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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo IV)

Parte 1

(23) Jennifer e Carruthers

 

Con le mani ancora tremanti, Jennifer avvicina alle labbra la tazza di caffè fumante che il premuroso Dooley le ha offerto. Dopo la crisi che l'aveva colta la vecchia Rose era caduta in uno stato di incoscienza e adesso c'era un medico che se ne stava occupando. Lei invece era insieme a Carruthers nell'ufficio di Price a tentare di riconquistare un minimo di dignità. Il capitano aveva chiesto che potessero rimanere soli per qualche minuto e gli altri poliziotti li avevano accontentati senza obiezioni.

"Perché non mi hai detto che stavi male?"

Mentre la donna sorseggia la sua bevanda in silenzio, Carruthers è rimasto seduto sulla sedia del sergente, con le mani conserte sulla scrivania, un po' proteso in avanti verso di lei.

"Io sto benissimo." risponde Jennifer, fissando lo sguardo sulle volute di fumo che si sollevano dalla sua tazza.

"Ma certo. Si vede. Sei bianca come un lenzuolo e tremi come una foglia. Non dovevi venire. Bastava mi mandassi al diavolo una volta di più. Tanto chi ci fa più caso ormai?"

"E' stato un mio errore. Non avrei dovuto affrontare il colloquio senza sapere prima tutto il possibile su quella Rose."

"No. L'errore è stato mio. Non avrei dovuto insistere. Ma ero convinto che fosse quello di cui avevi bisogno per uscire dalla tua crisi."

La voce del poliziotto ha un tale tono di sincera mortificazione che Jennifer non può fare a meno di provare un senso di compassione per lui, e notando che il tremito alle mani è un po' diminuito, posa la tazza semivuota sulla scrivania.

"OK." dice, guardando Carruthers. "Ormai sono qua. Che ne diresti di raccontarmi un po' più dettagliatamente questa storia?"

Con un sospiro, il capitano si appoggia allo schienale, facendo pressione con i piedi e ruotando da destra a sinistra la poltroncina girevole e tace per qualche secondo, come cercando le parole giuste.

"Non hai visto nessun notiziario, oggi, vero?" chiede infine.

"Domanda inutile, George. Non sono mai stata una patita della tv, lo sai."

Soprattutto dopo quella notte, aggiunge l'insopprimibile voce nella sua mente.

"Me lo immaginavo." risponde Carruthers. "Il sacco che ha portato qui quella barbona non è il primo. Questa mattina, due netturbini ne hanno rinvenuto uno simile in un cassonetto."

Jennifer continua a guardarlo, senza dire niente, come se stesse aspettando che il significato di quello che ha appena ascoltato le si chiarisse nel cervello.

"Abbiamo cercato di tenere nascosta la cosa, ma non è stato possibile. Quei due idioti si sono messi a strillare come aquile e prima che arrivassimo noi, la notizia aveva già fatto il giro di tutto il quartiere. E un paio di stazioni tv erano già sul posto."

"Ma guarda." mormora la donna. "Allora questa volta Ballister non ce l'ha fatta a coprire tutto, eh?"

Carruthers finge di non aver sentito quelle parole e soprattutto, l'inequivocabile tono sarcastico in esse, e prosegue il suo racconto.

"Abbiamo immediatamente provveduto a rimuovere il sacco e il suo contenuto. Adesso sono all'esame del medico legale, ma temo che non ci siano molti dubbi su cosa si tratti."

Il poliziotto fa una pausa, forse aspettandosi una domanda o un'altra osservazione, sarcastica o meno, da Jennifer, ma la donna resta in silenzio.

"Anche quel sacco era pieno di ossa, Rowles. Ossa e teschi piccoli, appartenenti almeno a due corpi. Corpi di bambini, probabilmente neonati."

Finalmente, quest'ultima frase sembra avere ottenuto un certo effetto, nota con un pizzico di colpevole soddisfazione Carruthers, ma fa finta di nulla e continua.

"Naturalmente stiamo ancora aspettando gli esiti degli esami, ma direi che ormai si può formulare un'ipotesi abbastanza precisa in proposito."

"Un cannibale?" Jennifer pronuncia la parola con una strana sensazione nel sentirla risuonare in quell'ufficio di polizia così ordinario, con il suo computer in attesa in un angolo della stanza e i suoi scaffali e classificatori rigurgitanti di fogli e cartelle. In un luogo simile un'immagine in apparenza così aliena come quella che l'iconografia classica assegna a un essere mostruoso come quello, appariva ancora più incongrua. 

"Pazzesco, eh? E stasera è capitato questo. Ho preferito non spiegarti prima perché volevo che tu parlassi con quella donna senza idèe preconcette in testa. Che cosa ne pensi di lei?" chiede il capitano.

"Non è facile così di primo acchito." risponde Jennifer. Si sentiva ancora un po' confusa e frastornata, ma dentro di lei, molto nel profondo, qualcosa di quella professionista innamorata del suo lavoro che era stata un tempo, si stava agitando cercando disperatamente di tornare in superficie. "E' chiaro che si tratta di un soggetto psicotico con manie depressive e persecutorie. Qualcosa di più direi di una semplice alcolizzata. Anche se l'uso continuato di sostanze alcoliche, per giunta di pessima qualità, non ha certo migliorato il quadro clinico."

Nonostante l'aria preoccupata che non ha mai abbandonato gli occhi di Carruthers, a Jennifer sembra di notare adesso sulle sue labbra un leggero sorriso. Bentornata, dottoressa Rowles. Ma se c'è davvero stato, scompare subito e l'uomo torna immediatamente alle sue funzioni di ufficiale di polizia.

"In poche parole, la ritieni pericolosa?"

"Beh" risponde Jennifer, massaggiandosi le braccia ancora doloranti "se dovessi risponderti in base alla mia esperienza personale, dovrei dirti di sì. Ma in realtà, non saprei. Ammetto che in quella stanza, mi sono lasciata un po' suggestionare dall'ambiente e dai discorsi, ma credo che il difetto vada ricercato più in me che in lei. I miei nervi non sono ancora a posto ed è possibile che la mia agitazione si sia comunicata a lei. I soggetti psicotici sono molto ricettivi alle atmosfere, agli ambienti e agli umori delle persone con cui si relazionano. "

Mentre pronuncia queste frasi, Jennifer è la prima a sorprendersi della facilità con cui le parole le tornano sulle labbra. Ora le paure e le ansie provate nella stanza degli interrogatori le paiono cose lontanissime nel tempo e se non fosse per il dolore e l'indolenzimento che sente ancora nei muscoli, sarebbe portata a pensare che si sia trattato solo di un incubo particolarmente realistico.

E il tutto era rafforzato dall'immagine consueta, almeno fino a pochi mesi prima, di lei e Carruthers seduti in un ufficio, con abbondanti tazze di caffè bollente davanti, a discutere dei casi di turno. Come se niente fosse accaduto, se gli avvenimenti dei mesi precedenti fossero stati cancellati come scritte in gesso su una lavagna. E avrebbe scommesso che anche il poliziotto stava provando le stesse sensazioni.

Ma naturalmente non era così. Non avrebbe mai potuto esserlo. Ciò che era accaduto era vividamente presente nella sua mente e niente avrebbe mai potuto cancellarlo. Ma adesso c'era forse qualcosa a cui aggrapparsi. Qualcosa di orribile, perfino diabolico, ma nondimeno concreto e per la prima volta da tempo incalcolabile, Jennifer si sente di nuovo quasi viva.

"Quindi" riprende, dopo essersi alzata ed aver nuovamente riempito la tazza dalla larga brocca lasciata in un angolo da Dooley "se mi stai chiedendo, se penso che quella donna possa entrare minimamente in questa storia, allo stato attuale non posso che rispondere di no. Ma per farmene un'idea accurata, dovrei saperne qualcosa di più."  

Carruthers che è rimasto ad ascoltarla e ne ha seguito attentamente i movimenti in quegli ultimi momenti, le sorride con aria soddisfatta.

"In questo posso accontentarti, Rowles." dice il poliziotto alzandosi e dirigendosi alla porta dell'ufficio.

L'uomo apre la porta e fa un cenno a Price che è rimasto diligentemente fuori fino a quel momento.

"Entra, Bob." lo chiama, tornando a sedersi dietro la scrivania. "Avanti, raccontale tutto quello che sappiamo su quella Rose. Mi prendo io la responsabilità."

"Subito." Price si avvicina ad uno scaffale alla parete di fronte e sfoglia alcune cartelle, estraendone infine una e porgendola alla psicologa. "Questo è tutto quello che siamo riusciti a raccogliere sulla barbona... sì, voglio dire, sulla vecchia Rose."

Jennifer scorre superficialmente le pagine stampate che il poliziotto le ha sottoposto. Sull'angolo sinistro del primo foglio è allegata con una clip, una doppia foto segnaletica della donna che hanno lasciato poco prima a dibattersi sul pavimento della stanza degli interrogatori. Accanto una fitta massa di parole in corpo minuscolo e stampate male. Dopo un paio di tentativi di decifrazione, Jennifer alza gli occhi sul giovane sergente.

"Sì, lo so. La nostra stampante non è un granché." cerca di sorridere lui, riprendendole il dossier e sfogliandolo. "Beh, in due parole, il suo vero nome è Rosebud Benedectine Fouraux, nata a Louisville, Virginia, quarantacinque anni fa." Price s'interrompe lanciando un'occhiata a Jennifer. "Proprio così, non si direbbe, eh? Ne dimostra almeno sessanta. Brutti scherzi fa l'alcolismo. Comunque, mi sono messo in contatto con la polizia di Louisville e pare che sia una che non c'è mai stata tanto con la testa. Era di buona famiglia, anche. Suo padre, rimasto vedovo alla sua nascita, aveva una ditta tessile, ma la ragazza mostrò fin dall'inizio che la vita tranquilla e agiata di quel mondo non faceva per lei. Già, una vera scavezzacollo. Da giovane era entrata in una banda di delinquentelli del posto ed è finita dentro un paio di volte per danneggiamenti e piccoli furti. I soldi del padre l'hanno tirata fuori da un sacco di guai. Ma il peggio per lei è cominciato quando ha incontrato il reverendo Mills. Oh, chiaramente non si trattava di un vero reverendo. Era solo uno di quei ciarlatani che si riempiono la bocca con frasi bibliche mandate a memoria e che incantano i poveri di spirito come la nostra Rose. Lei, che a quanto pare all'epoca era tutt'altro che da buttar via, si lasciò affascinare da tutti i suoi discorsi e decise di dividere la vita con lui a redimere anime perdute. Ma naturalmente i progetti del reverendo erano molto meno lungimiranti e più terreni. Lui se la..." E qui, Price fa un'altra pausa imbarazzata, ricordatosi evidentemente appena in tempo con chi sta parlando e strappando un sorriso appena accennato a Jennifer. "...portò a letto, e poi la scaricò, con una pagnotta in forno." prosegue poi, distogliendo lo sguardo dalle pagine e posandolo sulla sua interlocutrice per studiare l'effetto della sua scelta di parole. " Se capisce ciò che intendo."

"Ho capito benissimo, sergente. Non si preoccupi." risponde Jennifer, sorbendo il suo caffè.

"Già. Beh, comunque tutte le idiozie che quel predicatore da strapazzo aveva ficcato in testa a Rose avevano trovato terreno fertile nella mente già abbastanza confusa di quella poveretta e cominciarono a dare i loro frutti. E la vecchia Rose, che allora era ancora giovanissima, poco più che ventenne, buttata fuori casa dal padre che non ne poteva più di lei, prese ad andarsene in giro, raccontando che Mills, che in quel momento era probabilmente lontano centinaia di miglia a mettere nei guai qualche altra disgraziata, era Nostro Signore, sceso sulla terra per renderla madre del nuovo messia e roba simile, mentre il suo pancione cresceva sempre più. E insieme alla pancia cresceva la sua affezione per gli alcolici. Qualche settimana dopo, proprio mentre scontava l'ennesima condanna per ubriachezza, nacque il bambino. Naturalmente il tribunale si affrettò a toglierglielo e a darlo ad un istituto in attesa di adozione."

Nelle orecchie di Jennifer riecheggiano le parole pronunciate da Rose nella stanza degli interrogatori.

Il Signore della Menzogna... lui che venne a portarmi via il mio bambino! ...con la pelle lucida e nera come la pece. 

Nella mente esaltata di quella poveretta, la figura del giudice nella toga nera e lucida si doveva essere sovrapposta alle immagini demoniache ispiratele dal suo amante, e Rose aveva fatto due più due, saltando alla conclusione che il Diavolo le avesse portato via il figlio, cioè il nuovo messia messole in grembo dall'uomo che per lei era Dio, tornato poi nell'alto dei cieli in tutta la sua gloria. Un sorrisetto amaro le si dipinge sulle labbra. E' incredibile ciò che è in grado di escogitare la mente umana per sopravvivere ai propri fallimenti. Ma a cosa aveva assistito veramente Rose quella stessa notte? Il Diavolo che affermava di avere visto, poteva essere qualcuno con un impermeabile o un soprabito nero, magari un'incerata? E le corna? Solo una proiezione della sua immaginazione morbosa o che altro?

Mentre rimugina su tutto questo, Jennifer si sorprende nello scoprire quanto quella storia stia davvero occupandole i pensieri, liberandola gradatamente da quel vuoto fisico e mentale che aveva avvertito addosso per mesi, come una ventata gelida, ma corroborante in una stanza rimasta per troppo tempo chiusa.

La voce del sergente Price che continua a parlare la riporta al presente.

"Quando tornò in libertà, Rose deve aver cercato di ritrovare il suo bambino, ma naturalmente la famiglia di adozione era rimasta anonima e così..."

"Ha continuato a raccontarsi che il Diavolo le aveva portato via suo figlio." conclude Jennifer per lui. "Era sicuramente più facile da accettare per la sua mente sconvolta."

Price, sorpreso dall'inattesa interruzione, resta per un attimo in silenzio, aspettando che lei aggiunga qualcosa d'altro, poi visto che non accade, prosegue.

"Proprio così. Poi, non sappiamo quando né come, è arrivata qui, una decina di anni fa. Ha cominciato ad andare in giro mendicando e credo occasionalmente prostituendosi, anche se non l'abbiamo mai beccata col sor... in flagrante, ma sostanzialmente è solo una svitata innocua. E prima di stasera non aveva precedenti di comportamenti violenti."

"E non li avrà neanche stavolta." Jennifer si alza. Le sue gambe sono abbastanza solide e il tremito è solo un ricordo. Price e Carruthers, che è rimasto in silenzio durante tutto il rapporto del sergente, fanno altrettanto.

"Non ha intenzione di sporgere denuncia, allora?" Il sergente posa la cartella al suo posto sullo scaffale.

"E per che cosa? Per avermi abbracciata un po' troppo forte?" chiede la psicologa. "Quella povera donna ha già avuto la sua porzione di guai nella vita e non intenzione di dargliene anch'io."

"In tal caso, la spediremo in ospedale per qualche controllo e poi tornerà libera. Anch'io non credo che rappresenti un pericolo per sé o per gli altri." dice Price.

"Ad ogni modo" aggiunge il capitano, infilandosi il soprabito "a me non dispiacerebbe se la trattenessi in ospedale per qualche giorno. Giusto per prudenza. E falla anche sorvegliare per un po'."

Il sergente che stava riprendendo possesso della sua poltrona lo fissa.

"Allora crede che sia..." comincia.

"Io non credo nulla." ribatte secco Carruthers. "Ma quella donna ha assistito al tentato occultamento di un cadavere, o di quello che ne restava, e non si può escludere che il tizio che l'ha commesso possa averla vista a sua volta." 

E seguendo Jennifer che è già sulla soglia, il poliziotto volta le spalle all'interdetto Price.

 

"Allora, come va adesso?"

Jennifer lascia che la domanda posta da Carruthers le rimbalzi per qualche attimo nella mente, mentre cerca di trovare una risposta lei stessa alla questione.

Come sto adesso? Meglio, molto meglio.

Poteva sembrare strano a dirsi ma quell'esperienza in quella minuscola stanza di quella squallida stazione di polizia, che per certi l'aveva terrorizzata, le aveva anche provocato una benefica scossa e forse per la prima volta da mesi, Jennifer si sentiva almeno parzialmente liberata da quella cappa di tristezza e depressione che le gravava continuamente addosso. Ora la sua mente le sembrava più lucida ed il fatto che almeno da un paio d'ore a quella parte il suo principale pensiero non fosse più stato quello ossessivo e morboso della morte di Joyce era un ottimo segnale.

Naturalmente non era così ingenua da pensare che si fosse liberata per sempre, come con un colpo di bacchetta magica, della maledizione che l'aveva accompagnata tanto a lungo e sapeva bene, da professionista del settore, che le ferite psicologiche sono le più dificili ed insidiose da guarire e che i peggioramenti improvvisi e imprevedibili sono sempre in agguato quando meno te lo aspetti, ma sapeva altrettanto bene che la guarigione doveva pur cominciare da qualche parte e il suo lavoro era sempre stata la sua grande e più efficace medicina. Lo era stata dopo la morte di sua sorella e lo sarebbe stata anche adesso.

E io debbo andare avanti. Perdonami Joyce, non ti dimenticherò mai, ma sono certa che è quello che vorresti anche tu. Io devo andare avanti.

"Beh, allora?"

La voce dal tono ora lievemente preoccupato di Carruthers la risveglia dalle sue meditazioni e Jennifer si volta verso di lui con un leggero sorriso.

"Un po' meglio adesso, grazie."

"Vero?" dice il poliziotto, con espressione sollevata, tornando a rivolgere la sua attenzione alla guida della sua vecchia Ford. Nonostante la promozione e il conseguente miglioramento economico, non gli era mai passata neanche per la mente di cambiare il suo tenore di vita, né abitazione, né tantomeno quella vecchia carretta a cui era affezionato e questo sarebbe parso sintomatico a qualunque buon osservatore.   

"Sembra anche a me che tu stia meglio." prosegue, azzardando anche lui un lieve sorriso all'indirizzo della donna. "Mi fa piacere che tu abbia ritrovato un po' del tuo vecchio spirito. Quell'aria perennemente triste non ti si confaceva."

Jennifer gli lancia un'occhiata.

"George, guarda che non è cambiato nulla tra noi. Non ho dimenticato quello che è successo. Non potrò mai dimenticarlo, non farti illusioni. E se questa notte ho aderito alla tua richiesta non è stato per farti un favore, ma solo perché ho pensato che ci fosse qualcuno che poteva aver bisogno di me."

E perché ho visto fuori dalla mia finestra alberi che non esistono.

Il sorriso appena accennato è già scomparso dai loro volti.

"Non pretendo questo. Non temere." mormora Carruthers, con lo sguardo fisso sulla strada. "Ma comunque tu la pensi su di me, io ti considero sempre la migliore consulente psicologa di cui abbia mai potuto disporre e mi fido ciecamente del tuo giudizio."

Ah sì? E la pensavi così anche mentre mi facevi pedinare per ordine del tuo capo?

Il pensiero si forma istantaneamente nella mente di Jennifer, ma la donna lo ricaccia indietro e cerca di concentrarsi su quello che Carruthers le sta dicendo.

"Che dicevi?"

"Ti ho chiesto che impressione hai di questa storia, dopo quello che hai sentito?"

"Beh, quella Rose, innocua o meno, è probabilmente matta come un cavallo, ma ritengo che sfrondando quello che mi ha raccontato da tutte le sue allucinazioni religiose, potrebbe aver visto davvero qualcosa d'importante. Ho pensato, per esempio, che potrebbe aver scambiato un impermeabile o un'incerata umida di pioggia per la pelle lucida del demonio."

"E quindi potrebbe davvero aver visto l'assassino?"

"Certo. O magari un suo complice, intento a nascondere le prove del loro operato."

"Ma che senso potrebbe avere? Di quei bambini non si è saputo niente per settimane e d'improvviso in ventiquattr'ore troviamo i resti di tre. Perché attendere tanto tempo e poi sbarazzarsene così? E perchè gettarne due al mattino nella spazzatura e rischiare di farsi cogliere in flagrante la sera stessa andandone a seppellire un altro in un giardinetto pubblico? Perché non gettare anche quello insieme agli altri?".

"Innanzitutto non sappiamo quando è stato gettato il sacco ritrovato tra la spazzatura. In certi quartieri un po' periferici, a volte passano giorni prima che si provveda a svuotare i cassonetti."

"Sì, è giusto." borbotta Carruthers, riflettendo." E forse proprio il gran bordello fatto dalle tv oggi potrebbe aver spaventato il colpevole, spingendolo a sotterrare lo scheletro del terzo bambino."

Il viaggio prosegue in silenzio per qualche secondo, mentre evidentemente il poliziotto sta cercando di mettere in un ordine convincente i vari pezzi del mosaico.

"Però, ancora non capisco, perchè assumersi un rischio del genere." sbotta infine, dando un colpo al volante. "Da qualunque parte la esamini era molto meno pericoloso gettare il secondo sacco in un altro cassonetto, magari dieci isolati più distante, che mettersi a scavare una buca pur in piena notte."

"A meno che..." comincia Jennifer, poi s'interrompe.

"A meno che, cosa?" chiede Carruthers dopo aver atteso invano per qualche interminabile secondo che concludesse il concetto.

"A meno che" riprende la psicologa "non faccia parte di un rito."

"Un rito?" ripete il poliziotto perplesso.

"L'antropofagia nei secoli è spesso collegata a credenze magiche e rituali. Naturalmente questo non è il mio ramo. Dovrei fare delle ricerche, ma questa potrebbe essere una possibile spiegazione. Si sa in che punto esatto era stato seppellito lo scheletro?"

"E' già stato controllato." risponde l'uomo, scuotendo la testa. "C'è solo un giardino pubblico nelle vicinanze del luogo dove vive quella barbona. Per dissotterrare il sacco, quella donna ha praticamente sventrato il terreno a mani nude. Se anche ci fosse stato qualche indizio di rituale, segni o incisioni nella terra... è questo che intendevi, no?"

"Più o meno."

"Beh, non è rimasto niente di identificabile." conclude Carruthers.

L'auto rallenta, mentre l'uomo sterza lentamente verso destra, posizionandola a ridosso del bordo del marciapiede davanti alla casa di Jennifer.

"Bene. Buona notte... beh, forse è meglio dire buon giorno... " dice guardando l'orologio luminoso sul cruscotto. "Aspetto tue notizie."

"D'accordo. Ci sentiamo." Jennifer fa per scendere dalla vettura, quando una mano di Carruthers sul suo braccio la ferma.

"Aspetta. Tieni questo." le dice, prendendo qualcosa dal sedile posteriore e tendendole una cartella chiusa da un elastico.

Jennifer prende la cartella, senza una parola, gettandogli un'occhiata interrogativa.

"Non sono documenti ufficiali. Solo un paio di fotocopie di rapporti di pattuglie in servizio e qualche articolo di colore che ho raccolto qua o là. E' solo perché tu ti faccia un'idea più precisa. Nessun impegno. Se non vorrai continuare, non dovrai fare altro che dirmelo, senza problemi. Io capirò."

Sempre senza parlare, ma con un rapido cenno, la psicologa scende dall'auto.

"Ehi, Rowles." la richiama la voce di Carruthers. La donna si volta.

"Anche se in una circostanza simile, è lo stesso un piacere tornare a lavorare con te."

"Noi non siamo tornati a lavorare insieme, George." dice Jennifer chinandosi verso il finestrino della macchina. "Ho solo risposto ad una richiesta di consulenza della polizia, perché ritengo che sia mio dovere dare il mio contributo, nei limiti del possibile. E comunque il dipartimento riceverà la mia parcella come consulente esterno."

Il motore della Ford aumenta i giri, e l'auto si stacca dal marciapiede per immettersi nuovamente nel traffico.

"Come vuoi." dice con tono improvvisamente freddo Carruthers, voltando la testa dall'altra parte, senza più guardarla. "Allora il dipartimento ti ringrazia."

"Non c'è di che." risponde la donna, stringendo al petto il plico e girandosi per cominciare a salire i gradini di casa, cercando di non ascoltare il rabbioso stridìo delle gomme alle sue spalle.

 

 

(24) Xena e Olimpia

 

"Xena! Fermati! Guarda che disastro hai combinato!"

Con uno sforzo, Olimpia sposta il viso di Xena pericolosamente vicino al suo, e afferrandola per il mento la costringe a voltare la testa per osservare il paniere rovesciato e le decine e decine di frutti rotolati in tutti gli angoli del portico e giù per i gradini.

"Io, eh?" commenta la guerriera sollevando il peso del proprio corpo da quello della compagna letteralmente schiacciata sotto di lei. "Sei tu che scalci come un mulo impazzito."

"Non l'avrei fatto se non avessi dovuto liberarmi da una specie di piovra dai mille tentacoli. Ma quante mani hai?"

"Quelle che bastano." risponde la compagna con un sorriso malizioso, tirandosi in piedi e rimettendosi  in ordine  per quanto possibile. "Anche tu non scherzi, comunque." aggiunge tastandosi sotto i vestiti di pelle. "Quando mi hai slacciato il reggiseno? Non me ne sono accorta."

"Ho molte doti." sorride furbescamente Olimpia a sua volta. "Dài, adesso dammi una mano a raccogliere questa roba."

Insieme le due donne si chinano e cominciano a riempire di nuovo il cesto con tutte le bacche rovesciate per terra.

"Ehi, ma le raccogli o le mangi?"

Xena si ferma nell'operazione con uno sguardo ad Olimpia.

"Mmmh... Non so che farci." risponde la ragazza, masticando l'ennesimo frutto rosso, con gli occhi chiusi e un rivolo di succo che le scende sul mento. "E' più forte di me. Sono irresistibili. Non so come possano non piacerti."

"Non ho detto che non mi piacciono." dice Xena riprendendo il suo lavoro e gettando manciate di bacche all'interno del cesto. "Ma solo che sono un po' troppo dolci per me."

"Forse è perché non l'hai assaggiate con la giusta concentrazione. Adesso, chiudi gli occhi."

E con una delle bacche rosse particolarmente voluminosa e dall'aspetto succulento stretta tra le dita, Olimpia si avvicina a Xena.

"Olimp-fht." riesce appena a dire Xena, prima che la compagna le infili in bocca il frutto.

"Zitta e fai come ti dico. Chiudi gli occhi e comincia a masticare molto lentamente. Ecco, così." dice soddisfatta nel vedere Xena eseguire i suoi ordini dettagliatamente. La donna sta cercando chiaramente di accontentarla, concentrandosi al massimo nell'assaporare la polpa succosa della bacca. Poi dopo aver inghiottito, Xena riapre gli occhi fissando quelli della compagna a poca distanza dai suoi che le rimandano uno sguardo ansioso.

"Allora?"

Xena cerca di mettere insieme un mezzo sorriso.

"Sì, ehm... buona."

"Non ti piace."

"Olimpia..."

"Lascia perdere." risponde la ragazza, sbrigativamente, riprendendo a raccogliere le bacche rimaste al suolo.

"Olimpia, non possiamo condividere tutto." dice Xena, gettandone un'altra manciata nel cesto che ora è quasi tornato colmo come prima. "Essere anime gemelle non significa rinunciare alle proprie personalità o ai propri gusti. Tu sei sempre stata una miglior buongustaia di me. Perchè credi che lasci cucinare sempre te?"

"Oh, allora vuol dire che non lo fai perché odi pentole, padelle e girare l'arrosto sullo spiedo?" arriva secca la domanda con una punta di ironìa.

Xena esita un istante.

"Anche, forse... ma non è questo il punto." ribatte velocemente la guerriera, riconoscendo in tempo il pericoloso declivio che la conversazione sta prendendo. "Quello che voglio dire è che ognuna di noi ha le proprie specialità, le cose in cui eccelle e che le piacciono di più e anche se a volte non coincidono perfettamente, questo non è un ostacolo, ma anzi un modo per completarci a vicenda."

Olimpia la fissa, cercando di decidere se la compagna stia parlando seriamente o se abbia ancora voglia di prenderla in giro.

"Profondo, molto profondo." dice infine, chinandosi di nuovo per raccattare le ultime bacche. "Poi mi spiegherai come siamo finite a parlare di questo, partendo da delle semplici bacche di cui non sappiamo neanche il nome."

"Non gliel'ho mai dato e non so se ne hanno uno."

La voce gentile di Alexi alle loro spalle giunge improvvisamente sorprendendo anche i sensi acutissimi di Xena. Il giovane le sta guardando sorridente appoggiato alla porta d'ingresso.

"Scusaci per questo piccolo incidente." dice subito Olimpia andandogli incontro con un sorriso. "A volte Xena è un po' irruenta." aggiunge beccandosi un'occhiataccia dalla compagna.

"Come si sente adesso tuo padre?" chiede Xena, decidendo di lasciar cadere la cosa e avvicinandosi anche lei.

"Un po' meglio, pare. Ma sarà bene che resti a riposo per oggi." Alexi scende i gradini del portico raggiungendole. "Sono contento che i frutti che ho portato ti piacciano. In realtà sono per te... cioè, per voi, per tutte e due, certo." dice poi arrossendo violentemente sotto lo sguardo di Xena.

"E non sai come si chiamano?" chiede Olimpia, ignorando volutamente quegli incroci di sguardi.

"Mai saputo. Quello che so è che non le ho mai viste da nessuna altra parte e che sono buonissime. Neanche Aristis le conosceva prima di arrivare qui, quindi per quanto ne sappiamo crescono solo in questo posto. Beh" dice poi, guardando verso la fitta macchia di alberi che si interrompe a circa venti passi di distanza dalla casa "perfino un angolo oscuro e sinistro come questa foresta doveva pure avere qualcosa di buono."

"Cosa sta succedendo, Alexi? Perché quella donna è morta e hanno cercato di incolpare noi?" Olimpia si è avvicinata al giovane, posandogli una mano sul braccio e provocandogli un piccolo ma evidente imbarazzo che Alexi cerca di dissimulare schiarendosi la voce e lasciandosi cadere a sedere su un gradino di legno.

"E perché ci avete attirate qui, se poi non intendete spiegarci cosa significa questa storia?" rincara la dose Xena, ma con un tono decisamente meno amichevole e confidenziale.

"E' difficile." mormora Alexi fissando lo sguardo sul terreno e chinandosi a raccogliere una bacca superstite rotolata in un angolo nascosto. "E' difficile." ripete, come se parlasse tra sé, ripulendo il frutto tra le dita e poi dandogli un morso quasi soprappensiero.

"Le visioni, molte lune orsono, parlarono a mio padre di un guerriero, coraggioso e intrepido oltre ogni dire, un guerriero che le forze del male avevano costretto ad un lungo viaggio, spingendolo oltre i confini di questo mondo, alla ricerca dell'altra metà della sua anima, non sapendo però che la missione a cui lo avevano spinto non solo non lo avrebbe distrutto, ma l'avrebbe invece messo in condizione di compiere atti che nessun altro avrebbe mai potuto adempiere."

Alexi alza gli occhi sulle sue due ascoltatrici, continuando a mangiucchiare la bacca.

"Quando sentimmo la vostra presenza, io dissi a mio padre che non potevate essere che voi. Ma le visioni avevano parlato di un solo guerriero, e comunque non avevano mai detto che quel guerriero sarebbe stato una femmina..."

"La solita storia." borbotta tra i denti Xena, talmente piano da essere udibile solo da Olimpia che le sta accanto.

"E mio padre, pur amandomi sia pur a suo modo" prosegue Alexi tornando a parlare con il terreno "non ripone una grande fiducia in me e nel mio giudizio. Se si è lasciato convincere a convocarvi è stato solo perché il tempo inizia ad esaurirsi e quell'essere là fuori diventa ogni giorno più forte."

"Parli dell'essere che abbiamo intravisto ieri? Chi è, o cosa è? E cosa c'entra con quello che è accaduto al villaggio?"

Incalzato dalle domande sempre più concitate di Olimpia, Alexi la guarda con una strana espressione.

"Parlarvi di queste cose implica entrare in argomenti che il genere umano deve ignorare per il suo stesso bene, e bisognerebbe quindi che fosse fatto con estrema cautela. Non oso pensare a quello che potrebbe capitare se il mio giudizio fosse davvero sbagliato."

Così dicendo, con aria mesta come se l'intero peso del mondo poggiasse su di lui, il giovane si alza e risale sul portico. Afferra il pesante cesto ora nuovamente colmo fino all'orlo e si volta verso le due donne che sono rimaste ad osservarlo perplesse.

"Adesso, venite. Andiamo a parlare dentro. Mio padre deve essere presente. Questo colloquio dovrà avvenire di fronte a lui."

E a passo lento, ma abbastanza deciso, Alexi si dirige verso la porta, mentre Xena e Olimpia dopo essersi scambiate un'occhiata interrogativa lo seguono.

 

 

(25) Jennifer

 

Jennifer getta indietro la testa lasciando che il caldo getto d'acqua la impregni, colando in rivoli lungo il corpo ed incollandole i capelli alla schiena. La donna ha gli occhi chiusi e si passa lentamente le dita tra la folta chioma aspettando che la tensione residua di quelle ultime ore scorra via come l'acqua attraverso lo scolo della cabina doccia. Ma i miglioramenti sono già innegabili. Anche il semplice piacere che sta provando in questo momento ne è una dimostrazione. Erano mesi che non riusciva più a gustarsi una doccia calda e ritemprante in quel modo. Gustarsi il massaggio quasi sensuale dell'acqua che le carezzava la pelle spazzando via la stanchezza e lo stress di una lunga giornata di lavoro. Mesi in cui lavarsi era diventata una pura consuetudine, compiuta più per abitudine che per un reale desiderio.

Con i capelli e il corpo gocciolanti, Jennifer esce dalla cabina afferrando velocemente un telo appeso alla sua destra ed avvolgendovisi tutta. Il grande specchio sul lato interno della porta le rimanda l'immagine di una donna ancora molto bella, da cui incredibilmente sembrano scomparsi d'un tratto i segni di una sofferenza tanto a lungo nutrita. O è semplicemente questa sua nuova predisposizione d'animo, questo improvviso alleggerimento della cappa psicologica che le è pesata addosso fino solo a poche ore prima, a permetterle finalmente di guardarsi in uno specchio per vedere se stessa? La vera se stessa. Senza più quel filtro scuro che ne dava una versione deformata.

Scostandosi una ciocca fradicia dal viso, Jennifer si avvicina ulteriormente alla superficie ora leggermente appannata dello specchio, fissando i propri occhi. A parte una leggerissima ombra scura intorno alle palpebre, e forse un altrettanto lieve pallore del viso, appena visibile però sulla pelle arrossata dalla doccia calda, era sorprendente che non portasse su di sè alcuna traccia di un periodo di disperazione e pianti interminabili che le era parso infinito.

Arretrando di un paio di passi, la donna si libera del telo e lascia che lo sguardo scorra liberamente lungo il proprio corpo, dai seni sodi con i capezzoli ancora inturgiditi dalla calda carezza dell'acqua, ai glutei alti ed altrettanto sodi, fino alle gambe lunghe e snelle. Niente. Niente che riveli anche solo minimamente le sue sofferenze. Inoltre, sente dentro di sé, una carica di energia nuova, come una corrente adrenalinica che la percorre tutta e, d'improvviso, le ore, i giorni a venire non paiono più un monotono ed insignificante scorrere del tempo, ma sembrano nuovamente pregni di aspettativa e di significati. Raccogliendo il telo e riavvolgendoselo intorno, Jennifer esce dal bagno a piedi nudi sul freddo pavimento che dal corridoio conduce al salotto ed alla sua soffice moquette.

Ormai di dormire non se ne parla più, e la donna si lascia cadere sulla poltrona accanto alla quale su di un tavolinetto con il piano di cristallo, occhieggia una cartelletta di uno smorto marroncino assicurata da un elastico appena più scuro lungo il bordo. Sopra non vi era scritto niente. Nemmeno nell'angolo in alto a sinistra dove vi sarebbe stato uno spazio apposito per inserire numero ed eventuale nome del file. Solo un'anonima cartelletta senza niente di rilevante. A parte ciò che conteneva.

Jennifer non l'aveva ancora nemmeno aperta. Appena rientrata nel suo appartamento, l'aveva gettata lì dove giaceva adesso, si era versata le due dita di liquore che ancora brillavano nel bicchiere accanto a lei e si era infilata di corsa nel bagno. Spogliandosi si era gettata un rapido sguardo alle braccia dove chiaramente visibili c'erano i lividi lasciati dalle dita della vecchia Rose. Le tracce rosse che il giorno dopo sarebbero apparse bluastre riproducevano quasi fedelmente le dita rinsecchite eppure straordinariamente forti della barbona. Ma Jennifer era troppo desiderosa di una doccia per pensare ad altro in quel momento. Aveva quindi terminato di spogliarsi e si era precipitata nella cabina, chiudendola rapidamente dietro di sé.  

Adesso però la presenza di quella innocua cartella con il suo sinistro contenuto non era più ignorabile e, con un sospiro di rassegnazione, Jennifer allunga la mano oltre l'invitante bicchiere di whisky e stringe le dita intorno al ruvido cartoncino, tirandolo a sé e posandoselo sulle ginocchia.

Nessun impegno, le aveva detto Carruthers consegnandogliela. Brutto ipocrita! Come se non avesse saputo benissimo che lei non sarebbe riuscita mai a tirarsi indietro dopo averla presa.

Ma forse, l'ha fatto proprio per questo. Non ci avevi pensato?

Rieccola. La voce nella testa. La sua inseparabile compagna dei giorni peggiori della depressione. Mi sei stata utile, tesoro, ma adesso non credi che potresti levarti dai piedi? Certo che ci aveva pensato. Il prode Carruthers, il cavaliere dalla scintillante armatura accorso a salvare la donzella preda di incubi che la stavano conducendo sull'orlo della follia. Già, peccato però che gli incubi peggiori fossero stati scatenati proprio da lui.

Non trovi che questo sciupi un po' il bel quadretto?

Ma la cartella sulle sue ginocchia pareva di minuto in minuto sempre più pesante, mentre le sue dita giocherellavano, distrattamente in apparenza, con l'elastico senza realmente la voglia di tirarlo per liberarne il contenuto. E la sua mente torna al momento del congedo dal poliziotto e alle parole dure che gli ha rivolto, non rimpiangendone neanche una.

Questa non è una resa, George, pensa, afferrando finalmente con decisione l'elastico ed aprendo la cartella. Ciò che hai fatto non può essere perdonato, né dimenticato. Ma ci sono cose che trascendono noi e i nostri problemi più o meno personali. Cose per cui è giusto mettere da parte ogni diatriba e combattere al fianco anche del tuo peggior nemico, se questo può servire a raggiungere uno scopo più alto. Come vogliamo chiamarlo? Un bene superiore?

E con mano ferma, Jennifer comincia a sfogliare le pagine all'interno.

Sì. Un bene superiore.

 

 

(26) Croft

 

"Croft, nel mio ufficio."

La voce gelida di Hannigan attraverso l'interfono non preannunciava niente di buono e Brian rilascia il pulsante della ricezione con un sonoro sospiro. Quel mattino era arrivato di buon ora e dal momento in cui si era messo a sedere dietro la sua scrivania aveva aspettato quella chiamata, sapendo che sarebbe arrivata da un momento all'altro. Un paio di volte si era chiesto se non sarebbe stato meglio prendere il toro per le corna e affrontare immediatamente il suo destino e almeno una volta era stato sul punto di farlo, ma poi aveva deciso più saggiamente di attendere lo sviluppo degli eventi. Presentarsi da Hannigan avrebbe significato ammettere di essere in fallo, e questa, secondo la filosofia di vita di Brian, non era mai una buona politica. Erano gli altri che dovevano dimostrare la tua colpevolezza. Offrire la testa alla scure del boia non sarebbe servito a conservargli il posto e avrebbe costituito un alibi notevole per il suo capo nello scaricarsi la coscienza di una simile decisione.

Perché questa volta era proprio convinto di aver superato il sottile limite lungo il quale aveva camminato in quei mesi.

Non rimpiangeva di averlo fatto. Al contrario. Il suo rammarico maggiore era dato dal fatto che non fosse servito a niente. Il suo colloquio con Sutherland era stata la sua ultima speranza per cercare di riannodare qualche filo in quella ingarbugliatissima matassa che era la morte di Cheryl, ma anche il professore si era rivelato l'ennesimo buco nell'acqua di una serie infinita che pareva precludergli ogni sbocco. Eppure, nonostante tutto, la sensazione che il suo istinto non sbagliasse continuava ad echeggiare in fondo ai suoi pensieri. C'era qualcosa di misterioso in quella storia. Di molto più inquietante di una vendetta da parte del crimine organizzato. E tuttavia non riusciva assolutamente a capire di cosa potesse trattarsi. E chissà se ci sarebbe mai riuscito, si chiede, gettando prima di uscire dalla stanza, un ultimo sguardo alla foto sorridente della donna, appuntata sulla parete accanto alla porta, sotto la scritta in rosso

 

ASSASSINATA!

 

Mi spiace, Coop. Io ci ho provato. Davvero.

Le parole gli si formano nella mente mentre i suoi occhi scrutano tristemente in quelli enigmatici nella foto, di cui il bianco e nero piatto e un po' sbiadito dal tempo e dal sole, che nelle ore pomeridiane batte proprio su quella parete, non riesce tuttavia a celare la profondità e la bellezza.

 

Davanti alla porta dell'ufficio di Hannigan, Brian esita ancora un istante, poi senza bussare, abbassa la maniglia con decisione ed entra d'impeto, prima che altri dubbi lo assalgano.

Al diavolo! Tanto se ha deciso di licenziarmi, non cambierà idea anche se gli lecco il culo!

"Eccomi." dice solamente, richiudendosi dietro la porta e fissando lo sguardo sull'anziano capo redattore, seduto alla sua scrivania in quell'ufficio soffocante, invaso da montagne di carta, e con la piccola stufa elettrica costantemente accesa e puntata nella sua direzione in un angolo.

L'ometto gli rimanda lo sguardo, sollevandolo dalla bozza di copertina che sta esaminando, e si alza dalla poltrona, appoggiando le mani aperte sull'ampio ripiano e la testa sporta in avanti come un gigantesco rapace pronto a balzare sulla preda.

Beh, gigantesco era una parola decisamente esagerata per Charlie Hannigan. In realtà, superava di poco il metro e 60 d'altezza, ma nessuno se ne rendeva conto, perché quando ti posava addosso quel suo sguardo inquisitore erano gli altri a sentirsi minuscoli ed inadeguati. Anche se era subentrato al defunto Finnies nella veste ufficiale di caporedattore, solo da qualche mese, era al View da più di chiunque altro, perfino dell'attuale dirigenza che aveva acquisito la maggioranza solo da pochi anni, ed ormai la considerava casa sua, al punto da aver rifiutato ben tre volte altri impieghi molto più gratificanti all'interno dello stesso gruppo editoriale (che possedeva anche sei importanti quotidiani nazionali e quattro stazioni televisive), ma come era uso dire, il View era la sua vita da oltre vent'anni e sarebbe stato la sua morte. Scherzando, ma non troppo, affermava di essere convinto che un giorno qualcuno sarebbe entrato da quella porta e lo avrebbe trovato secco sulla sua poltrona, con il suo immancabile mezzo sigaro in bocca e gli occhialetti da presbite di traverso sul naso, e da come descriveva la scena sembrava non solo che la cosa non lo spaventasse affatto, ma anzi in qualche modo lo riempisse di soddisfazione. Brian gli aveva augurato più volte, dentro di sé, che il suo desiderio si avverasse. Ed in questo momento si sentiva di rinnovare di cuore il suo auspicio. 

"Bene, beato chi ti vede, Croft." dice dopo una lunga pausa silenziosa. "Vedo che lavori ancora qui."

"Ascolta, Hannigan..." comincia Brian.

"No. Ascolta tu." lo interrompe questi, ergendosi in tutta la sua statura che ancora una volta incredibilmente, nonostante sia di buoni quindici centimetri inferiore a quella del suo interlocutore, non si nota affatto. "Sono stufo di te, Croft. Sono quasi le undici e sai dove ho trascorso le ultime due ore? In direzione, a parlare con Williamson."

Williamson era il rappresentate ed amministratore delegato del gruppo, in pratica il pezzo più grosso che facesse da tramite tra la proprietà del giornale e la redazione del View e per un attimo Brian si sente quasi lusingato di essere stato evidentemente l'oggetto di attenzioni a così alto livello, ma l'espressione di Hannigan gli fa capire che non è il caso di fare commenti in proposito.

"E vuoi sapere di cosa abbiamo parlato?" prosegue l'ometto tenendolo inchiodato con lo sguardo. "Il giornale ha perso vendite per quasi il dodici per cento negli ultimi quattro mesi, Croft, e quasi altrettanto di introiti pubblicitari in metà tempo. Tira aria di ridimensionamento, in caso non lo avessi capito. Sono già settimane che sento parlare di una prossima chiusura di almeno un paio di redazioni e anche qui pare che si stia pensando di snellire il personale, e non credo che si riferiscano a delle diete dimagranti."

Una battuta. Hannigan aveva appena fatto una battuta. Brian si chiede se la cosa richieda una risatina o almeno un sorriso a mezza bocca da parte sua, poi decide saggiamente di proseguire nella sua politica di attenta e compunta partecipazione al discorso del capo.

"In parole povere, Croft, questo vuol dire che se questa tendenza non sarà invertita di centottanta gradi nel più breve tempo possibile, almeno il venti per cento delle persone che lavorano qui si troveranno a doversi cercare un nuovo impiego. Mi sono spiegato?"

Era una domanda puramente accademica, naturalmente, e come tutte le domande di cui Hannigan era solito punteggiare le sue prediche non necessitava di risposte.

"Williamson vuole che gli venga preparata già da adesso una lista degli elementi sacrificabili, per così dire, in modo che se dovesse verificarsi questa dolorosa evenienza, sarà già pronto, e sto usando le sue esatte parole, a liberarsi della zavorra."

Hannigan si erge in tutta la sua statura, con le braccia incrociate sul petto, e da dietro la sua scrivania riesce incredibilmente a far sentire Brian più piccolo ad ogni sguardo.

"Quanto ci tieni tu a far parte di quella lista?"

Qui forse una risposta sarebbe stata necessaria, ma Brian se ne trovava momentaneamente sprovvisto.

"Sono mesi, Croft, mesi!! che non mi porti un pezzo decente!!!" urla all'improvviso Hannigan, facendogli vibrare i timpani. "Ti avevo avvisato di occuparti del tuo lavoro e lasciare perdere le crociate personali. Ma tu no! Certo!" Il piccolo caporedattore gira intorno al mobile e a passo di carica si dirige verso di lui. "Beh, ho una notizia per te. Questo non è il Washington Post e tu non sei Woodward o Bernstein e non farai il colpo del secolo smascherando un altro Watergate o chissà quale altro complotto politico in questa città di merda! Tu adesso te ne torni di là, ti porti via questa spazzatura che chiami articolo" e Brian si ritrova accartocciati nelle mani le pagine che aveva battuto di corsa la sera prima "e mi confezioni un pezzo che sia degno di questo nome!"

In preda ad una furia, evidentemente a lungo trattenuta, Hannigan torna dietro alla sua scrivania e gli lancia un'ultima occhiata di fuoco.

"Hai ventiquattro ore, Croft. Non un minuto di più. Sta a te decidere se vuoi che siano le tue ultime da cronista del View."  

 

 

(27) Jennifer

 

"POLIZIA DI STATO - 37mo DISTRETTO - rapporto degli agenti McKENNA e ROGERS

Sett. 27 - ore 09:00 a.m.

 

L' agente Rogers ed io ci siamo portati su segnalazione della centrale al 114/b di Holmes Street, primo piano, dove la Sig.ra Geraldine Rossini, anni 29, ci attendeva per denunciare la scomparsa del suo bambino, Preston Rossini, anni 2. Secondo quanto rilevato, la signora si era recata ai vicini giardinetti col figlio come tutti i giorni dove si era intrattenuta a parlare con una sua amica, Carol Stewart, anni 32, residente allo stesso indirizzo, quinto piano, anch'essa lì col proprio figlio, Charles, anni 4. I due bambini si sono allontanati dalla vista delle madri per un tempo che viene giudicato forse di cinque minuti, approfittando di un loro momento di disattenzione, ma solamente il figlio della sig.ra Stewart  è tornato, piangendo e dicendo che non riusciva più  a trovare Preston. Spaventate le sig.re Rossini e Stewart hanno cominciato a cercare il bambino, anche con l'aiuto di altre persone presenti sul posto, ma senza esito. Quindi la sig.ra Rossini, sotto shock, è stata immediatamente riaccompagnata a casa da dove immediatamente è stato allertato questo distretto. Giunti sul luogo della scomparsa, io e l'agente Rogers abbiamo svolto una veloce prima indagine, interrogando le persone ancora presenti senza però ottenere ulteriori indizi. All'arrivo dell'autopattuglia di supporto, guidata dagli agenti Chaney e Wilson, abbiamo iniziato una ricerca a largo raggio in tutto il quartiere senza risultati. Allo stato attuale non si registrano novità in merito. Seguono nomi ed indirizzi delle persone trovate ed interrogate sul luogo della scomparsa."

 

Jennifer dà una rapida scorsa al foglio allegato al rapporto dell'agente McKenna. C'erano circa una ventina di nominativi, quasi tutti di donne e solo un paio di uomini. Evidentemente madri e padri a passeggio con i propri figli. La psicologa sfoglia lentamente le pagine seguenti. Altri rapporti su interrogatori a potenziali testimoni (da cui però non risultavano elementi di rilievo) e l'articolo del Tribune su un paio di colonne tratto da una delle pagine della cronaca locale. Evidentemente, nonostante la giovanissima età del bambino scomparso, la cosa non aveva destato grande sensazione in una metropoli che registrava quotidianamente atti criminali in quantità.

Chissà se adesso avranno cambiato idea, si chiede Jennifer, con un brivido. Ma già il tono mutava di parecchio di lì a poco. Questa volta Jennifer dà appena un'occhiata al rapporto di polizia e passa subito alla stampa da computer di un'altra pagina del Tribune allegata, questa volta della cronaca nazionale, su cui campeggiava su quattro colonne il titolo:

 

UN ALTRO BAMBINO SCOMPARSO

E' l'opera di un maniaco?

 

C'è stata un'altra scomparsa nella zona residenziale di Drexel Hill, il quartiere dove meno di un mese fa era avvenuta la sparizione, praticamente sotto gli occhi della madre, del piccolo Preston Rossini, mentre giocava con un amichetto nel giardino pubblico sotto casa. Questa volta il rapimento sarebbe avvenuto a meno di quattro isolati dal primo, sulla Island. La vittima, il piccolo Daniel Wade di appena undici mesi, era stato lasciato fuori da un negozio nella carrozzina dalla madre, mentre faceva compere. La donna continuava a tenere d'occhio la carrozzina con il figlio dalla vetrina del negozio, ma quando è uscita si è accorta che questa era vuota. Disperata, la giovane madre è stata ricoverata in preda ad una crisi isterica. I coniugi Wade non sono una coppia benestante e non riescono a spiegarsi il rapimento del loro bambino. Ma nella zona si sta diffondendo la paura del mostro.

 

L'articolo proseguiva nella descrizione piuttosto colorita dell'ambiente e nella rievocazione del precedente rapimento, ma Jennifer ha già smesso di leggere, mentre il suo cervello sta cercando di elaborare i dati incamerati fino ad adesso. Al momento delle prime scomparse e degli articoli risalenti a circa due mesi prima, si cominciava ad ipotizzare la tesi del maniaco, ma ora quell'ipotesi si stava trasformando in una orrenda certezza. Carruthers non aveva voluto scendere in dettagli, né men che meno mostrarle ciò che era stato trovato nel sacchetto della spazzatura portato dalla vecchia Rose al distretto (non che lei avesse minimamente insistito a proposito), ma dalla sua espressione e dal poco che era riuscito a dirle, era stato facile capire che la realtà a volte poteva essere anche peggio del peggiore degli incubi.

Per un attimo con gli occhi della mente, Jennifer ha una rapida visione della vecchia mendicante che si stringe al petto un sacchetto nero da cui spunta qualcosa di lungo e bianco.

Il mio bambino! Ridatemi il mio bambino! aveva gridato afferrandola per le braccia. Poteva mai essere che...?

Non sarebbe stato inverosimile ipotizzare che una donna dalla mente sconvolta come quella Rose potesse compiere qualcosa di folle come rapire dei bambini, ritenendoli come una specie di... rimborso da parte del destino che le aveva portato via il suo. Naturalmente poi tutta la storia del Diavolo e del seppellimento poteva far parte di una gigantesca allucinazione che si era costruita per nascondere anche a se stessa l'orrore del gesto che aveva compiuto. Ma gli scheletri... No, questo non quadrava. In attesa che arrivassero le risultanze dell'esame autoptico, le ipotesi più probabili erano anche le più orrende che si potessero immaginare. Scarnificazione. Cannibalismo. E questo non poteva assolutamente adattarsi alla figura di Rose. Avrebbe potuto rapire quei bambini, forse anche ucciderli nel suo delirio. Ma non fargli quelle cose spaventose. Jennifer si sentiva di escluderlo, malgrado l'abisso di follia che aveva indubbiamente scorto negli occhi della donna. Mentre sente un altro brivido percorrerle la schiena, la psicologa si scuote da quei pensieri e torna alla lettura.

Il terzo e per ora ultimo rapimento si era verificato circa un mese prima, e qui Jennifer prende mentalmente nota di confrontare le date delle tre scomparse. Il rapporto della polizia, non dissimile da quelli precedenti, registrava nei soliti toni piatti la denuncia della scomparsa di Henry Thomas, di tredici mesi. La sparizione era avvenuta nel momento in cui sua madre, Heather, ventisette anni, divorziata, l'aveva lasciato solo a giocare nel suo box sul portico di casa, per rispondere al telefono. La donna aveva affermato tra le lacrime di non essere rimasta a parlare per più di un paio di minuti, e in quel tempo aveva sbirciato due volte oltre la porta. La prima volta aveva scorto il bambino che giocava tranquillo nella stessa posizione in cui l'aveva lasciato. La seconda volta la parte del box visibile dal suo punto di osservazione le era apparsa vuota, ma aveva semplicemente pensato che si fosse spostato dalla parte opposta, quella non visibile. Tuttavia, aveva gentilmente congedato la cortese ma insistente voce femminile al telefono che asseriva di aver saputo che c'era una casa in vendita nel quartiere e che stava facendo un giro di telefonate per saperne di più, ed era corsa sul porticato, realizzando con orrore che Henry era scomparso. Il box era vuoto e uno degli animaletti di gomma con cui giocava il bambino si trovava per terra sul breve sentierino che tagliava in due il giardino finendo al cancelletto di legno. Disperatamente, aveva cominciato ad urlare, correndo sulla strada e richiamando l'attenzione di alcuni vicini che erano usciti per vedere cosa fosse successo. Ma, a parte loro, la strada appariva deserta. Del piccolo Henry e del suo misterioso rapitore, nessuna traccia.

Il breve dossier si concludeva con un altro paio di articoli di giornale, questa volta dell'Inside View, come al solito corredati da fantasiose illustrazioni. In una di queste, l'artista di turno aveva disegnato la forma nera e vista di spalle di una persona, un uomo grande, grosso e apparentemente irsuto, che si allontanava lungo una strada di campagna con un bambino piangente tra le braccia. L'immagine era indubbiamente suggestiva, come nella tradizione della rivista, ma sicuramente poco verosimile, secondo Jennifer. Se c'era un elemento in comune in tutti e tre i rapimenti era il fatto che in ogni caso il responsabile era riuscito a sparire nel nulla senza che nessuno lo vedesse o lo sentisse. E se c'erano dei reati che, anche secondo l'esperienza di polizia o la sua più modesta di psicologa, non potevano sperare di poter contare sull'indifferenza e l'omertà della gente erano quelli legati ai bambini.

Rapimenti, omicidi, stupri, verso creature innocenti sollevano l'indignazione popolare come poco altro. Le comunità, piccole o grandi, li sentono come un'offesa, una minaccia alla sicurezza ed al proseguimento della specie. C'è qualcosa di atavico nell'odio che simili atti mostruosi riescono ad ispirare, al punto che quando chi li ha perpetrati viene arrestato, spesso deve essere tenuto in isolamento per impedire che altri detenuti possano fare giustizia sommaria. Mai come in questi casi, tra la gente, madri, padri, anziani con nipotini, ma non solo, si stabilisce una specie di patto di mutuo soccorso e sicuramente una figura come quella descritta nell'illustrazione, non sarebbe potuta mai passare inosservata. Quindi, questo poteva solo significare che in realtà nessuno si era davvero accorto di nulla e di conseguenza che il rapitore era o estremamente abile o così astutamente dissimulato da non essere notato affatto. Un primo passo verso la sua identificazione non poteva che partire da qui.

Un altro esempio della fantasia del View era rappresentata dall'impareggiabile inventiva dei suoi redattori nell'escogitare i titoli più assurdi o i nomi più improbabili per le inchieste di cui si occupavano. Alcuni però si fissavano così bene nell'immaginario popolare da costringere anche gli altri giornali ad adeguarsi. Era stato così nel caso dell'Amazzone, e ora si ripeteva per The Ogre.

Certo che stavolta non sembrava che si fossero spremuti troppo le meningi. L'appellativo doveva essergli venuto naturale. Come altro poteva essere definito un mostro che rapiva bambini così piccoli, per chissà quali innominabili scopi, se non l'orco? La leggendaria figura che popolava i miti e le favole e che si cibava della carne dei fanciulli. Certo forse neanche loro avevano immaginato quanto vicini fossero alla realtà.

Jennifer scorre velocemente le colonne degli articoli che non le pare a prima vista contengano elementi ulteriori sui rapimenti, oltre a qualche pittoresco commento in perfetta linea con lo stile di un giornale che aveva fatto delle inchieste più inverosimili il suo cavallo di battaglia, e l'occhio le cade sul nome dell'autore semicancellato dalla pessima qualità della fotocopiatrice che Carruthers doveva avere usato, forse di nascosto perché nessuno gli chiedesse cosa stava facendo.

La donna stringe le palpebre cercando di focalizzare meglio la firma. Non si era sbagliata. Brian Croft. Quindi richiude la cartella con un sorriso.

Ci ritroviamo, signor Croft. Aveva ragione lei. Il mondo è davvero piccolo. 

 

 

(28) Sutherland  

 

Le note dolci della sonata di Rachmaninov si diffondono nel grande salotto. Il disco, ancora uno di quelli vecchi in vinile, gira sul piatto dell'impianto HI-FI, lasciando appena udire sotto il suono dei potenti altoparlanti, il leggero fruscio della puntina tra i solchi dell'incisione. Seduto sulla grande poltrona al centro della stanza, il professor Michael Sutherland tiene gli occhi chiusi, cercando di concentrarsi sul pezzo musicale, ma la sua mente si rifiuta di farsi ipnotizzare e trascinare via da quelle note avvolgenti che generalmente hanno l'indiscusso potere di rilassarlo come nient'altro al mondo e vaga invece incessantemente sulla visita del giorno prima. Quel giornalista... Croft, se la memoria non l'ingannava... con il suo arrivo imprevisto aveva decisamente scombussolato la sua ormai pacata esistenza di pensionato.

Dopo l'incredibile, inquietante, ma anche assolutamente eccitante vicenda in cui si era trovato coinvolto, Sutherland aveva deciso di lasciare definitivamente l'insegnamento. Ormai per lui continuare ad impartire ai giovani delle sue classi il programma scolastico tradizionale, non aveva più alcun senso.

Lui era sempre stato un ribelle e si era sempre rifiutato di assoggettarsi supinamente ai parametri della cultura ortodossa, e per questo i suoi allievi lo adoravano, mentre invece molti suoi colleghi avevano portato spesso all'ordine del giorno delle riunioni dei docenti il suo allontanamento dalle aule, o quanto meno una severa reprimenda che lo riportasse in riga. Erano stufi di dover continuamente rispondere, e di sovente con grande imbarazzo, alle domande che gli studenti, imbeccati dalle lezioni fuori dagli schemi di Sutherland, ponevano loro. Così il party d'addio del corpo accademico e studentesco per il professore era stato particolarmente caloroso da entrambe le parti, ma per ragioni decisamente opposte. Gli studenti vi avevano partecipato col rammarico di vedere andarsene uno dei docenti più divertenti che avessero mai avuto, mentre di tutti i suoi riveriti colleghi, nessuno aveva voluto mancare per assicurarsi che quel rompiscatole si congedasse definitivamente.

Naturalmente nessuno aveva la più vaga idea di quali fossero le ragioni di una decisione così improvvisa e se l'avessero anche solo sospettato il suo pensionamento si sarebbe probabilmente trasformato in una lunga degenza in un ospedale psichiatrico per demenza senile. Ma quelle ragioni, anche se incoffessabili, erano assolutamente indiscutibili e l'avevano costretto a fare la sua scelta senza dubbi nella testa.

Del resto come si può trovarsi faccia a faccia con una guerriera che dovrebbe essere morta da millenni e continuare a parlare di storia e di mitologia come se non fosse successo niente? Inutile negarlo. La sua vita ne era stata completamente sconvolta.

Per molte notti, dopo i drammatici avvenimenti accaduti proprio nel giardino della sua casa, a pochi passi da dove si trovava in quel momento, non era riuscito a dormire regolarmente, risvegliandosi spesso  da sogni popolati dalla donna in armatura che l'aveva minacciato, spada in pugno, in quello stesso salotto, dalla coraggiosa ragazza, il cui corpo era troppo fragile per contenere lo spirito che vi risiedeva, e dalla loro tragica fine, a cui erano state condotte da quel vincolo indissolubile che le legava l'una all'altra.

Anche se dentro di sé sentiva, senza sapere come spiegarlo, che quella a cui aveva assistito, era solo un capitolo di una lunga, lunghissima storia, ancora lontana da una conclusione definitiva, se mai ci sarebbe stata. Voleva credere che da qualche parte, chissà dove o quando, la splendida guerriera dalla lunga chioma corvina e dagli occhi color del cielo e la sua compagna, amica o amante, cavalcassero ancora insieme, per uno sconosciuto, imperscrutabile disegno. Un disegno di cui, sia pur per un periodo di tempo molto limitato, lui stesso era stato parte. Per ragioni che non osava neanche riuscire ad immaginare, proprio lui si era trovato a contribuire alla tela tessuta dal fato o da Dio.

E forse, aveva pensato, questo era lo scopo per cui era nato, lo scopo per cui era diventato uno studioso ed un appassionato di storia e mitologia. Per venire a conoscenza delle leggende su Xena. Perché qualcuno o qualcosa l'aveva già destinato un giorno a questo compito. 

E ora? si era chiesto. Se ho esaurito il mio compito, è forse giunta la mia ora?

E in seguito, per giorni, si era preparato psicologicamente e con rassegnazione alla fine. Ma la morte non era giunta e la sua vita era proseguita normalmente. Fino al giorno prima. Fino alla visita di quel Croft, venuto a fare domande sulla morte della sua collega.

Quante possibilità c'erano che quel tipo potesse anche solo intuire la verità? Poche. Pochissime. E tuttavia aveva trovato l'articolo, aveva sospettato un collegamento, e nonostante i suoi tentativi di depistarlo, annoiandolo a morte con le sue chiacchiere, poteva asserire con assoluta sicurezza che la cosa fosse impossibile?

No, onestamente non poteva. E come spiegare quella insopprimibile agitazione che provava da allora e che gli impediva perfino di restare seduto, nonostante la sciatica che aveva ripreso a tormentarlo, e che lo aveva privato di una buona notte di sonno, riportandolo con la mente alle sue notti insonni di mesi prima? Come se qualcosa cercasse di comunicare con lui. Come se la ruota del fato avesse ricominciato a girare.

E in un attimo decide.

Devo parlare con la dottoressa Rowles. Con Jennifer. Avvisarla. Forse il mio, il nostro, compito non è ancora finito.

 

 

(29) Xena e Olimpia

 

Rientrare nella piccola, soffocante stanza dove giaceva apparentemente assopito il vecchio, fa dileguare in un attimo l'umore spensierato e allegro che aveva pervaso Xena e Olimpia all'aria aperta, facendole ripiombare in un atmosfera cupa e fastidiosamente oppressiva come se un mantello di tenebra gravasse su quel posto. Aristis respirava lentamente e con un tono affaticato e roco e tutto il suo corpo sembrava in preda ad un leggero ma costante tremito. Alexi va a sedersi accanto al letto e prende la mano del vecchio nella sua, alzando contemporaneamente lo sguardo sulle due donne che lo hanno seguito.

"Sedete." dice, indicando due sgabelli, che Xena e Olimpia non avevano notato nella stanza quando c'erano entrate prima. "E' una storia piuttosto lunga e tutt'altro che piacevole."

Poi, carezzando la mano del suo tutore, mentre le due donne si siedono a loro volta, comincia a parlare.

"Vi avevo già detto che mio padre ed io arrivammo in questo luogo molto tempo fa. Io ormai avevo più di venti primavere e Aristis non aveva più le energie che gli avevano permesso di viaggiare per anni sotto ogni intemperia per le strade di tutta la Grecia, e così quando giungemmo in questa radura e scoprimmo questa vecchia casa abbandonata, Aristis la considerò un segno e disse che era proprio qui che Col... gli Dèi volevano che ci stabilissimo."

Il giovane aveva esitato per non più di un attimo, ma Xena e Olimpia all'unisono avevano avuto la precisa percezione di un improvviso imbarazzo e contemporaneamente con la coda dell'occhio avevano osservato, ma senza darlo a vedere, come la mano del vecchio si fosse stretta intorno alle dita di Alexi, in una specie di ammonimento silenzioso. Tuttavia entrambe avevano mantenuto impassibile lo sguardo posato su di lui. Schiarendosi la gola, il giovane prosegue.

"Io gli chiesi perché di tutti i posti in cui eravamo stati avesse scelto proprio questo. Anche se all'epoca non era ancora accaduto niente, già l'atmosfera intorno a questa foresta era tetra e malinconica."  Adesso Alexi sembra stranamente irrequieto e cambia posizione nervosamente sulla sedia. "Vedete, ci sono dei luoghi che... come posso dire... posseggono una specie di aura negativa. Posti in cui ti senti a disagio senza neanche sapere perché. Ed era esattamente questa la sensazione che questa foresta mi dava. Sembrava che gli alberi che circondavano questa vecchia casa tendessero i loro rami per ghermirla. La luce del giorno non riusciva quasi a filtrare attraverso quell'intrico di fogliame. Aristis mi rispose che era esattamente per questo che ci fermavamo qui. Perché questo luogo gli era stato mostrato nelle sue visioni e lui sapeva che... gli Dèi ci avevano portati qui per uno scopo."

"E' strano." mormora Olimpia, interrompendo per la prima volta il flusso del racconto di Alexi. Questi, perso nei suoi ricordi, si scuote improvvisamente a quelle parole, guardandola.

"Hai detto qualcosa?"

"No... Sì, scusami. Non intendevo interromperti, ma è la seconda volta che citi gli dèi. Vedi, come forse tu saprai, io e Xena abbiamo avuto modo di conoscerne alcuni..."

"Molto più che conoscerli, direi." dice Alexi, con un lieve sorriso.

"Sì... beh, tutto questo discorso su loro che vi avrebbero condotti con delle visioni fin quaggiù, non offenderti, ma non mi convince molto." La ragazza si china in avanti sul suo sgabello, congiungendo le mani sulle ginocchia. "Voglio dire, non è il loro modo di procedere. Gli dèi che abbiamo incontrato noi erano molto più diretti e se volevano che qualcuno facesse una cosa, avevano modi per convincerlo assai più sbrigativi."

Olimpia lancia un'occhiata verso Xena, che se ne è rimasta in silenzio.

"Il tipo di divinità di cui parli" prosegue poi, riportando la sua attenzione sul giovane "ricorda di più il dio senza nome di Belur. Ne hai mai sentito parlare?"

Alexi emette un gran sospiro e lasciata la mano del padre, si china in avanti anche lui, in una posa simile a quella di Olimpia.

"Vedi, Olimpia... non so come spiegartelo... ma, diciamo che la situazione è molto più complessa di quello che l'umanità pensa e crede. Se voi siete, come io ritengo, le persone che stavamo aspettando, vedrete ed entrerete in contatto con cose che forse scuoteranno radicalmente la concezione che avete di questo e dell'altro mondo e ciò che saprete vi renderà difficile continuare a..."

"Alexi, no."

Aristis, ancora una volta non ha mosso un muscolo del volto, tanto da dare l'impressione che quello che hanno udito sia la voce del suo pensiero, anziché dei suoni articolati. Il vecchio giace ancora immobile nel suo letto, ma quelle parole, benché poco più che sussurrate, conservano tutta l'autorità di un ordine che non ammette repliche.

"Ma padre" comincia Alexi "se devono affrontare..."

"Qualunque cosa siano destinate a fare" mormora il vecchio "non sei tu a decidere cosa debbano sapere, né quando e se dovranno mai saperlo." Lo sforzo di parlare, anche se in realtà muove appena  le labbra, sembra aver provato duramente Aristis. "Devi dire solo l'essenziale, figlio. E' questo il nostro compito. Nient'altro."

Il silenzio che segue è rotto per qualche istante solo dal respiro ancor più roco e quasi rantolante del vecchio, mentre Alexi china la testa con un rammarico evidente sul viso. Olimpia fa per dire qualcosa, quando d'improvviso alla sua destra, Xena si alza di scatto facendo quasi rotolare di lato il suo sgabello.

"D'accordo. Sapete cosa?" dice. "Volete continuare a giocare agli indovinelli? Buon divertimento. Noi adesso andiamo di là a rivestirci. Poi recuperemo Argo e lasceremo questo posto con tutti i suoi misteri e le sue maledizioni. Forse tuo padre ha ragione, Alexi. Hai preso un granchio. Non siamo noi le persone che aspettavate. Andiamo, Olimpia."

"Xena..." prova a dire la compagna, ma la guerriera è già uscita dalla stanza, prima che possa fare un movimento per fermarla.

"Fermala, Olimpia, ti prego." le chiede Alexi, con tono d'implorazione. "Non resta molto tempo per..."

"Sai, non ha tutti i torti." gli risponde la ragazza bruscamente. "Ci avete rapite, trascinate qui contro la nostra volontà, continuate a biascicare di chissà quale missione vitale per il mondo e al tempo stesso non volete dirci con esattezza cosa sta succedendo. La cosa comincia ad irritare perfino me."

"Olimpia, ti assicuro che..."  

"No, Alexi, mi dispiace. Se non vi fidate di noi abbastanza da dirci tutto, non credo che ci sia altro di cui parlare."

"Olimpia!" chiama la voce di Xena dall'esterno.

"Sto arrivando." risponde questa, voltando le spalle al giovane, e dirigendosi verso la porta. La ragazza sta per varcare la soglia, quando un gemito prolungato risuona alle sue spalle. Un gemito così acuto da non sembrare neanche umano. Con un brivido, Olimpia si gira verso il letto, dove il corpo del vecchio disteso adesso è tutt'altro che immobile. Il fragile involucro di pelle ed ossa è scosso da violente convulsioni e le sue mani sono strette intorno alla testa come se volessero sradicarla.

"Padre! Che hai?" grida Alexi, accorrendo al suo fianco. Olimpia che è rimasta immobilizzata sulla porta dalla sorpresa si getta al suo seguito.

"XENA!" urla. "CORRI!".

I due cercano disperatamente di bloccare quello che sembra solo il debole corpo di un vecchio, ma Aristis pare preda dei demoni. I muscoli delle braccia e delle gambe sono irrigiditi come i rami di un albero e i denti nella sua bocca, ancora in maggioranza intatti e sani nonostante l'età, per quanto si riesce a scorgere, sono così digrignati che stanno scavando solchi di sangue tra le sue labbra.

Se avesse ancora gli occhi, pensa Olimpia, ora starebbero uscendogli dalle orbite.

Il rumore di stivali pesanti che percuotono il legno del portico precede solo di qualche istante il suono allarmato della voce di Xena.

"Che diavolo succede?" esclama la guerriera entrando di corsa.

"Sta male." risponde Olimpia stesa quasi sul corpo di Aristis per tenerlo fermo, mentre Alexi come paralizzato fissa ad occhi spalancati suo padre.

Xena lo guarda e poi si precipita verso la compagna, scaraventando da parte il giovane che ora ha spostato lo sguardo verso la piccola finestra della stanza, mormorando qualcosa di incomprensibile.

"Non puoi bloccarlo con la stretta?'' chiede Olimpia, scivolando da una parte per permettere a Xena di afferrare meglio il vecchio.

"E' troppo pericoloso. E' vecchio ed in condizioni precarie. Potrei ucciderlo se ci provassi."

"Allora cosa facciamo?"

Poi, Olimpia vede Alexi che è rimasto immobile con la schiena appoggiata alla parete come se avesse bisogno di un sostegno e gli occhi puntati nella direzione della finestra.

"Alexi! Muoviti! Dacci una mano!"

Ma il giovane continua a fissare davanti  a sé come se stesse vedendo qualcosa di molto più terrificante della vista di suo padre in quelle condizioni.

"E' qui." mormora, questa volta in modo chiaro. "E' qui. Sta arrivando."

"Cosa?" Perplessa, sia pur in quel momento di caos, Olimpia non può fare a meno di lanciare un'occhiata alle sue spalle, verso la finestra da cui, adesso se ne rende conto, non arriva più alcun raggio di quel sole che fino a pochi minuti prima brillava sulla radura. Anzi, tutta la stanza sembra essere piombata in una specie di buio, molto vicino a quello della notte. Le fronde degli alberi visibili dalla finestra sembrano agitate da un vento fortissimo, di cui però non pare giungere un solo alito nella stanza. E Olimpia ode distintamente il rumore di rami spezzati in avvicinamento.

Poi, tutta la sua attenzione torna su Aristis, perché il corpo del vecchio ha smesso di scuotersi e sotto lo sguardo sbalordito delle due donne, ha cominciato a sollevarsi lentamente ma in maniera evidente dalla superficie del letto. La coperta gli scivola di dosso, mentre Xena che lo teneva ancora per un braccio, lascia la presa, allontanandosi di un paio di passi. Anche Alexi ha smesso di fissare la finestra e guarda il corpo di suo padre che sempre in posizione supina ora levita nell'aria ad un altezza di circa un paio di cubiti. Il tempo sembra essersi bloccato nella stanza con le tre persone immobili in piedi, quasi in semicerchio, intorno alla figura di Aristis, poi improvvisamente qualcosa come un'onda sonora emana da lui, spargendosi a raggiera. Niente di visibile e neppure di veramente udibile. Una specie di sibilo acutissimo che tuttavia rischia di perforare i timpani e che costringe le due donne e l'uomo a coprirsi le orecchie istintivamente, a cui fa da eco un altro suono, questo davvero indescrivibile.

Una volta, durante uno dei suoi viaggi senza mèta, nel periodo dopo la morte di Aristarco e l'abbandono di Seleuco ai Centauri, Xena si era ritrovata, non rammenta neanche come, nella giungla della parte più inesplorata dell'India ed a contatto con le creature più feroci e selvagge di quel territorio. Là aveva assistito, non vista ed incidentalmente, ad uno scontro tra una tigre in caccia ed un elefantessa che cercava di proteggere i suoi piccoli. Ad un certo punto, la tigre era riuscita a saltare in groppa al pachiderma e le aveva affondato i denti nel collo. Il barrito intriso di rabbia, dolore e terrore che l'elefantessa aveva cacciato le era rimasto impresso per molto tempo e le torna in mente adesso, mentre anche attraverso le mani che le coprono le orecchie, riesce a sentire chiaramente l'urlo proveniente dagli alberi. Il suono risuona nell'aria per interminabili momenti, poi, d'un tratto come è iniziato svanisce in lontananza, mentre il rumore di foglie e rami spezzati s'interrompe contemporaneamente e il silenzio sembra di nuovo regnare intorno a loro.

Olimpia, lanciandole uno sguardo in cui si combattono paura e sgomento, si allontana cautamente le mani dalle orecchie, subito imitata dagli altri due ed in quel momento, Aristis ricade pesantemente sul letto. Subito i tre si gettano in avanti per afferrarlo prima che scivoli a terra nel rimbalzo, adagiandolo di nuovo al centro, e tre paia di occhi si posano sul corpo abbandonato in mezzo a loro.

"Dèi dell'Olimpo, Xena." mormora Olimpia, senza riuscire a distogliere lo sguardo. "E'..."

La guerriera allunga una mano e tocca delicatamente il collo rinsecchito, lasciandovela per qualche istante. Poi, con un sospiro di rassegnazione, la stacca.

"Mi dispiace." dice, guardando Alexi, ancora immobile accanto a lei. "E' morto."

Il giovane, senza una parola, si avvicina a suo padre e cade in ginocchio. Poi, china la sua fronte sul petto del vecchio e rimane così, mentre leggeri singhiozzi lo scuotono.

Xena e Olimpia restano ad osservarlo, appena consapevoli del timido raggio di sole che sta tornando a fare capolino sul davanzale della piccola finestra.

 

(4 - continua)





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