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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI (Capitolo
I) Parte
1
(88) Croft, Sutherland e Carruthers "La tragica vicenda che ha angosciato per settimane la popolazione della
nostra città, ha finalmente trovato il suo epilogo quest'oggi, in
un'elegante palazzina di un quartiere residenziale. Al 287 di Haverford
Avenue, una squadra di agenti al comando del capitano George Carruthers
che, come ricorderete, aveva già condotto le indagini sul caso dell'Amazzone
qualche mese fa, ha fatto irruzione per procedere alla liberazione
del piccolo Joey Driscoll, rapito nella giornata di ieri, dal mostro
cannibale ormai noto come The Ogre, che aveva anche
ucciso ferocemente la sorella del bambino che aveva cercato
di difenderlo. L'identità dell'assassino sembrerebbe corrispondere
a quella di Hermia Colbert, che viveva nella casa in questione insieme
a sua madre da tempo invalida. Per quel che abbiamo potuto ricostruire
in queste poche concitate ore dopo gli avvenimenti, parrebbe che
L'immagine dell'agitato speaker, con alle spalle la sinistra struttura
del villino delle Colbert e un gruppo di ancora più frenetici agenti
della scientifica che ne entrano ed escono, sparisce con un tffth,
e Brian Croft posa il telecomando sul bracciolo del divano,
poggiando all'indietro la testa ad osservare senza vederla la parete
sopra il piccolo televisore a "Sagace e lungimirante, eh?" dice al salotto vuoto, con un sorriso
ironico. Niente male. L'ufficio stampa del procuratore doveva aver
lavorato sodo per riuscire a dargli il merito di un'operazione di
cui non sospettava neanche l'esistenza. E così, il buon Ballister
passava all'incasso, ricacciando nelle loro tane i lupi che credevano
finalmente di poter banchettare con le sue spoglie. E non c'era
dubbio che con un successo del genere la sua rielezione fosse quasi
scontata. Con un sospiro, Brian si alza dal divano e va verso il tavolo sul quale è
rimasta la bottiglia, con accanto i due bicchieri. Uno dei due ha
ancora un po' di liquore sul fondo. Sutherland l'ha solo sorseggiato
su sua insistenza. "Lo beva." gli aveva detto, tendendoglielo, subito dopo aver fatto
accomodare l'anziano professore in poltrona. "Ne ha bisogno,
mi creda." "Grazie." aveva risposto lui, prendendolo con esitazione. "Ma
non sono abituato a..." "Solo un paio di sorsi. E' stata una giornata dura per tutti." aveva
ribattuto Croft, sorridendo. E il professore si era portato il bicchiere alle labbra, senza obiettare. E lo era stata, eccome. Con l'arrivo delle autopattuglie e dei barellieri
delle ambulanze, la porta di quella claustrofobica stanza era stata
alla fine abbattuta. I bordi erano così incastrati nello stipite
che c'erano voluti gli sforzi congiunti di due robusti poliziotti.
Gli uomini del soccorso avevano dovuto indossare le mascherine per
entrare a causa del fetore insopportabile di quel luogo, e a Croft
era parso strano che lui e Carruthers, dopo i primi momenti, non
ci avessero più neanche pensato, ma poi guardando il poliziotto
si era reso conto che questi in quel momento non si sarebbe accorto
neppure dello scoppio di una bomba. Se ne stava immobile, parzialmente
steso su quel letto sporco e puzzolente, tenendo tra le braccia
il corpo della donna ferita. Xena (ma Carruthers l'aveva chiamata
Jennifer, se ricordava bene) aveva gli occhi ancora aperti, beh,
più socchiusi forse, il respiro era debole e leggermente accellerato,
gambe e braccia abbandonate come senza vita. A Croft aveva fatto
particolare impressione la gamba sinistra, piegata all'altezza del
ginocchio in una posizione che sarebbe stata dolorosa e intollerabile
se in quell'arto ci fosse stato ancora un minimo di sensibilità. Carruthers la teneva stretta a sé come fosse stata una bambina, sostenendole
la schiena con un braccio e accarezzandole i lunghi capelli che
ora pendevano sciolti oltre il bordo del letto, dicendole qualcosa
che Croft nonostante fosse lì vicino non era riuscito a capire.
E piangeva. Non a singhiozzi, non rumorosamente, ma anche alla pallida
luce dell'accendino aveva potuto distinguere chiaramente le lacrime
che gli scendevano lungo le guance. L'irruzione dei soccorritori aveva improvvisamente movimentato una scena che
aveva assunto una strana immobilità. Gli uomini si erano subito
divisi, alcuni preoccupandosi dei due corpi distesi a terra, altri
accorrendo accanto al poliziotto ed alla donna che teneva tra le
braccia. Questi all'inizio era sembrato restio a lasciarla alle
cure degli infermieri, poi si era lasciato portare via, come sotto
shock, continuando a guardare verso il punto dove giaceva
la donna, ora circondata dai nuovi venuti che stavano sottoponendola
ai primi controlli. All'esterno della stanza, Croft aveva sentito quasi senza notarlo, il rumore
a stantuffo di uno sportello che si apriva (un frigorifero o una
ghiacciaia) e imprecazioni di orrore e disgusto, ma non aveva provato
la minima curiosità. I due corpi, di cui era stato dichiarato l'avvenuto decesso, erano stati lasciati
nelle loro posizioni, in attesa degli esami preliminari del medico
legale, mentre la donna era stata sollevata con ogni cautela, assicurata
ad una lettiga e trasportata alla più vicina ambulanza che era partita
subito a sirene spiegate. L'azione era stata così rapida che Carruthers, evidentemente ancora stordito,
non aveva fatto in tempo a chiedere di poter salire sul mezzo insieme
a lei, e lui, Croft e Suherland erano montati di corsa sull'auto
del poliziotto, ancora parcheggiata nel vialetto, partendo all'inseguimento.
Alla guida si era messo Croft, senza troppe proteste da parte del
proprietario, con gli altri due seduti dietro. Nel corso del tragitto
che li separava dall'ospedale, il giornalista aveva più volte occhieggiato
dallo specchietto i suoi passeggeri seduti in silenzio. Carruthers
guardava fisso fuori dal finestrino. Non piangeva più, ma le sue
labbra continuavano a muoversi quasi impercettibilmente in quella
che Croft pensava fosse una preghiera. Ma anche Sutherland appariva
piuttosto sconvolto. Lui era rimasto fuori dalla stanza degli orrori,
ma gli doveva essere bastato gettare un'occhiata alle spalle degli
uomini del soccorso per rendersi conto di ciò che era accaduto,
e scorgere il volto pallido e semi incoscente di Xena, emergere
da sotto la coperta frettolosamente gettatale addosso per il trasporto,
doveva essere stato un brutto colpo anche per lui. La donna (Xena o Jennifer, che fosse) aveva cessato di vivere pochi minuti
dopo l'arrivo all'ospedale, aveva comunicato loro il medico di turno.
Non c'era stato neanche il tempo di prestarle i primi soccorsi.
La ferita era troppo grave. La pallottola le aveva leso la spina
dorsale in modo irrimediabile e poi aveva proseguito, rallentata
ma inesorabile, il suo viaggio verso il cuore. Era praticamente
già morta prima di arrivare. Carruthers si era abbattutto su una delle poltroncine di quell'ambiente bianco
e asettico. Né Croft, né Sutherland avevano avuto il coraggio di
dirgli nulla. Poi, aveva chiesto di vederla e si era allontanato
lungo il corridoio al seguito del medico. Poco dopo era tornato,
la testa china e gli occhi arrossati, ed era stato il turno del
professore. Croft aveva preferito non andare. Si sentiva in qualche
modo una sorta di intruso in quella situazione, non conosceva molto
bene Jennifer e neanche il pensiero, a cui non era riuscito ancora
ad abituarsi, che lo spirito che aveva abitato quel corpo negli
ultimi giorni, fosse lo stesso che non molto tempo prima aveva trasformato
la sua Cheryl in una specie di reincarnazione dell'essenza amazzone
della vendetta, riusciva a farlo sentire più vicino. Anzi, lo riempiva
di uno strano disagio, come se stesse assistendo per la seconda
volta alle esequie della sua amica. Un déjà vu ai confini
della realtà. Essere il tuo veicolo in questo mondo non porta
molta fortuna, vero Xena?si era sorpreso a pensare. Borbottando qualche parola di scusa, Carruthers si era congedato. Non aveva
neanche menzionato una qualche prossima loro convocazione alla centrale
per le deposizioni o altro. Forse quello era davvero il suo ultimo
giorno da poliziotto. Lo aveva osservato, mentre si allontanava,
con il passo lento e la schiena curva e ancora una volta non aveva
avuto l'animo di chiedergli nulla. Quello non era decisamente il
momento. Rimasti soli, lui e il professore si erano guardati. "Venga." aveva detto al vecchio, che mai come in quel momento gli
era apparso dimostrare tutti i suoi anni. "Non abito lontano
da qui. Le offro qualcosa da bere." "Capisce, professore?" Croft, seduto sul divano di fronte si era
proteso verso l'anziano ex-docente che stringeva mollemente il suo
bicchiere ancora pieno per metà del whisky che gli aveva
versato, guardandolo, ma come se realmente non lo vedesse. "La
luce si è spenta all'improvviso e un momento dopo quelle due donne
non erano più distese e prive di conoscenza, ma se ne stavano una
accanto all'altra in piedi dall'altra parte della stanza, immobili
e silenziose, fissandoci." "Ha detto che era buio..." aveva mormorato Sutherland, spostando
lo sguardo vacuo sul suo bicchiere e portandoselo alle labbra distrattamente. "Sì, infatti." aveva confermato il giornalista, raggiungendo con
la mano la bottiglia sul tavolino e versandosi un'altra abbondante
razione. "Ma non del tutto. Doveva esserci una lampadina da
qualche parte a terra, non so, probabilmente una torcia di quelle
portatili, e quel poco di luce che ancora mandava era sufficiente
per distinguere qualcosa. Ombre, contorni di figure... ma il punto
non è questo." Croft, posato nuovamente il bicchiere vuoto,
si era teso ancora di più verso la poltrona sulla quale sedeva il
vecchio, abbassando il tono della voce. "Il punto è che un
attimo prima quelle due erano una a terra e l'altra sul quel letto,
apparentemente prive di conoscenza... no, più che apparentemente,
Croft si era zittito, continuando a fissare il professore, finché questi non
aveva alzato di nuovo gli occhi su di lui. "Che cosa vuole sentirsi dire, signor Croft?" gli aveva chiesto,
con uno strano sguardo senza espressione. "Che quello a cui
ha assistito era un evento soprannaturale? Le ricordo che io non
ero in quella stanza con voi, quindi non è a me che deve rivolgere
questa domanda." "Ma non è tutto!" aveva continuato il giornalista, senza arrendersi.
"Quando è scoppiato l'inferno, le due Colbert erano all'improvviso
dietro di noi, e che io sia dannato se riesco a capire come
ci sono arrivate!" "Camminando?" aveva azzardato Sutherland, e un bagliore d'ironia
si era fatta strada nella tristezza del suo sguardo. "Un accidente!" aveva sbottato Croft afferrando la bottiglia, svuotandone
il restante contenuto nel suo bicchiere e trangugiandolo in un unico
sorso. "Vuole che le dica cosa è sembrato a me?" aveva
chiesto poi, con il viso arrossato. "Io direi che stavano fluttuando." L'ultima parola gli era uscita di bocca un po' farfugliante, forse più a causa
dell'alcol che dell'eccitazione. "Fluttuavano, eh?" aveva detto il professore, poi con un sospiro
aveva posato il bicchiere con il suo whisky appena toccato.
"Ascolti, Croft..." aveva cominciato. "No! Ascolti lei!" Il giornalista aveva sbattuto la bottiglia sul
ripiano in cristallo, mettendone seriamente a repentaglio l'incolumità.
"Soltanto ieri sera, meno di ventiquattro ore fa, lei e la
sua defunta amica mi avete costretto a credere all'esistenza di
realtà parellele, di dèmoni e principesse guerriere che potevano
viaggiarvi attraverso, ed ho ancora un paio di lividi a riprova.
Adesso non mi venga a fare il paladino del razionale. Lei sa bene
quanto me che quello a cui abbiamo assistito oggi ha come minimo
due chiavi di lettura. Lasci pure che la gente creda che
oggi abbiamo messo la parola fine all'esistenza di un feroce serial
killer, cannibale e infanticida, ma comunque umano. Noi due
sappiamo che non è solo questo. Quando Hermia Colbert è caduta a
terra svenuta, sua madre ha smesso di agitarsi e pareva priva di
sensi anche lei. E quando Carruthers ha freddato la vecchia, anche
la figlia è morta. Nello stesso istante e senza cause apparenti." "Sbaglio o aveva appena finito di dire che Hermia Colbert era già in
punto di morte, pochi momenti prima?" Sutherland lo aveva guardato
di nuovo con quella sua espressione mesta. "Comunque, lasci
perdere tutti questi giri di parole e mi dica semplicemente che
cosa ha davvero visto, secondo lei."
I due uomini erano rimasti per qualche attimo a fissarsi in silenzio, poi
Croft si era deciso. "Vuole saperlo?" aveva risposto, con una determinazione improvvisa.
"Non lo so bene neanch'io, professore. Non so dirle esattamente
cosa penso, ma in cambio potrei provare a raccontarle una storia,
una fiaba, una di quelle che fanno paura. Con gli orchi." Croft si era interrotto, come se si aspettasse un'osservazione dall'altro,
ma Sutherland si era limitato a continuare a guardarlo senza dire
niente. "D'accordo. Immagini che quelle due fossero in qualche modo possedute
da un dèmone. Entrambe, voglio dire." riprende quindi il giornalista.
"Proprio uno di quelli di cui mi parlavate ieri. Evelyn Colbert,
la madre, aveva viaggiato insieme al marito per anni, attraverso
lande sperdute e foreste selvagge, poi ad un tratto ecco che ritornano
di corsa a casa e i due coniugi si segregano volontariamente, accuditi
dalla figlia che lascia tutto per loro. Vivono appartati dal resto
del mondo, nella loro tenuta in campagna. Non ne ho la certezza,
ma scommetto che se facessi una ricerca nella zona in cui hanno
abitato, scoprirei che all'epoca sono scomparse delle persone, che
so, sbandati, autostoppisti, ragazzi fuggiti di casa e mai ritrovati.
Le cronache sono stracolme di casi del genere e nessuno si danna
l'anima per risolverli. Poi si trasferiscono qui, il marito già
ammalato muore e le due donne restano sole con il loro segreto.
Ma anche se il dèmone è sempre affamato, Evelyn è invecchiata, indebolita,
i suoi denti e il suo stomaco non sono più tanto buoni ed ha bisogno
di carne tenera. E così..." Croft si era interrotto di nuovo. "E così?" lo aveva spronato il professore. "Non si fermi adesso.
Sta andando bene." "...e così nasce The Ogre, l'incarnazione dell'orco delle fiabe.
Il dèmone vive ormai attraverso loro e quando Hermia va a caccia,
si trasferisce totalmente in lei per condividerne il piacere.
Ma forse perché non può controllarle entrambe a distanza, deve imprigionare
e legare la vecchia, che priva della sua influenza, potrebbe commettere
qualche sciocchezza." "Un vero e proprio caso di simbiosi." aveva commentato riflessivo
Sutherland. "Teoria affascinante, certo. Ma su cosa la basa?" Croft si era alzato dal divano, liberandosi della giacca e allargandosi ulteriormente
la cravatta già abbastanza lenta. Sulla camicia, sotto le ascelle
erano ben visibili due grandi macchie di sudore. "Mentre eravamo in quella stanza maledetta" aveva detto "ad
osservare come ipnotizzati quelle ombre contro il muro in quel silenzio
irreale, Xena ha detto qualcosa. Era una frase strana, pareva estrapolata
da una conversazione più lunga, come se stesse parlando con qualcuno,
ma la ricordo abbastanza bene. Ha detto che era costretto ad usare
gli esseri viventi, che doveva muoversi e nutrirsi tramite loro." "E secondo lei stava rivolgendosi al dèmone?" aveva chiesto il professore. "A chi se no? Sul momento l'ho solo memorizzata. Non capivo con chi ce
l'avesse, dato che nessuno le rispondeva. Ma poi ci ho riflettuto.
Questo spiegherebbe anche perché quando Xena ha messo fuori combattimento
Hermia, anche Evelyn ha perso i sensi, ma un attimo dopo, erano
di nuovo tutte e due in piedi. Il dèmone era appena tornato a dividersi
tra loro ed ora che erano insieme poteva manovrarle entrambe. Ma
la cosa doveva avere anche il suo lato negativo e quando Carruthers
ha sparato alla vecchia..." "... anche la figlia, indissolubilmente legata a lei tramite il dèmone,
è morta." aveva concluso per lui, Sutherland. Con un sospiro di sollievo, come svuotato di energie, il giornalista si era
lasciato di nuovo cadere sul divano. "Esattamente." aveva confermato. "Che gliene sembra?"
"E il dèmone?" aveva chiesto il professore. "Non lo so." aveva risposto con una scrollata di spalle. "Distrutto
anche lui, spero, o qualunque altra cosa succeda agli spiriti maligni
quando il loro ospite muore. Forse questo dovrebbe dirmelo lei." "Plausibile." aveva detto Sutherland. "Se la sua ipotesi ha
una base reale, un tale livello di simbiosi per così tanto tempo...".
L'anziano uomo aveva lasciato la frase in sospeso, restando in silenzio
per qualche momento, pensando. Poi, il suo sguardo era tornato vivo.
"Una bella storia per il suo giornale." aveva osservato. "Già." aveva annuito Croft, anche lui pensieroso. "Ma non si
preoccupi. Non la scriverò." "Davvero? E perché?" aveva chiesto il vecchio, e anche se il suo
tono voleva apparire sorpreso, non c'era riuscito del tutto. "Ho già abbastanza carne al fuoco, direi. Un bambino salvato in extremis,
un feroce serial killer ucciso, una coppia di cannibali nascosta
in un bel quartiere cittadino, e non ultima" aveva aggiunto
con un mezzo sorriso, forse per dissimulare il brivido che aveva
sentito lungo la schiena "quella che passerà alla storia della
cronaca nera, lo sento, come la ghiacciaia degli orrori."
L'aveva detto con enfasi, sottolineando la frase con le dita nell'aria,
come disponendo le lettere di un ancora immaginario titolo di giornale
a caratteri di scatola. "Inutile aggiungere particolari così
inverosimili, che finirebbero per danneggiare la credibilità
di tutto il resto. Qualunque buon giornalista glielo potrebbe confermare." Sutherland si era alzato lentamente dalla sua poltrona appoggiandosi sul suo
bastone e Croft era accorso prontamente ad aiutarlo. "Lasciamo che i morti riposino in pace, eh?" aveva detto il vecchio,
sorridendo. Il primo sorriso che Croft gli avesse visto fare quella
sera. "Sono d'accordo." Poi, dopo che il professore aveva gentilmente declinato la sua offerta di
accompagnarlo a casa e si era fatto semplicemente chiamare un taxi
("O un ta-xi." aveva detto con un altro sorriso
triste ed enigmatico, e Croft era sicuro di avergli visto brillare
una lacrima), gli aveva rivolto l'ultima domanda. Quella a cui aveva
pensato fino ad allora, ma che chissà perché non era riuscito ancora
a fargli. "Professore" aveva chiesto "secondo lei chi è morta oggi, Xena
o Jennifer Rowles?" Era rimasto a fissare quegli occhi acquosi, mentre Sutherland si toglieva
le lenti, ripulendole lentamente e con molta cura, senza ricambiare
il suo sguardo. "In tutta confidenza, signor Croft" gli aveva risposto alla fine
il vecchio "spero e prego che non sia morta nessuna delle due." E con un cortese cenno di saluto, se ne era andato. Spero e prego che non sia morta nessuna delle due. Era così che aveva detto, vero? Brian scuote la testa, intento ad asciugare
i bicchieri ed a riporli sulla mensola nella sua cucina. Decisamente
quell'uomo era stato fin dall'inizio di quella storia il personaggio
più enigmatico. Perfino più della misteriosa psicologa dai due volti,
e anche più di The Ogre. Qual'era il suo ruolo in tutta quella
vicenda? Che voleva dire con "Spero e prego che non sia morta nessuna delle
due"? C'era incontestabilmente un cadavere in una cella frigorifera dell'obitorio
cittadino a smentire qualsiasi sua speranza. Qualche spirito fatalmente
era destinato a non trovare più la strada di casa. Che fosse quello
di una psicologa del pianeta Terra del ventunesimo secolo, o quello
di una principessa guerriera lontana duemila anni nel passato di
questo o di chissà quale altro universo parallelo. Asciugandosi le mani, Croft torna nel salotto, dove in un angolino, brilla
lo schermo del suo PC e vi si siede davanti. "OK." dice ad alta voce, cliccando sull'icona corrispondente alle
agenzie di stampa che in diretta, minuto dopo minuto, scaricavano
le notizie che venivano diramate dai vari punti del mondo. "Diamoci
da fare. Hai un articolo da comporre, caro il mio Brian Croft, ed
è un articolo molto importante per te. Il più importante che tu
abbia mai scritto." "Ore 6.15 p.m." scorrono
intanto sul fondo dello schermo le notizie emesse in tempo reale.
"Il procuratore Kevin G. Ballister ha annunciato per le
7 e 30 di questa sera una conferenza stampa in cui verranno comunicati
in dettaglio all'opinione pubblica gli sviluppi delle indagini sulla
serie di crimini avvenuti in questa città negli ultimi mesi ed attribuiti
al serial killer noto come The Ogre, che poche ore fa hanno portato
a..." Croft distoglie gli occhi dalle parole che continuano a fluire alla periferia
del suo sguardo senza più significato, e apre la pagina bianca già
pronta per accogliere i frutti del suo intelletto, con un sorrisetto
ironico. "Evvai, signor procuratore." mormora a labbra strette. "Sei
di nuovo in groppa alla tigre, eh? E probabilmente non saprai mai
quanto sei stato vicino a finire tra le sue zanne, invece." Le sue dita sono appena arrivate a sfiorare i tasti, che il suono distinto
del campanello, interrompe bruscamente i pensieri che stava già
cominciando ad organizzare. Con un sospiro infastidito, Brian si alza e si dirige alla porta. Avvicina
l'occhio al minuscolo spioncino e vi scruta attraverso. E un attimo
dopo la spalanca, cercando di dissimulare al meglio la sorpresa. "Capitano Carruthers." dice alla figura curva che lo fissa sulla
soglia con un'espressione indefinibile negli occhi seminascosti
dalla tesa del cappello. "Croft." saluta con un cenno del capo il poliziotto, scoprendosi
la testa. Alle luci del corridoio la sua incipiente calvizie appare
ancora più evidente, quanto le occhiaie scure sotto le palpebre.
Nelle poche ore trascorse dall'ultima volta che l'ha visto in quel
corridoio d'ospedale, sembra invecchiato di dieci anni. "Posso
entrare, per favore?" chiede. Brian non risponde nulla, ma si sposta e l'uomo gli passa davanti con passo
lento. Nella mano stringe una cartella nera dall'aria rigonfia. "Abbiamo lasciato un discorso in sospeso." dice, senza guardarlo.
"E io ho una storia da raccontarle." La porta si richiude silenziosamente. (89) Xena e Olimpia Da principio c'era stato il buio, ma il mondo intorno a lei non vi era piombato
di colpo. Era stato più un lento attenuarsi dei colori, dei volti,
delle luci. Una morbida caduta in un abisso senza fine. Era la morte,
e lei, nei brevi sprazzi di coscienza che le attraversavano la mente,
non aveva avuto dubbi nel riconoscerla. Quindi, erano arrivate le tenebre, dense, avvolgenti, quasi solide. L'avevano
avviluppata nella loro gelida presa, annullando pensieri, emozioni,
paure, e lasciandola sospesa in un limbo indefinibile di silenzio. Non sapeva quanto fosse trascorso. Potevano essere attimi o millenni. I residui
di consapevolezza che le restavano le dicevano solo che in quel
luogo il tempo non aveva significato, e lei era rimasta immobile,
senza più volontà, senza più desideri, un tutt'uno con il buio circostante. E poi, c'era stato il suono. Lontano, continuo, irriconoscibile. Ed una strana
sensazione di calore aveva cominciato a farsi strada dentro di lei.
Come se ad un tratto nel luogo più freddo dell'universo, si fosse
accesa una fiamma che stesse lentamente sciogliendo il gelo intorno.
Una fiamma vivida e potente, che però ancora non riusciva a vedere. La sua mente, o ciò che ne restava, lottava faticosamente per cercare di dare
un senso a quelle impressioni, ma senza riuscirci, dibattendosi
inutilmente in quell'ovattato silenzio, ora non più così assoluto. Cos'era quel suono? Da dove proveniva? E quel calore? Quale fiamma poteva
bruciare con tanta potenza, senza che la sua luce fosse visibile?
Un pianto. Era questo quello che stava sentendo. La rivelazione le era giunta improvvisa
come un lampo. Gemiti soffocati e strazianti che ora le sembravano
vicinissimi. Ed anche quel calore d'un tratto le era parso ben localizzato.
Era accanto a lei. Di più, era come se si fosse posato sulla sua
spalla. Se, cioè, avesse ancora avuto una spalla su cui qualcosa
potesse posarsi. Se lei fosse stata ancora qualcosa di più di uno
spirito, privo di sostanza, perso in una dimensione oscura, dove
nessuna luce poteva penetrare. E come poteva essere altrimenti? Se così non fosse stato, quella fiamma le
sarebbe apparsa in tutto il suo splendore. Perché ciò che emanava
un tale calore, non poteva che emettere una luce meravigliosa. Un tocco. Ma lo aveva avvertito davvero? O si era trattato solo di un ricordo residuo,
un fievole deposito sul fondo della sua mente? Un'estrema memoria
di una vita che non le apparteneva più? Una carezza. Questa volta non poteva sbagliarsi. Era stata proprio una carezza quella che
aveva sentito sulla sua guancia (se avesse avuto ancora una guancia
su cui sentirla). E adesso, in quel pianto, in quei singhiozzi,
le pareva perfino di riconoscere delle parole... un nome... "Xena... ti prego... Riapri gli occhi... ti scongiuro... torna da me..." Uno squarcio, (Xena) come un fendente di spada vibrato con forza da un braccio robusto, si apre
d'un colpo nel buio, e la luce del giorno esplode improvvisamente
davanti a lei, provocandole una fitta lancinante alla testa. Il
buio torna istantaneamente ad avvolgerla, ma non più il silenzio,
non più quella sensazione obnubilante di vuoto. Ora c'è dolore,
ora c'è rumore, ora c'è vita. E lei riapre di nuovo gli occhi, e vede la fiamma. Una fiamma che la circonda tutta con braccia di fuoco, che danno calore senza
scottare. Una fiamma stupenda come l'aveva immaginata. "Xena... O Dèi dell'Olimpo, vi ringrazio..." dice la fiamma, mentre
lacrime calde le cadono dal viso. "Sei tu, vero? Sei davvero
tu?" E insieme alla coscienza arrivano i ricordi, e la sua mente si apre ad essi,
riconoscente, mentre la sua anima si colma, annullando il vuoto
che l'aveva abitata. "Sì, Olimpia." dice Poi, è il suo volto ad essere inondato da lacrime di sollievo, mentre contemporaneamente
l'altra lo riempie di mille piccoli baci. Sono rimaste a lungo così. Olimpia, appoggiata ad un grosso tronco, e Xena,
seduta nel suo grembo, con la testa posata sulla sua spalla, cullata
come una bambina dalla compagna. E Xena l'ha lasciata fare, senza
proteste, perché sa che è questo di cui Olimpia ha bisogno, di cui
entrambe hanno bisogno. Crogiolarsi l'una nell'altra, nel calore
che sanno donarsi reciprocamente, godendosi quel momento di pace
quanto più a lungo sia possibile. E quel senso di completezza che
non provavano più da quella che pareva un'eternità. "Davvero ti sono sembrata splendente come una fiamma?" chiede la
ragazza, posandole le labbra sulla fronte. "Già. Evidentemente ero ancora in delirio." risponde la guerriera
con un bagliore nello sguardo. Il rumore di uno schiaffo secco sul braccio. "Ehi! Non si trattano così i convalescenti." reclama Xena. "Dopotutto
sono appena resuscitata. Di nuovo." Con una risatina, Olimpia la stringe a sé ancora di più, accarezzandole dolcemente
i capelli. Poi, il suo viso si fa serio. "Sei sicura che...?" comincia a chiedere. "Sì." l'interrompe subito la guerriera. Poi, alza la testa e i suoi
occhi incontrano quelli della compagna. "Ho incontrato la morte
abbastanza volte da saperla riconoscere, Olimpia. Mi dispiace." "Anche a me." mormora la ragazza, spingendo di nuovo la testa di
Xena contro la sua spalla. "Povera Jenna." "Je-nnif-er." la corregge l'altra soprappensiero. "Almeno mi
pare che si pronunciasse così. Che tipo era?" chiede poi. "Una donna coraggiosa." risponde Olimpia, con lo sguardo fisso nel
vuoto. "Ti sarebbe piaciuta." Xena resta in silenzio. "E anche molto in gamba." continua la ragazza. "Ha saputo adattarsi
subito alla nuova situazione. Non ce l'avrei fatta a sconfiggere
"In qualche modo ne ero sicura." Xena appoggia meglio la testa nell'incavo
tra il collo e la spalla di Olimpia, circondandole la vita con entrambe
le braccia. "Siamo state scambiate per uno scopo, e se non
fossi potuta tornare, lei sarebbe diventata un buon rimpiazzo per
Olimpia le afferra il viso improvvisamente, costringendola a guardarla di
nuovo negli occhi. Occhi che adesso sembrano di nuovo mandare fiamme. "Non dirlo neanche per scherzo." dice lentamente, scandendo bene
le parole, come per accertarsi che si imprimano nella mente della
compagna. "Non ci sarà mai nessuno che possa sostituirti. Non
per me." Le due donne si fissano senza dire altro per un lungo momento, poi Xena china
di nuovo la testa, e Olimpia la tiene stretta a sé, chiudendo gli
occhi e ricacciando le lacrime che sente già premerle contro le
ciglia. "Mai nessuno." ripete. Ora i tumuli di terra e pietre all'ombra del grande albero sono due, di uguale
altezza ed uno accanto all'altro. Il sole, che ha già iniziato la
sua parabola discendente nel cielo arrossando le cime più alte,
è l'unico testimone di quella cerimonia, oltre alle due figure femminili
in piedi, davanti alle tombe. Xena, la sua spada nuovamente assicurata
nel fodero sulla sua schiena e il chakram che le pende dal
fianco, resta ancora un attimo ad osservarle, poi la sua mano si
tende e prende quella della compagna, ed insieme le due donne voltano
le spalle e s'incamminano, mano nella mano, verso la casa
in fondo alla radura. "Partiamo subito?" chiede Olimpia. "E' meglio. Saremo a Kyros prima che sia notte. Non vedo l'ora di rivedere
Argo, e domattina alle prime luci dell'alba, ci lasceremo finalmente
alle spalle questo maledetto posto." risponde Xena. "Inoltre
devo una storia a qualcuno." Olimpia la guarda in tralice. "Argolis?" Xena si gira verso di lei, sorpresa. "Dunque lo hai saputo." dice, sorridendo. "Credo che ci siano
molte cose che devi ancora raccontarmi." "Lo stesso potrei dire di te." ribatte la ragazza ricambiandole
il sorriso. "Dovrei farti molte domande." "Sbrigati allora, perché mi pare che i ricordi si stiano facendo sempre
più vaghi." "Proprio come diceva Alexi." mormora Olimpia, gettando un'occhiata
alle sue spalle. "Credi che fosse vero anche tutto il resto
che raccontava? Le storie su Coloro che Sanno e su come dirigano
i destini di universi infiniti?" "Non lo so, Olimpia." sospira Xena, guardandola. "Forse. Perché?" "Niente." La giovane scrolla le spalle, abbassando lo sguardo. "Mi
era venuta un'idea. Probabilmente è da pazzi." "Dimmela." la incoraggia la guerriera, passandole un braccio intorno
alla vita e attirandola contro di sé. "Come può esserlo più
di ciò che ci succede comunemente?" "Beh, pensavo..." comincia Olimpia, rispondendo all'abbraccio "...
e se... guarda che è davvero pazzesca, ti avverto... dicevo, e se
queste misteriose entità avessero inviato lo spirito di Jenna in
un altro universo? Un universo simile a quello da cui proveniva,
dove lei non sia morta e dove possa ricominciare una nuova vita?"
Olimpia alza di nuovo gli occhi verso la compagna, incontrando il
suo sguardo perplesso, poi li riabbassa, arrossendo imbarazzata.
"Te lo avevo detto che era da pazzi." conclude. "No. E' un'idea molto bella, invece, mio bardo." dice Xena, sollevandole
il mento e posandole un leggero bacio sulle labbra. "Degna
di te. E sperarlo non costa nulla." Le due donne si sorridono ancora una volta e strette l'una all'altra riprendono
il loro cammino. (90) Jennifer La coscienza torna improvvisa, insieme al dolore. Un dolore diffuso, come
un indolenzimento di ogni muscolo, costretto da lungo tempo ad una
forzata immobilità, un formicolio sparso in ogni area del suo corpo,
come se milioni di piccoli aghi acuminati la trafiggessero senza
sosta. Ma è il dolore alla testa quello avverte con più forza. Una
fitta lacerante che le percuote tutto il lato destro del volto,
rendendole insensibile l'orecchio e i tendini del collo. Un gemito
le monta in gola incontrollabilmente, e sente la propria mano farsi
strada sotto pesanti coperte per risalire fino all'origine di quel
male, per sedarlo in qualche modo. Qualunque modo. E poi qualcosa le blocca la mano con una presa ferma, ma gentile. "No." dice una voce maschile sopra di lei, e di riflesso, la donna
apre gli occhi. Un'altra fitta la colpisce attraverso la luce del giorno che di colpo l'assale,
costringendola a richiuderli subito con un altro gemito. "No, signorina Rowles." ripete la voce su di lei. "Non si tocchi,
o rischierà di far saltare i punti." Più cautamente, Jennifer allarga le palpebre lasciando questa volta che la
luce la raggiunga a strati, lentamente, poi il suo sguardo sale
fino al viso dell'uomo che la sovrasta. "Come si sente?" chiede questi, sorridendole. Un uomo che indossa un camice bianco, piuttosto giovane, sui trentacinque
anni, con pochi capelli rossicci e due occhi chiari dall'espressione
simpatica e comunicativa. "E' stato un miracolo, sa?" prosegue lui, continuando a sorriderle,
ma controllandola anche con attenzione, con l'aiuto di una minuscola
lampadina che le punta prima in un occhio e poi nell'altro, provocandole
altro dolore alle pupille, ma sollevandosi subito dopo con aria
soddisfatta. "Ora che è fuori pericolo, posso anche dirglielo.
Per qualche minuto, l'avevamo persa. Era proprio andata. E invece
rieccola qui. Un vero miracolo." "Dove... sono?" chiede la donna, articolando a fatica le parole.
"Che mi è successo?" "Ti hanno sparato." risponde un'altra voce, anch'essa maschile,
da una certa distanza alla sua destra, e seguendone il suono, Jennifer
riconosce quella che è inconfondibilmente una stanza d'ospedale.
Lei giace in un letto, coperta fino al collo da lenzuola e coperte
bianche quanto le pareti, che mandano un piacevole odore di pulito.
Ma il collo ancora irrigidito non le consente di girarsi completamente
e la seconda persona resta nascosta ai suoi occhi. "Quel figlio di puttana di Bowers." continua l'altra voce e il suo
proprietario avanza verso il suo letto entrando alla fine nel suo
campo visivo. L'uomo in questione, più o meno della stessa età del
medico, alto e dinoccolato, indossa una giacca marrone ed ha un
impermeabile quasi dello stesso colore ripiegato su di un braccio.
"Per poco non ti ammazzava. Un centimetro più in basso e..." "Adesso, cerchi di non pensarci." l'interrompe con uno sguardo di
rimprovero il medico. "Deve solo riposare." "No." dice lei, tentando di sollevare la testa dal cuscino e ricavandone
in cambio solo un'altra fitta anche più forte delle precedenti.
"Chi siete voi?" chiede, mentre sente l'angoscia afferrarle
la gola con dita di ghiaccio. "Dove sono? Che posto è questo?" E disperatamente cerca di aggrapparsi a ricordi, immagini di un passato che
le sembra appartenere già ad ere remote. Una foresta, una figura
demoniaca, ombre che si agitano in una nebbia oscura che ora sembra
stare invadendo anche la sua mente, impedendole di comprendere quello
che vede. I due uomini di fronte a lei la guardano, e l'uomo con la giacca e l'impermeabile
le si avvicina, provando senza molta fortuna a dissimulare l'aria
preoccupata che gli vaga nello sguardo. "E' un ospedale, Jennifer." dice con il tono di chi cerca di spiegare
un concetto difficile ad un bambino. "Il Memorial, per
la precisione, e tu sei qui da due giorni. Questo è il dottor Cohen.
E' stato lui ad operarti. Ti ha rimosso un frammento di proiettile
dalla testa." Jennifer lo fissa di rimando, come se avesse difficoltà a metterne a fuoco
l'immagine "E lei chi è?" chiede. "Mi sembra di conoscerla, ma non riesco..." L'uomo scambia uno sguardo veloce con l'altro, poi torna a fissarla. "Ti sembra? Sono lusingato. Lavoriamo insieme solo da due anni, in fondo.
Dottore" dice, rivolgendosi al medico "è normale che sia
così confusa?" "E' il minimo, direi." risponde questi. "Con una ferita del
genere e l'operazione che ha dovuto sopportare. Per non parlare
del coma che abbiamo dovuto indurle. Ha bisogno di un po' di tempo
per riadattarsi alla realtà. Non si preoccupi se le farà delle domande
strane. Lei risponda e basta." "D'accordo." fa l'altro uomo e tirata a sé una sedia da un angolo,
si siede accanto a lei. "Io sono Robert." dice. "Robert
Price. Sono tenente della squadra omicidi di questa città, e tu
sei Jennifer Rowles e lavori in qualità di psicologa consulente
presso il distretto centrale di polizia, e negli ultimi due anni
ci siamo trovati spesso a collaborare, il che ha fatto nascere tra
noi una bella e spero duratura amicizia che..." "Carruthers." dice all'improvviso Jennifer. Il nome le è saltato in mente all'improvviso, e insieme al nome le sono apparsi
in sequenza una serie di ricordi, come diapositive proiettate una
dopo l'altra su uno schermo immaginario. Troppo rapide per poterle
distinguere chiaramente e Jennifer cerca di concentrarsi, di focalizzarle,
provando a rallentarle fino a dare loro un senso. "Cosa?" Price la guarda sorpreso. "Di chi parli?" "Il tenente... no, il capitano Carruthers. E' con lui che lavoro... cioè,
lavoravo... Oddio, non... non riesco a..." Frustrata da quell'incapacità di collegare lucidamente i frammenti di ricordi
che le sfrecciano nel cervello come schegge impazzite, la donna
serra di nuovo le palpebre, rituffandosi nel buio, per darsi il
tempo di pensare, capire quello che sta succedendo. Per un po' non arrivano suoni di là della coltre nera in cui si è volontariamente
rifugiata. Poi, la voce dell'uomo che ha detto di chiamarsi Price
torna a farsi sentire. "Mi dispiace." dice, con una certa esitazione. "Ma l'unico
Carruthers di cui mi ricordi è un mio superiore di qualche anno
fa. Il tenente George Carruthers. Ma è morto da parecchio tempo."
Jennifer spalanca gli occhi, puntandoli su di lui. "Morto?" chiede. "Sì. Non ricordo neanche più da quanto. Tre o quattro anni almeno, direi.
Restò ucciso in una rapina, se non sbaglio. Non pensavo che lo conoscessi." Senza parole, Jennifer fissa Price, come se neanche lo vedesse. "Ma... ma..." riesce appena a dire. Poi, qualcosa detta dall'uomo
torna a risuonarle nella testa. "Come sono... finita... qui?
Chi mi ha sparato?" "Mark Bowers." risponde semplicemente il poliziotto. "Lo sai,
il marito della ragazza che hai preso sotto la tua ala protettrice.
Quella..." Un leggero battere di nocche sul legno. I due uomini nella stanza si voltano
in quella direzione, e Jennifer segue il loro sguardo per quanto
glielo consente l'irrigidimento del collo. "Scusatemi." La testa di una donna appare nella fessura della porta
semiaperta. "Mi scusi, dottore. Ma quella povera ragazza è
qui fuori da quasi quarantotto ore. Ora dice di aver sentito la
voce della sua amica e non riesco più a trattenerla." "Va bene." Il medico guarda Jennifer. "La faccia passare." L'infermiera si fa da parte, aprendo completamente la porta. "Entri." dice allora, rivolta a qualcuno ancora nascosto dietro
di lei. Una figura snella, in jeans e maglietta rossa, sulla quale ricade sciolta
una folta capigliatura bionda, appare. La ragazza si blocca sulla
soglia, gli occhi di un azzurro intenso che Jennifer riesce a distinguere
benissimo anche a distanza, sgranati tra speranza e paura. "Sei sveglia." dice, con un filo di voce. E il mondo comincia a girare follemente intorno a Jennifer. Le sembra che
la stanza sia divenuta all'improvviso una giostra e quella soglia
sia l'unico punto fisso dell'universo. Quella soglia e la figura
che è in piedi al centro. "Joyce?" mormora, mentre il suo cuore perde un battito. "Joyce.
Oh, mio Dio. Come è possibile?" E in un attimo, la ragazza fa per correrle incontro, ma il suo scatto viene
immediatamente bloccato dal medico che le si para davanti con tutto
il corpo. "Ferma lì." ordina bruscamente. "L'ho lasciata entrare. Ora
non me ne faccia pentire." La ragazza si arresta, ma il suo sguardo rimane incollato in quello di Jennifer,
al di sopra della spalla del dottore. "Mi lasci passare, la prego." supplica. "Cercherò di trattenermi,
glielo giuro, ma lasci che la veda... che le parli." Cohen resta per un attimo indeciso, poi si volta verso la sua paziente che
è ancora distesa, con la testa sul cuscino, perchè cercare di sollevarla
fa troppo male, ma i cui occhi esprimono incredulità, gioia e un'implorazione
di uguale intensità. "D'accordo." annuisce infine. Poi, torna a rivolgersi a Joyce con
un'occhiata severa. "Ma niente abbracci o altre manifestazioni
d'affetto troppo violente, OK? Si metta a sedere accanto al letto
e al massimo le tenga una mano." "Va bene." dice piano, Joyce. Cercando di calmarsi, la ragazza si
asciuga gli occhi e tira su con il naso, quindi gira intorno al
medico e si avvicina al letto, inginocchiandosi accanto a Jennifer.
"Mi raccomando. Non più di dieci minuti." ammonisce Cohen, dirigendosi
verso la porta. "Le sorvegli lei, per favore." dice all'infermiera
che lo segue. "Ci penso io, dottore." risponde la donna, richiudendo la porta
dietro di sé, e lanciando un sorriso alle sue spalle. Il viso bagnato di lacrime, Jennifer estrae una mano da sotto le coperte e
la solleva verso il viso di Joyce, accarezzandolo con un'espressione
indescrivibile nello sguardo. Le sembra che il cuore, dopo aver
rischiato di fermarsi, nel momento in cui ha visto la figura della
ragazza profilarsi sulla porta, ora stia battendo con una potenza
straordinaria, pompando sangue nelle vene a tutta forza, ma questo
anziché debilitarla ulteriormente come sarebbe naturale dato il
suo stato, le sta donando nuove energie e anche il dolore diffuso
e le fitte localizzate nella testa sembrano essersi attenuate magicamente. "Joyce... Joyce..." riesce solo a ripetere, persa negli occhi di
lei, che hanno ricominciato a lacrimare copiosamente, senza che
però si curi più di asciugarli. "Jen..." sussurra, le dita che si intrecciano strettamente in quelle
dell'altra. "Quando ti ho vista là a terra... con tutto quel
sangue sul viso... ho creduto..." La sua voce si rompe in un
singhiozzo. "...ho creduto di averti persa." continua
poi, riprendendo un po' di fiato. "E volevo morire anch'io.
Non avrei sopportato di vivere senza di te." "Ma cosa è successo?" Finalmente, Jennifer ritrova un briciolo di
coerenza in quel caos infinito che è divenuta la sua mente negli
ultimi istanti. "Per quale miracolo, sei qua?" "Il miracolo è che ci sia tu." risponde Joyce, con un pallido sorriso,
pressandosi la sua mano sulle labbra. Ora che Jennifer la vede meglio,
scorge il livido bluastro sotto il mento e il leggero gonfiore ad
una angolo della bocca e i cerchi arrossati intorno agli occhi che
risaltano ancora di più nel generale pallore del viso. "Non
ti ricordi? Mark ha fatto irruzione nel nost... nel tuo appartamento."
prosegue la ragazza con un'esitazione. "Aveva una pistola e
mi avrebbe uccisa. Ti aveva dato una botta in testa e chiusa nel
bagno, ma tu..." e nel suo sguardo passa un lampo di ammirazione
e di orgoglio "... non so come, sei riuscita a liberarti. sei
uscita dalla finestra e passando dalla terrazza, sei saltata come
una furia nella stanza e l'hai assalito un attimo prima che mi sparasse..." "... prendendoti di rimbalzo il colpo destinato a lei." conclude
la voce di Price alle sue spalle, e Jennifer si gira verso di lui,
rendendosi conto solo in quel momento di essersi completamente dimenticata
della sua presenza. "Come psicologa sei in gamba" dice il poliziotto con un sorriso
"ma non sapevo che nei ritagli di tempo ti dilettassi a fare
Batwoman. Complimenti socia. Ottima mimetizzazione. Nessuno
sospetterà mai della tua doppia identità." aggiunge poi in
un divertito tono canzonatorio. "E Bowers?" chiede Jennifer, guardando alternativamente lui e Joyce.
Mentre ascoltava quella storia, le era parso che alcuni frammenti
di ricordi si ricomponessero nella sua mente, e li aveva accolti
senza domandarsi perché. "Passato alla storia." risponde il tenente. "Quando ci ha sentiti
abbattere la porta, si è ficcato la canna in bocca e... bang.
Stanno ancora scrostando il cervello dal soffitto. A proposito,
non credo che potrai tornare tanto presto nel tuo appartamento." "Non importa." mormora la donna, voltandosi di nuovo a fissare Joyce,
e lasciandosi sprofondare di nuovo in quegli occhi. "Sono già
a casa..." Il silenzio regna per qualche lungo momento nella stanza, poi schiarendosi
la gola, Price sposta rumorosamente la sedia indietro e si alza. "Bene, visto che a quanto pare ti senti meglio, io me ne vado."
dice, infilandosi l'impermeabile. "Porterò le buone novelle
al distretto. Aspettati altre visite a breve." "Sì, ehm, ciao." risponde Jennifer, girandosi appena. "Allora,
ci vediamo, eh? E lascia detto in procura che mi farò viva." L'aveva detto senza pensarci, e quando sente quelle parole uscirle di bocca,
se ne meraviglia quasi. Beh, perché no? pensa. Non
so che significa tutto questo, che genere di miracolo l'abbia prodotto,
ma Joyce è qui, davanti a me. La vita può riprendere a scorrere
come se niente fosse successo. E si sente sommergere da una nuova ondata di felicità, mentre il raggio di
sole che arriva dalla finestra gioca meravigliosamente con i capelli
di Joyce, creandole come un aureola intorno alla testa. "La procura? Perché?" Più che la domanda, è il tono perplesso con cui è stata posta a farla distogliere
dalla sua contemplazione, per tornare a guardare Price. "Vorranno sapere anche loro come sto, immagino." risponde. "E
quando potrò tornare al lavoro." "Ma che c'entri tu con la procura?" "Lavoro per loro, no? Faccio parte della squadra di Ballister." Ma non a lungo ancora. Puoi giurarci. Poi guarda meglio l'espressione disorientata del poliziotto. "Che c'è? Che ho detto?" "Accidenti." mormora l'uomo, fermo sulla porta. "Devi essere
anche più confusa di quello che pensavo." Poi, torna ad avvicinarsi
al letto e anche Joyce, che evidentemente non capisce cosa sta succedendo,
si volta a guardarlo. "Tu lavori con noi. Al distretto. A che
serve una psicologa in procura?" dice Price, fissandola con
aria indecisa. "E poi Ballister non è il procuratore." "Non lo è?" chiede Jennifer, sorpresa. "Non che non gli sarebbe piaciuto, ma ha dovuto rinunciare a candidarsi
dopo quello scandalo di tangenti, non ricordi?" Il tenente
la osserva. "Evidentemente no." Con un sospiro, Price si stringe nelle spalle. "Beh, non preoccuparti. Avrai tempo per recuperare. Ti ci vorranno almeno
tre... no, quattro mesi di ferie." "Quattro mesi?" Ma perché tutte le sue domande dovevano avere quel
tono da Alice nel paese delle meraviglie? "E' il tempo minimo che ti occorrerà per la convalescenza. E per una
lunga vacanza. Te la meriti." aggiunge con un sorriso divertito
l'uomo. Poi, prima di andarsene, le lancia un'ultima occhiata dalla
porta. "Mi chiedo con chi andrai a farla." dice con una
strizzatina d'occhio ed esce, lasciando le due donne sole. Nella stanzetta, Jennifer continua a mantenere lo sguardo fisso in quello
di Joyce e le dita strettamente intrecciate con quelle dell'altra,
come se temesse che interrompendo quel contatto il sogno meraviglioso
che sta vivendo possa dissolversi. E' questa la morte? si chiede,
inconsapevole di essersi già rivolta la stessa domanda non molto
tempo prima, in ben altre circostanze. E' questo il Paradiso?
Vedere realizzarsi i sogni più intimi ed impossibili. Quelli che
non si sarebbe mai pensato potessero concretizzarsi. Sei davvero
tu, Joyce? Sei davvero qui, davanti a me? O è tutto un sogno? L'unica risposta alle sue domande silenziose è un altro lacrimone che fuoriesce
da sotto una palpebra della ragazza, e la sua mano (quella non stritolata
dalla sua morsa ferrea) che risale fino ai suoi capelli, immergendovisi
e scostandoglieli dal viso con un gesto dolce e gentile che le manda
il cuore in frantumi. Jennifer s'impadronisce anche dell'altra mano,
stringendosela contro la guancia. Sogno o no, c'era una cosa che
doveva dire. Ora, tutta d'un fiato, prima che avesse il tempo di
pensarci. "Joyce, è tanto tempo che volevo dirti una cosa." sussurra. A meno che in questa realtà non l'abbia già fatto. Ma non credo, se sono sempre
io. La ragazza la guarda senza parlare, in muta attesa, entrambe le sue mani ora
prigioniere della donna distesa in quel letto. Ingoiando il groppo che le ostruisce improvvisamente la gola, Jennifer parla. "Io ti amo. Mi sono innamorata di te dal primo momento in cui ti ho vista,
e in quel momento ho saputo che ti avrei amata per tutta la vita.
Il mio unico rimpianto è di non aver avuto il coraggio di dirtelo
prima." L'espressione pallida e tesa della giovane si scioglie, mentre altre lacrime
si uniscono alla prima. "L'hai già fatto." dice, trattenendo a stento un singhiozzo mescolato
ad un sorriso. "Davvero?" chiede Jennifer, e questa volta non le importa di apparire
stupita. "Un milione di volte." mormora la ragazza, avvicinando lentamente
il suo viso a quello di lei. "Quando mi guardavi, quando mi
tenevi stretta consolandomi delle mie paure, ogni volta che hai
pianto con me e ogni volta che hai rischiato la tua vita per me."
Adesso i loro volti distano pochi centimetri e la voce di Joyce
è scesa ad una tonalità che non potrebbe essere udita ad una distanza
appena maggiore. "Anch'io ti amo, Jen." dice, e senza
altre parole, posa le proprie labbra sulle sue. E quelle labbra
sono morbide, fresche ed hanno un sapore dolcissimo. Proprio come
aveva sempre immaginato. Epilogo Il leggero vento che proviene dal mare le smuove appena i capelli umidi e
ancora appiccicati sulla fronte. Avvolgendosi meglio nel grande
telo da bagno, lentamente e a piedi nudi, Jennifer esce dal salone,
avanzando sul marmo della grande terrazza riscaldato dal sole, senza
provare nessun brivido di freddo. Un piacevole calore, invece, ancora
la pervade. Il calore emanato dal corpo di Joyce che magicamente
sembra esserle penetrato nel profondo dell'anima stessa, riempiendola
di una luce abbagliante. Sono le nove del mattino, ma nel cielo di quella minuscola isoletta nel mare
di Grecia, in quella splendida giornata di una primavera che da
queste parti assomiglia già ad un'estate piena, il sole brilla alto.
Si è chiesta molte volte perché tra tanti posti dove trascorrere
la lunga vacanza che voleva concedersi con Joyce avesse finito per
scegliere proprio E adesso, nel mattino che segue la più magica notte della sua vita, Jennifer
contempla con una pace ed una serenità d'animo di cui non si sarebbe
mai ritenuta capace, l'oggetto del suo amore. Non può vederla interamente
perché Joyce, sotto un ampio ombrellone, con le spalle rivolte verso
di lei, è mollemente adagiata su di una sedia a sdraio che la inghiotte
quasi completamente, lasciandone visibili solo le splendide gambe
snelle e una mano che regge tra le dita un bicchiere pieno di ghiaccio
fino all'orlo, che si sta lentamente sciogliendo in un liquido di
un rosso vivo. Jennifer si ferma. Su un tavolino alla sua destra,
con la tovaglia che lo copre svolazzante al soffio ventoso dal mare,
c'è una caraffa ugualmente colma di un liquido dello stesso colore.
La donna se ne versa a sua volta un bicchiere assaporando con gusto
il sapore leggermente aspro di agrumi, e si appoggia ad una delle
colonnine posizionate strategicamente lungo tutta la terrazza, la
schiena ancora leggermente umida contro il fresco marmo, mentre
una lieve sensazione di déjà vu l'assale per una frazione
di secondo, riportandole nuovamente una sottile fitta d'angoscia,
a cui però non permette di durare più di qualche attimo, scrollandosela
subito di dosso con decisione. Questo è il mio mondo, ora. Non è un sogno e non si dissolverà. Tempo ne era passato, infatti, ma il sogno non aveva accennato a svanire,
come lei aveva atteso e temuto nei primi momenti. Anzi, si era fatto
sempre più elaborato e realistico. Attraverso una serie di domande
attentamente studiate preventivamente affinché non destassero troppi
sospetti, Jennifer era riuscita a ricostruire almeno parzialmente
il suo passato in questa realtà ed aveva scoperto che quella vita
che adesso era la sua non si era dipanata in modo molto diverso
dall'altra, nelle pagine felici e in quelle luttuose, pur con qualche
significativa differenza. Anche qui era rimasta orfana di madre
da giovanissima, e aveva visto sua sorella morirle praticamente
sotto gli occhi, ma suo padre non si era mai risposato ed era invece
rimasto ucciso dall'infarto che nell'altro universo l'aveva solo
debilitato. E naturalmente c'era stata la morte di Carruthers, che
stranamente non le aveva provocato nessuna particolare emozione
(ma in fondo perché avrebbe dovuto provarne per qualcuno che non
aveva mai nemmeno conosciuto?), tutti fili convenientemente spezzati
e non più riannodabili di un passato che non le apparteneva più,
aveva pensato combattuta tra malinconia e sollievo. Le sue domande
non avevano sollevato perplessità da parte di amici e colleghi che
erano passati a trovarla, come Price le aveva annunciato, dato che
tutti erano al corrente del suo stato e vi si erano sottoposti di
buon grado, senza meravigliarsi troppo se di alcuni di loro sembrava
non ricordarsi affatto, e lei si era sentita sollevata da tutta
quella disponibilità. Dopo circa un mese, Jennifer era stata dimessa dall'ospedale, e Joyce che
aveva trascorso accanto a lei ogni attimo, dai primi pasti solidi,
ai primi timidi passi fuori dal letto, non lasciandola mai neanche
di notte, l'aveva accompagnata spingendo la sedia a rotelle fornita
dall'ospedale, come tradizione, fino all'auto che le avrebbe portate
all'albergo riservato dal corpo di polizia cittadino, in attesa
che il suo appartamento tornasse agibile. Se Jennifer avesse ancora
conservato tutti i suoi ricordi, non avrebbe potuto fare a meno
di collegare il momento attuale con quello che le aveva viste protagoniste
alla rovescia in quell'altro mondo impregnato di morte e dolore,
ma per sua fortuna, le memorie stavano scomparendo lentamente come
immagini scolorite su una vecchia pagina di giornale. Nomi e volti
sbiadivano sempre più nella sua mente, mentre misteriosamente si
ritrovava a ricordare persone e fatti che dovevano appartenere alla
Jennifer del mondo in cui si trovava ora. Ma questa Jennifer
sono io adesso, si era scoperta d'un tratto a pensare ed un
sorriso le era spuntato automaticamente sulle labbra. Un altro paio di settimane dopo, mentre riacquistava sempre più le forze,
e aveva cominciato a girare per la città, sempre in compagnia di
Joyce, che non pareva capace di abbandonarla un minuto, come se
temesse anche lei che facendolo il suo sogno personale potesse scomparire,
alla ricerca di una nuova casa più grande in cui stabilirsi (tornare
nel suo vecchio appartamento, non era mai stata un'opzione), aveva
alzato il viso dal finestrino del taxi fermo al semaforo in cui
si trovavano e aveva letto l'insegna. Inside View redazione locale La città non le era parsa molto diversa da quella che le sembrava di ricordare,
anche se qualche volta le capitava di vedere un posto o un nome
che non le pareva corrispondere. Le memorie della Jennifer che era
stata e quella che era adesso si confondevano ancora spesso tra
loro, e quindi avrebbe dovuto aspettarsi prima o poi che accadesse,
e tuttavia non era riuscita a reprimere un brivido. "Che hai? Tutto bene?" le aveva chiesto Joyce, seduta accanto a
lei, accarezzandole la schiena. "Sì, tutto a posto." le aveva sorriso lei in risposta, cercando
di sembrare più rassicurante possibile. Non le aveva raccontato
nulla, naturalmente. Era rimasta per qualche giorno indecisa, chiedendosi
se non doveva forse farlo, finché era ancora in grado di rammentare
qualcosa, ma alla fine aveva deciso per il no e adesso sapeva che
era stata la scelta giusta. Le sue domande prudenti sul passato
le avevano rivelato anche che nella particolare versione della vicenda
di Joyce in quel mondo non vi erano stati afflati soprannaturali
di alcun genere, niente sogni ricorrenti, niente frasi in lingue
morte pronunciate nel sonno, né interventi di misteriose soccorritrici
giunte da chissà dove o chissà quando. Solo il dramma di una giovane
donna che aveva sposato l'uomo sbagliato, e che per questo aveva
rischiato di morire, se la sua strada non si fosse incrociata con
quella di una psicologa che collaborava con la polizia. E solo questo
avrebbe dovuto restare. Non sarebbe stata lei a riaprire porte che
era meglio lasciare sprangate. E quindi, mentre il taxi ripartiva, aveva cercato di non tornare a guardare
fuori. Non doveva pensarci. Quella non era la realtà da cui proveniva.
Anche se in quegli uffici ci fosse stata una donna alta e dai lunghi
capelli neri severamente legati in una crocchia e con snervanti
occhi azzurri dietro piccole lenti, non sarebbe stata quella
donna. No, proprio come questa Joyce, non era l'altra.
Questa era la sua Joyce. La sua compagna. La persona
con cui voleva passare il resto della vita. Solo sua e di nessun
altro. Per questo non aveva voluto, anche se la curiosità l'aveva più volte divorata,
cercare sull'elenco telefonico, ogni volta che un nome le appariva
d'improvviso nella memoria, sperando che quei lampi di ricordi,
si riducessero presto a nulla. Non voleva legami con il passato.
Con nessuno dei suoi passati. Ormai anche i suoi altri ricordi erano quasi completamente scomparsi,
e quelle immagini che di tanto in tanto, senza preavviso, le apparivano
davanti agli occhi fino a qualche settimana prima, spaventandola
a morte, ma di cui non aveva mai fatto cenno a nessuno, e tanto
meno a Joyce, non la visitavano più. Quindi non avrebbe fatto nulla
che potesse anche solo minimamente rischiare di risvegliare cose
che dovevano restare sepolte per sempre. Neanche un'azione stupida
come consultare qualche sito di mitologia o archeologia alla ricerca
di un certo nome. Un nome che sperava presto di seppellire per sempre
insieme a tutto il resto. Ma nonostante giorno dopo giorno il mondo che la circondava adesso avesse
preso sempre più il sopravvento e lei se ne fosse lasciata invadere
più che volentieri, chiudendo la mente ad ogni riflessione importuna,
quel pensiero aveva continuato a roderla dentro, come un tarlo vorace,
minuscolo ma con denti affilati (e questo esempio, non sapeva perché,
le dava i brividi). Anche in quel momento di pace assoluta, su quella
terrazza bagnata dal sole e appesa su di un panorama di cielo e
mare che finivano per confondersi all'orizzonte in un azzurro uniforme.
L'unica scoria che perfino la splendida notte appena trascorsa non
era riuscita spazzare via completamente. Ed ora, capisce che è il momento di affrontarlo. Non può rimandare ulteriormente.
Anche se questa mossa dovesse scatenare reazioni imprevedibili,
e socchiudere una porta chiusa a tripla mandata, sa che restare
nel dubbio sarebbe molto peggio. A lungo andare rischierebbe di
inquinare la sua anima, alterare il loro rapporto. Non riuscirebbe
mai a guardarla negli occhi, senza pensarci. No. Devo sapere. Ora, a qualunque costo. E stacca la sua schiena dal marmo della colonnina, quasi con uno sforzo, come
se vi fosse stata incollata, muovendo passi esitanti nella direzione
della sedia a sdraio che ora le pare a distanza siderale. I suoi
piedi, nudi sul pavimento non fanno alcun rumore, ma la ragazza
solleva la testa e si gira verso di lei. Ha ciocche di capelli biondi
che le scendono disordinatamente sul viso che s'illumina istantaneamente
alla sua vista, attenuando la luce stessa del sole. Mio Dio, pensa Jennifer, mentre
sente qualcosa ostruirle la gola e gli occhi riempirsi di lacrime,
l'amo così tanto. Sono sicura di quello che sto facendo? Ma non si ferma, e continua ad avanzare, nascondendo la sua paura dietro un
sorriso che, ne è sicura, non è neanche la pallida imitazione di
quello che risplende sul volto della ragazza. "Buongiorno, amore." dice Joyce. "Dormivi così bene che non
ho voluto svegliarti. E' una giornata meravigliosa, oggi, vero?" Jennifer si inginocchia accanto a lei e le loro mani si toccano, le loro dita
s'intrecciano, e le due donne si fissano in silenzio per un lungo
attimo. "Ti amo." dice semplicemente la ragazza, portandosi la sua mano
alla labbra e baciandogliela. Jennifer non riesce a rispondere, immobilizzata, con la propria mano imprigionata
in quella di lei. "Stai bene?" chiede improvvisamente Joyce, guardandola con un'ombra
di preoccupazione. "Sembri distante." "Sì." risponde finalmente Jennifer, ritrovando miracolosamente la
parola, anche se non può impedire alla sua voce di tremare lievemente,
tanto lievemente da sperare che Joyce non se ne accorga. E ancora
una volta un'inquietante impressione di avere già vissuto un momento
simile le attraversa la mente rimandandole un nuovo brivido lungo
la schiena. Non pensarci. Non adesso. E falle questa maledetta domanda. "Sto bene e sono qui, con te." continua. "E non sono mai stata
tanto felice in tutta la mia vita." Poi, chiude gli occhi un
istante, prende un profondo respiro, e li riapre conficcando letteralmente
il proprio sguardo in quello della ragazza che la sta fissando perplessa.
"Ma c'è una cosa che devo chiederti. Non importa quanto
ti potrà sembrare strana." "Dimmi." dice Joyce e ora la preoccupazione nei suoi occhi ha assunto
l'intensità dell'ansia. Jennifer inghiotte un'ultima boccata di saliva amara. "Joyce, hai mai sentito parlare
di Xena?" chiede infine tutto in un fiato. Sulla terrazza immersa nel sole, il
tempo sembra fermarsi. Joyce fissa Jennifer come se stesse aspettando
che aggiungesse qualcos'altro, ma quando la donna resta in silenzio,
aggrotta la fronte. "Tutto qua? E'... è questo che
volevi chiedermi?" domanda confusa. "Sì, certo."
risponde poi esitante. "La conosci?" Il cuore di
Jennifer che aveva accellerato i battiti, è come se si fermasse
all'improvviso, e anche se la donna non può vedersi, sa che
tutto il suo sangue è defluito dal viso, lasciandola probabilmente
bianca come un lenzuolo. "Sì." conferma Joyce, prendendole
il volto fra le mani con adesso un'aperta preoccupazione nello sguardo.
"Ma che hai?" "Ma... co... come...?" prova
a dire Jennifer, ma anche l'ultimo refolo di fiato sembra essersene
andato dai suoi polmoni, e non può far altro che restarsene lì,
con gli occhi inchiodati in quelli di Joyce. "E mi piaceva anche tanto."
continua la ragazza. "Ma ormai è finita." "Fi... finita?" "Sì, da qualche anno. Anche se
credo che ci sia sempre un canale che continua a trasmettere le
repliche." "Repliche?" "Degli episodi." Joyce continua
a guardarla perplessa ma, ora che vede un minimo di colore tornarle
in viso, più tranquilla. "Pronto? Dottoressa Rowles? Sto parlando
della serie televisiva. Tu no?" aggiunge con un sorriso. Senza parole, Jennifer le rimanda lo
sguardo, ma adesso lentamente il suo respiro e il suo battito stanno
tornando regolari. "Sai" dice Joyce, accarezzandole
le guance "la storia di quella Principessa Guerriera e della
sua compagna, Olimpia, nella Grecia di duemila anni fa. Credevo
che ti riferissi a questo." Sedendosi a terra accanto a lei, Jennifer
prende un altro profondo respiro. "Parlamene." dice. Con un sorriso un po' sognante, Joyce
si volta verso il mare e adagia la testa sulla sedia. "Era una storia molto romantica.
Xena arriva un giorno in un piccolo villaggio e salva i suoi abitanti
dai predoni, e qui incontra una ragazza, Olimpia, che vuole seguirla
a tutti i costi, malgrado la vita di pericoli a cui stare con lei
l'avrebbe esposta. Ma lei non ha paura e non l'abbandonerà mai,
attraverso mille avventure e pericoli, fino alla fine. Non l'hanno
mai ammesso esplicitamente, ma credo che quelle due si amassero."
Joyce le lancia uno sguardo in tralice. "Non è strano che noi
siamo venute proprio in Grecia in vacanza?" Poi, torna a guardare
il mare. "Non hai idea di quante volte, quando Mark mi picchiava,
ho fantasticato che Xena venisse a salvarmi. E alla fine, è arrivata
davvero." dice, voltandosi di nuovo verso di lei. "Perché
per me, sei tu la mia Xena, Jen. Che ne dici?" chiede, alzandosi
dalla sdraio e accocolandolesi vicino, la schiena poggiata contro
il suo seno. "Ti va di esserlo?" Jennifer rimane silenziosa per qualche
attimo, mentre un sorriso torna ad illuminarle il volto, in risposta
a quello sulle labbra di lei. "Soltanto se tu sarai la mia Olimpia."
risponde, avvolgendola in un abbraccio da dietro e posandole un
bacio sui capelli. "Non chiedo di meglio." mormora
Joyce, posando la testa all'indietro contro la sua spalla. E le due donne restano abbracciate,
a fissare il mare. 1 Novembre 2005 - 29 Marzo 2007 |
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