In quel momento, strilli
acuti e risate risuonano dall'esterno. "Xena! No!! Ti
prego! Pietà! Fermati!!" "Niente mi fermerà,
Olimpia." Pausa. "Quasi
niente." Alexi volta la faccia
verso la finestra da cui adesso non proviene più alcun rumore udibile.
Poi, torna a guardare suo padre, lieto che non possa vedere il violento
rossore che gli ha invaso il volto. "Credimi, padre,
sono loro." dice schiarendosi la voce. "Lo spero. Lo spero
davvero. Ne va di molte vite innocenti." risponde Aristis dopo
un lungo silenzio. "E forse dell'esistenza stessa di due mondi." |
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