|
"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI (Capitolo
IV) Parte
1
(23) Jennifer e Carruthers
Con le mani ancora tremanti,
Jennifer avvicina alle labbra la tazza di caffè fumante che il premuroso
Dooley le ha offerto. Dopo la crisi che l'aveva colta la vecchia
Rose era caduta in uno stato di incoscienza e adesso c'era un medico
che se ne stava occupando. Lei invece era insieme a Carruthers nell'ufficio
di Price a tentare di riconquistare un minimo di dignità. Il capitano
aveva chiesto che potessero rimanere soli per qualche minuto e gli
altri poliziotti li avevano accontentati senza obiezioni. "Perché non mi
hai detto che stavi male?" Mentre la donna sorseggia
la sua bevanda in silenzio, Carruthers è rimasto seduto sulla sedia
del sergente, con le mani conserte sulla scrivania, un po' proteso
in avanti verso di lei. "Io sto benissimo."
risponde Jennifer, fissando lo sguardo sulle volute di fumo che
si sollevano dalla sua tazza. "Ma certo. Si vede.
Sei bianca come un lenzuolo e tremi come una foglia. Non dovevi
venire. Bastava mi mandassi al diavolo una volta di più. Tanto chi
ci fa più caso ormai?" "E' stato un mio
errore. Non avrei dovuto affrontare il colloquio senza sapere prima
tutto il possibile su quella Rose." "No. L'errore è
stato mio. Non avrei dovuto insistere. Ma ero convinto che fosse
quello di cui avevi bisogno per uscire dalla tua crisi." La voce del poliziotto
ha un tale tono di sincera mortificazione che Jennifer non può fare
a meno di provare un senso di compassione per lui, e notando che
il tremito alle mani è un po' diminuito, posa la tazza semivuota
sulla scrivania. "OK." dice,
guardando Carruthers. "Ormai sono qua. Che ne diresti di raccontarmi
un po' più dettagliatamente questa storia?" Con un sospiro, il capitano
si appoggia allo schienale, facendo pressione con i piedi e ruotando
da destra a sinistra la poltroncina girevole e tace per qualche
secondo, come cercando le parole giuste. "Non hai visto
nessun notiziario, oggi, vero?" chiede infine. "Domanda inutile,
George. Non sono mai stata una patita della tv, lo sai." Soprattutto dopo quella
notte, aggiunge l'insopprimibile voce nella
sua mente. "Me lo immaginavo."
risponde Carruthers. "Il sacco che ha portato qui quella barbona
non è il primo. Questa mattina, due netturbini ne hanno rinvenuto
uno simile in un cassonetto." Jennifer continua a
guardarlo, senza dire niente, come se stesse aspettando che il significato
di quello che ha appena ascoltato le si chiarisse nel cervello. "Abbiamo cercato
di tenere nascosta la cosa, ma non è stato possibile. Quei due idioti
si sono messi a strillare come aquile e prima che arrivassimo noi,
la notizia aveva già fatto il giro di tutto il quartiere. E un paio
di stazioni tv erano già sul posto." "Ma guarda."
mormora la donna. "Allora questa volta Ballister non ce l'ha
fatta a coprire tutto, eh?" Carruthers finge di
non aver sentito quelle parole e soprattutto, l'inequivocabile tono
sarcastico in esse, e prosegue il suo racconto. "Abbiamo immediatamente
provveduto a rimuovere il sacco e il suo contenuto. Adesso sono
all'esame del medico legale, ma temo che non ci siano molti dubbi
su cosa si tratti." Il poliziotto fa una
pausa, forse aspettandosi una domanda o un'altra osservazione, sarcastica
o meno, da Jennifer, ma la donna resta in silenzio. "Anche quel sacco
era pieno di ossa, Rowles. Ossa e teschi piccoli, appartenenti almeno
a due corpi. Corpi di bambini, probabilmente neonati." Finalmente, quest'ultima
frase sembra avere ottenuto un certo effetto, nota con un pizzico
di colpevole soddisfazione Carruthers, ma fa finta di nulla e continua. "Naturalmente stiamo
ancora aspettando gli esiti degli esami, ma direi che ormai si può
formulare un'ipotesi abbastanza precisa in proposito." "Un cannibale?"
Jennifer pronuncia la parola con una strana sensazione nel sentirla
risuonare in quell'ufficio di polizia così ordinario, con il suo
computer in attesa in un angolo della stanza e i suoi scaffali e
classificatori rigurgitanti di fogli e cartelle. In un luogo simile
un'immagine in apparenza così aliena come quella che l'iconografia
classica assegna a un essere mostruoso come quello, appariva ancora
più incongrua. "Pazzesco, eh?
E stasera è capitato questo. Ho preferito non spiegarti prima perché
volevo che tu parlassi con quella donna senza idèe preconcette in
testa. Che cosa ne pensi di lei?" chiede il capitano. "Non è facile così
di primo acchito." risponde Jennifer. Si sentiva ancora un
po' confusa e frastornata, ma dentro di lei, molto nel profondo,
qualcosa di quella professionista innamorata del suo lavoro che
era stata un tempo, si stava agitando cercando disperatamente di
tornare in superficie. "E' chiaro che si tratta di un soggetto
psicotico con manie depressive e persecutorie. Qualcosa di più direi
di una semplice alcolizzata. Anche se l'uso continuato di sostanze
alcoliche, per giunta di pessima qualità, non ha certo migliorato
il quadro clinico." Nonostante l'aria preoccupata
che non ha mai abbandonato gli occhi di Carruthers, a Jennifer sembra
di notare adesso sulle sue labbra un leggero sorriso. Bentornata,
dottoressa Rowles. Ma se c'è davvero stato, scompare subito
e l'uomo torna immediatamente alle sue funzioni di ufficiale di
polizia. "In poche parole,
la ritieni pericolosa?" "Beh" risponde
Jennifer, massaggiandosi le braccia ancora doloranti "se dovessi
risponderti in base alla mia esperienza personale, dovrei dirti
di sì. Ma in realtà, non saprei. Ammetto che in quella stanza, mi
sono lasciata un po' suggestionare dall'ambiente e dai discorsi,
ma credo che il difetto vada ricercato più in me che in lei. I miei
nervi non sono ancora a posto ed è possibile che la mia agitazione
si sia comunicata a lei. I soggetti psicotici sono molto ricettivi
alle atmosfere, agli ambienti e agli umori delle persone con cui
si relazionano. " Mentre pronuncia queste
frasi, Jennifer è la prima a sorprendersi della facilità con cui
le parole le tornano sulle labbra. Ora le paure e le ansie provate
nella stanza degli interrogatori le paiono cose lontanissime nel
tempo e se non fosse per il dolore e l'indolenzimento che sente
ancora nei muscoli, sarebbe portata a pensare che si sia trattato
solo di un incubo particolarmente realistico. E il tutto era rafforzato
dall'immagine consueta, almeno fino a pochi mesi prima, di lei e
Carruthers seduti in un ufficio, con abbondanti tazze di caffè bollente
davanti, a discutere dei casi di turno. Come se niente fosse accaduto,
se gli avvenimenti dei mesi precedenti fossero stati cancellati
come scritte in gesso su una lavagna. E avrebbe scommesso che anche
il poliziotto stava provando le stesse sensazioni. Ma naturalmente non
era così. Non avrebbe mai potuto esserlo. Ciò che era accaduto era
vividamente presente nella sua mente e niente avrebbe mai potuto
cancellarlo. Ma adesso c'era forse qualcosa a cui aggrapparsi. Qualcosa
di orribile, perfino diabolico, ma nondimeno concreto e per la prima
volta da tempo incalcolabile, Jennifer si sente di nuovo quasi viva. "Quindi" riprende,
dopo essersi alzata ed aver nuovamente riempito la tazza dalla larga
brocca lasciata in un angolo da Dooley "se mi stai chiedendo,
se penso che quella donna possa entrare minimamente in questa storia,
allo stato attuale non posso che rispondere di no. Ma per farmene
un'idea accurata, dovrei saperne qualcosa di più."
Carruthers che è rimasto
ad ascoltarla e ne ha seguito attentamente i movimenti in quegli
ultimi momenti, le sorride con aria soddisfatta. "In questo posso
accontentarti, Rowles." dice il poliziotto alzandosi e dirigendosi
alla porta dell'ufficio. L'uomo apre la porta
e fa un cenno a Price che è rimasto diligentemente fuori fino a
quel momento. "Entra, Bob."
lo chiama, tornando a sedersi dietro la scrivania. "Avanti,
raccontale tutto quello che sappiamo su quella Rose. Mi prendo io
la responsabilità." "Subito."
Price si avvicina ad uno scaffale alla parete di fronte e sfoglia
alcune cartelle, estraendone infine una e porgendola alla psicologa.
"Questo è tutto quello che siamo riusciti a raccogliere sulla
barbona... sì, voglio dire, sulla vecchia Rose." Jennifer scorre superficialmente
le pagine stampate che il poliziotto le ha sottoposto. Sull'angolo
sinistro del primo foglio è allegata con una clip,
una doppia foto segnaletica della donna che hanno lasciato poco
prima a dibattersi sul pavimento della stanza degli interrogatori.
Accanto una fitta massa di parole in corpo minuscolo e stampate
male. Dopo un paio di tentativi di decifrazione, Jennifer alza gli
occhi sul giovane sergente. "Sì, lo so. La
nostra stampante non è un granché." cerca di sorridere lui,
riprendendole il dossier e sfogliandolo. "Beh, in due parole,
il suo vero nome è Rosebud Benedectine Fouraux, nata a Louisville,
Virginia, quarantacinque anni fa." Price s'interrompe lanciando
un'occhiata a Jennifer. "Proprio così, non si direbbe, eh?
Ne dimostra almeno sessanta. Brutti scherzi fa l'alcolismo. Comunque,
mi sono messo in contatto con la polizia di Louisville e pare che
sia una che non c'è mai stata tanto con la testa. Era di buona famiglia,
anche. Suo padre, rimasto vedovo alla sua nascita, aveva una ditta
tessile, ma la ragazza mostrò fin dall'inizio che la vita tranquilla
e agiata di quel mondo non faceva per lei. Già, una vera scavezzacollo.
Da giovane era entrata in una banda di delinquentelli del posto
ed è finita dentro un paio di volte per danneggiamenti e piccoli
furti. I soldi del padre l'hanno tirata fuori da un sacco di guai.
Ma il peggio per lei è cominciato quando ha incontrato il reverendo
Mills. Oh, chiaramente non si trattava di un vero reverendo. Era
solo uno di quei ciarlatani che si riempiono la bocca con frasi
bibliche mandate a memoria e che incantano i poveri di spirito come
la nostra Rose. Lei, che a quanto pare all'epoca era tutt'altro
che da buttar via, si lasciò affascinare da tutti i suoi discorsi
e decise di dividere la vita con lui a redimere anime perdute. Ma
naturalmente i progetti del reverendo
erano molto meno lungimiranti e più terreni. Lui se la..."
E qui, Price fa un'altra pausa imbarazzata, ricordatosi evidentemente
appena in tempo con chi sta parlando e strappando un sorriso appena
accennato a Jennifer. "...portò a letto, e poi la scaricò,
con una pagnotta in forno." prosegue poi, distogliendo lo sguardo
dalle pagine e posandolo sulla sua interlocutrice per studiare l'effetto
della sua scelta di parole. " Se capisce ciò che intendo." "Ho capito benissimo,
sergente. Non si preoccupi." risponde Jennifer, sorbendo il
suo caffè. "Già. Beh, comunque
tutte le idiozie che quel predicatore da strapazzo aveva ficcato
in testa a Rose avevano trovato terreno fertile nella mente già
abbastanza confusa di quella poveretta e cominciarono a dare i loro
frutti. E la vecchia Rose, che allora era ancora giovanissima, poco
più che ventenne, buttata fuori casa dal padre che non ne poteva
più di lei, prese ad andarsene in giro, raccontando che Mills, che
in quel momento era probabilmente lontano centinaia di miglia a
mettere nei guai qualche altra disgraziata, era Nostro Signore,
sceso sulla terra per renderla madre del nuovo messia e roba simile,
mentre il suo pancione cresceva sempre più. E insieme alla pancia
cresceva la sua affezione per gli alcolici. Qualche settimana dopo,
proprio mentre scontava l'ennesima condanna per ubriachezza, nacque
il bambino. Naturalmente il tribunale si affrettò a toglierglielo
e a darlo ad un istituto in attesa di adozione." Nelle orecchie di Jennifer
riecheggiano le parole pronunciate da Rose nella stanza degli interrogatori. Il Signore della Menzogna...
lui che venne a portarmi via il mio bambino! ...con la pelle lucida
e nera come la pece. Nella mente esaltata
di quella poveretta, la figura del giudice nella toga nera e lucida
si doveva essere sovrapposta alle immagini demoniache ispiratele
dal suo amante, e Rose aveva fatto due più due, saltando alla conclusione
che il Diavolo le avesse portato via il figlio, cioè il nuovo messia
messole in grembo dall'uomo che per lei era Dio, tornato poi nell'alto
dei cieli in tutta la sua gloria. Un sorrisetto amaro le si dipinge
sulle labbra. E' incredibile ciò che è in grado di escogitare la
mente umana per sopravvivere ai propri fallimenti. Ma a cosa aveva
assistito veramente Rose quella stessa notte? Il Diavolo
che affermava di avere visto, poteva essere qualcuno con un impermeabile
o un soprabito nero, magari un'incerata? E le corna? Solo una proiezione
della sua immaginazione morbosa o che altro? Mentre rimugina su tutto
questo, Jennifer si sorprende nello scoprire quanto quella storia
stia davvero
occupandole i pensieri, liberandola gradatamente da quel vuoto fisico
e mentale che aveva avvertito addosso per mesi, come una ventata
gelida, ma corroborante in una stanza rimasta per troppo tempo chiusa. La voce del sergente
Price che continua a parlare la riporta al presente. "Quando tornò in
libertà, Rose deve aver cercato di ritrovare il suo bambino, ma
naturalmente la famiglia di adozione era rimasta anonima e così..." "Ha continuato
a raccontarsi che il Diavolo le aveva portato via suo figlio."
conclude Jennifer per lui. "Era sicuramente più facile da accettare
per la sua mente sconvolta." Price, sorpreso dall'inattesa
interruzione, resta per un attimo in silenzio, aspettando che lei
aggiunga qualcosa d'altro, poi visto che non accade, prosegue. "Proprio così.
Poi, non sappiamo quando né come, è arrivata qui, una decina di
anni fa. Ha cominciato ad andare in giro mendicando e credo occasionalmente
prostituendosi, anche se non l'abbiamo mai beccata col sor... in
flagrante, ma sostanzialmente è solo una svitata innocua. E prima
di stasera non aveva precedenti di comportamenti violenti." "E non li avrà
neanche stavolta." Jennifer si alza. Le sue gambe sono abbastanza
solide e il tremito è solo un ricordo. Price e Carruthers, che è
rimasto in silenzio durante tutto il rapporto del sergente, fanno
altrettanto. "Non ha intenzione
di sporgere denuncia, allora?" Il sergente posa la cartella
al suo posto sullo scaffale. "E per che cosa?
Per avermi abbracciata un po' troppo forte?" chiede la psicologa.
"Quella povera donna ha già avuto la sua porzione di guai nella
vita e non intenzione di dargliene anch'io." "In tal caso, la
spediremo in ospedale per qualche controllo e poi tornerà libera.
Anch'io non credo che rappresenti un pericolo per sé o per gli altri."
dice Price. "Ad ogni modo"
aggiunge il capitano, infilandosi il soprabito "a me non dispiacerebbe
se la trattenessi in ospedale per qualche giorno. Giusto per prudenza.
E falla anche sorvegliare per un po'." Il sergente che stava
riprendendo possesso della sua poltrona lo fissa. "Allora crede che
sia..." comincia. "Io non credo nulla."
ribatte secco Carruthers. "Ma quella donna ha assistito al
tentato occultamento di un cadavere, o di quello che ne restava,
e non si può escludere che il tizio che l'ha commesso possa averla
vista a sua volta." E seguendo Jennifer
che è già sulla soglia, il poliziotto volta le spalle all'interdetto
Price.
"Allora, come va
adesso?" Jennifer lascia che
la domanda posta da Carruthers le rimbalzi per qualche attimo nella
mente, mentre cerca di trovare una risposta lei stessa alla questione. Come sto adesso? Meglio,
molto meglio. Poteva sembrare strano
a dirsi ma quell'esperienza in quella minuscola stanza di quella
squallida stazione di polizia, che per certi l'aveva terrorizzata,
le aveva anche provocato una benefica scossa e forse per la prima
volta da mesi, Jennifer si sentiva almeno parzialmente liberata
da quella cappa di tristezza e depressione che le gravava continuamente
addosso. Ora la sua mente le sembrava più lucida ed il fatto che
almeno da un paio d'ore a quella parte il suo principale pensiero
non fosse più stato quello ossessivo e morboso della morte di Joyce
era un ottimo segnale. Naturalmente non era
così ingenua da pensare che si fosse liberata per sempre, come con
un colpo di bacchetta magica, della maledizione che l'aveva accompagnata
tanto a lungo e sapeva bene, da professionista del settore, che
le ferite psicologiche sono le più dificili ed insidiose da guarire
e che i peggioramenti improvvisi e imprevedibili sono sempre in
agguato quando meno te lo aspetti, ma sapeva altrettanto bene che
la guarigione doveva pur cominciare da qualche parte e il suo lavoro
era sempre stata la sua grande e più efficace medicina. Lo era stata
dopo la morte di sua sorella e lo sarebbe stata anche adesso. E io debbo andare avanti.
Perdonami Joyce, non ti dimenticherò mai, ma sono certa che è quello
che vorresti anche tu. Io devo andare avanti. "Beh, allora?" La voce dal tono ora
lievemente preoccupato di Carruthers la risveglia dalle sue meditazioni
e Jennifer si volta verso di lui con un leggero sorriso. "Un po' meglio
adesso, grazie." "Vero?" dice
il poliziotto, con espressione sollevata, tornando a rivolgere la
sua attenzione alla guida della sua vecchia Ford. Nonostante la
promozione e il conseguente miglioramento economico, non gli era
mai passata neanche per la mente di cambiare il suo tenore di vita,
né abitazione, né tantomeno quella vecchia carretta a cui era affezionato
e questo sarebbe parso sintomatico a qualunque buon osservatore.
"Sembra anche a
me che tu stia meglio." prosegue, azzardando anche lui un lieve
sorriso all'indirizzo della donna. "Mi fa piacere che tu abbia
ritrovato un po' del tuo vecchio spirito. Quell'aria perennemente
triste non ti si confaceva." Jennifer gli lancia
un'occhiata. "George, guarda
che non è cambiato nulla tra noi. Non ho dimenticato quello che
è successo. Non potrò mai dimenticarlo, non farti illusioni. E se
questa notte ho aderito alla tua richiesta non è stato per farti
un favore, ma solo perché ho pensato che ci fosse qualcuno che poteva
aver bisogno di me." E perché ho visto fuori
dalla mia finestra alberi che non esistono. Il sorriso appena accennato
è già scomparso dai loro volti. "Non pretendo questo.
Non temere." mormora Carruthers, con lo sguardo fisso sulla
strada. "Ma comunque tu la pensi su di me, io ti considero
sempre la migliore consulente psicologa di cui abbia mai potuto
disporre e mi fido ciecamente del tuo giudizio." Ah sì? E la pensavi
così anche mentre mi facevi pedinare per ordine del tuo capo? Il pensiero si forma
istantaneamente nella mente di Jennifer, ma la donna lo ricaccia
indietro e cerca di concentrarsi su quello che Carruthers le sta
dicendo. "Che dicevi?" "Ti ho chiesto
che impressione hai di questa storia, dopo quello che hai sentito?" "Beh, quella Rose,
innocua o meno, è probabilmente matta come un cavallo, ma ritengo
che sfrondando quello che mi ha raccontato da tutte le sue allucinazioni
religiose, potrebbe aver visto davvero qualcosa d'importante. Ho
pensato, per esempio, che potrebbe aver scambiato un impermeabile
o un'incerata umida di pioggia per la pelle lucida del demonio." "E quindi potrebbe
davvero aver visto l'assassino?" "Certo. O magari
un suo complice, intento a nascondere le prove del loro operato." "Ma che senso potrebbe
avere? Di quei bambini non si è saputo niente per settimane e d'improvviso
in ventiquattr'ore troviamo i resti di tre. Perché attendere tanto
tempo e poi sbarazzarsene così? E perchè gettarne due al mattino
nella spazzatura e rischiare di farsi cogliere in flagrante la sera
stessa andandone a seppellire un altro in un giardinetto pubblico?
Perché non gettare anche quello insieme agli altri?". "Innanzitutto non
sappiamo quando è stato gettato il sacco ritrovato tra la spazzatura.
In certi quartieri un po' periferici, a volte passano giorni prima
che si provveda a svuotare i cassonetti." "Sì, è giusto."
borbotta Carruthers, riflettendo." E forse proprio il gran
bordello fatto dalle tv oggi potrebbe aver spaventato il colpevole,
spingendolo a sotterrare lo scheletro del terzo bambino." Il viaggio prosegue
in silenzio per qualche secondo, mentre evidentemente il poliziotto
sta cercando di mettere in un ordine convincente i vari pezzi del
mosaico. "Però, ancora non
capisco, perchè assumersi un rischio del genere." sbotta infine,
dando un colpo al volante. "Da qualunque parte la esamini era
molto meno pericoloso gettare il secondo sacco in un altro cassonetto,
magari dieci isolati più distante, che mettersi a scavare una buca
pur in piena notte." "A meno che..."
comincia Jennifer, poi s'interrompe. "A meno che, cosa?"
chiede Carruthers dopo aver atteso invano per qualche interminabile
secondo che concludesse il concetto. "A meno che"
riprende la psicologa "non faccia parte di un rito." "Un rito?"
ripete il poliziotto perplesso. "L'antropofagia
nei secoli è spesso collegata a credenze magiche e rituali. Naturalmente
questo non è il mio ramo. Dovrei fare delle ricerche, ma questa
potrebbe essere una possibile spiegazione. Si sa in che punto esatto
era stato seppellito lo scheletro?" "E' già stato controllato."
risponde l'uomo, scuotendo la testa. "C'è solo un giardino
pubblico nelle vicinanze del luogo dove vive quella barbona. Per
dissotterrare il sacco, quella donna ha praticamente sventrato il
terreno a mani nude. Se anche ci fosse stato qualche indizio di
rituale, segni o incisioni nella terra... è questo che intendevi,
no?" "Più o meno." "Beh, non è rimasto
niente di identificabile." conclude Carruthers. L'auto rallenta, mentre
l'uomo sterza lentamente verso destra, posizionandola a ridosso
del bordo del marciapiede davanti alla casa di Jennifer. "Bene. Buona notte...
beh, forse è meglio dire buon giorno... " dice guardando l'orologio
luminoso sul cruscotto. "Aspetto tue notizie." "D'accordo. Ci
sentiamo." Jennifer fa per scendere dalla vettura, quando una
mano di Carruthers sul suo braccio la ferma. "Aspetta. Tieni
questo." le dice, prendendo qualcosa dal sedile posteriore
e tendendole una cartella chiusa da un elastico. Jennifer prende la cartella,
senza una parola, gettandogli un'occhiata interrogativa. "Non sono documenti
ufficiali. Solo un paio di fotocopie di rapporti di pattuglie in
servizio e qualche articolo di colore che ho raccolto qua o là.
E' solo perché tu ti faccia un'idea più precisa. Nessun impegno.
Se non vorrai continuare, non dovrai fare altro che dirmelo, senza
problemi. Io capirò." Sempre senza parlare,
ma con un rapido cenno, la psicologa scende dall'auto. "Ehi, Rowles."
la richiama la voce di Carruthers. La donna si volta. "Anche se in una
circostanza simile, è lo stesso un piacere tornare a lavorare con
te." "Noi non siamo
tornati a lavorare insieme, George." dice Jennifer chinandosi
verso il finestrino della macchina. "Ho solo risposto ad una
richiesta di consulenza della polizia, perché ritengo che sia mio
dovere dare il mio contributo, nei limiti del possibile. E comunque
il dipartimento riceverà la mia parcella come consulente esterno." Il motore della Ford
aumenta i giri, e l'auto si stacca dal marciapiede per immettersi
nuovamente nel traffico. "Come vuoi."
dice con tono improvvisamente freddo Carruthers, voltando la testa
dall'altra parte, senza più guardarla. "Allora il dipartimento
ti ringrazia." "Non c'è di che."
risponde la donna, stringendo al petto il plico e girandosi per
cominciare a salire i gradini di casa, cercando di non ascoltare
il rabbioso stridìo delle gomme alle sue spalle.
(24) Xena e Olimpia
"Xena! Fermati!
Guarda che disastro hai combinato!" Con uno sforzo, Olimpia
sposta il viso di Xena pericolosamente vicino al suo, e afferrandola
per il mento la costringe a voltare la testa per osservare il paniere
rovesciato e le decine e decine di frutti rotolati in tutti gli
angoli del portico e giù per i gradini. "Io, eh?"
commenta la guerriera sollevando il peso del proprio corpo da quello
della compagna letteralmente schiacciata sotto di lei. "Sei
tu che scalci come un mulo impazzito." "Non l'avrei fatto
se non avessi dovuto liberarmi da una specie di piovra dai mille
tentacoli. Ma quante mani hai?" "Quelle che bastano."
risponde la compagna con un sorriso malizioso, tirandosi in piedi
e rimettendosi in ordine per quanto possibile. "Anche tu non scherzi,
comunque." aggiunge tastandosi sotto i vestiti di pelle. "Quando
mi hai slacciato il reggiseno? Non me ne sono accorta." "Ho molte doti."
sorride furbescamente Olimpia a sua volta. "Dài, adesso dammi
una mano a raccogliere questa roba." Insieme le due donne
si chinano e cominciano a riempire di nuovo il cesto con tutte le
bacche rovesciate per terra. "Ehi, ma le raccogli
o le mangi?" Xena si ferma nell'operazione
con uno sguardo ad Olimpia. "Mmmh... Non so
che farci." risponde la ragazza, masticando l'ennesimo frutto
rosso, con gli occhi chiusi e un rivolo di succo che le scende sul
mento. "E' più forte di me. Sono irresistibili. Non so come
possano non piacerti." "Non ho detto che
non mi piacciono." dice Xena riprendendo il suo lavoro e gettando
manciate di bacche all'interno del cesto. "Ma solo che sono
un po' troppo dolci per me." "Forse è perché
non l'hai assaggiate con la giusta concentrazione. Adesso, chiudi
gli occhi." E con una delle bacche
rosse particolarmente voluminosa e dall'aspetto succulento stretta
tra le dita, Olimpia si avvicina a Xena. "Olimp-fht."
riesce appena a dire Xena, prima che la compagna le infili in bocca
il frutto. "Zitta e fai come
ti dico. Chiudi gli occhi e comincia a masticare
molto lentamente. Ecco, così." dice soddisfatta
nel vedere Xena eseguire i suoi ordini dettagliatamente. La donna
sta cercando chiaramente di accontentarla, concentrandosi al massimo
nell'assaporare la polpa succosa della bacca. Poi dopo aver inghiottito,
Xena riapre gli occhi fissando quelli della compagna a poca distanza
dai suoi che le rimandano uno sguardo ansioso. "Allora?" Xena cerca di mettere
insieme un mezzo sorriso. "Sì, ehm... buona." "Non ti piace." "Olimpia..." "Lascia perdere."
risponde la ragazza, sbrigativamente, riprendendo a raccogliere
le bacche rimaste al suolo. "Olimpia, non possiamo
condividere tutto." dice Xena, gettandone un'altra manciata
nel cesto che ora è quasi tornato colmo come prima. "Essere
anime gemelle non significa rinunciare alle proprie personalità
o ai propri gusti. Tu sei sempre stata una miglior buongustaia di
me. Perchè credi che lasci cucinare sempre te?" "Oh, allora vuol
dire che non lo fai perché odi pentole, padelle e girare l'arrosto
sullo spiedo?" arriva secca la domanda con una punta di ironìa. Xena esita un istante. "Anche, forse...
ma non è questo il punto." ribatte velocemente la guerriera,
riconoscendo in tempo il pericoloso declivio che la conversazione
sta prendendo. "Quello che voglio dire è che ognuna di noi
ha le proprie specialità, le cose in cui eccelle e che le piacciono
di più e anche se a volte non coincidono perfettamente, questo non
è un ostacolo, ma anzi un modo per completarci a vicenda." Olimpia la fissa, cercando
di decidere se la compagna stia parlando seriamente o se abbia ancora
voglia di prenderla in giro. "Profondo, molto
profondo." dice infine, chinandosi di nuovo per raccattare
le ultime bacche. "Poi mi spiegherai come siamo finite a parlare
di questo, partendo da delle semplici bacche di cui non sappiamo
neanche il nome." "Non gliel'ho mai
dato e non so se ne hanno uno." La voce gentile di Alexi
alle loro spalle giunge improvvisamente sorprendendo anche i sensi
acutissimi di Xena. Il giovane le sta guardando sorridente appoggiato
alla porta d'ingresso. "Scusaci per questo
piccolo incidente." dice subito Olimpia andandogli incontro
con un sorriso. "A volte Xena è un po' irruenta." aggiunge
beccandosi un'occhiataccia dalla compagna. "Come si sente
adesso tuo padre?" chiede Xena, decidendo di lasciar cadere
la cosa e avvicinandosi anche lei. "Un po' meglio,
pare. Ma sarà bene che resti a riposo per oggi." Alexi scende
i gradini del portico raggiungendole. "Sono contento che i
frutti che ho portato ti piacciano. In realtà sono per te... cioè,
per voi, per tutte e due, certo." dice poi arrossendo violentemente
sotto lo sguardo di Xena. "E non sai come
si chiamano?" chiede Olimpia, ignorando volutamente quegli
incroci di sguardi. "Mai saputo. Quello
che so è che non le ho mai viste da nessuna altra parte e che sono
buonissime. Neanche Aristis le conosceva prima di arrivare qui,
quindi per quanto ne sappiamo crescono solo in questo posto. Beh"
dice poi, guardando verso la fitta macchia di alberi che si interrompe
a circa venti passi di distanza dalla casa "perfino un angolo
oscuro e sinistro come questa foresta doveva pure avere qualcosa
di buono." "Cosa sta succedendo,
Alexi? Perché quella donna è morta e hanno cercato di incolpare
noi?" Olimpia si è avvicinata al giovane, posandogli una mano
sul braccio e provocandogli un piccolo ma evidente imbarazzo che
Alexi cerca di dissimulare schiarendosi la voce e lasciandosi cadere
a sedere su un gradino di legno. "E perché ci avete
attirate qui, se poi non intendete spiegarci cosa significa questa
storia?" rincara la dose Xena, ma con un tono decisamente meno
amichevole e confidenziale. "E' difficile."
mormora Alexi fissando lo sguardo sul terreno e chinandosi a raccogliere
una bacca superstite rotolata in un angolo nascosto. "E' difficile."
ripete, come se parlasse tra sé, ripulendo il frutto tra le dita
e poi dandogli un morso quasi soprappensiero. "Le visioni, molte
lune orsono, parlarono a mio padre di un guerriero, coraggioso e
intrepido oltre ogni dire, un guerriero che le forze del male avevano
costretto ad un lungo viaggio, spingendolo oltre i confini di questo
mondo, alla ricerca dell'altra metà della sua anima, non sapendo
però che la missione a cui lo avevano spinto non solo non lo avrebbe
distrutto, ma l'avrebbe invece messo in condizione di compiere atti
che nessun altro avrebbe mai potuto adempiere." Alexi alza gli occhi
sulle sue due ascoltatrici, continuando a mangiucchiare la bacca. "Quando sentimmo
la vostra presenza, io dissi a mio padre che non potevate essere
che voi. Ma le visioni avevano parlato di un solo guerriero, e comunque
non avevano mai detto che quel guerriero sarebbe stato una femmina..." "La solita storia."
borbotta tra i denti Xena, talmente piano da essere udibile solo
da Olimpia che le sta accanto. "E mio padre, pur
amandomi sia pur a suo modo" prosegue Alexi tornando a parlare
con il terreno "non ripone una grande fiducia in me e nel mio
giudizio. Se si è lasciato convincere a convocarvi è stato solo
perché il tempo inizia ad esaurirsi e quell'essere là fuori diventa
ogni giorno più forte." "Parli dell'essere
che abbiamo intravisto ieri? Chi è, o cosa è? E cosa c'entra con
quello che è accaduto al villaggio?" Incalzato dalle domande
sempre più concitate di Olimpia, Alexi la guarda con una strana
espressione. "Parlarvi di queste
cose implica entrare in argomenti che il genere umano deve ignorare
per il suo stesso bene, e bisognerebbe quindi che fosse fatto con
estrema cautela. Non oso pensare a quello che potrebbe capitare
se il mio giudizio fosse davvero sbagliato." Così dicendo, con aria
mesta come se l'intero peso del mondo poggiasse su di lui, il giovane
si alza e risale sul portico. Afferra il pesante cesto ora nuovamente
colmo fino all'orlo e si volta verso le due donne che sono rimaste
ad osservarlo perplesse. "Adesso, venite.
Andiamo a parlare dentro. Mio padre deve essere presente. Questo
colloquio dovrà avvenire di fronte a lui." E a passo lento, ma
abbastanza deciso, Alexi si dirige verso la porta, mentre Xena e
Olimpia dopo essersi scambiate un'occhiata interrogativa lo seguono.
(25) Jennifer
Jennifer
getta indietro la testa lasciando che il caldo getto d'acqua la
impregni, colando in rivoli lungo il corpo ed incollandole i capelli
alla schiena. La donna ha gli occhi chiusi e si passa lentamente
le dita tra la folta chioma aspettando che la tensione residua di
quelle ultime ore scorra via come l'acqua attraverso lo scolo della
cabina doccia. Ma i miglioramenti sono già innegabili. Anche il
semplice piacere che sta provando in questo momento ne è una dimostrazione.
Erano mesi che non riusciva più a gustarsi una doccia calda e ritemprante
in quel modo. Gustarsi il massaggio quasi sensuale dell'acqua che
le carezzava la pelle spazzando via la stanchezza e lo stress
di una lunga giornata di lavoro. Mesi in cui lavarsi era diventata
una pura consuetudine, compiuta più per abitudine che per un reale
desiderio. Con i capelli e il corpo
gocciolanti, Jennifer esce dalla cabina afferrando velocemente un
telo appeso alla sua destra ed avvolgendovisi tutta. Il grande specchio
sul lato interno della porta le rimanda l'immagine di una donna
ancora molto bella, da cui incredibilmente sembrano scomparsi d'un
tratto i segni di una sofferenza tanto a lungo nutrita. O è semplicemente
questa sua nuova predisposizione d'animo, questo improvviso alleggerimento
della cappa psicologica che le è pesata addosso fino solo a poche
ore prima, a permetterle finalmente di guardarsi in uno specchio
per vedere se stessa? La vera
se stessa. Senza più quel filtro scuro che ne dava una versione
deformata. Scostandosi una ciocca
fradicia dal viso, Jennifer si avvicina ulteriormente alla superficie
ora leggermente appannata dello specchio, fissando i propri occhi.
A parte una leggerissima ombra scura intorno alle palpebre, e forse
un altrettanto lieve pallore del viso, appena visibile però sulla
pelle arrossata dalla doccia calda, era sorprendente che non portasse
su di sè alcuna traccia di un periodo di disperazione e pianti interminabili
che le era parso infinito. Arretrando di un paio
di passi, la donna si libera del telo e lascia che lo sguardo scorra
liberamente lungo il proprio corpo, dai seni sodi con i capezzoli
ancora inturgiditi dalla calda carezza dell'acqua, ai glutei alti
ed altrettanto sodi, fino alle gambe lunghe e snelle. Niente. Niente
che riveli anche solo minimamente le sue sofferenze. Inoltre, sente
dentro di sé, una carica di energia nuova, come una corrente adrenalinica
che la percorre tutta e, d'improvviso, le ore, i giorni a venire
non paiono più un monotono ed insignificante scorrere del tempo,
ma sembrano nuovamente pregni di aspettativa e di significati. Raccogliendo
il telo e riavvolgendoselo intorno, Jennifer esce dal bagno a piedi
nudi sul freddo pavimento che dal corridoio conduce al salotto ed
alla sua soffice moquette.
Ormai di dormire non
se ne parla più, e la donna si lascia cadere sulla poltrona accanto
alla quale su di un tavolinetto con il piano di cristallo, occhieggia
una cartelletta di uno smorto marroncino assicurata da un elastico
appena più scuro lungo il bordo. Sopra non vi era scritto niente.
Nemmeno nell'angolo in alto a sinistra dove vi sarebbe stato uno
spazio apposito per inserire numero ed eventuale nome del file. Solo un'anonima cartelletta
senza niente di rilevante. A parte ciò che conteneva. Jennifer non l'aveva
ancora nemmeno aperta. Appena rientrata nel suo appartamento, l'aveva
gettata lì dove giaceva adesso, si era versata le due dita di liquore
che ancora brillavano nel bicchiere accanto a lei e si era infilata
di corsa nel bagno. Spogliandosi si era gettata un rapido sguardo
alle braccia dove chiaramente visibili c'erano i lividi lasciati
dalle dita della vecchia Rose. Le tracce rosse che il giorno dopo
sarebbero apparse bluastre riproducevano quasi fedelmente le dita
rinsecchite eppure straordinariamente forti della barbona. Ma Jennifer
era troppo desiderosa di una doccia per pensare ad altro in quel
momento. Aveva quindi terminato di spogliarsi e si era precipitata
nella cabina, chiudendola rapidamente dietro di sé.
Adesso però la presenza
di quella innocua cartella con il suo sinistro contenuto non era
più ignorabile e, con un sospiro di rassegnazione, Jennifer allunga
la mano oltre l'invitante bicchiere di whisky
e stringe le dita intorno al ruvido cartoncino, tirandolo a sé e
posandoselo sulle ginocchia. Nessun impegno,
le aveva detto Carruthers consegnandogliela. Brutto ipocrita! Come
se non avesse saputo benissimo che lei non sarebbe riuscita mai
a tirarsi indietro dopo averla presa. Ma forse, l'ha fatto
proprio per questo. Non ci avevi pensato? Rieccola. La voce nella
testa. La sua inseparabile compagna dei giorni peggiori della depressione.
Mi sei stata utile, tesoro, ma adesso
non credi che potresti levarti dai piedi? Certo che ci aveva pensato.
Il prode Carruthers, il cavaliere dalla scintillante armatura accorso
a salvare la donzella preda di incubi che la stavano conducendo
sull'orlo della follia. Già, peccato però che gli incubi peggiori
fossero stati scatenati proprio da lui. Non trovi che questo
sciupi un po' il bel quadretto? Ma la cartella sulle
sue ginocchia pareva di minuto in minuto sempre più pesante, mentre
le sue dita giocherellavano, distrattamente in apparenza, con l'elastico
senza realmente la voglia di tirarlo per liberarne il contenuto.
E la sua mente torna al momento del congedo dal poliziotto e alle
parole dure che gli ha rivolto, non rimpiangendone neanche una. Questa non è una resa,
George, pensa, afferrando finalmente con decisione
l'elastico ed aprendo la cartella. Ciò che hai fatto non
può essere perdonato, né dimenticato. Ma ci sono cose che trascendono
noi e i nostri problemi più o meno personali. Cose per cui è giusto
mettere da parte ogni diatriba e combattere al fianco anche del
tuo peggior nemico, se questo può servire a raggiungere uno scopo
più alto. Come vogliamo chiamarlo? Un bene superiore? E con mano ferma, Jennifer
comincia a sfogliare le pagine all'interno. Sì. Un bene superiore.
(26) Croft
"Croft, nel mio
ufficio." La voce gelida di Hannigan
attraverso l'interfono non preannunciava niente di buono e Brian
rilascia il pulsante della ricezione con un sonoro sospiro. Quel
mattino era arrivato di buon ora e dal momento in cui si era messo
a sedere dietro la sua scrivania aveva aspettato quella chiamata,
sapendo che sarebbe arrivata da un momento all'altro. Un paio di
volte si era chiesto se non sarebbe stato meglio prendere il toro
per le corna e affrontare immediatamente il suo destino e almeno
una volta era stato sul punto di farlo, ma poi aveva deciso più
saggiamente di attendere lo sviluppo degli eventi. Presentarsi da
Hannigan avrebbe significato ammettere di essere in fallo, e questa,
secondo la filosofia di vita di Brian, non era mai una buona politica.
Erano gli altri che dovevano dimostrare la tua colpevolezza. Offrire
la testa alla scure del boia non sarebbe servito a conservargli
il posto e avrebbe costituito un alibi notevole per il suo capo
nello scaricarsi la coscienza di una simile decisione. Perché questa volta
era proprio convinto di aver superato il sottile limite lungo il
quale aveva camminato in quei mesi. Non rimpiangeva di averlo
fatto. Al contrario. Il suo rammarico maggiore era dato dal fatto
che non fosse servito a niente. Il suo colloquio con Sutherland
era stata la sua ultima speranza per cercare di riannodare qualche
filo in quella ingarbugliatissima matassa che era la morte di Cheryl,
ma anche il professore si era rivelato l'ennesimo buco nell'acqua
di una serie infinita che pareva precludergli ogni sbocco. Eppure,
nonostante tutto, la sensazione che il suo istinto non sbagliasse
continuava ad echeggiare in fondo ai suoi pensieri. C'era qualcosa
di misterioso in quella storia. Di molto più inquietante di una
vendetta da parte del crimine organizzato. E tuttavia non riusciva
assolutamente a capire di cosa potesse trattarsi. E chissà se ci
sarebbe mai riuscito, si chiede, gettando prima di uscire dalla
stanza, un ultimo sguardo alla foto sorridente della donna, appuntata
sulla parete accanto alla porta, sotto la scritta in rosso
ASSASSINATA!
Mi spiace, Coop. Io ci ho provato. Davvero.
Le parole gli si formano nella mente mentre
i suoi occhi scrutano tristemente in quelli enigmatici nella foto,
di cui il bianco e nero piatto e un po' sbiadito dal tempo e dal
sole, che nelle ore pomeridiane batte proprio su quella parete,
non riesce tuttavia a celare la profondità e la bellezza.
Davanti alla porta dell'ufficio di Hannigan,
Brian esita ancora un istante, poi senza bussare, abbassa la maniglia
con decisione ed entra d'impeto, prima che altri dubbi lo assalgano. Al diavolo! Tanto se ha deciso di licenziarmi,
non cambierà idea anche se gli lecco il culo! "Eccomi." dice solamente, richiudendosi
dietro la porta e fissando lo sguardo sull'anziano capo redattore,
seduto alla sua scrivania in quell'ufficio soffocante, invaso da
montagne di carta, e con la piccola stufa elettrica costantemente
accesa e puntata nella sua direzione in un angolo. L'ometto gli rimanda lo sguardo, sollevandolo
dalla bozza di copertina che sta esaminando, e si alza dalla poltrona,
appoggiando le mani aperte sull'ampio ripiano e la testa sporta
in avanti come un gigantesco rapace pronto a balzare sulla preda. Beh, gigantesco
era una parola decisamente esagerata per Charlie Hannigan. In realtà,
superava di poco il metro e 60 d'altezza, ma nessuno se ne rendeva
conto, perché quando ti posava addosso quel suo sguardo inquisitore
erano gli altri a sentirsi minuscoli ed inadeguati. Anche se era
subentrato al defunto Finnies nella veste ufficiale di caporedattore,
solo da qualche mese, era al View
da più di chiunque altro, perfino dell'attuale dirigenza che
aveva acquisito la maggioranza solo da pochi anni, ed ormai la considerava
casa sua, al punto da aver rifiutato ben tre volte altri impieghi
molto più gratificanti all'interno dello stesso gruppo editoriale
(che possedeva anche sei importanti quotidiani nazionali e quattro
stazioni televisive), ma come era uso dire, il View era la sua vita da
oltre vent'anni e sarebbe stato la sua morte. Scherzando, ma non
troppo, affermava di essere convinto che un giorno qualcuno sarebbe
entrato da quella porta e lo avrebbe trovato secco sulla sua poltrona,
con il suo immancabile mezzo sigaro in bocca e gli occhialetti da
presbite di traverso sul naso, e da come descriveva la scena sembrava
non solo che la cosa non lo spaventasse affatto, ma anzi in qualche
modo lo riempisse di soddisfazione. Brian gli aveva augurato più
volte, dentro di sé, che il suo desiderio si avverasse. Ed in questo
momento si sentiva di rinnovare di cuore il suo auspicio. "Bene, beato chi ti vede, Croft."
dice dopo una lunga pausa silenziosa. "Vedo che lavori ancora
qui." "Ascolta, Hannigan..." comincia
Brian. "No. Ascolta tu." lo interrompe
questi, ergendosi in tutta la sua statura che ancora una volta incredibilmente,
nonostante sia di buoni quindici centimetri inferiore a quella del
suo interlocutore, non si nota affatto. "Sono stufo di te,
Croft. Sono quasi le undici e sai dove ho trascorso le ultime due
ore? In direzione, a parlare con Williamson." Williamson era il rappresentate ed amministratore
delegato del gruppo, in pratica il pezzo più grosso che facesse
da tramite tra la proprietà del giornale e la redazione del View
e per un attimo Brian si sente quasi lusingato di essere stato evidentemente
l'oggetto di attenzioni a così alto livello, ma l'espressione di
Hannigan gli fa capire che non è il caso di fare commenti in proposito. "E vuoi sapere di cosa abbiamo parlato?"
prosegue l'ometto tenendolo inchiodato con lo sguardo. "Il
giornale ha perso vendite per quasi il dodici per cento negli ultimi
quattro mesi, Croft, e quasi altrettanto di introiti pubblicitari
in metà tempo. Tira aria di ridimensionamento, in caso non lo avessi
capito. Sono già settimane che sento parlare di una prossima chiusura
di almeno un paio di redazioni e anche qui pare che si stia pensando
di snellire il personale, e non credo che si riferiscano a delle
diete dimagranti." Una battuta. Hannigan aveva appena fatto
una battuta. Brian si chiede se la cosa richieda una risatina o
almeno un sorriso a mezza bocca da parte sua, poi decide saggiamente
di proseguire nella sua politica di attenta e compunta partecipazione
al discorso del capo. "In parole povere, Croft, questo
vuol dire che se questa tendenza non sarà invertita di centottanta
gradi nel più breve tempo possibile, almeno il venti per cento delle
persone che lavorano qui si troveranno a doversi cercare un nuovo
impiego. Mi sono spiegato?" Era una domanda puramente accademica,
naturalmente, e come tutte le domande di cui Hannigan era solito
punteggiare le sue prediche non necessitava di risposte. "Williamson vuole che gli venga preparata
già da adesso una lista degli elementi sacrificabili,
per così dire, in modo che se dovesse verificarsi questa dolorosa
evenienza, sarà già pronto, e sto usando le sue esatte parole, a
liberarsi della zavorra." Hannigan si erge in tutta la sua statura,
con le braccia incrociate sul petto, e da dietro la sua scrivania
riesce incredibilmente a far sentire Brian più piccolo ad ogni sguardo. "Quanto ci tieni tu a far parte di
quella lista?" Qui forse una risposta sarebbe stata necessaria,
ma Brian se ne trovava momentaneamente sprovvisto. "Sono mesi, Croft, mesi!! che
non mi porti un pezzo decente!!!"
urla all'improvviso Hannigan, facendogli vibrare i timpani. "Ti
avevo avvisato di occuparti del tuo lavoro e lasciare perdere le
crociate personali. Ma tu no! Certo!" Il piccolo caporedattore
gira intorno al mobile e a passo di carica si dirige verso di lui.
"Beh, ho una notizia per te. Questo non è il Washington Post e
tu non sei Woodward o Bernstein e non farai il colpo del secolo
smascherando un altro Watergate
o chissà quale altro complotto politico in questa città di merda!
Tu adesso te ne torni di là, ti porti via questa spazzatura che
chiami articolo" e Brian si ritrova accartocciati nelle mani
le pagine che aveva battuto di corsa la sera prima "e mi confezioni
un pezzo che sia degno di questo nome!" In preda ad una furia, evidentemente a
lungo trattenuta, Hannigan torna dietro alla sua scrivania e gli
lancia un'ultima occhiata di fuoco. "Hai ventiquattro ore, Croft. Non
un minuto di più. Sta a te decidere se vuoi che siano le tue ultime
da cronista del View."
(27) Jennifer
"POLIZIA DI STATO - 37mo DISTRETTO
- rapporto degli agenti McKENNA e ROGERS Sett. 27 - ore 09:00 a.m.
L' agente Rogers ed io ci siamo portati
su segnalazione della centrale al 114/b di Holmes Street, primo
piano, dove la Sig.ra Geraldine Rossini, anni 29, ci attendeva per
denunciare la scomparsa del suo bambino, Preston Rossini, anni 2.
Secondo quanto rilevato, la signora si era recata ai vicini giardinetti
col figlio come tutti i giorni dove si era intrattenuta a parlare
con una sua amica, Carol Stewart, anni 32, residente allo stesso
indirizzo, quinto piano, anch'essa lì col proprio figlio, Charles,
anni 4. I due bambini si sono allontanati dalla vista delle madri
per un tempo che viene giudicato forse di cinque minuti, approfittando
di un loro momento di disattenzione, ma solamente il figlio della
sig.ra Stewart è tornato, piangendo e dicendo che non riusciva
più a trovare Preston. Spaventate
le sig.re Rossini e Stewart hanno cominciato a cercare il bambino,
anche con l'aiuto di altre persone presenti sul posto, ma senza
esito. Quindi la sig.ra Rossini, sotto shock, è stata immediatamente
riaccompagnata a casa da dove immediatamente è stato allertato questo
distretto. Giunti sul luogo della scomparsa, io e l'agente Rogers
abbiamo svolto una veloce prima indagine, interrogando le persone
ancora presenti senza però ottenere ulteriori indizi. All'arrivo
dell'autopattuglia di supporto, guidata dagli agenti Chaney e Wilson,
abbiamo iniziato una ricerca a largo raggio in tutto il quartiere
senza risultati. Allo stato attuale non si registrano novità in
merito. Seguono nomi ed indirizzi delle persone trovate ed interrogate
sul luogo della scomparsa."
Jennifer dà una rapida scorsa al foglio
allegato al rapporto dell'agente McKenna. C'erano circa una ventina
di nominativi, quasi tutti di donne e solo un paio di uomini. Evidentemente
madri e padri a passeggio con i propri figli. La psicologa sfoglia
lentamente le pagine seguenti. Altri rapporti su interrogatori a
potenziali testimoni (da cui però non risultavano elementi di rilievo)
e l'articolo del Tribune
su un paio di colonne tratto da una delle pagine della cronaca locale.
Evidentemente, nonostante la giovanissima età del bambino scomparso,
la cosa non aveva destato grande sensazione in una metropoli che
registrava quotidianamente atti criminali in quantità. Chissà se adesso avranno cambiato idea,
si chiede Jennifer, con un brivido. Ma già il tono mutava di parecchio
di lì a poco. Questa volta Jennifer dà appena un'occhiata al rapporto
di polizia e passa subito alla stampa da computer di un'altra pagina
del Tribune
allegata, questa volta della cronaca nazionale, su cui campeggiava
su quattro colonne il titolo:
UN
ALTRO BAMBINO SCOMPARSO E'
l'opera di un maniaco?
C'è stata un'altra scomparsa nella zona
residenziale di Drexel Hill, il quartiere dove meno di un mese fa
era avvenuta la sparizione, praticamente sotto gli occhi della madre,
del piccolo Preston Rossini, mentre giocava con un amichetto nel
giardino pubblico sotto casa. Questa volta il rapimento sarebbe
avvenuto a meno di quattro isolati dal primo, sulla Island. La vittima,
il piccolo Daniel Wade di appena undici mesi, era stato lasciato
fuori da un negozio nella carrozzina dalla madre, mentre faceva
compere. La donna continuava a tenere d'occhio la carrozzina con
il figlio dalla vetrina del negozio, ma quando è uscita si è accorta
che questa era vuota. Disperata, la giovane madre è stata ricoverata
in preda ad una crisi isterica. I coniugi Wade non sono una coppia
benestante e non riescono a spiegarsi il rapimento del loro bambino.
Ma nella zona si sta diffondendo la paura del mostro.
L'articolo proseguiva nella descrizione
piuttosto colorita dell'ambiente e nella rievocazione del precedente
rapimento, ma Jennifer ha già smesso di leggere, mentre il suo cervello
sta cercando di elaborare i dati incamerati fino ad adesso. Al momento
delle prime scomparse e degli articoli risalenti a circa due mesi
prima, si cominciava ad ipotizzare la tesi del maniaco, ma ora quell'ipotesi
si stava trasformando in una orrenda certezza. Carruthers non aveva
voluto scendere in dettagli, né men che meno mostrarle ciò che era
stato trovato nel sacchetto della spazzatura portato dalla vecchia
Rose al distretto (non che lei avesse minimamente insistito a proposito),
ma dalla sua espressione e dal poco che era riuscito a dirle, era
stato facile capire che la realtà a volte poteva essere anche peggio
del peggiore degli incubi. Per un attimo con gli occhi della mente,
Jennifer ha una rapida visione della vecchia mendicante che si stringe
al petto un sacchetto nero da cui spunta qualcosa di lungo e bianco. Il mio bambino! Ridatemi il mio bambino! aveva gridato afferrandola per le braccia.
Poteva mai essere che...? Non sarebbe stato inverosimile ipotizzare
che una donna dalla mente sconvolta come quella Rose potesse compiere
qualcosa di folle come rapire dei bambini, ritenendoli come una
specie di... rimborso da parte del destino che le aveva portato
via il suo. Naturalmente poi tutta la storia del Diavolo e del seppellimento
poteva far parte di una gigantesca allucinazione che si era costruita
per nascondere anche a se stessa l'orrore del gesto che aveva compiuto.
Ma gli scheletri... No, questo non quadrava. In attesa che arrivassero
le risultanze dell'esame autoptico, le ipotesi più probabili erano
anche le più orrende che si potessero immaginare. Scarnificazione.
Cannibalismo. E questo non poteva assolutamente adattarsi alla figura
di Rose. Avrebbe potuto rapire quei bambini, forse anche ucciderli
nel suo delirio. Ma non fargli quelle cose spaventose. Jennifer
si sentiva di escluderlo, malgrado l'abisso di follia che aveva
indubbiamente scorto negli occhi della donna. Mentre sente un altro
brivido percorrerle la schiena, la psicologa si scuote da quei pensieri
e torna alla lettura. Il terzo e per ora ultimo rapimento si
era verificato circa un mese prima, e qui Jennifer prende mentalmente
nota di confrontare le date delle tre scomparse. Il rapporto della
polizia, non dissimile da quelli precedenti, registrava nei soliti
toni piatti la denuncia della scomparsa di Henry Thomas, di tredici
mesi. La sparizione era avvenuta nel momento in cui sua madre, Heather,
ventisette anni, divorziata, l'aveva lasciato solo a giocare nel
suo box sul portico di casa,
per rispondere al telefono. La donna aveva affermato tra le lacrime
di non essere rimasta a parlare per più di un paio di minuti, e
in quel tempo aveva sbirciato due volte oltre la porta. La prima
volta aveva scorto il bambino che giocava tranquillo nella stessa
posizione in cui l'aveva lasciato. La seconda volta la parte del
box visibile dal suo punto
di osservazione le era apparsa vuota, ma aveva semplicemente pensato
che si fosse spostato dalla parte opposta, quella non visibile.
Tuttavia, aveva gentilmente congedato la cortese ma insistente voce
femminile al telefono che asseriva di aver saputo che c'era una
casa in vendita nel quartiere e che stava facendo un giro di telefonate
per saperne di più, ed era corsa sul porticato, realizzando con
orrore che Henry era scomparso. Il box
era vuoto e uno degli animaletti di gomma con cui giocava il bambino
si trovava per terra sul breve sentierino che tagliava in due il
giardino finendo al cancelletto di legno. Disperatamente, aveva
cominciato ad urlare, correndo sulla strada e richiamando l'attenzione
di alcuni vicini che erano usciti per vedere cosa fosse successo.
Ma, a parte loro, la strada appariva deserta. Del piccolo Henry
e del suo misterioso rapitore, nessuna traccia. Il breve dossier
si concludeva con un altro paio di articoli di giornale, questa
volta dell'Inside View,
come al solito corredati da fantasiose illustrazioni. In una di
queste, l'artista di turno aveva disegnato la forma nera
e vista di spalle di una persona, un uomo grande, grosso e apparentemente
irsuto, che si allontanava lungo una strada di campagna con un bambino
piangente tra le braccia. L'immagine era indubbiamente suggestiva,
come nella tradizione della rivista, ma sicuramente poco verosimile,
secondo Jennifer. Se c'era un elemento in comune in tutti e tre
i rapimenti era il fatto che in ogni caso il responsabile era riuscito
a sparire nel nulla senza che nessuno lo vedesse o lo sentisse.
E se c'erano dei reati che, anche secondo l'esperienza di polizia
o la sua più modesta di psicologa, non potevano sperare di poter
contare sull'indifferenza e l'omertà della gente erano quelli legati
ai bambini. Rapimenti, omicidi, stupri, verso creature
innocenti sollevano l'indignazione popolare come poco altro. Le
comunità, piccole o grandi, li sentono come un'offesa, una minaccia
alla sicurezza ed al proseguimento della specie. C'è qualcosa di
atavico nell'odio che simili atti mostruosi riescono ad ispirare,
al punto che quando chi li ha perpetrati viene arrestato, spesso
deve essere tenuto in isolamento per impedire che altri detenuti
possano fare giustizia sommaria. Mai come in questi casi, tra la
gente, madri, padri, anziani con nipotini, ma non solo, si stabilisce
una specie di patto di mutuo soccorso e sicuramente una figura come
quella descritta nell'illustrazione, non sarebbe potuta mai passare
inosservata. Quindi, questo poteva solo significare che in realtà
nessuno si era davvero accorto di nulla e di conseguenza che il
rapitore era o estremamente abile o così astutamente dissimulato
da non essere notato affatto. Un primo passo verso la sua identificazione
non poteva che partire da qui. Un altro esempio della fantasia del View
era rappresentata dall'impareggiabile inventiva dei suoi redattori
nell'escogitare i titoli più assurdi o i nomi più improbabili per
le inchieste di cui si occupavano. Alcuni però si fissavano così
bene nell'immaginario popolare da costringere anche gli altri giornali
ad adeguarsi. Era stato così nel caso dell'Amazzone,
e ora si ripeteva per The Ogre.
Certo che stavolta non sembrava che si
fossero spremuti troppo le meningi. L'appellativo doveva essergli
venuto naturale. Come altro poteva essere definito un mostro che
rapiva bambini così piccoli, per chissà quali innominabili scopi,
se non l'orco?
La leggendaria figura che popolava i miti e le favole e che si cibava
della carne dei fanciulli. Certo forse neanche loro avevano immaginato
quanto vicini fossero alla realtà. Jennifer scorre velocemente le colonne
degli articoli che non le pare a prima vista contengano elementi
ulteriori sui rapimenti, oltre a qualche pittoresco commento in
perfetta linea con lo stile di un giornale che aveva fatto delle
inchieste più inverosimili il suo cavallo di battaglia, e l'occhio
le cade sul nome dell'autore semicancellato dalla pessima qualità
della fotocopiatrice che Carruthers doveva avere usato, forse di
nascosto perché nessuno gli chiedesse cosa stava facendo. La donna stringe le palpebre cercando
di focalizzare meglio la firma. Non si era sbagliata. Brian Croft.
Quindi richiude la cartella con un sorriso. Ci ritroviamo, signor Croft. Aveva ragione
lei. Il mondo è davvero piccolo.
(28) Sutherland
Le note dolci della
sonata di Rachmaninov si diffondono nel grande salotto. Il disco,
ancora uno di quelli vecchi in vinile, gira sul piatto dell'impianto
HI-FI,
lasciando appena udire sotto il suono dei potenti altoparlanti,
il leggero fruscio della puntina tra i solchi dell'incisione. Seduto
sulla grande poltrona al centro della stanza, il professor Michael
Sutherland tiene gli occhi chiusi, cercando di concentrarsi sul
pezzo musicale, ma la sua mente si rifiuta di farsi ipnotizzare
e trascinare via da quelle note avvolgenti che generalmente hanno
l'indiscusso potere di rilassarlo come nient'altro al mondo e vaga
invece incessantemente sulla visita del giorno prima. Quel giornalista...
Croft, se la memoria non l'ingannava... con il suo arrivo imprevisto
aveva decisamente scombussolato la sua ormai pacata esistenza di
pensionato. Dopo l'incredibile,
inquietante, ma anche assolutamente eccitante vicenda in cui si
era trovato coinvolto, Sutherland aveva deciso di lasciare definitivamente
l'insegnamento. Ormai per lui continuare ad impartire ai giovani
delle sue classi il programma scolastico tradizionale, non aveva
più alcun senso. Lui era sempre stato
un ribelle e si era sempre rifiutato di assoggettarsi supinamente
ai parametri della cultura ortodossa, e per questo i suoi allievi
lo adoravano, mentre invece molti suoi colleghi avevano portato
spesso all'ordine del giorno delle riunioni dei docenti il suo allontanamento
dalle aule, o quanto meno una severa reprimenda che lo riportasse
in riga. Erano stufi di dover continuamente rispondere, e di sovente
con grande imbarazzo, alle domande che gli studenti, imbeccati dalle
lezioni fuori dagli schemi di
Sutherland, ponevano loro. Così il party
d'addio del corpo accademico e studentesco per il professore era
stato particolarmente caloroso da entrambe le parti, ma per ragioni
decisamente opposte. Gli studenti vi avevano partecipato col rammarico
di vedere andarsene uno dei docenti più divertenti che avessero
mai avuto, mentre di tutti i suoi riveriti colleghi, nessuno aveva
voluto mancare per assicurarsi che quel rompiscatole si congedasse
definitivamente. Naturalmente nessuno
aveva la più vaga idea di quali fossero le ragioni di una decisione
così improvvisa e se l'avessero anche solo sospettato il suo pensionamento
si sarebbe probabilmente trasformato in una lunga degenza in un
ospedale psichiatrico per demenza senile. Ma quelle ragioni, anche
se incoffessabili, erano assolutamente indiscutibili e l'avevano
costretto a fare la sua scelta senza dubbi nella testa. Del resto come si può
trovarsi faccia a faccia con una guerriera che dovrebbe essere morta
da millenni e continuare a parlare di storia e di mitologia come
se non fosse successo niente? Inutile negarlo. La sua vita ne era
stata completamente sconvolta. Per molte notti, dopo
i drammatici avvenimenti accaduti proprio nel giardino della sua
casa, a pochi passi da dove si trovava in quel momento, non era
riuscito a dormire regolarmente, risvegliandosi spesso
da sogni popolati dalla donna in armatura che l'aveva minacciato,
spada in pugno, in quello stesso salotto, dalla coraggiosa ragazza,
il cui corpo era troppo fragile per contenere lo spirito che vi
risiedeva, e dalla loro tragica fine, a cui erano state condotte
da quel vincolo indissolubile che le legava l'una all'altra. Anche se dentro di sé
sentiva, senza sapere come spiegarlo, che quella a cui aveva assistito,
era solo un capitolo di una lunga, lunghissima storia, ancora lontana
da una conclusione definitiva, se mai ci sarebbe stata. Voleva
credere che da qualche parte, chissà dove o quando,
la splendida guerriera dalla lunga chioma corvina e dagli occhi
color del cielo e la sua compagna, amica o amante, cavalcassero
ancora insieme, per uno sconosciuto, imperscrutabile disegno. Un
disegno di cui, sia pur per un periodo di tempo molto limitato,
lui stesso era stato parte. Per ragioni che non osava neanche riuscire
ad immaginare, proprio lui si era trovato a contribuire alla tela
tessuta dal fato o da Dio. E forse, aveva pensato,
questo era lo scopo per cui era nato, lo scopo per cui era diventato
uno studioso ed un appassionato di storia e mitologia. Per venire
a conoscenza delle leggende su Xena. Perché qualcuno o qualcosa
l'aveva già destinato un giorno a questo compito.
E ora?
si era chiesto. Se ho esaurito il mio compito, è forse
giunta la mia ora? E in seguito, per giorni,
si era preparato psicologicamente e con rassegnazione alla fine.
Ma la morte non era giunta e la sua vita era proseguita normalmente.
Fino al giorno prima. Fino alla visita di quel Croft, venuto a fare
domande sulla morte della sua collega. Quante possibilità c'erano
che quel tipo potesse anche solo intuire la verità? Poche. Pochissime.
E tuttavia aveva trovato l'articolo, aveva sospettato un collegamento,
e nonostante i suoi tentativi di depistarlo, annoiandolo a morte
con le sue chiacchiere, poteva asserire con assoluta sicurezza che
la cosa fosse impossibile? No, onestamente non
poteva. E come spiegare quella insopprimibile agitazione che provava
da allora e che gli impediva perfino di restare seduto, nonostante
la sciatica che aveva ripreso a tormentarlo, e che lo aveva privato
di una buona notte di sonno, riportandolo con la mente alle sue
notti insonni di mesi prima? Come se qualcosa cercasse di comunicare
con lui. Come se la ruota del fato avesse ricominciato a girare.
E in un attimo decide. Devo parlare con la
dottoressa Rowles. Con Jennifer. Avvisarla. Forse il mio, il nostro,
compito non è ancora finito.
(29) Xena e Olimpia
Rientrare nella piccola,
soffocante stanza dove giaceva apparentemente assopito il vecchio,
fa dileguare in un attimo l'umore spensierato e allegro che aveva
pervaso Xena e Olimpia all'aria aperta, facendole ripiombare in
un atmosfera cupa e fastidiosamente oppressiva come se un mantello
di tenebra gravasse su quel posto. Aristis respirava lentamente
e con un tono affaticato e roco e tutto il suo corpo sembrava in
preda ad un leggero ma costante tremito. Alexi va a sedersi accanto
al letto e prende la mano del vecchio nella sua, alzando contemporaneamente
lo sguardo sulle due donne che lo hanno seguito. "Sedete."
dice, indicando due sgabelli, che Xena e Olimpia non avevano notato
nella stanza quando c'erano entrate prima. "E' una storia piuttosto
lunga e tutt'altro che piacevole." Poi, carezzando la mano
del suo tutore, mentre le due donne si siedono a loro volta, comincia
a parlare. "Vi avevo già detto
che mio padre ed io arrivammo in questo luogo molto tempo fa. Io
ormai avevo più di venti primavere e Aristis non aveva più le energie
che gli avevano permesso di viaggiare per anni sotto ogni intemperia
per le strade di tutta la Grecia, e così quando giungemmo in questa
radura e scoprimmo questa vecchia casa abbandonata, Aristis la considerò
un segno e disse che era proprio qui che Col... gli Dèi volevano
che ci stabilissimo." Il giovane aveva esitato
per non più di un attimo, ma Xena e Olimpia all'unisono avevano
avuto la precisa percezione di un improvviso imbarazzo e contemporaneamente
con la coda dell'occhio avevano osservato, ma senza darlo a vedere,
come la mano del vecchio si fosse stretta intorno alle dita di Alexi,
in una specie di ammonimento silenzioso. Tuttavia entrambe avevano
mantenuto impassibile lo sguardo posato su di lui. Schiarendosi
la gola, il giovane prosegue. "Io gli chiesi
perché di tutti i posti in cui eravamo stati avesse scelto proprio
questo. Anche se all'epoca non era ancora accaduto niente, già l'atmosfera
intorno a questa foresta era tetra e malinconica."
Adesso Alexi sembra stranamente irrequieto e cambia posizione
nervosamente sulla sedia. "Vedete, ci sono dei luoghi che...
come posso dire... posseggono una specie di aura negativa. Posti
in cui ti senti a disagio senza neanche sapere perché. Ed era esattamente
questa la sensazione che questa foresta mi dava. Sembrava che gli
alberi che circondavano questa vecchia casa tendessero i loro rami
per ghermirla. La luce del giorno non riusciva quasi a filtrare
attraverso quell'intrico di fogliame. Aristis mi rispose che era
esattamente per questo che ci fermavamo qui. Perché questo luogo
gli era stato mostrato nelle sue visioni e lui sapeva che... gli
Dèi ci avevano portati qui per uno scopo." "E' strano."
mormora Olimpia, interrompendo per la prima volta il flusso del
racconto di Alexi. Questi, perso nei suoi ricordi, si scuote improvvisamente
a quelle parole, guardandola. "Hai detto qualcosa?" "No... Sì, scusami.
Non intendevo interromperti, ma è la seconda volta che citi gli
dèi. Vedi, come forse tu saprai, io e Xena abbiamo avuto modo di
conoscerne alcuni..." "Molto più che
conoscerli, direi." dice Alexi, con un lieve sorriso. "Sì... beh, tutto
questo discorso su loro che vi avrebbero condotti con delle visioni
fin quaggiù, non offenderti, ma non mi convince molto." La
ragazza si china in avanti sul suo sgabello, congiungendo le mani
sulle ginocchia. "Voglio dire, non è il loro modo di procedere.
Gli dèi che abbiamo incontrato noi erano molto più diretti e se
volevano che qualcuno facesse una cosa, avevano modi per convincerlo
assai più sbrigativi." Olimpia lancia un'occhiata
verso Xena, che se ne è rimasta in silenzio. "Il tipo di divinità
di cui parli" prosegue poi, riportando la sua attenzione sul
giovane "ricorda di più il dio senza nome di Belur. Ne hai
mai sentito parlare?" Alexi emette un gran
sospiro e lasciata la mano del padre, si china in avanti anche lui,
in una posa simile a quella di Olimpia. "Vedi, Olimpia...
non so come spiegartelo... ma, diciamo che la situazione è molto
più complessa di quello che l'umanità pensa e crede. Se voi siete,
come io ritengo, le persone che stavamo aspettando, vedrete ed entrerete
in contatto con cose che forse scuoteranno radicalmente la concezione
che avete di questo e dell'altro mondo e ciò che saprete vi renderà
difficile continuare a..." "Alexi, no." Aristis, ancora una
volta non ha mosso un muscolo del volto, tanto da dare l'impressione
che quello che hanno udito sia la voce del suo pensiero, anziché
dei suoni articolati. Il vecchio giace ancora immobile nel suo letto,
ma quelle parole, benché poco più che sussurrate, conservano tutta
l'autorità di un ordine che non ammette repliche. "Ma padre"
comincia Alexi "se devono affrontare..." "Qualunque cosa
siano destinate a fare" mormora il vecchio "non sei tu
a decidere cosa debbano sapere, né quando e se dovranno mai saperlo."
Lo sforzo di parlare, anche se in realtà muove appena
le labbra, sembra aver provato duramente Aristis. "Devi
dire solo l'essenziale, figlio. E' questo il nostro compito. Nient'altro." Il silenzio che segue
è rotto per qualche istante solo dal respiro ancor più roco e quasi
rantolante del vecchio, mentre Alexi china la testa con un rammarico
evidente sul viso. Olimpia fa per dire qualcosa, quando d'improvviso
alla sua destra, Xena si alza di scatto facendo quasi rotolare di
lato il suo sgabello. "D'accordo. Sapete
cosa?" dice. "Volete continuare a giocare agli indovinelli?
Buon divertimento. Noi adesso andiamo di là a rivestirci. Poi recuperemo
Argo e lasceremo questo posto con tutti i suoi misteri e le sue
maledizioni. Forse tuo padre ha ragione, Alexi. Hai preso un granchio.
Non siamo noi le persone che aspettavate. Andiamo, Olimpia." "Xena..."
prova a dire la compagna, ma la guerriera è già uscita dalla stanza,
prima che possa fare un movimento per fermarla. "Fermala, Olimpia,
ti prego." le chiede Alexi, con tono d'implorazione. "Non
resta molto tempo per..." "Sai, non ha tutti
i torti." gli risponde la ragazza bruscamente. "Ci avete
rapite, trascinate qui contro la nostra volontà, continuate a biascicare
di chissà quale missione vitale per il mondo e al tempo stesso non
volete dirci con esattezza cosa sta succedendo. La cosa comincia
ad irritare perfino me." "Olimpia, ti assicuro
che..." "No, Alexi, mi
dispiace. Se non vi fidate di noi abbastanza da dirci tutto, non
credo che ci sia altro di cui parlare." "Olimpia!"
chiama la voce di Xena dall'esterno. "Sto arrivando."
risponde questa, voltando le spalle al giovane, e dirigendosi verso
la porta. La ragazza sta per varcare la soglia, quando un gemito
prolungato risuona alle sue spalle. Un gemito così acuto da non
sembrare neanche umano. Con un brivido, Olimpia si gira verso il
letto, dove il corpo del vecchio disteso adesso è tutt'altro che
immobile. Il fragile involucro di pelle ed ossa è scosso da violente
convulsioni e le sue mani sono strette intorno alla testa come se
volessero sradicarla. "Padre! Che hai?"
grida Alexi, accorrendo al suo fianco. Olimpia che è rimasta immobilizzata
sulla porta dalla sorpresa si getta al suo seguito. "XENA!"
urla. "CORRI!". I due cercano disperatamente
di bloccare quello che sembra solo il debole corpo di un vecchio,
ma Aristis pare preda dei demoni. I muscoli delle braccia e delle
gambe sono irrigiditi come i rami di un albero e i denti nella sua
bocca, ancora in maggioranza intatti e sani nonostante l'età, per
quanto si riesce a scorgere, sono così digrignati che stanno scavando
solchi di sangue tra le sue labbra. Se avesse ancora gli
occhi, pensa Olimpia, ora
starebbero uscendogli dalle orbite. Il rumore di stivali
pesanti che percuotono il legno del portico precede solo di qualche
istante il suono allarmato della voce di Xena. "Che diavolo succede?"
esclama la guerriera entrando di corsa. "Sta male."
risponde Olimpia stesa quasi sul corpo di Aristis per tenerlo fermo,
mentre Alexi come paralizzato fissa ad occhi spalancati suo padre. Xena lo guarda e poi
si precipita verso la compagna, scaraventando da parte il giovane
che ora ha spostato lo sguardo verso la piccola finestra della stanza,
mormorando qualcosa di incomprensibile. "Non puoi bloccarlo
con la stretta?''
chiede Olimpia, scivolando da una parte per permettere a Xena di
afferrare meglio il vecchio. "E' troppo pericoloso.
E' vecchio ed in condizioni precarie. Potrei ucciderlo se ci provassi." "Allora cosa facciamo?" Poi, Olimpia vede Alexi
che è rimasto immobile con la schiena appoggiata alla parete come
se avesse bisogno di un sostegno e gli occhi puntati nella direzione
della finestra. "Alexi! Muoviti!
Dacci una mano!" Ma il giovane continua
a fissare davanti a sé come
se stesse vedendo qualcosa di molto più terrificante della vista
di suo padre in quelle condizioni. "E' qui."
mormora, questa volta in modo chiaro. "E' qui. Sta arrivando." "Cosa?" Perplessa,
sia pur in quel momento di caos, Olimpia non può fare a meno di
lanciare un'occhiata alle sue spalle, verso la finestra da cui,
adesso se ne rende conto, non arriva più alcun raggio di quel sole
che fino a pochi minuti prima brillava sulla radura. Anzi, tutta
la stanza sembra essere piombata in una specie di buio, molto vicino
a quello della notte. Le fronde degli alberi visibili dalla finestra
sembrano agitate da un vento fortissimo, di cui però non pare giungere
un solo alito nella stanza. E Olimpia ode distintamente il rumore
di rami spezzati in avvicinamento. Poi, tutta la sua attenzione
torna su Aristis, perché il corpo del vecchio ha smesso di scuotersi
e sotto lo sguardo sbalordito delle due donne, ha cominciato a sollevarsi
lentamente ma in maniera evidente dalla superficie del letto. La
coperta gli scivola di dosso, mentre Xena che lo teneva ancora per
un braccio, lascia la presa, allontanandosi di un paio di passi.
Anche Alexi ha smesso di fissare la finestra e guarda il corpo di
suo padre che sempre in posizione supina ora levita nell'aria ad
un altezza di circa un paio di cubiti. Il tempo sembra essersi bloccato
nella stanza con le tre persone immobili in piedi, quasi in semicerchio,
intorno alla figura di Aristis, poi improvvisamente qualcosa come
un'onda sonora emana da lui, spargendosi a raggiera. Niente di visibile
e neppure di veramente udibile. Una specie di sibilo acutissimo
che tuttavia rischia di perforare i timpani e che costringe le due
donne e l'uomo a coprirsi le orecchie istintivamente, a cui fa da
eco un altro suono, questo davvero indescrivibile. Una volta, durante uno
dei suoi viaggi senza mèta, nel periodo dopo la morte di Aristarco
e l'abbandono di Seleuco ai Centauri, Xena si era ritrovata, non
rammenta neanche come, nella giungla della parte più inesplorata
dell'India ed a contatto con le creature più feroci e selvagge di
quel territorio. Là aveva assistito, non vista ed incidentalmente,
ad uno scontro tra una tigre in caccia ed un elefantessa che cercava
di proteggere i suoi piccoli. Ad un certo punto, la tigre era riuscita
a saltare in groppa al pachiderma e le aveva affondato i denti nel
collo. Il barrito intriso di rabbia, dolore e terrore che l'elefantessa
aveva cacciato le era rimasto impresso per molto tempo e le torna
in mente adesso, mentre anche attraverso le mani che le coprono
le orecchie, riesce a sentire chiaramente l'urlo proveniente dagli
alberi. Il suono risuona nell'aria per interminabili momenti, poi,
d'un tratto come è iniziato svanisce in lontananza, mentre il rumore
di foglie e rami spezzati s'interrompe contemporaneamente e il silenzio
sembra di nuovo regnare intorno a loro. Olimpia, lanciandole
uno sguardo in cui si combattono paura e sgomento, si allontana
cautamente le mani dalle orecchie, subito imitata dagli altri due
ed in quel momento, Aristis ricade pesantemente sul letto. Subito
i tre si gettano in avanti per afferrarlo prima che scivoli a terra
nel rimbalzo, adagiandolo di nuovo al centro, e tre paia di occhi
si posano sul corpo abbandonato in mezzo a loro. "Dèi dell'Olimpo,
Xena." mormora Olimpia, senza riuscire a distogliere lo sguardo.
"E'..." La guerriera allunga
una mano e tocca delicatamente il collo rinsecchito, lasciandovela
per qualche istante. Poi, con un sospiro di rassegnazione, la stacca. "Mi dispiace."
dice, guardando Alexi, ancora immobile accanto a lei. "E' morto." Il giovane, senza una
parola, si avvicina a suo padre e cade in ginocchio. Poi, china
la sua fronte sul petto del vecchio e rimane così, mentre leggeri
singhiozzi lo scuotono. Xena e Olimpia restano
ad osservarlo, appena consapevoli del timido raggio di sole che
sta tornando a fare capolino sul davanzale della piccola finestra.
(4
- continua) |
|