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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo I)

Parte 1

(88) Croft, Sutherland e Carruthers

 

"La tragica vicenda che ha angosciato per settimane la popolazione della nostra città, ha finalmente trovato il suo epilogo quest'oggi, in un'elegante palazzina di un quartiere residenziale. Al 287 di Haverford Avenue, una squadra di agenti al comando del capitano George Carruthers che, come ricorderete, aveva già condotto le indagini sul caso dell'Amazzone qualche mese fa, ha fatto irruzione per procedere alla liberazione del piccolo Joey Driscoll, rapito nella giornata di ieri, dal mostro cannibale ormai noto come The Ogre, che aveva anche  ucciso ferocemente la sorella del bambino che aveva cercato di difenderlo. L'identità dell'assassino sembrerebbe corrispondere a quella di Hermia Colbert, che viveva nella casa in questione insieme a sua madre da tempo invalida. Per quel che abbiamo potuto ricostruire in queste poche concitate ore dopo gli avvenimenti, parrebbe che la Colbert rapisse ed uccidesse i piccoli per fornire alla vecchia madre l'orrida alimentazione di cui questa era divenuta dipendente nel corso dei lunghi anni nei quali aveva viaggiato insieme a suo marito, il defunto Christopher Colbert, eminente figura politica di qualche anno fa, nelle selvagge foreste del Borneo e del sud America, a contatto con riti segreti, sacrificali e cannibalistici, di quelle sperdute popolazioni, e che dovevano aver evidentemente finito di sconvolgere una mente già non del tutto equilibrata. Ad aggiungersi alla lista di orrori apparentemente infinita di questa incredibile storia, nella soffitta della casa sarebbe stata anche rinvenuta una ghiacciaia contenente i resti conservati sotto vetro di alcune delle giovanissime vittime. Non ci è dato ancora sapere se anche la figlia partecipasse agli orrendi pasti di sua madre. Nello scontro a fuoco seguito all'irruzione e al salvataggio del bambino, e che ha portato all'uccisione delle due donne, ha purtroppo perso la vita anche la dottoressa Jennifer Rowles, che nella sua veste di psicologa consulente aveva seguito fin dall'inizio l'inchiesta, spalla a spalla con la polizia e di concerto con il procuratore Kenneth G. Ballister, alla cui sagace e lungimirante amministrazione dobbiamo questo nuovo successo delle forze dell'ordine della nostra città. Ci uniamo al lutto del procuratore e della sua squadra per la perdita..."

 

L'immagine dell'agitato speaker, con alle spalle la sinistra struttura del villino delle Colbert e un gruppo di ancora più frenetici agenti della scientifica che ne entrano ed escono, sparisce con un tffth, e Brian Croft posa il telecomando sul bracciolo del divano, poggiando all'indietro la testa ad osservare senza vederla la parete sopra il piccolo televisore a 22 pollici.

"Sagace e lungimirante, eh?" dice al salotto vuoto, con un sorriso ironico. Niente male. L'ufficio stampa del procuratore doveva aver lavorato sodo per riuscire a dargli il merito di un'operazione di cui non sospettava neanche l'esistenza. E così, il buon Ballister passava all'incasso, ricacciando nelle loro tane i lupi che credevano finalmente di poter banchettare con le sue spoglie. E non c'era dubbio che con un successo del genere la sua rielezione fosse quasi scontata.

Con un sospiro, Brian si alza dal divano e va verso il tavolo sul quale è rimasta la bottiglia, con accanto i due bicchieri. Uno dei due ha ancora un po' di liquore sul fondo. Sutherland l'ha solo sorseggiato su sua insistenza.

"Lo beva." gli aveva detto, tendendoglielo, subito dopo aver fatto accomodare l'anziano professore in poltrona. "Ne ha bisogno, mi creda."

"Grazie." aveva risposto lui, prendendolo con esitazione. "Ma non sono abituato a..."

"Solo un paio di sorsi. E' stata una giornata dura per tutti." aveva ribattuto Croft, sorridendo.

E il professore si era portato il bicchiere alle labbra, senza obiettare.

E lo era stata, eccome. Con l'arrivo delle autopattuglie e dei barellieri delle ambulanze, la porta di quella claustrofobica stanza era stata alla fine abbattuta. I bordi erano così incastrati nello stipite che c'erano voluti gli sforzi congiunti di due robusti poliziotti. Gli uomini del soccorso avevano dovuto indossare le mascherine per entrare a causa del fetore insopportabile di quel luogo, e a Croft era parso strano che lui e Carruthers, dopo i primi momenti, non ci avessero più neanche pensato, ma poi guardando il poliziotto si era reso conto che questi in quel momento non si sarebbe accorto neppure dello scoppio di una bomba. Se ne stava immobile, parzialmente steso su quel letto sporco e puzzolente, tenendo tra le braccia il corpo della donna ferita. Xena (ma Carruthers l'aveva chiamata Jennifer, se ricordava bene) aveva gli occhi ancora aperti, beh, più socchiusi forse, il respiro era debole e leggermente accellerato, gambe e braccia abbandonate come senza vita. A Croft aveva fatto particolare impressione la gamba sinistra, piegata all'altezza del ginocchio in una posizione che sarebbe stata dolorosa e intollerabile se in quell'arto ci fosse stato ancora un minimo di sensibilità.

Carruthers la teneva stretta a sé come fosse stata una bambina, sostenendole la schiena con un braccio e accarezzandole i lunghi capelli che ora pendevano sciolti oltre il bordo del letto, dicendole qualcosa che Croft nonostante fosse lì vicino non era riuscito a capire. E piangeva. Non a singhiozzi, non rumorosamente, ma anche alla pallida luce dell'accendino aveva potuto distinguere chiaramente le lacrime che gli scendevano lungo le guance.

L'irruzione dei soccorritori aveva improvvisamente movimentato una scena che aveva assunto una strana immobilità. Gli uomini si erano subito divisi, alcuni preoccupandosi dei due corpi distesi a terra, altri accorrendo accanto al poliziotto ed alla donna che teneva tra le braccia. Questi all'inizio era sembrato restio a lasciarla alle cure degli infermieri, poi si era lasciato portare via, come sotto shock, continuando a guardare verso il punto dove giaceva la donna, ora circondata dai nuovi venuti che stavano sottoponendola ai primi controlli.

All'esterno della stanza, Croft aveva sentito quasi senza notarlo, il rumore a stantuffo di uno sportello che si apriva (un frigorifero o una ghiacciaia) e imprecazioni di orrore e disgusto, ma non aveva provato la minima curiosità.

I due corpi, di cui era stato dichiarato l'avvenuto decesso, erano stati lasciati nelle loro posizioni, in attesa degli esami preliminari del medico legale, mentre la donna era stata sollevata con ogni cautela, assicurata ad una lettiga e trasportata alla più vicina ambulanza che era partita subito a sirene spiegate.

L'azione era stata così rapida che Carruthers, evidentemente ancora stordito, non aveva fatto in tempo a chiedere di poter salire sul mezzo insieme a lei, e lui, Croft e Suherland erano montati di corsa sull'auto del poliziotto, ancora parcheggiata nel vialetto, partendo all'inseguimento. Alla guida si era messo Croft, senza troppe proteste da parte del proprietario, con gli altri due seduti dietro. Nel corso del tragitto che li separava dall'ospedale, il giornalista aveva più volte occhieggiato dallo specchietto i suoi passeggeri seduti in silenzio. Carruthers guardava fisso fuori dal finestrino. Non piangeva più, ma le sue labbra continuavano a muoversi quasi impercettibilmente in quella che Croft pensava fosse una preghiera. Ma anche Sutherland appariva piuttosto sconvolto. Lui era rimasto fuori dalla stanza degli orrori, ma gli doveva essere bastato gettare un'occhiata alle spalle degli uomini del soccorso per rendersi conto di ciò che era accaduto, e scorgere il volto pallido e semi incoscente di Xena, emergere da sotto la coperta frettolosamente gettatale addosso per il trasporto, doveva essere stato un brutto colpo anche per lui.

La donna (Xena o Jennifer, che fosse) aveva cessato di vivere pochi minuti dopo l'arrivo all'ospedale, aveva comunicato loro il medico di turno. Non c'era stato neanche il tempo di prestarle i primi soccorsi. La ferita era troppo grave. La pallottola le aveva leso la spina dorsale in modo irrimediabile e poi aveva proseguito, rallentata ma inesorabile, il suo viaggio verso il cuore. Era praticamente già morta prima di arrivare.

Carruthers si era abbattutto su una delle poltroncine di quell'ambiente bianco e asettico. Né Croft, né Sutherland avevano avuto il coraggio di dirgli nulla. Poi, aveva chiesto di vederla e si era allontanato lungo il corridoio al seguito del medico. Poco dopo era tornato, la testa china e gli occhi arrossati, ed era stato il turno del professore. Croft aveva preferito non andare. Si sentiva in qualche modo una sorta di intruso in quella situazione, non conosceva molto bene Jennifer e neanche il pensiero, a cui non era riuscito ancora ad abituarsi, che lo spirito che aveva abitato quel corpo negli ultimi giorni, fosse lo stesso che non molto tempo prima aveva trasformato la sua Cheryl in una specie di reincarnazione dell'essenza amazzone della vendetta, riusciva a farlo sentire più vicino. Anzi, lo riempiva di uno strano disagio, come se stesse assistendo per la seconda volta alle esequie della sua amica. Un déjà vu ai confini della realtà. Essere il tuo veicolo in questo mondo non porta molta fortuna, vero Xena?si era sorpreso a pensare.

Borbottando qualche parola di scusa, Carruthers si era congedato. Non aveva neanche menzionato una qualche prossima loro convocazione alla centrale per le deposizioni o altro. Forse quello era davvero il suo ultimo giorno da poliziotto. Lo aveva osservato, mentre si allontanava, con il passo lento e la schiena curva e ancora una volta non aveva avuto l'animo di chiedergli nulla. Quello non era decisamente il momento. Rimasti soli, lui e il professore si erano guardati.

"Venga." aveva detto al vecchio, che mai come in quel momento gli era apparso dimostrare tutti i suoi anni. "Non abito lontano da qui. Le offro qualcosa da bere."

 

"Capisce, professore?" Croft, seduto sul divano di fronte si era proteso verso l'anziano ex-docente che stringeva mollemente il suo bicchiere ancora pieno per metà del whisky che gli aveva versato, guardandolo, ma come se realmente non lo vedesse. "La luce si è spenta all'improvviso e un momento dopo quelle due donne non erano più distese e prive di conoscenza, ma se ne stavano una accanto all'altra in piedi dall'altra parte della stanza, immobili e silenziose, fissandoci."

"Ha detto che era buio..." aveva mormorato Sutherland, spostando lo sguardo vacuo sul suo bicchiere e portandoselo alle labbra distrattamente.

"Sì, infatti." aveva confermato il giornalista, raggiungendo con la mano la bottiglia sul tavolino e versandosi un'altra abbondante razione. "Ma non del tutto. Doveva esserci una lampadina da qualche parte a terra, non so, probabilmente una torcia di quelle portatili, e quel poco di luce che ancora mandava era sufficiente per distinguere qualcosa. Ombre, contorni di figure... ma il punto non è questo." Croft, posato nuovamente il bicchiere vuoto, si era teso ancora di più verso la poltrona sulla quale sedeva il vecchio, abbassando il tono della voce. "Il punto è che un attimo prima quelle due erano una a terra e l'altra sul quel letto, apparentemente prive di conoscenza... no, più che apparentemente, la Colbert figlia sembrava più di là che di qua, per quello che posso capirne. Anche Carruthers ha detto che aveva preso una brutta botta alla testa... E d'un tratto, invece, eccole lì, vive e vegete e armate di pistola."

Croft si era zittito, continuando a fissare il professore, finché questi non aveva alzato di nuovo gli occhi su di lui.

"Che cosa vuole sentirsi dire, signor Croft?" gli aveva chiesto, con uno strano sguardo senza espressione. "Che quello a cui ha assistito era un evento soprannaturale? Le ricordo che io non ero in quella stanza con voi, quindi non è a me che deve rivolgere questa domanda."

"Ma non è tutto!" aveva continuato il giornalista, senza arrendersi. "Quando è scoppiato l'inferno, le due Colbert erano all'improvviso dietro di noi, e che io sia dannato se riesco a capire come ci sono arrivate!"

"Camminando?" aveva azzardato Sutherland, e un bagliore d'ironia si era fatta strada nella tristezza del suo sguardo.

"Un accidente!" aveva sbottato Croft afferrando la bottiglia, svuotandone il restante contenuto nel suo bicchiere e trangugiandolo in un unico sorso. "Vuole che le dica cosa è sembrato a me?" aveva chiesto poi, con il viso arrossato. "Io direi che stavano fluttuando."

L'ultima parola gli era uscita di bocca un po' farfugliante, forse più a causa dell'alcol che dell'eccitazione.

"Fluttuavano, eh?" aveva detto il professore, poi con un sospiro aveva posato il bicchiere con il suo whisky appena toccato. "Ascolti, Croft..." aveva cominciato.

"No! Ascolti lei!" Il giornalista aveva sbattuto la bottiglia sul ripiano in cristallo, mettendone seriamente a repentaglio l'incolumità. "Soltanto ieri sera, meno di ventiquattro ore fa, lei e la sua defunta amica mi avete costretto a credere all'esistenza di realtà parellele, di dèmoni e principesse guerriere che potevano viaggiarvi attraverso, ed ho ancora un paio di lividi a riprova. Adesso non mi venga a fare il paladino del razionale. Lei sa bene quanto me che quello a cui abbiamo assistito oggi ha come minimo due chiavi di lettura. Lasci pure che la gente creda che oggi abbiamo messo la parola fine all'esistenza di un feroce serial killer, cannibale e infanticida, ma comunque umano. Noi due sappiamo che non è solo questo. Quando Hermia Colbert è caduta a terra svenuta, sua madre ha smesso di agitarsi e pareva priva di sensi anche lei. E quando Carruthers ha freddato la vecchia, anche la figlia è morta. Nello stesso istante e senza cause apparenti."

"Sbaglio o aveva appena finito di dire che Hermia Colbert era già in punto di morte, pochi momenti prima?" Sutherland lo aveva guardato di nuovo con quella sua espressione mesta. "Comunque, lasci perdere tutti questi giri di parole e mi dica semplicemente che cosa ha davvero visto, secondo lei." 

I due uomini erano rimasti per qualche attimo a fissarsi in silenzio, poi Croft si era deciso.

"Vuole saperlo?" aveva risposto, con una determinazione improvvisa. "Non lo so bene neanch'io, professore. Non so dirle esattamente cosa penso, ma in cambio potrei provare a raccontarle una storia, una fiaba, una di quelle che fanno paura. Con gli orchi."

Croft si era interrotto, come se si aspettasse un'osservazione dall'altro, ma Sutherland si era limitato a continuare a guardarlo senza dire niente.

"D'accordo. Immagini che quelle due fossero in qualche modo possedute da un dèmone. Entrambe, voglio dire." riprende quindi il giornalista. "Proprio uno di quelli di cui mi parlavate ieri. Evelyn Colbert, la madre, aveva viaggiato insieme al marito per anni, attraverso lande sperdute e foreste selvagge, poi ad un tratto ecco che ritornano di corsa a casa e i due coniugi si segregano volontariamente, accuditi dalla figlia che lascia tutto per loro. Vivono appartati dal resto del mondo, nella loro tenuta in campagna. Non ne ho la certezza, ma scommetto che se facessi una ricerca nella zona in cui hanno abitato, scoprirei che all'epoca sono scomparse delle persone, che so, sbandati, autostoppisti, ragazzi fuggiti di casa e mai ritrovati. Le cronache sono stracolme di casi del genere e nessuno si danna l'anima per risolverli. Poi si trasferiscono qui, il marito già ammalato muore e le due donne restano sole con il loro segreto. Ma anche se il dèmone è sempre affamato, Evelyn è invecchiata, indebolita, i suoi denti e il suo stomaco non sono più tanto buoni ed ha bisogno di carne tenera. E così..."

Croft si era interrotto di nuovo.

"E così?" lo aveva spronato il professore. "Non si fermi adesso. Sta andando bene."

"...e così nasce The Ogre, l'incarnazione dell'orco delle fiabe. Il dèmone vive ormai attraverso loro e quando Hermia va a caccia, si trasferisce totalmente in lei per condividerne il piacere. Ma forse perché non può controllarle entrambe a distanza, deve imprigionare e legare la vecchia, che priva della sua influenza, potrebbe commettere qualche sciocchezza."

"Un vero e proprio caso di simbiosi." aveva commentato riflessivo Sutherland. "Teoria affascinante, certo. Ma su cosa la basa?"

Croft si era alzato dal divano, liberandosi della giacca e allargandosi ulteriormente la cravatta già abbastanza lenta. Sulla camicia, sotto le ascelle erano ben visibili due grandi macchie di sudore.

"Mentre eravamo in quella stanza maledetta" aveva detto "ad osservare come ipnotizzati quelle ombre contro il muro in quel silenzio irreale, Xena ha detto qualcosa. Era una frase strana, pareva estrapolata da una conversazione più lunga, come se stesse parlando con qualcuno, ma la ricordo abbastanza bene. Ha detto che era costretto ad usare gli esseri viventi, che doveva muoversi e nutrirsi tramite loro."

"E secondo lei stava rivolgendosi al dèmone?" aveva chiesto il professore.

"A chi se no? Sul momento l'ho solo memorizzata. Non capivo con chi ce l'avesse, dato che nessuno le rispondeva. Ma poi ci ho riflettuto. Questo spiegherebbe anche perché quando Xena ha messo fuori combattimento Hermia, anche Evelyn ha perso i sensi, ma un attimo dopo, erano di nuovo tutte e due in piedi. Il dèmone era appena tornato a dividersi tra loro ed ora che erano insieme poteva manovrarle entrambe. Ma la cosa doveva avere anche il suo lato negativo e quando Carruthers ha sparato alla vecchia..."

"... anche la figlia, indissolubilmente legata a lei tramite il dèmone, è morta." aveva concluso per lui, Sutherland.

Con un sospiro di sollievo, come svuotato di energie, il giornalista si era lasciato di nuovo cadere sul divano.

"Esattamente." aveva confermato. "Che gliene sembra?"

"E il dèmone?" aveva chiesto il professore.

"Non lo so." aveva risposto con una scrollata di spalle. "Distrutto anche lui, spero, o qualunque altra cosa succeda agli spiriti maligni quando il loro ospite muore. Forse questo dovrebbe dirmelo lei."

"Plausibile." aveva detto Sutherland. "Se la sua ipotesi ha una base reale, un tale livello di simbiosi per così tanto tempo...". L'anziano uomo aveva lasciato la frase in sospeso, restando in silenzio per qualche momento, pensando. Poi, il suo sguardo era tornato vivo. "Una bella storia per il suo giornale." aveva osservato.

"Già." aveva annuito Croft, anche lui pensieroso. "Ma non si preoccupi. Non la scriverò."

"Davvero? E perché?" aveva chiesto il vecchio, e anche se il suo tono voleva apparire sorpreso, non c'era riuscito del tutto.

"Ho già abbastanza carne al fuoco, direi. Un bambino salvato in extremis, un feroce serial killer ucciso, una coppia di cannibali nascosta in un bel quartiere cittadino, e non ultima" aveva aggiunto con un mezzo sorriso, forse per dissimulare il brivido che aveva sentito lungo la schiena "quella che passerà alla storia della cronaca nera, lo sento, come la ghiacciaia degli orrori." L'aveva detto con enfasi, sottolineando la frase con le dita nell'aria, come disponendo le lettere di un ancora immaginario titolo di giornale a caratteri di scatola. "Inutile aggiungere particolari così inverosimili, che finirebbero per danneggiare la credibilità di tutto il resto. Qualunque buon giornalista glielo potrebbe confermare."

Sutherland si era alzato lentamente dalla sua poltrona appoggiandosi sul suo bastone e Croft era accorso prontamente ad aiutarlo.

"Lasciamo che i morti riposino in pace, eh?" aveva detto il vecchio, sorridendo. Il primo sorriso che Croft gli avesse visto fare quella sera. "Sono d'accordo."

Poi, dopo che il professore aveva gentilmente declinato la sua offerta di accompagnarlo a casa e si era fatto semplicemente chiamare un taxi ("O un ta-xi." aveva detto con un altro sorriso triste ed enigmatico, e Croft era sicuro di avergli visto brillare una lacrima), gli aveva rivolto l'ultima domanda. Quella a cui aveva pensato fino ad allora, ma che chissà perché non era riuscito ancora a fargli.

"Professore" aveva chiesto "secondo lei chi è morta oggi, Xena o Jennifer Rowles?"

Era rimasto a fissare quegli occhi acquosi, mentre Sutherland si toglieva le lenti, ripulendole lentamente e con molta cura, senza ricambiare il suo sguardo.

"In tutta confidenza, signor Croft" gli aveva risposto alla fine il vecchio "spero e prego che non sia morta nessuna delle due."        

E con un cortese cenno di saluto, se ne era andato.

 

Spero e prego che non sia morta nessuna delle due.

Era così che aveva detto, vero? Brian scuote la testa, intento ad asciugare i bicchieri ed a riporli sulla mensola nella sua cucina. Decisamente quell'uomo era stato fin dall'inizio di quella storia il personaggio più enigmatico. Perfino più della misteriosa psicologa dai due volti, e anche più di The Ogre. Qual'era il suo ruolo in tutta quella vicenda? La Rowles vi era stata coinvolta dal suo amico poliziotto (solo amico? A giudicare da quello che aveva visto quella sera non ci avrebbe scommesso), ma lui? In qualche modo, riusciva a trovarsi sempre al centro degli avvenimenti. A partire dalla tragica notte che aveva concluso la storia dell'Amazzone, almeno per quanto ne sapeva, il cui atto finale si era svolto nel giardino di casa sua (per inciso quello stesso giardino in cui la Rowles era quasi stata uccisa, prima che Xena entrasse nel suo corpo salvandola) fino ad arrivare all'altrettanto luttuoso epilogo di quella stessa sera. E tutti quegli strani discorsi su entità che manovrano i destini degli universi e di chi li abita? Ed ora, se ne era uscito con quella risposta quanto meno criptica.

Che voleva dire con "Spero e prego che non sia morta nessuna delle due"?

C'era incontestabilmente un cadavere in una cella frigorifera dell'obitorio cittadino a smentire qualsiasi sua speranza. Qualche spirito fatalmente era destinato a non trovare più la strada di casa. Che fosse quello di una psicologa del pianeta Terra del ventunesimo secolo, o quello di una principessa guerriera lontana duemila anni nel passato di questo o di chissà quale altro universo parallelo.

Asciugandosi le mani, Croft torna nel salotto, dove in un angolino, brilla lo schermo del suo PC e vi si siede davanti.

"OK." dice ad alta voce, cliccando sull'icona corrispondente alle agenzie di stampa che in diretta, minuto dopo minuto, scaricavano le notizie che venivano diramate dai vari punti del mondo. "Diamoci da fare. Hai un articolo da comporre, caro il mio Brian Croft, ed è un articolo molto importante per te. Il più importante che tu abbia mai scritto."

"Ore 6.15 p.m." scorrono intanto sul fondo dello schermo le notizie emesse in tempo reale. "Il procuratore Kevin G. Ballister ha annunciato per le 7 e 30 di questa sera una conferenza stampa in cui verranno comunicati in dettaglio all'opinione pubblica gli sviluppi delle indagini sulla serie di crimini avvenuti in questa città negli ultimi mesi ed attribuiti al serial killer noto come The Ogre, che poche ore fa hanno portato a..."

Croft distoglie gli occhi dalle parole che continuano a fluire alla periferia del suo sguardo senza più significato, e apre la pagina bianca già pronta per accogliere i frutti del suo intelletto, con un sorrisetto ironico.

"Evvai, signor procuratore." mormora a labbra strette. "Sei di nuovo in groppa alla tigre, eh? E probabilmente non saprai mai quanto sei stato vicino a finire tra le sue zanne, invece."

Le sue dita sono appena arrivate a sfiorare i tasti, che il suono distinto del campanello, interrompe bruscamente i pensieri che stava già cominciando ad organizzare.

Con un sospiro infastidito, Brian si alza e si dirige alla porta. Avvicina l'occhio al minuscolo spioncino e vi scruta attraverso. E un attimo dopo la spalanca, cercando di dissimulare al meglio la sorpresa.

"Capitano Carruthers." dice alla figura curva che lo fissa sulla soglia con un'espressione indefinibile negli occhi seminascosti dalla tesa del cappello.

"Croft." saluta con un cenno del capo il poliziotto, scoprendosi la testa. Alle luci del corridoio la sua incipiente calvizie appare ancora più evidente, quanto le occhiaie scure sotto le palpebre. Nelle poche ore trascorse dall'ultima volta che l'ha visto in quel corridoio d'ospedale, sembra invecchiato di dieci anni. "Posso entrare, per favore?" chiede.

Brian non risponde nulla, ma si sposta e l'uomo gli passa davanti con passo lento. Nella mano stringe una cartella nera dall'aria rigonfia.

"Abbiamo lasciato un discorso in sospeso." dice, senza guardarlo. "E io ho una storia da raccontarle."

La porta si richiude silenziosamente.

 

 

(89) Xena e Olimpia

 

Da principio c'era stato il buio, ma il mondo intorno a lei non vi era piombato di colpo. Era stato più un lento attenuarsi dei colori, dei volti, delle luci. Una morbida caduta in un abisso senza fine. Era la morte, e lei, nei brevi sprazzi di coscienza che le attraversavano la mente, non aveva avuto dubbi nel riconoscerla.

Quindi, erano arrivate le tenebre, dense, avvolgenti, quasi solide. L'avevano avviluppata nella loro gelida presa, annullando pensieri, emozioni, paure, e lasciandola sospesa in un limbo indefinibile di silenzio.

Non sapeva quanto fosse trascorso. Potevano essere attimi o millenni. I residui di consapevolezza che le restavano le dicevano solo che in quel luogo il tempo non aveva significato, e lei era rimasta immobile, senza più volontà, senza più desideri, un tutt'uno con il buio circostante.

E poi, c'era stato il suono. Lontano, continuo, irriconoscibile. Ed una strana sensazione di calore aveva cominciato a farsi strada dentro di lei. Come se ad un tratto nel luogo più freddo dell'universo, si fosse accesa una fiamma che stesse lentamente sciogliendo il gelo intorno. Una fiamma vivida e potente, che però ancora non riusciva a vedere.

La sua mente, o ciò che ne restava, lottava faticosamente per cercare di dare un senso a quelle impressioni, ma senza riuscirci, dibattendosi inutilmente in quell'ovattato silenzio, ora non più così assoluto.

Cos'era quel suono? Da dove proveniva? E quel calore? Quale fiamma poteva bruciare con tanta potenza, senza che la sua luce fosse visibile?

Un pianto.

Era questo quello che stava sentendo. La rivelazione le era giunta improvvisa come un lampo. Gemiti soffocati e strazianti che ora le sembravano vicinissimi. Ed anche quel calore d'un tratto le era parso ben localizzato. Era accanto a lei. Di più, era come se si fosse posato sulla sua spalla. Se, cioè, avesse ancora avuto una spalla su cui qualcosa potesse posarsi. Se lei fosse stata ancora qualcosa di più di uno spirito, privo di sostanza, perso in una dimensione oscura, dove nessuna luce poteva penetrare.

E come poteva essere altrimenti? Se così non fosse stato, quella fiamma le sarebbe apparsa in tutto il suo splendore. Perché ciò che emanava un tale calore, non poteva che emettere una luce meravigliosa.

Un tocco.

Ma lo aveva avvertito davvero? O si era trattato solo di un ricordo residuo, un fievole deposito sul fondo della sua mente? Un'estrema memoria di una vita che non le apparteneva più?

Una carezza.

Questa volta non poteva sbagliarsi. Era stata proprio una carezza quella che aveva sentito sulla sua guancia (se avesse avuto ancora una guancia su cui sentirla). E adesso, in quel pianto, in quei singhiozzi, le pareva perfino di riconoscere delle parole... un nome...

"Xena... ti prego... Riapri gli occhi... ti scongiuro... torna da me..."

Uno squarcio,

(Xena)

come un fendente di spada vibrato con forza da un braccio robusto, si apre d'un colpo nel buio, e la luce del giorno esplode improvvisamente davanti a lei, provocandole una fitta lancinante alla testa. Il buio torna istantaneamente ad avvolgerla, ma non più il silenzio, non più quella sensazione obnubilante di vuoto. Ora c'è dolore, ora c'è rumore, ora c'è vita.

E lei riapre di nuovo gli occhi, e vede la fiamma.

Una fiamma che la circonda tutta con braccia di fuoco, che danno calore senza scottare. Una fiamma stupenda come l'aveva immaginata.

"Xena... O Dèi dell'Olimpo, vi ringrazio..." dice la fiamma, mentre lacrime calde le cadono dal viso. "Sei tu, vero? Sei davvero tu?"

E insieme alla coscienza arrivano i ricordi, e la sua mente si apre ad essi, riconoscente, mentre la sua anima si colma, annullando il vuoto che l'aveva abitata.

"Sì, Olimpia." dice la Principessa Guerriera, con un sorriso affaticato. "Sono io."

Poi, è il suo volto ad essere inondato da lacrime di sollievo, mentre contemporaneamente l'altra lo riempie di mille piccoli baci.

 

Sono rimaste a lungo così. Olimpia, appoggiata ad un grosso tronco, e Xena, seduta nel suo grembo, con la testa posata sulla sua spalla, cullata come una bambina dalla compagna. E Xena l'ha lasciata fare, senza proteste, perché sa che è questo di cui Olimpia ha bisogno, di cui entrambe hanno bisogno. Crogiolarsi l'una nell'altra, nel calore che sanno donarsi reciprocamente, godendosi quel momento di pace quanto più a lungo sia possibile. E quel senso di completezza che non provavano più da quella che pareva un'eternità.

"Davvero ti sono sembrata splendente come una fiamma?" chiede la ragazza, posandole le labbra sulla fronte.

"Già. Evidentemente ero ancora in delirio." risponde la guerriera con un bagliore nello sguardo.

Il rumore di uno schiaffo secco sul braccio.

"Ehi! Non si trattano così i convalescenti." reclama Xena. "Dopotutto sono appena resuscitata. Di nuovo."

Con una risatina, Olimpia la stringe a sé ancora di più, accarezzandole dolcemente i capelli. Poi, il suo viso si fa serio.

"Sei sicura che...?" comincia a chiedere.

"Sì." l'interrompe subito la guerriera. Poi, alza la testa e i suoi occhi incontrano quelli della compagna. "Ho incontrato la morte abbastanza volte da saperla riconoscere, Olimpia. Mi dispiace."

"Anche a me." mormora la ragazza, spingendo di nuovo la testa di Xena contro la sua spalla. "Povera Jenna."

"Je-nnif-er." la corregge l'altra soprappensiero. "Almeno mi pare che si pronunciasse così. Che tipo era?" chiede poi.

"Una donna coraggiosa." risponde Olimpia, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Ti sarebbe piaciuta."

Xena resta in silenzio.

"E anche molto in gamba." continua la ragazza. "Ha saputo adattarsi subito alla nuova situazione. Non ce l'avrei fatta a sconfiggere la Bestia senza di lei."

"In qualche modo ne ero sicura." Xena appoggia meglio la testa nell'incavo tra il collo e la spalla di Olimpia, circondandole la vita con entrambe le braccia. "Siamo state scambiate per uno scopo, e se non fossi potuta tornare, lei sarebbe diventata un buon rimpiazzo per la Principessa Guerriera."

Olimpia le afferra il viso improvvisamente, costringendola a guardarla di nuovo negli occhi. Occhi che adesso sembrano di nuovo mandare fiamme.

"Non dirlo neanche per scherzo." dice lentamente, scandendo bene le parole, come per accertarsi che si imprimano nella mente della compagna. "Non ci sarà mai nessuno che possa sostituirti. Non per me."

Le due donne si fissano senza dire altro per un lungo momento, poi Xena china di nuovo la testa, e Olimpia la tiene stretta a sé, chiudendo gli occhi e ricacciando le lacrime che sente già premerle contro le ciglia.

"Mai nessuno." ripete.

 

Ora i tumuli di terra e pietre all'ombra del grande albero sono due, di uguale altezza ed uno accanto all'altro. Il sole, che ha già iniziato la sua parabola discendente nel cielo arrossando le cime più alte, è l'unico testimone di quella cerimonia, oltre alle due figure femminili in piedi, davanti alle tombe. Xena, la sua spada nuovamente assicurata nel fodero sulla sua schiena e il chakram che le pende dal fianco, resta ancora un attimo ad osservarle, poi la sua mano si tende e prende quella della compagna, ed insieme le due donne voltano le spalle e s'incamminano, mano nella mano, verso la casa  in fondo alla radura.

"Partiamo subito?" chiede Olimpia.

"E' meglio. Saremo a Kyros prima che sia notte. Non vedo l'ora di rivedere Argo, e domattina alle prime luci dell'alba, ci lasceremo finalmente alle spalle questo maledetto posto." risponde Xena. "Inoltre devo una storia a qualcuno."

Olimpia la guarda in tralice.

"Argolis?"

Xena si gira verso di lei, sorpresa.

"Dunque lo hai saputo." dice, sorridendo. "Credo che ci siano molte cose che devi ancora raccontarmi."

"Lo stesso potrei dire di te." ribatte la ragazza ricambiandole il sorriso. "Dovrei farti molte domande."

"Sbrigati allora, perché mi pare che i ricordi si stiano facendo sempre più vaghi."

"Proprio come diceva Alexi." mormora Olimpia, gettando un'occhiata alle sue spalle. "Credi che fosse vero anche tutto il resto che raccontava? Le storie su Coloro che Sanno e su come dirigano i destini di universi infiniti?"

"Non lo so, Olimpia." sospira Xena, guardandola. "Forse. Perché?"

"Niente." La giovane scrolla le spalle, abbassando lo sguardo. "Mi era venuta un'idea. Probabilmente è da pazzi."

"Dimmela." la incoraggia la guerriera, passandole un braccio intorno alla vita e attirandola contro di sé. "Come può esserlo più di ciò che ci succede comunemente?"

"Beh, pensavo..." comincia Olimpia, rispondendo all'abbraccio "... e se... guarda che è davvero pazzesca, ti avverto... dicevo, e se queste misteriose entità avessero inviato lo spirito di Jenna in un altro universo? Un universo simile a quello da cui proveniva, dove lei non sia morta e dove possa ricominciare una nuova vita?" Olimpia alza di nuovo gli occhi verso la compagna, incontrando il suo sguardo perplesso, poi li riabbassa, arrossendo imbarazzata. "Te lo avevo detto che era da pazzi." conclude.

"No. E' un'idea molto bella, invece, mio bardo." dice Xena, sollevandole il mento e posandole un leggero bacio sulle labbra. "Degna di te. E sperarlo non costa nulla."

Le due donne si sorridono ancora una volta e strette l'una all'altra riprendono il loro cammino.

 

 

(90) Jennifer

 

La coscienza torna improvvisa, insieme al dolore. Un dolore diffuso, come un indolenzimento di ogni muscolo, costretto da lungo tempo ad una forzata immobilità, un formicolio sparso in ogni area del suo corpo, come se milioni di piccoli aghi acuminati la trafiggessero senza sosta. Ma è il dolore alla testa quello avverte con più forza. Una fitta lacerante che le percuote tutto il lato destro del volto, rendendole insensibile l'orecchio e i tendini del collo. Un gemito le monta in gola incontrollabilmente, e sente la propria mano farsi strada sotto pesanti coperte per risalire fino all'origine di quel male, per sedarlo in qualche modo. Qualunque modo.

E poi qualcosa le blocca la mano con una presa ferma, ma gentile.

"No." dice una voce maschile sopra di lei, e di riflesso, la donna apre gli occhi.

Un'altra fitta la colpisce attraverso la luce del giorno che di colpo l'assale, costringendola a richiuderli subito con un altro gemito.

"No, signorina Rowles." ripete la voce su di lei. "Non si tocchi, o rischierà di far saltare i punti."

Più cautamente, Jennifer allarga le palpebre lasciando questa volta che la luce la raggiunga a strati, lentamente, poi il suo sguardo sale fino al viso dell'uomo che la sovrasta.

"Come si sente?" chiede questi, sorridendole.

Un uomo che indossa un camice bianco, piuttosto giovane, sui trentacinque anni, con pochi capelli rossicci e due occhi chiari dall'espressione simpatica e comunicativa.

"E' stato un miracolo, sa?" prosegue lui, continuando a sorriderle, ma controllandola anche con attenzione, con l'aiuto di una minuscola lampadina che le punta prima in un occhio e poi nell'altro, provocandole altro dolore alle pupille, ma sollevandosi subito dopo con aria soddisfatta. "Ora che è fuori pericolo, posso anche dirglielo. Per qualche minuto, l'avevamo persa. Era proprio andata. E invece rieccola qui. Un vero miracolo."

"Dove... sono?" chiede la donna, articolando a fatica le parole. "Che mi è successo?"

"Ti hanno sparato." risponde un'altra voce, anch'essa maschile, da una certa distanza alla sua destra, e seguendone il suono, Jennifer riconosce quella che è inconfondibilmente una stanza d'ospedale. Lei giace in un letto, coperta fino al collo da lenzuola e coperte bianche quanto le pareti, che mandano un piacevole odore di pulito. Ma il collo ancora irrigidito non le consente di girarsi completamente e la seconda persona resta nascosta ai suoi occhi.

"Quel figlio di puttana di Bowers." continua l'altra voce e il suo proprietario avanza verso il suo letto entrando alla fine nel suo campo visivo. L'uomo in questione, più o meno della stessa età del medico, alto e dinoccolato, indossa una giacca marrone ed ha un impermeabile quasi dello stesso colore ripiegato su di un braccio. "Per poco non ti ammazzava. Un centimetro più in basso e..."

"Adesso, cerchi di non pensarci." l'interrompe con uno sguardo di rimprovero il medico. "Deve solo riposare."

"No." dice lei, tentando di sollevare la testa dal cuscino e ricavandone in cambio solo un'altra fitta anche più forte delle precedenti. "Chi siete voi?" chiede, mentre sente l'angoscia afferrarle la gola con dita di ghiaccio. "Dove sono? Che posto è questo?"

E disperatamente cerca di aggrapparsi a ricordi, immagini di un passato che le sembra appartenere già ad ere remote. Una foresta, una figura demoniaca, ombre che si agitano in una nebbia oscura che ora sembra stare invadendo anche la sua mente, impedendole di comprendere quello che vede.

I due uomini di fronte a lei la guardano, e l'uomo con la giacca e l'impermeabile le si avvicina, provando senza molta fortuna a dissimulare l'aria preoccupata che gli vaga nello sguardo.

"E' un ospedale, Jennifer." dice con il tono di chi cerca di spiegare un concetto difficile ad un bambino. "Il Memorial, per la precisione, e tu sei qui da due giorni. Questo è il dottor Cohen. E' stato lui ad operarti. Ti ha rimosso un frammento di proiettile dalla testa."

Jennifer lo fissa di rimando, come se avesse difficoltà a metterne a fuoco l'immagine

"E lei chi è?" chiede. "Mi sembra di conoscerla, ma non riesco..."

L'uomo scambia uno sguardo veloce con l'altro, poi torna a fissarla.

"Ti sembra? Sono lusingato. Lavoriamo insieme solo da due anni, in fondo. Dottore" dice, rivolgendosi al medico "è normale che sia così confusa?"

"E' il minimo, direi." risponde questi. "Con una ferita del genere e l'operazione che ha dovuto sopportare. Per non parlare del coma che abbiamo dovuto indurle. Ha bisogno di un po' di tempo per riadattarsi alla realtà. Non si preoccupi se le farà delle domande strane. Lei risponda e basta."

"D'accordo." fa l'altro uomo e tirata a sé una sedia da un angolo, si siede accanto a lei. "Io sono Robert." dice. "Robert Price. Sono tenente della squadra omicidi di questa città, e tu sei Jennifer Rowles e lavori in qualità di psicologa consulente presso il distretto centrale di polizia, e negli ultimi due anni ci siamo trovati spesso a collaborare, il che ha fatto nascere tra noi una bella e spero duratura amicizia che..."

"Carruthers." dice all'improvviso Jennifer.

Il nome le è saltato in mente all'improvviso, e insieme al nome le sono apparsi in sequenza una serie di ricordi, come diapositive proiettate una dopo l'altra su uno schermo immaginario. Troppo rapide per poterle distinguere chiaramente e Jennifer cerca di concentrarsi, di focalizzarle, provando a rallentarle fino a dare loro un senso.

"Cosa?" Price la guarda sorpreso. "Di chi parli?"

"Il tenente... no, il capitano Carruthers. E' con lui che lavoro... cioè, lavoravo... Oddio, non... non riesco a..."

Frustrata da quell'incapacità di collegare lucidamente i frammenti di ricordi che le sfrecciano nel cervello come schegge impazzite, la donna serra di nuovo le palpebre, rituffandosi nel buio, per darsi il tempo di pensare, capire quello che sta succedendo.

Per un po' non arrivano suoni di là della coltre nera in cui si è volontariamente rifugiata. Poi, la voce dell'uomo che ha detto di chiamarsi Price torna a farsi sentire.

"Mi dispiace." dice, con una certa esitazione. "Ma l'unico Carruthers di cui mi ricordi è un mio superiore di qualche anno fa. Il tenente George Carruthers. Ma è morto da parecchio tempo."

Jennifer spalanca gli occhi, puntandoli su di lui.

"Morto?" chiede.

"Sì. Non ricordo neanche più da quanto. Tre o quattro anni almeno, direi. Restò ucciso in una rapina, se non sbaglio. Non pensavo che lo conoscessi."

Senza parole, Jennifer fissa Price, come se neanche lo vedesse.

"Ma... ma..." riesce appena a dire. Poi, qualcosa detta dall'uomo torna a risuonarle nella testa. "Come sono... finita... qui? Chi mi ha sparato?"

"Mark Bowers." risponde semplicemente il poliziotto. "Lo sai, il marito della ragazza che hai preso sotto la tua ala protettrice. Quella..."

Un leggero battere di nocche sul legno. I due uomini nella stanza si voltano in quella direzione, e Jennifer segue il loro sguardo per quanto glielo consente l'irrigidimento del collo.

"Scusatemi." La testa di una donna appare nella fessura della porta semiaperta. "Mi scusi, dottore. Ma quella povera ragazza è qui fuori da quasi quarantotto ore. Ora dice di aver sentito la voce della sua amica e non riesco più a trattenerla."

"Va bene." Il medico guarda Jennifer. "La faccia passare."

L'infermiera si fa da parte, aprendo completamente la porta.

"Entri." dice allora, rivolta a qualcuno ancora nascosto dietro di lei.

Una figura snella, in jeans e maglietta rossa, sulla quale ricade sciolta una folta capigliatura bionda, appare. La ragazza si blocca sulla soglia, gli occhi di un azzurro intenso che Jennifer riesce a distinguere benissimo anche a distanza, sgranati tra speranza e paura.

"Sei sveglia." dice, con un filo di voce.

E il mondo comincia a girare follemente intorno a Jennifer. Le sembra che la stanza sia divenuta all'improvviso una giostra e quella soglia sia l'unico punto fisso dell'universo. Quella soglia e la figura che è in piedi al centro.

"Joyce?" mormora, mentre il suo cuore perde un battito. "Joyce. Oh, mio Dio. Come è possibile?"

E in un attimo, la ragazza fa per correrle incontro, ma il suo scatto viene immediatamente bloccato dal medico che le si para davanti con tutto il corpo.

"Ferma lì." ordina bruscamente. "L'ho lasciata entrare. Ora non me ne faccia pentire."

La ragazza si arresta, ma il suo sguardo rimane incollato in quello di Jennifer, al di sopra della spalla del dottore.

"Mi lasci passare, la prego." supplica. "Cercherò di trattenermi, glielo giuro, ma lasci che la veda... che le parli."

Cohen resta per un attimo indeciso, poi si volta verso la sua paziente che è ancora distesa, con la testa sul cuscino, perchè cercare di sollevarla fa troppo male, ma i cui occhi esprimono incredulità, gioia e un'implorazione di uguale intensità.

"D'accordo." annuisce infine. Poi, torna a rivolgersi a Joyce con un'occhiata severa. "Ma niente abbracci o altre manifestazioni d'affetto troppo violente, OK? Si metta a sedere accanto al letto e al massimo le tenga una mano."

"Va bene." dice piano, Joyce. Cercando di calmarsi, la ragazza si asciuga gli occhi e tira su con il naso, quindi gira intorno al medico e si avvicina al letto, inginocchiandosi accanto a Jennifer.

"Mi raccomando. Non più di dieci minuti." ammonisce Cohen, dirigendosi verso la porta. "Le sorvegli lei, per favore." dice all'infermiera che lo segue.

"Ci penso io, dottore." risponde la donna, richiudendo la porta dietro di sé, e lanciando un sorriso alle sue spalle.

Il viso bagnato di lacrime, Jennifer estrae una mano da sotto le coperte e la solleva verso il viso di Joyce, accarezzandolo con un'espressione indescrivibile nello sguardo. Le sembra che il cuore, dopo aver rischiato di fermarsi, nel momento in cui ha visto la figura della ragazza profilarsi sulla porta, ora stia battendo con una potenza straordinaria, pompando sangue nelle vene a tutta forza, ma questo anziché debilitarla ulteriormente come sarebbe naturale dato il suo stato, le sta donando nuove energie e anche il dolore diffuso e le fitte localizzate nella testa sembrano essersi attenuate magicamente.

"Joyce... Joyce..." riesce solo a ripetere, persa negli occhi di lei, che hanno ricominciato a lacrimare copiosamente, senza che però si curi più di asciugarli.

"Jen..." sussurra, le dita che si intrecciano strettamente in quelle dell'altra. "Quando ti ho vista là a terra... con tutto quel sangue sul viso... ho creduto..." La sua voce si rompe in un singhiozzo. "...ho creduto di averti persa." continua poi, riprendendo un po' di fiato. "E volevo morire anch'io. Non avrei sopportato di vivere senza di te."

"Ma cosa è successo?" Finalmente, Jennifer ritrova un briciolo di coerenza in quel caos infinito che è divenuta la sua mente negli ultimi istanti. "Per quale miracolo, sei qua?"

"Il miracolo è che ci sia tu." risponde Joyce, con un pallido sorriso, pressandosi la sua mano sulle labbra. Ora che Jennifer la vede meglio, scorge il livido bluastro sotto il mento e il leggero gonfiore ad una angolo della bocca e i cerchi arrossati intorno agli occhi che risaltano ancora di più nel generale pallore del viso. "Non ti ricordi? Mark ha fatto irruzione nel nost... nel tuo appartamento." prosegue la ragazza con un'esitazione. "Aveva una pistola e mi avrebbe uccisa. Ti aveva dato una botta in testa e chiusa nel bagno, ma tu..." e nel suo sguardo passa un lampo di ammirazione e di orgoglio "... non so come, sei riuscita a liberarti. sei uscita dalla finestra e passando dalla terrazza, sei saltata come una furia nella stanza e l'hai assalito un attimo prima che mi sparasse..."

"... prendendoti di rimbalzo il colpo destinato a lei." conclude la voce di Price alle sue spalle, e Jennifer si gira verso di lui, rendendosi conto solo in quel momento di essersi completamente dimenticata della sua presenza.

"Come psicologa sei in gamba" dice il poliziotto con un sorriso "ma non sapevo che nei ritagli di tempo ti dilettassi a fare Batwoman. Complimenti socia. Ottima mimetizzazione. Nessuno sospetterà mai della tua doppia identità." aggiunge poi in un divertito tono canzonatorio.

"E Bowers?" chiede Jennifer, guardando alternativamente lui e Joyce. Mentre ascoltava quella storia, le era parso che alcuni frammenti di ricordi si ricomponessero nella sua mente, e li aveva accolti senza domandarsi perché.

"Passato alla storia." risponde il tenente. "Quando ci ha sentiti abbattere la porta, si è ficcato la canna in bocca e... bang. Stanno ancora scrostando il cervello dal soffitto. A proposito, non credo che potrai tornare tanto presto nel tuo appartamento."

"Non importa." mormora la donna, voltandosi di nuovo a fissare Joyce, e lasciandosi sprofondare di nuovo in quegli occhi. "Sono già a casa..."

Il silenzio regna per qualche lungo momento nella stanza, poi schiarendosi la gola, Price sposta rumorosamente la sedia indietro e si alza.

"Bene, visto che a quanto pare ti senti meglio, io me ne vado." dice, infilandosi l'impermeabile. "Porterò le buone novelle al distretto. Aspettati altre visite a breve."

"Sì, ehm, ciao." risponde Jennifer, girandosi appena. "Allora, ci vediamo, eh? E lascia detto in procura che mi farò viva."

L'aveva detto senza pensarci, e quando sente quelle parole uscirle di bocca, se ne meraviglia quasi.

Beh, perché no? pensa. Non so che significa tutto questo, che genere di miracolo l'abbia prodotto, ma Joyce è qui, davanti a me. La vita può riprendere a scorrere come se niente fosse successo.

E si sente sommergere da una nuova ondata di felicità, mentre il raggio di sole che arriva dalla finestra gioca meravigliosamente con i capelli di Joyce, creandole come un aureola intorno alla testa.

"La procura? Perché?"

Più che la domanda, è il tono perplesso con cui è stata posta a farla distogliere dalla sua contemplazione, per tornare a guardare Price.

"Vorranno sapere anche loro come sto, immagino." risponde. "E quando potrò tornare al lavoro."

"Ma che c'entri tu con la procura?"

"Lavoro per loro, no? Faccio parte della squadra di Ballister."

Ma non a lungo ancora. Puoi giurarci.

Poi guarda meglio l'espressione disorientata del poliziotto.

"Che c'è? Che ho detto?"

"Accidenti." mormora l'uomo, fermo sulla porta. "Devi essere anche più confusa di quello che pensavo." Poi, torna ad avvicinarsi al letto e anche Joyce, che evidentemente non capisce cosa sta succedendo, si volta a guardarlo. "Tu lavori con noi. Al distretto. A che serve una psicologa in procura?" dice Price, fissandola con aria indecisa. "E poi Ballister non è il procuratore."

"Non lo è?" chiede Jennifer, sorpresa.

"Non che non gli sarebbe piaciuto, ma ha dovuto rinunciare a candidarsi dopo quello scandalo di tangenti, non ricordi?" Il tenente la osserva. "Evidentemente no."

Con un sospiro, Price si stringe nelle spalle.

"Beh, non preoccuparti. Avrai tempo per recuperare. Ti ci vorranno almeno tre... no, quattro mesi di ferie."

"Quattro mesi?" Ma perché tutte le sue domande dovevano avere quel tono da Alice nel paese delle meraviglie?

"E' il tempo minimo che ti occorrerà per la convalescenza. E per una lunga vacanza. Te la meriti." aggiunge con un sorriso divertito l'uomo. Poi, prima di andarsene, le lancia un'ultima occhiata dalla porta. "Mi chiedo con chi andrai a farla." dice con una strizzatina d'occhio ed esce, lasciando le due donne sole.

Nella stanzetta, Jennifer continua a mantenere lo sguardo fisso in quello di Joyce e le dita strettamente intrecciate con quelle dell'altra, come se temesse che interrompendo quel contatto il sogno meraviglioso che sta vivendo possa dissolversi.

E' questa la morte? si chiede, inconsapevole di essersi già rivolta la stessa domanda non molto tempo prima, in ben altre circostanze. E' questo il Paradiso? Vedere realizzarsi i sogni più intimi ed impossibili. Quelli che non si sarebbe mai pensato potessero concretizzarsi. Sei davvero tu, Joyce? Sei davvero qui, davanti a me? O è tutto un sogno?

L'unica risposta alle sue domande silenziose è un altro lacrimone che fuoriesce da sotto una palpebra della ragazza, e la sua mano (quella non stritolata dalla sua morsa ferrea) che risale fino ai suoi capelli, immergendovisi e scostandoglieli dal viso con un gesto dolce e gentile che le manda il cuore in frantumi. Jennifer s'impadronisce anche dell'altra mano, stringendosela contro la guancia. Sogno o no, c'era una cosa che doveva dire. Ora, tutta d'un fiato, prima che avesse il tempo di pensarci.

"Joyce, è tanto tempo che volevo dirti una cosa." sussurra.

A meno che in questa realtà non l'abbia già fatto. Ma non credo, se sono sempre io.     

La ragazza la guarda senza parlare, in muta attesa, entrambe le sue mani ora prigioniere della donna distesa in quel letto.

Ingoiando il groppo che le ostruisce improvvisamente la gola, Jennifer parla.

"Io ti amo. Mi sono innamorata di te dal primo momento in cui ti ho vista, e in quel momento ho saputo che ti avrei amata per tutta la vita. Il mio unico rimpianto è di non aver avuto il coraggio di dirtelo prima."

L'espressione pallida e tesa della giovane si scioglie, mentre altre lacrime si uniscono alla prima.

"L'hai già fatto." dice, trattenendo a stento un singhiozzo mescolato ad un sorriso.

"Davvero?" chiede Jennifer, e questa volta non le importa di apparire stupita.

"Un milione di volte." mormora la ragazza, avvicinando lentamente il suo viso a quello di lei. "Quando mi guardavi, quando mi tenevi stretta consolandomi delle mie paure, ogni volta che hai pianto con me e ogni volta che hai rischiato la tua vita per me." Adesso i loro volti distano pochi centimetri e la voce di Joyce è scesa ad una tonalità che non potrebbe essere udita ad una distanza appena maggiore. "Anch'io ti amo, Jen." dice, e senza altre parole, posa le proprie labbra sulle sue. E quelle labbra sono morbide, fresche ed hanno un sapore dolcissimo. Proprio come aveva sempre immaginato.

 

 

 

 

Epilogo

 

Il leggero vento che proviene dal mare le smuove appena i capelli umidi e ancora appiccicati sulla fronte. Avvolgendosi meglio nel grande telo da bagno, lentamente e a piedi nudi, Jennifer esce dal salone, avanzando sul marmo della grande terrazza riscaldato dal sole, senza provare nessun brivido di freddo. Un piacevole calore, invece, ancora la pervade. Il calore emanato dal corpo di Joyce che magicamente sembra esserle penetrato nel profondo dell'anima stessa, riempiendola di una luce abbagliante.

Sono le nove del mattino, ma nel cielo di quella minuscola isoletta nel mare di Grecia, in quella splendida giornata di una primavera che da queste parti assomiglia già ad un'estate piena, il sole brilla alto. Si è chiesta molte volte perché tra tanti posti dove trascorrere la lunga vacanza che voleva concedersi con Joyce avesse finito per scegliere proprio la Grecia. Ma una volta giunte sull'isola e nel grande albergo che avevano trovato ad accoglierle, aveva smesso di porsi domande. La pace, la solennità di quel luogo avevano dissolto in un attimo i residui di tensione che erano rimasti dentro di lei (almeno quasi tutti), e quella notte, la prima notte dal loro arrivo, finalmente avevano fatto l'amore. Era stato qualcosa di indescrivibile, tenero e ardente allo stesso tempo. Joyce si era rivelata un'amante dolce ed appassionata e Jennifer aveva adorato ogni singolo istante di quella notte. Poi, esauste e strette l'una all'altra, col respiro che andava lentamente normalizzandosi e il sudore che si asciugava sulla pelle nella calda brezza che spirava attraverso le ampie vetrate socchiuse della stanza, si erano dette che era per quello che avevano atteso tanto. Perché la loro prima volta avvenisse nella giusta cornice.

E adesso, nel mattino che segue la più magica notte della sua vita, Jennifer contempla con una pace ed una serenità d'animo di cui non si sarebbe mai ritenuta capace, l'oggetto del suo amore. Non può vederla interamente perché Joyce, sotto un ampio ombrellone, con le spalle rivolte verso di lei, è mollemente adagiata su di una sedia a sdraio che la inghiotte quasi completamente, lasciandone visibili solo le splendide gambe snelle e una mano che regge tra le dita un bicchiere pieno di ghiaccio fino all'orlo, che si sta lentamente sciogliendo in un liquido di un rosso vivo. Jennifer si ferma. Su un tavolino alla sua destra, con la tovaglia che lo copre svolazzante al soffio ventoso dal mare, c'è una caraffa ugualmente colma di un liquido dello stesso colore. La donna se ne versa a sua volta un bicchiere assaporando con gusto il sapore leggermente aspro di agrumi, e si appoggia ad una delle colonnine posizionate strategicamente lungo tutta la terrazza, la schiena ancora leggermente umida contro il fresco marmo, mentre una lieve sensazione di déjà vu l'assale per una frazione di secondo, riportandole nuovamente una sottile fitta d'angoscia, a cui però non permette di durare più di qualche attimo, scrollandosela subito di dosso con decisione.

Questo è il mio mondo, ora. Non è un sogno e non si dissolverà.

Tempo ne era passato, infatti, ma il sogno non aveva accennato a svanire, come lei aveva atteso e temuto nei primi momenti. Anzi, si era fatto sempre più elaborato e realistico. Attraverso una serie di domande attentamente studiate preventivamente affinché non destassero troppi sospetti, Jennifer era riuscita a ricostruire almeno parzialmente il suo passato in questa realtà ed aveva scoperto che quella vita che adesso era la sua non si era dipanata in modo molto diverso dall'altra, nelle pagine felici e in quelle luttuose, pur con qualche significativa differenza. Anche qui era rimasta orfana di madre da giovanissima, e aveva visto sua sorella morirle praticamente sotto gli occhi, ma suo padre non si era mai risposato ed era invece rimasto ucciso dall'infarto che nell'altro universo l'aveva solo debilitato. E naturalmente c'era stata la morte di Carruthers, che stranamente non le aveva provocato nessuna particolare emozione (ma in fondo perché avrebbe dovuto provarne per qualcuno che non aveva mai nemmeno conosciuto?), tutti fili convenientemente spezzati e non più riannodabili di un passato che non le apparteneva più, aveva pensato combattuta tra malinconia e sollievo. Le sue domande non avevano sollevato perplessità da parte di amici e colleghi che erano passati a trovarla, come Price le aveva annunciato, dato che tutti erano al corrente del suo stato e vi si erano sottoposti di buon grado, senza meravigliarsi troppo se di alcuni di loro sembrava non ricordarsi affatto, e lei si era sentita sollevata da tutta quella disponibilità.

Dopo circa un mese, Jennifer era stata dimessa dall'ospedale, e Joyce che aveva trascorso accanto a lei ogni attimo, dai primi pasti solidi, ai primi timidi passi fuori dal letto, non lasciandola mai neanche di notte, l'aveva accompagnata spingendo la sedia a rotelle fornita dall'ospedale, come tradizione, fino all'auto che le avrebbe portate all'albergo riservato dal corpo di polizia cittadino, in attesa che il suo appartamento tornasse agibile. Se Jennifer avesse ancora conservato tutti i suoi ricordi, non avrebbe potuto fare a meno di collegare il momento attuale con quello che le aveva viste protagoniste alla rovescia in quell'altro mondo impregnato di morte e dolore, ma per sua fortuna, le memorie stavano scomparendo lentamente come immagini scolorite su una vecchia pagina di giornale. Nomi e volti sbiadivano sempre più nella sua mente, mentre misteriosamente si ritrovava a ricordare persone e fatti che dovevano appartenere alla Jennifer del mondo in cui si trovava ora. Ma questa Jennifer sono io adesso, si era scoperta d'un tratto a pensare ed un sorriso le era spuntato automaticamente sulle labbra.

Un altro paio di settimane dopo, mentre riacquistava sempre più le forze, e aveva cominciato a girare per la città, sempre in compagnia di Joyce, che non pareva capace di abbandonarla un minuto, come se temesse anche lei che facendolo il suo sogno personale potesse scomparire, alla ricerca di una nuova casa più grande in cui stabilirsi (tornare nel suo vecchio appartamento, non era mai stata un'opzione), aveva alzato il viso dal finestrino del taxi fermo al semaforo in cui si trovavano e aveva letto l'insegna.

 

Inside View

redazione locale

 

La città non le era parsa molto diversa da quella che le sembrava di ricordare, anche se qualche volta le capitava di vedere un posto o un nome che non le pareva corrispondere. Le memorie della Jennifer che era stata e quella che era adesso si confondevano ancora spesso tra loro, e quindi avrebbe dovuto aspettarsi prima o poi che accadesse, e tuttavia non era riuscita a reprimere un brivido.

"Che hai? Tutto bene?" le aveva chiesto Joyce, seduta accanto a lei, accarezzandole la schiena.

"Sì, tutto a posto." le aveva sorriso lei in risposta, cercando di sembrare più rassicurante possibile. Non le aveva raccontato nulla, naturalmente. Era rimasta per qualche giorno indecisa, chiedendosi se non doveva forse farlo, finché era ancora in grado di rammentare qualcosa, ma alla fine aveva deciso per il no e adesso sapeva che era stata la scelta giusta. Le sue domande prudenti sul passato le avevano rivelato anche che nella particolare versione della vicenda di Joyce in quel mondo non vi erano stati afflati soprannaturali di alcun genere, niente sogni ricorrenti, niente frasi in lingue morte pronunciate nel sonno, né interventi di misteriose soccorritrici giunte da chissà dove o chissà quando. Solo il dramma di una giovane donna che aveva sposato l'uomo sbagliato, e che per questo aveva rischiato di morire, se la sua strada non si fosse incrociata con quella di una psicologa che collaborava con la polizia. E solo questo avrebbe dovuto restare. Non sarebbe stata lei a riaprire porte che era meglio lasciare sprangate. 

E quindi, mentre il taxi ripartiva, aveva cercato di non tornare a guardare fuori. Non doveva pensarci. Quella non era la realtà da cui proveniva. Anche se in quegli uffici ci fosse stata una donna alta e dai lunghi capelli neri severamente legati in una crocchia e con snervanti occhi azzurri dietro piccole lenti, non sarebbe stata quella donna. No, proprio come questa Joyce, non era l'altra. Questa era la sua Joyce. La sua compagna. La persona con cui voleva passare il resto della vita. Solo sua e di nessun altro. 

Per questo non aveva voluto, anche se la curiosità l'aveva più volte divorata, cercare sull'elenco telefonico, ogni volta che un nome le appariva d'improvviso nella memoria, sperando che quei lampi di ricordi, si riducessero presto a nulla. Non voleva legami con il passato. Con nessuno dei suoi passati.

Ormai anche i suoi altri ricordi erano quasi completamente scomparsi, e quelle immagini che di tanto in tanto, senza preavviso, le apparivano davanti agli occhi fino a qualche settimana prima, spaventandola a morte, ma di cui non aveva mai fatto cenno a nessuno, e tanto meno a Joyce, non la visitavano più. Quindi non avrebbe fatto nulla che potesse anche solo minimamente rischiare di risvegliare cose che dovevano restare sepolte per sempre. Neanche un'azione stupida come consultare qualche sito di mitologia o archeologia alla ricerca di un certo nome. Un nome che sperava presto di seppellire per sempre insieme a tutto il resto.

Ma nonostante giorno dopo giorno il mondo che la circondava adesso avesse preso sempre più il sopravvento e lei se ne fosse lasciata invadere più che volentieri, chiudendo la mente ad ogni riflessione importuna, quel pensiero aveva continuato a roderla dentro, come un tarlo vorace, minuscolo ma con denti affilati (e questo esempio, non sapeva perché, le dava i brividi). Anche in quel momento di pace assoluta, su quella terrazza bagnata dal sole e appesa su di un panorama di cielo e mare che finivano per confondersi all'orizzonte in un azzurro uniforme. L'unica scoria che perfino la splendida notte appena trascorsa non era riuscita spazzare via completamente.

Ed ora, capisce che è il momento di affrontarlo. Non può rimandare ulteriormente. Anche se questa mossa dovesse scatenare reazioni imprevedibili, e socchiudere una porta chiusa a tripla mandata, sa che restare nel dubbio sarebbe molto peggio. A lungo andare rischierebbe di inquinare la sua anima, alterare il loro rapporto. Non riuscirebbe mai a guardarla negli occhi, senza pensarci.

No. Devo sapere. Ora, a qualunque costo.

E stacca la sua schiena dal marmo della colonnina, quasi con uno sforzo, come se vi fosse stata incollata, muovendo passi esitanti nella direzione della sedia a sdraio che ora le pare a distanza siderale. I suoi piedi, nudi sul pavimento non fanno alcun rumore, ma la ragazza solleva la testa e si gira verso di lei. Ha ciocche di capelli biondi che le scendono disordinatamente sul viso che s'illumina istantaneamente alla sua vista, attenuando la luce stessa del sole.

Mio Dio, pensa Jennifer, mentre sente qualcosa ostruirle la gola e gli occhi riempirsi di lacrime, l'amo così tanto. Sono sicura di quello che sto facendo?

Ma non si ferma, e continua ad avanzare, nascondendo la sua paura dietro un sorriso che, ne è sicura, non è neanche la pallida imitazione di quello che risplende sul volto della ragazza.

"Buongiorno, amore." dice Joyce. "Dormivi così bene che non ho voluto svegliarti. E' una giornata meravigliosa, oggi, vero?"

Jennifer si inginocchia accanto a lei e le loro mani si toccano, le loro dita s'intrecciano, e le due donne si fissano in silenzio per un lungo attimo.

"Ti amo." dice semplicemente la ragazza, portandosi la sua mano alla labbra e baciandogliela.

Jennifer non riesce a rispondere, immobilizzata, con la propria mano imprigionata in quella di lei.

"Stai bene?" chiede improvvisamente Joyce, guardandola con un'ombra di preoccupazione. "Sembri distante."

"Sì." risponde finalmente Jennifer, ritrovando miracolosamente la parola, anche se non può impedire alla sua voce di tremare lievemente, tanto lievemente da sperare che Joyce non se ne accorga. E ancora una volta un'inquietante impressione di avere già vissuto un momento simile le attraversa la mente rimandandole un nuovo brivido lungo la schiena.

Non pensarci. Non adesso. E falle questa maledetta domanda.

"Sto bene e sono qui, con te." continua. "E non sono mai stata tanto felice in tutta la mia vita." Poi, chiude gli occhi un istante, prende un profondo respiro, e li riapre conficcando letteralmente il proprio sguardo in quello della ragazza che la sta fissando perplessa. "Ma c'è una cosa che devo chiederti. Non importa quanto ti potrà sembrare strana."

"Dimmi." dice Joyce e ora la preoccupazione nei suoi occhi ha assunto l'intensità dell'ansia.

Jennifer inghiotte un'ultima boccata di saliva amara.

"Joyce, hai mai sentito parlare di Xena?" chiede infine tutto in un fiato.

Sulla terrazza immersa nel sole, il tempo sembra fermarsi. Joyce fissa Jennifer come se stesse aspettando che aggiungesse qualcos'altro, ma quando la donna resta in silenzio, aggrotta la fronte.

"Tutto qua? E'... è questo che volevi chiedermi?" domanda confusa. "Sì, certo." risponde poi esitante.

"La conosci?" Il cuore di Jennifer che aveva accellerato i battiti, è come se si fermasse all'improvviso, e anche se la donna non può vedersi, sa che tutto il suo sangue è defluito dal viso, lasciandola probabilmente bianca come un lenzuolo.

"Sì." conferma Joyce, prendendole il volto fra le mani con adesso un'aperta preoccupazione nello sguardo. "Ma che hai?"

"Ma... co... come...?" prova a dire Jennifer, ma anche l'ultimo refolo di fiato sembra essersene andato dai suoi polmoni, e non può far altro che restarsene lì, con gli occhi inchiodati in quelli di Joyce.

"E mi piaceva anche tanto." continua la ragazza. "Ma ormai è finita."

"Fi... finita?"

"Sì, da qualche anno. Anche se credo che ci sia sempre un canale che continua a trasmettere le repliche."

"Repliche?"

"Degli episodi." Joyce continua a guardarla perplessa ma, ora che vede un minimo di colore tornarle in viso, più tranquilla. "Pronto? Dottoressa Rowles? Sto parlando della serie televisiva. Tu no?" aggiunge con un sorriso.

Senza parole, Jennifer le rimanda lo sguardo, ma adesso lentamente il suo respiro e il suo battito stanno tornando regolari.

"Sai" dice Joyce, accarezzandole le guance "la storia di quella Principessa Guerriera e della sua compagna, Olimpia, nella Grecia di duemila anni fa. Credevo che ti riferissi a questo."

Sedendosi a terra accanto a lei, Jennifer prende un altro profondo respiro.

"Parlamene." dice.

Con un sorriso un po' sognante, Joyce si volta verso il mare e adagia la testa sulla sedia.

"Era una storia molto romantica. Xena arriva un giorno in un piccolo villaggio e salva i suoi abitanti dai predoni, e qui incontra una ragazza, Olimpia, che vuole seguirla a tutti i costi, malgrado la vita di pericoli a cui stare con lei l'avrebbe esposta. Ma lei non ha paura e non l'abbandonerà mai, attraverso mille avventure e pericoli, fino alla fine. Non l'hanno mai ammesso esplicitamente, ma credo che quelle due si amassero." Joyce le lancia uno sguardo in tralice. "Non è strano che noi siamo venute proprio in Grecia in vacanza?" Poi, torna a guardare il mare. "Non hai idea di quante volte, quando Mark mi picchiava, ho fantasticato che Xena venisse a salvarmi. E alla fine, è arrivata davvero." dice, voltandosi di nuovo verso di lei. "Perché per me, sei tu la mia Xena, Jen. Che ne dici?" chiede, alzandosi dalla sdraio e accocolandolesi vicino, la schiena poggiata contro il suo seno. "Ti va di esserlo?"

Jennifer rimane silenziosa per qualche attimo, mentre un sorriso torna ad illuminarle il volto, in risposta a quello sulle labbra di lei.

"Soltanto se tu sarai la mia Olimpia." risponde, avvolgendola in un abbraccio da dietro e posandole un bacio sui capelli.

"Non chiedo di meglio." mormora Joyce, posando la testa all'indietro contro la sua spalla.

E le due donne restano abbracciate, a fissare il mare.

 

                                                                                                                                                                                                                                                             1 Novembre 2005 - 29 Marzo 2007





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