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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo I)

Parte 1

(11) Xena e Olimpia

Appena superate le prime file di alberi, Xena e Olimpia rallentano la corsa e si guardano alle spalle. In lontananza sembra ancora di udire le urla provenienti dalla locanda, ma niente lascia pensare che le due donne siano state inseguite. Col respiro solo lievemente accellerato, Olimpia si ferma appoggiandosi ad un albero, mentre Xena, a pochi passi da lei, si lascia cadere a terra seduta su una radice sporgente di una grossa quercia, posando accanto a sé la sacca.

"Accidenti. Comincio ad essere troppo vecchia per queste cose." dice con un affanno maggiore.

"Già. E la prossima volta che decidi di fare una cosa del genere che ne diresti di avvisarmi prima? Basterebbe una strizzatina d'occhi o un colpetto col gomito."

"Non c'era tempo. Non volevo che capissero le mie intenzioni. Mi sono fidata della tua capacità di intendermi al volo." risponde la guerriera, lanciandole uno sguardo sorridente. "E direi che ha funzionato."

"L'ho capito solo all'ultimissimo momento. Appena in tempo per raccogliermi addosso a te prima di rompermi  la testa o una gamba contro i bordi della finestra. Quella faccenda di collegamenti tra anime gemelle va perfezionata."

"Storie. Sei andata benissimo."

Xena si alza dal suo sedile improvvisato e scruta nell'oscurità della vegetazione sopra e intorno a loro. Nonostante il sole cominci ormai ad essere alto nel cielo solo pochi raggi riescono a filtrare attraverso il fitto intrico di rami e foglie.

"Non mi pare che ci abbiano inseguite." dice Olimpia, andandole accanto e cercando anche lei di scorgere qualcosa tra gli alberi.

"Direi di no. E mi chiedo il perché."

"E Argo? E' rimasta nella stalla. Non le faranno del male, vero?" chiede Olimpia, guardandola preoccupata.

"Non credo. E' più probabile che qualcuno se ne impossessi. E' una bestia troppo bella per non approfittarne. Beh," conclude la guerriera, con aria decisa "tanto torneremo presto a prenderla."

"Xena, perché non li abbiamo affrontati? Erano solo..." comincia a chiedere Olimpia, per poi fermarsi improvvisamente. "Ah, lascia perdere. Non dirmelo. Erano contadini, non guerrieri e avremmo finito per ferire qualcuno o peggio."

"Visto?" dice Xena, dandole una leggera pacca sulla spalla. "Te l'ho detto che mi capisci al volo. Sai, all'inizio forse non riuscivo a crederci sul serio, ma quella cerimonia amazzone sembra davvero aver raffinato la nostra intesa."

Olimpia le lancia un rapido sguardo in tralice.

"Quanto ci vorrà prima che riusciamo semplicemente a leggerci nel pensiero?" chiede con un leggero tono ironico nella voce.

"Adesso non esagerare." risponde Xena, guardandola perplessa. "Non credo che arrivi fin là."

"Perché porre limiti agli arcani disegni del destino?"

"E piantala, bardo!" dice la guerriera, tirandole un colpettino nel braccio. "Non voglio che tu mi legga nel pensiero."

"Ohoh, abbiamo dei segreti adesso? Ti avviso che non possono esserci segreti tra una regina amazzone e la sua consorte, e..."

Ma la mano di Xena pone improvvisamente fine allo scambio di battute scherzose tra le due, posandosi sulla bocca di Olimpia.

"Shhh."

La ragazza la guarda sorpresa e quando la mano le viene tolta dalle labbra, tace guardandosi intorno e cercando di individuare cosa possa aver allarmato la compagna.

"Che c'è?" chiede alla fine con una voce appena udibile.

"C'è qualcuno che sta venendo in questa direzione." risponde l'altra con tono di voce ancora più basso, ma in qualche modo perfettamente percepibile per lei.

E immediatamente, l'amazzone e la guerriera si acquattano all'unisono, scomparendo dietro i cespugli.

 

Nel silenzio totale che d'un tratto sembra regnare sulla foresta, Olimpia chiude gli occhi e cerca di accedere a quel livello interiore in grado di percepire suoni e rumori così lievi da sfuggire all'orecchio più acuto, come le ha insegnato Xena.

Da principio non ode nulla, al di fuori del leggero fruscìo delle foglie degli alberi che si muovono appena sotto l'azione della brezza e del gocciolìo residuo di pioggia che cade dai rami sul terreno e sui cespugli. Poi lentamente, mentre la sua concentrazione giunge al massimo, un rumore comincia a staccarsi dall'uniforme concerto di  piccoli suoni che la circonda, precisandosi e permettendole una vaga individuazione.

Il rumore sembra provenire dal punto più folto della vegetazione.

Olimpia cerca con un ulteriore sforzo di distinguere ancor più nettamente il genere di suono che le sta arrivando. Un fruscìo di foglie, interrotto a pause regolari, come il passo strascicato, stanco di un vecchio, inframmezzato però da qualcos'altro, un altro rumore non altrettanto facilmente identificabile. Uno schiocco secco, come frustate nell'aria.

Olimpia riapre gli occhi e volge lo sguardo verso Xena, che a pochi passi da lei, appare immobile e concentrata sul punto tra gli alberi da cui paiono provenire i rumori. Sentendosi fissare dalla compagna, Xena allunga un braccio per indicarle di restare in silenzio e torna a puntare tutta la sua attenzione verso la vegetazione di fronte a loro. Seguendo lo sguardo della guerriera, anche Olimpia ricomincia a fissare gli alberi che uno accanto all'altro formano una quasi impenetrabile barriera alla vista.

Improvvisamente i rami di alcune piante iniziano a scuotersi e a vibrare come mossi da una mano invisibile, e gli occhi di Olimpia si spalancano nella comprensione.

Quel rumore secco che non riusciva ad individuare, era il tipico rumore prodotto da un ramo piegato e poi lasciato andare all'improvviso all'indietro, come quando si cerca di farsi strada tra i rami bassi degli alberi. Ma quegli alberi non avevano rami bassi, a quel che lei poteva giudicare. Dal suo punto di vista, i rami più vicini al suolo si trovavano almeno a sette, o anche otto cubiti da terra. E se la persona (l'essere?) che strascicava i piedi sul letto di foglie era la stessa che spostava i rami, a chi o cosa si sarebbero trovate di fronte, non appena l'ultima barriera di vegetazione fosse stata superata?

Con lo sguardo, quasi ipnotizzato sul debole movimento di foglie, ancora ad una certa distanza da loro, Olimpia fa istintivamente un paio di passi verso la compagna e le posa la mano sul braccio, avvertendo subito la tensione nei muscoli di lei,  ma con quella strana, inquietante capacità che si è stabilita tra loro, anche una sottile eppure potente corrente di calore che si comunica alla sua mente e al suo corpo lenendo la sensazione di paura che l'ha improvvisamente invasa. La mano di Xena si posa sulla sua stringendola per un breve attimo. Poi la guerriera estrae silenziosamente la spada dal fodero e lentamente comincia a spostarsi alla sua sinistra, indicando ad Olimpia la direzione opposta. Per un attimo, la ragazza la guarda interrogativamente, poi capisce.

Qualunque cosa stia avanzando verso di loro, sembra seguire una linea retta che conduce proprio al punto dove si trovano nascoste. Spostandosi di fianco, una a sinistra, l'altra a destra, otterranno il doppio scopo di togliersi dalla strada dell'individuo, chiunque sia, che sta sopraggiungendo, e al tempo stesso di prenderlo tra due fuochi, in caso di necessità. Con un rapido cenno della testa, Olimpia conferma a Xena di aver capito le sue intenzioni e sempre silenziosamente si muove nella direzione indicata.

.

Il tempo sembra fermarsi, mentre le due donne restano immobili ai due lati dello stretto sentiero in cui da un momento all'altro potrebbe spuntare la misteriosa ed inquietante fonte dei sinistri rumori che si avvicinano sempre di più tra la folta vegetazione nell'oscurità di una foresta che forse l'immaginazione crea più buia di quel che dovrebbe, visti i raggi di un limpido sole che tentano di farsi strada attraverso lo stretto intrico di rami sopra le loro teste.

La mano di Olimpia è talmente contratta intorno all'impugnatura di uno dei suoi sai da darle quasi l'impressione che non le appartenga più, e per quanto la ragazza vorrebbe allentare la presa e far tornare la circolazione nelle dita, tutto il suo corpo sembra in preda ad una paralisi. Le pare di avvertire distintamente la peluria sul collo drizzarsi come se fosse in presenza di un pericolo gravissimo e imminente, e i suoi pensieri che vagano disordinatamente tra le spiacevoli sensazioni fisiche e gli ancor più spiacevoli presentimenti che le si affacciano alla mente, tutti vaghi ed indefiniti e per questo ancora più spaventosi, cercano qualcosa di solido a cui aggrapparsi.

Dal punto in cui si trova, non può vedere Xena, che sa essere nascosta a circa dieci passi da lei dietro i cespugli sul bordo opposto del sentiero, ma appena il suo pensiero si fissa sull'immagine della compagna, immediatamente una confortante sensazione di sicurezza e completezza l'invade disperdendo le paure e i cattivi presagi che la stavano soffocando.

"Ti amo."

Le parole si formano autonomamente sulle labbra e ne escono come in un soffio, a cui un'eco pare rispondere nella sua mente

(Ti amo anch'io)

lasciandola per un attimo interdetta, indecisa se l'abbia davvero udita o se sia frutto solamente della sua immaginazione, incantata dall'idea che quella possa davvero essere una prova che Xena abbia avvertito realmente il suo pensiero. Istintivamente un sorriso le si disegna sul volto e contemporaneamente le sue dita si rilassano sull'elsa del pugnale, mentre tutta la sua persona si scuote dall'irrigidimento che l'aveva posseduta.

Olimpia fissa nuovamente lo sguardo sugli alberi di fronte a lei e solo in quell'attimo, quando una mano spunta da dietro sue spalle e le preme qualcosa sul viso impedendole di respirare, realizza di aver commesso un errore forse fatale.

No! Non è possibile! Non di nuovo!

E' l'ultimo pensiero cosciente che l'attraversa prima di crollare all'indietro tra quelle braccia sconosciute.

 

Subito dopo aver visto Olimpia allontanarsi e sparire dietro un grosso cespuglio sull'altro lato del sentiero, in modo tale che se non avesse saputo che c'era, neanche lei sarebbe stata in grado di individuarla (Brava ragazza! Sei un fenomeno, piccola. Dovrei dirtelo più spesso.) Xena si era appostata a sua volta dietro un albero a ridosso di una fila di altri cespugli che le forniva un ottimo punto di osservazione sulla fitta schiera di alberi sul fondo della piccola radura che si apriva alla fine del sentierino. Spada in pugno e con la mano libera posata leggermente sulla lama del chakram si era messa ad aspettare.

Il rumore che, all'inizio appena distinguibile, l'aveva allarmata si era andato progressivamente avvicinando. Con i sensi tesi a cercare di sondarlo il più possibile, Xena era entrata in quella specie di zona interiore in cui, per istinto ormai addestrato da lunghi anni, il suo cervello concentrava ogni sforzo sull'obiettivo, selezionando e scartando uno dopo l'altro tutti gli altri rumori, suoni o immagini che rischiavano di disturbare o di alterare il punto focale della sua ricerca.

Il rumore, adesso, proveniva da immediatamente dietro l'ultima fila di alberi che separavano il folto della foresta dalla radura. Acuendo la vista, nonostante l'oscurità, si percepivano perfettamente le scosse a cui erano sottoposti i rami degli alberi. Rami troppo alti per essere d'ostacolo ad un normale essere umano. Chiunque ci fosse dietro gli alberi non poteva essere normale, né umano.

Un gigante? La razza si era ormai quasi estinta e dei pochi superstiti, che lei sapesse, nessuno abitava in quelle zone. Un ciclope? Erano i protetti e favoriti di Nettuno, ma dalla morte del Dio del mare si erano dispersi e anche se niente escludeva che qualcuno, sopravvissuto, potesse essersi spinto fino là, Xena non riusciva a credere che potesse essersi allontanto così tanto dalle coste che loro prediligevano. E anche se si fosse trattato di un semplice animale, quale bestia poteva arrivare a quell'altezza? Un orso, forse. Ma gli orsi si ergono in tutta la loro statura solo in caso di pericolo, altrimenti preferiscono muoversi a quattro zampe. E inoltre a quella ridotta distanza il suo sensibilissimo odorato avrebbe già individuato con certezza il plantigrado. No, l'odore ancora debole che cominciava ad avvertire aveva sicuramente qualcosa di selvatico, ma non assomigliava a niente che avesse sentito prima.

Tesa a raccogliere ogni minimo indizio attraverso i suoi sensi, Xena resta quasi sorpresa dall'improvvisa sensazione che l'assale. Un'ondata di calore sembra avvolgerla tutta, mentre i suoi sensi già sovreccitati le rimandano l'impressione quasi fisica di un abbraccio e il suo cuore e la sua mente si spalancano ad accogliere anche in quel momento quelle emozioni che invariabilmente risvegliano in lei.

Nonostante siano mesi ormai che lei e Olimpia si sono ritrovate, questa specie di filo emotivo che le collega la lascia ancora senza fiato. Capacità latenti da sempre esistite ed esaltate in modo misterioso dallo scambio di sangue nel corso della cerimonia amazzone del congiungimento che, durante il lungo periodo in cui erano state separate e di cui non riuscivano a ricordare niente, non erano rimaste soltanto inalterate ma parevano addirittura ulteriormente migliorate, e che sospettava fossero la ragione principale per cui erano riuscite a ritrovarsi.

Le parole le si disegnano nella mente con accecante chiarezza

(Ti amo)

riempiendole l'anima di una luce così intensa da stordirla per un attimo. Cercando di riprendere possesso delle proprie facoltà, Xena, senza pensarci, invia verso Olimpia attraverso lo stesso canale la sua risposta, che trova espressione fisica in un appena visibile muoversi di labbra.

"Ti amo anch'io."

Quei pensieri sembrano restare per alcuni istanti sospesi nell'aria come un invisibile arcobaleno teso tra le loro due sorgenti, poi d'improvviso  la sensazione si spegne, come una torcia immersa in una pozza d'acqua, e i sensi di Xena si riacutizzano al mondo che la circonda.

Il contraccolpo è talmente forte che la guerriera traballa come se repentinamente privata di un sostegno e istintivamente deve appoggiarsi al tronco d'albero vicino a lei per non cadere, mentre un subitaneo terrore l'assale.

OLIMPIA!!

Le sua bocca non emette un fiato, ma quel nome le risuona nella mente quanto e più di un urlo, un istante prima che una fitta sul collo la riporti pienamente in sé. Ma è una pausa brevissima. Appena sufficiente ad avvertire sotto le dita il soffice piumaggio di un minuscolo dardo, prima che la guerriera si abbatta al suolo priva di conoscenza.

 

 

(12) Jennifer e Carruthers

 

La mano si tende verso il suo viso e Jennifer l'afferra portandosela alle labbra.

"Io ti amo, Joyce. Mi sono innamorata di te dal primo momento in cui ti ho vista. Ora me ne rendo conto. Che stupida sono stata."

Il volto dietro la mano, rimasto in penombra fino a quel momento si avvicina e la luce lo illumina mostrando i tratti delicati e bellissimi della ragazza. I suoi occhi le sorridono e le labbra si aprono, ma nessun suono ne esce e

d'improvviso, in un lampo, l'immagine scompare e Jennifer si ritrova sola a fissare il buio della sua stanza.

Appena si rende conto della realtà intorno a lei, un singhiozzo strozzato le preme alla gola e lacrime brucianti cominciano a scorrerle lungo le guance. Per qualche minuto gli ansiti e i singhiozzi della donna sono gli unici suoni udibili nel silenzio, poi con uno sforzo di volontà, Jennifer si alza e passandosi una mano tra i capelli lasciati crescere in quei mesi fino a caderle ora fluenti sulle spalle, si avvicina al grande mobile a specchio che troneggia alla parete opposta della stanza. Accendendo la lampada al lato, una luce tenue si diffonde nell'ambiente, e lei si china verso la sua immagine riflessa. Sotto gli occhi umidi e arrossati dal pianto, scorge ombre scure accentuate dal pallore su un viso ancora nonostante tutto giovane e bello.

Non posso continuare così. Devo darmi pace o finirò per impazzire davvero.

Con passo strascicato, Jennifer si allontana dallo specchio, dirigendosi verso la porta della stanza. Appena fuori, la luce violenta che filtra dalle tende del salotto le fa sbattere gli occhi un attimo, prima che la vista si abitui al contrasto con il buio della sua camera da letto. Il grande orologio a parete in cucina le conferma l'impressione: le nove e venti. Ormai da molto tempo aveva abbandonato la sua vecchia abitudine di svegliarsi prestissimo. Nei giorni seguenti alla morte di Joyce, non trovava nemmeno la forza di alzarsi dal letto. La sveglia che continuava quasi automaticamente a puntare per il mattino, in ossequio ai tempi in cui alle sette era già in piedi e vestita, ansiosa di recarsi al lavoro ed affrontare una nuova giornata e che ora sembravano appartenere ad un'altra vita, lanciava invano il suo beep elettronico per lunghi minuti, prima di esaurirsi nel suo inutile sforzo, finché aveva smesso di farlo. Solo col trascorrere delle settimane, era riuscita infine a raccogliere un po' di forze per proseguire una vita che ormai era pura e semplice sopravvivenza, pallido fantasma della donna viva e vitale che era stata.

Con un sospiro, Jennifer si lascia cadere sulla poltrona che aveva abbandonato solo poche ore prima, stordita e confusa nel dormiveglia, e pesta il piede sul giornale spiegazzato, finito a terra la sera prima dopo un inutile quanto patetico tentativo di illudersi di provare ancora qualche interesse nei fatti della vita. Con mano malferma, raccoglie le pagine affastellate disordinatamente una sull'altra e le posa sul tavolino accanto. L'occhio le cade distrattamente su un titolo a due colonne in un angolo, ma riesce solo, con la vista ancora appannata dal sonno, a distinguere la parola

 

OGRE

 

senza comprenderne completamente il significato. Poi, prima che possa soffermarcisi col pensiero, lo squillo del telefono interrompe quel confuso caos nella sua mente.

Per un po' resta a guardare il piccolo cellulare posato sul tavolino senza quasi ricordare come il giorno prima fosse all'improvviso rispuntato dal fondo di una sacca da viaggio. Ora lentamente le memorie si ricongiungono tra loro e ricorda che lo aveva fissato indecisa se gettarlo nella spazzatura, poi un piccolo segnale lampeggiante le aveva rivelato come incredibilmente quell'apparecchietto fosse ancora funzionante a distanza di... quanto? Quand'era stata l'ultima volta che ricordava di averlo visto? E non solo, ma come aveva immaginato la segreteria era piena di messaggi. Senza neanche rifletterci per un secondo, Jennifer aveva subito premuto il tasto di cancellazione e posato il cellulare là dove adesso stava squillando. Solo che non ricordava assolutamente di averlo riacceso. Finalmente, la donna allunga la mano e lo solleva portandoselo all'orecchio.

"Pronto?"

"Rowles. Come stai?"

La voce è distante ma ha un suono familiare e reca con sé echi dolorose.

"Ti prego, Carruthers, lasciami in pace."

Dall'altra parte le ultime parole di Jennifer sembrano più lontane come se questa stesse già allontanando il cellulare dall'orecchio e si apprestasse a spegnerlo, perciò il poliziotto alza la voce nell'estremo tentativo di farsi udire.

"No! Aspetta Rowles, per favore. Dammi un minuto."

Silenzio prolungato, e Carruthers già teme che Jennifer abbia interrotto, ma un attimo dopo con sollievo avverte una specie di sospiro seguito dalla voce stanca della donna.

"Cosa vuoi?"

"Rowles, ascolta, lo so cosa pensi di me..."

"No. No, Carruthers, credimi, tu non hai idea di cosa io pensi di te. Altrimenti non avresti mai neanche lontanamente osato chiamarmi."

Questa volta tocca all'uomo, restare per qualche attimo di troppo in silenzio cercando di mandare giù l'amarezza che quelle parole gli comunicano.

"Non me lo merito, Rowles." riesce a dire alla fine, ingoiando un groppo nella gola che mai avrebbe pensato di poter sentire. "Io sono solo un poliziotto. Stavo eseguendo degli ordini..."

"Certo. Ordini che contemplavano il tradimento di un'amica. E che hanno causato la morte di due persone."

L'esasperazione si fa strada nell'animo di Carruthers facendo recedere ma con fatica quel senso di colpa che grava su di lui come un macigno.

"Andiamo, Rowles. Sai che non è così. Quella donna era una pericolosa psicopatica e un'assassina e la tua amica si era schierata al suo fianco per chissà quale maledetta ragione. Si è trattato di legittima difesa..."

"Legittima difesa?!? Almeno una ventina di poliziotti addestrati e dotati di armi moderne contro due donne e una spada? Per favore... Adesso smettila e dimmi solo cosa vuoi."

"Ho bisogno di te, Rowles." Le parole escono dalla bocca di Carruthers più precipitosamente di quanto avrebbe voluto, ma lui non riesce a fermarle. "Sono... siamo nei pasticci."

"Tu e quella carogna di Ballister? Sai, non so come esprimerti tutto il mio dispiacere."

"Non riguarda solo quel bastardo. Se fosse così non ti avrei neanche chiamata. Sono già tre i bambini scomparsi, Jennifer, e non abbiamo la più pallida idea di cosa ne sia stato."

Ancora una volta è il silenzio l'unica risposta che giunge dal telefono. Poi Carruthers sente distintamente il rumore di fogli di giornale spiegati, prima che Jennifer torni a parlare.

"Stai parlando di quel rapitore, The Ogre?"

"Quella è solo la solita trovata giornalistica ad effetto. In realtà non sappiamo niente di cosa si nasconda dietro questa faccenda. Potrebbe essere di tutto, dal semplice maniaco al mercato dei trapianti clandestini. L'unico fatto certo è che quei bambini sono scomparsi senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistiti."

"Mi immagino come sarà in pensiero il tuo amico Ballister. Cos'è, questa volta non riesce a tenere sotto controllo i giornali?"

"Te lo ripeto, Ballister non è mio amico e non c'entra niente. Sono io che ho bisogno di te. Mi sei stata sempre molto utile ad entrare nella psicologia criminale e senza di te non riesco a cavare un ragno dal buco."

"Non m'interessa, Carruthers. Io ho chiuso con voi, e poi sono sicura che Ballister non te lo permetterebbe."

"Maledizione, Rowles! Io non sono il cagnolino di quell'uomo. Adesso sono capitano del mio distretto e decido io i miei collaboratori. Ti prenderei come consulente esterna e solo temporaneamente. Non ti sto chiedendo di ritornare in servizio."

"Già. Scusa, che sbadata. Dimenticavo di farti le congratulazioni per la promozione. Dovrebbe darti una bella spinta economica in avanti per la tua pensione. Sono lieta che quella disgraziata storia abbia avuto risvolti positivi, almeno per qualcuno."

L'amaro sarcasmo filtra inequivocabile nella voce della donna. Carruthers abbassa le spalle rassegnato.

"Mi dispiace davvero che sia finita così, Rowles. E sono sinceramente addolorato per Joyce."

"No. Non osare pronunciare il suo nome." Nonostante la voce di Jennifer abbia mantenuto un tono ostile per tutta la conversazione, adesso raggiunge livelli di gelo tali che Carruthers non aveva mai avvertito prima. "Tu hai tradito la fiducia che quella povera ragazza aveva in noi. Non hai esitato ad usarla per i miserabili scopi di quel bastardo schifoso del tuo capo. Non osare pronunciare il suo nome."

E prima che Carruthers abbia il tempo di replicare, il sordo e monotono rumore della linea interrotta è l'unica cosa che giunge al suo orecchio.

 

 

(13) Xena e Olimpia

 

Ancora quel volto di donna, ma dolente, rigato di lacrime questa volta, che fluttua nel buio, una mano che si tende verso di lei, verso il  suo viso, i suoi capelli, vi immerge la dita. Labbra che si muovono appena, senza che alcun suono ne esca, come in una silenziosa preghiera. Poi

lentamente, quelle parole sembrano acquistare una dimensione sonora, un tono, un significato. La mano, che le sta accarezzando i capelli delicatamente, diviene solida, e al volto femminile se ne sovrappone un altro, e il mondo torna ad avere consistenza, facendola uscire da quello stato tra sonno e stordimento.

"Olimpia."

La ragazza apre gli occhi e nella scarsa luce intorno, scorge vicinissimo al suo, il viso della sua compagna, nei cui occhi la preoccupazione lascia immediatamente lo spazio al sollievo.

"Xena."

La guerriera le sorride continuando ad accarezzarle la testa e il viso.

"Sono qui. Tutto a posto? Come ti senti?"

Con uno sforzo non indifferente, Olimpia fa per sollevarsi, ma l'improvviso giramento di testa le consiglia di adagiarsi nuovamente sullo scarno giaciglio sul quale è distesa.

"Questa storia sta cominciando a diventare monotona." mormora, riprovando a tirarsi su questa volta con più cautela. "Che è successo questa volta? Dove siamo?"

Rassicurata sulle sue condizioni, Xena le si siede accanto guardandosi intorno. Il posto in cui si trovano per quel poco che si riesce a distinguere sembra una stanza con pareti di pietra, con una porta dall'aspetto molto solido e una piccola finestra con tanto di sbarre posizionata piuttosto in alto. Devono essere passate molte ore dalla loro aggressione a giudicare dalla poca luce che filtra dalla finestrella, e che chiaramente non è la luce del giorno pieno, ma quella assai più tenue che segue il tramonto.

"Sul dove siamo, non saprei che risponderti. Per quanto riguarda invece quello che è successo, direi che siamo state messe fuori combattimento. Con me hanno usato un dardo intinto in qualche droga soporifera che non sono riuscita a riconoscere." Poi la Principessa Guerriera rivolge nuovamente lo sguardo su di lei. "Tu che cosa ricordi?"

Olimpia si passa una mano sul viso, cercando di raccogliere le idee e focalizzando la memoria sugli ultimi istanti di coscienza, prima del buio.

"Aspetta! Eravamo nel bosco. Ci eravamo appena separate per quei rumori che si avvicinavano, quando... Non riesco a ricordare esattamente, ma...".

"Io ricordo che all'improvviso ho pensato a te." dice subito Xena, come se le parole le bruciassero sulle labbra. "Ero lì che aspettavo qualunque cosa stesse per uscire dal fogliame e d'un tratto ti ho vista, ti ho sentita nella mia mente come se tu fossi stata di fronte a me. Mi è parso perfino di sentire il tuo profumo." Gli occhi della guerriera si distolgono dal viso della compagna. "Ho fatto qualcosa che non avrei mai dovuto fare in un momento come quello. Avrebbe potuto costarci molto caro."

"Non è colpa tua." Ancora un po' a fatica, Olimpia si tira a sedere in una posizione più comoda per la schiena su quello che ormai ha riconosciuto come un pagliericcio. "Sono stata io. Ora ricordo. D'un tratto ho provato una paura terribile, un vero e proprio attacco di panico e istintivamente mi è venuto di pensare a te come se ti stessi inviando praticamente una richiesta di aiuto. Non avrei dovuto. Dovevo considerare il problema che questa accresciuta capacità poteva procurarci."

"D'accordo." dice Xena alzandosi e cominciando ad esaminare il luogo in cui si trovano. "Lasciamo stare per ora. Occupiamoci prima delle cose più importanti. Dove siamo, chi ci ha rapite e perché."

Cercando di ignorare la pesantezza alla testa, Olimpia si alza a sua volta e insieme le due donne iniziano ad esplorare la stanza. Come avevano giudicato, l'unica uscita, una porta di legno di quercia, spessa e pesante, non pare fornire appigli per cercare di aprirla o sfondarla. Spingendosi il più possibile sulla punta dei piedi, Xena riesce ad afferrare il bordo inferiore della finestra e ad arrivare con gli occhi al livello della piccola apertura. Il paesaggio che scorge all'esterno è formato da una fitta vegetazione che arriva a pochissima distanza dalla parete.

"Niente." dice rilassando i muscoli delle gambe e lasciando il suo precario punto d'osservazione. "Là fuori non si vede altro che alberi e cespugli."

"Allora siamo ancora nella foresta."

"Possibile. Ma a giudicare dalla luce, dovrebbe essere poco dopo il tramonto. Il che significa che dobbiamo aver dormito in pratica per tutto il giorno e non sappiamo in realtà per quanto si estenda questa foresta, quindi potremmo essere da qualunque parte."

Olimpia si avvicina alla compagna e le appoggia la mano sul braccio, immediatamente avvertendo sotto le dita quel calore così rassicurante, sentendo la guerriera rispondere al suo abbraccio e indovinando il sorriso che deve esserle spuntato sulle labbra.

"Abbiamo perso conoscenza per molto tempo." dice. "Che tipo di droga o altro può avere effetti del genere?"

La voce di Xena si concretizza in un debole alito caldo sulla sua fronte e Olimpia chiude gli occhi godendo di quel contatto.

"Ci sono alcune varietà di papavero che possono farlo, ma credo che nessuna tra quelle che conosco possa provocare una reazione simile, soprattutto vista la minima dose che può trovarsi sulla punta di un dardo."

"Con me non hanno usato un dardo. Mi pare di ricordare qualcosa premuto sulla bocca e di aver provato un'improvvisa mancanza di fiato. E che ne sarà stato delle nostre armi?" chiede Olimpia, guardando in basso, verso i foderi dei suoi sai, che pendono desolatamente vuoti  dagli stivali.

"Beh, non mi aspettavo certo che ce le lasciassero. Ma almeno mi pare di scorgere la nostra sacca laggiù." dice Xena, indicando un angolo della piccola cella, in cui è appena visibile una sagoma scura appoggiata ad una parete. "Una cosa comunque è certa. Chiunque ci abbia rapite non ci vuole morte. Non ancora almeno. Altrimenti quale migliore occasione per eliminarci di quando eravamo prive di sensi? Il che penso escluda Acros e la sua simpatica combriccola. Scommetto che se quell'uomo ci avesse avuto nelle mani mentre eravamo in quelle condizioni, ora vagheremmo nel regno delle ombre."

"Ma almeno saremmo insieme."

Xena sorride appena alle parole di Olimpia e per un attimo i loro sguardi venati di malinconia s'incontrano, poi le due donne si staccano, e ricominciano a guardarsi intorno, aiutandosi con la scarsa luce.

"E allora chi sono? E cosa vogliono da noi?"

"Se conoscessimo la risposta a queste domande avremmo fatto un bel passo avanti nella soluzione di questo mistero. Tuttavia i nostri enigmatici rapitori dovranno pur farsi vivi prima o poi."

Così dicendo, Xena si muove cautamente verso il punto più in ombra, al centro della stanza e un momento dopo la sua gamba urta i bordi di un tavolo. All'urto risponde nel buio lo sciacquio di un liquido di cui alcune gocce le cadono sulla mano prontamente tesa in avanti per mantenere l'equilibrio.

"Ecco la conferma a quanto dicevo." dice afferrando una brocca, ora perfettamente distinguibile nella penombra, e portandosela al naso. "I nostri amici ci hanno lasciato qualcosa per dissetarci al nostro risveglio. E non sento odore di droga. E' pura e semplice acqua."

Xena posa nuovamente la brocca sul tavolo, dove quasi per magia, ora sono visibili anche due piccole coppe.

"Meno male. Ho la bocca che sembra fatta di papiro seccato."

Con la vista ormai abituata alla semioscurità, Olimpia si avvicina al tavolo, solleva la brocca dell'acqua e fa per portarsela alle labbra, quando sente Xena afferrarle il braccio, e contemporaneamente la porta si apre con un sinistro cigolìo e la luce di una candela si propaga nella stanza, disegnando sulla soglia la sagoma indistinta di un uomo.

La mano di Xena corre, in un riflesso condizionato, dietro la sua schiena alla ricerca dell'impugnatura di una spada che non c'è, mentre altrettanto istintivamente, Olimpia fa per chinarsi ad afferrare i sai, prima di ricordare di non averli più.

Poi la fiamma della candela si alza e i tratti del viso del nuovo arrivato appaiono, anche se lievemente distorti dai riflessi arancioni e dalle ombre provocate dalla luce fluttuante che rendono a tutta prima difficile dargli una fisionomia precisa. Il volto che in quel momento è fisso su di loro sembra giovanile, incorniciato da una barba folta ma curata. Alto, coperto da abiti da contadino che, stranamente, nonostante il corpo robusto e ben piantato che s'intravede sotto, non paiono adattarglisi, l'uomo resta immobile per qualche istante, come cercando di discernere bene nel buio della stanza le figure delle due donne, poi le sue labbra si distendono in un sorriso.

"Vieni, padre." dice a voce alta a qualcuno che si trova evidentemente dietro di lui. "Avevo sentito bene. Si sono svegliate."

Dopo qualche momento, un'altra figura, quella di un uomo anziano e curvo, si delinea a fianco del primo. Stranamente la luce della candela non pare sufficiente ad illuminare anche il suo viso, seminascosto da un pesante cappuccio che ne copre la parte superiore. Il vecchio resta sulla soglia, senza parlare, con la testa rivolta verso le due donne di fronte a lui, come se nonostante il cappuccio che gli nasconde  completamente gli occhi riuscisse a vederle ugualmente, mentre l'uomo più giovane si avvicina a loro, continuando a sorridere.

"Salute a voi. Sono lieto che vi siate riprese e che il piccolo espediente a cui abbiamo dovuto ricorrere non vi abbia causato alcun fastidio."

Olimpia è la prima a rilassare la sua postura, pur senza ricambiare il sorriso.

"Alcun fastidio? Ho la testa che sembra un macigno."

"Mi dispiace." dice l'uomo rivolgendole uno sguardo apprezzativo. "Ma è solo un effetto collaterale minore. Passerà in poco tempo."

"Chi siete? E perché ci avete rapite?" La voce di Xena ha assunto quel suo solito tono gelido e duro, che dice chiaramente quanto non sia per niente disposta a lasciarsi irretire da quell'atteggiamento conciliante. L'uomo torna a fissare gli occhi su di lei e il sorriso lascia il posto ad un'espressione seria e preoccupata.

"E' stato necessario. Non c'era tempo per fare altrimenti. Lui stava arrivando."

"Lui? Lui chi? E dove sono le nostre armi?"

"Conduci le nostre ospiti di là, Alexi." Per la prima volta, l'uomo anziano fa udire la sua voce che, in contrapposizione all'aspetto fragile e cadente, risuona forte e risoluta nella piccola stanza. "Parleremo meglio."

Senza aggiungere altro, il vecchio si gira lentamente e scompare oltre la soglia, mentre il giovane si fa da parte, invitando con un gesto le due donne a seguirli.

 

"Spero che adesso, vogliate spiegarci cosa significa questa storia."

Xena e Olimpia sono tornate in possesso delle loro armi e con un moto di soddisfazione, la guerriera si lascia scivolare la spada nel fodero che le pende sulla schiena, mentre la sua compagna con un rapido scatto dei polsi reinserisce i due sai nelle fondine degli stivali. Quindi le due donne si dispongono una accanto all'altra, a braccia conserte, in attesa che la loro domanda trovi una risposta.

Il vecchio si è lentamente e faticosamente accomodato su una sedia ampia a schienale alto che ha evidentemente conosciuto tempi migliori, quando dalle imbottiture strappate in più punti ancora non spuntava il contenuto. L'intera stanza in realtà pare intonata, con un arredamento in disfacimento e pareti di pietra da cui filtra umidità che mantiene la temperatura all'interno costantemente fredda. Certo non un ambiente adatto ad una persona di quell'età. Dietro di lui, in piedi immobile, sta il giovane con atteggiamento protettivo sull'uomo che ha chiamato padre ed è lui che risponde alla domanda.

"Ci dispiace sinceramente, ma come vi ho detto, non avevamo scelta. Le armi ve le abbiamo tolte solo per evitare che al momento del risveglio poteste lasciarvi tentare dall'usarle."

"Ma ora ce le avete restituite. Cosa vi fa credere che non potremmo usarle adesso?"

"Perché io so tutto di voi, Xena di Amphipoli e Olimpia di Potidea."

La voce del vecchio di nuovo echeggia potente  e le due compagne quasi sobbalzano all'improvviso tono imperioso che giunge dalla figura raggomitolata sulla sedia di fronte a loro, col volto ancora parzialmente nascosto dal cappuccio. E proprio in quel momento, l'uomo solleva il lembo che gli copre gli occhi rivelando al loro posto palpebre incavate e ricucite tra loro in modo rudimentale su orbite che non devono più contenere globi oculari ormai da molto tempo.

Quella visione improvvisa, fa spalancare gli occhi ad Olimpia, che stringe le labbra, resistendo disperatamente al desiderio di distogliere lo sguardo, ma non lascia indifferente neanche Xena che questa volta stenta a contenere la sorpresa.

"Non ho bisogno di vedere i vostri visi per sapere che espressione hanno in questo momento. Orrore, ribrezzo. Eppure tu, Xena, Principessa Guerriera" e così dicendo il vecchio si volta verso di lei come se davvero potesse vederla "nonostante tu abbia ancora l'aspetto di una giovane donna, hai sperimentato ben altri orrori nella tua già lunghissima esistenza. E molti di essi li hai provocati con le tue stesse mani."

A quelle parole, Olimpia, quasi a protezione della compagna, fa un passo avanti mettendosi tra Xena, che sembra come paralizzata da quel tono duro e accusatorio, e il vecchio in poltrona.

"Se davvero la conosci, allora devi anche sapere che è cambiata. La donna di cui parli non esiste più."

Lo sguardo del vecchio lentamente si sposta su di lei, e Olimpia è gelata dal pensiero, perché non può esservi alcuno sguardo da quelle palpebre chiuse, sigillate al punto ormai da dover probabilmente intervenire con una lama per riaprirle. Ma la sensazione è esattamente questa, quella di sentirsi perforare da occhi penetranti e indagatori che la scrutano come nessun occhio umano potrebbe mai fare.

"Ti sbagli, Olimpia di Potidea. Quella donna esiste ancora nel profondo dell'anima dell'amica che così tanto ami, della quale hai condiviso la vita e più di una volta la morte, e alla cui esistenza ti sei legata indissolubilmente nel sacro rito amazzone del congiungimento."

Davanti a quella voce vibrante e decisa, la ragazza arretra tornando accanto a Xena che non si è mossa, rimanendo silenziosa alle parole del vecchio.

"Le nostre vite e il nostro passato non hanno niente a che fare con ciò che succede qui e con voi due." dice.

"Sbagli ancora, bardo. E' il vostro stesso passato ad avervi condotte qui. Tutto ciò che accade, accade per un preciso intendimento, anche se spesso sfugge alle nostre misere e inadeguate menti."

Il tono del vecchio non si alza, ma in qualche modo pare che la sua voce rimbombi nella piccola stanza come se stesse urlando.

"D'accordo, vecchio." Come scuotendosi dalla sua immobilità, Xena si fa avanti poggiando le mani sul tavolo davanti alla poltrona dell'uomo e sporgendosi verso di lui. "Smettiamola con gli indovinelli. Ora dicci chi siete e perché ci avete narcotizzate e rapite."

Questa volta il vecchio non parla ed è il giovane, in piedi dietro di lui, a prendere la parola.

"Il mio nome è Alexi e questo venerando anziano è mio padre e mentore, Aristis. Ancora una volta vi esprimo tutto il mio rammarico per essere stato costretto ad usare la forza contro di voi, ma non avevo altra scelta."

"Vuoi dire che sei stato tu a catturarci? Da solo?" Xena lo fissa sorpresa, e il viso del giovane assume un colorito più accentuato.

"Beh, sì, è così. Ma devo ammettere che comunque non è stato facile. Soprattutto con te, guerriera. La tua forza di concentrazione è notevole ed è stato difficile aggirarla."

"Oh" s'inserisce Olimpia, un po' piccata "mentre invece con me è stato un gioco da ragazzi, eh?"

Alexi non può reprimere un sorriso al tono indispettito della ragazza.

"Non prendertela, Olimpia, ma la tua natura solare e la tua fervida immaginazione, mi hanno facilitato non poco l'accesso." dice.

"Vuoi dire che in qualche modo hai influito sulle nostre menti?"

"Mi sono servito della tua paura e l'ho lievemente alimentata. Sapevo che tramite il vostro legame psichico sarei arrivato anche a Xena."

Olimpia rammenta all'improvviso quel senso di terrore che aveva provato e come era stato facile aggrapparsi al pensiero di Xena per sopirlo, e immediatamente un velo di avvilimento scende sul suo sguardo.

"Non devi fartene una colpa, Olimpia." prosegue Alexi. "Non potevi farne a meno. Il tuo pensiero è sempre collegato a Xena. La vostra unione, secondo il rituale amazzone, ha un effetto enorme su due anime gemelle come voi. Esso vi ha legate in modi che neanche sospettate ancora. Nemmeno le stesse forze del male che hanno tentato di neutralizzarvi, mandandovi in un'altra dimensione, in altri corpi, sono riuscite a tenervi separate. Anzi, loro stesse senza saperlo sono divenute parte del disegno."

"Taci, Alexi!" La voce del vecchio tuona improvvisamente e ancora una volta, Xena e Olimpia si chiedono come da un corpo misero ed emaciato come il suo possa emanare una tale forza. "Sono stati dunque vani questi lunghi anni d'insegnamento? Niente deve essere detto più di quanto sia strettamente necessario! Ritirati!"

"Ma padre..." L'espressione di costernazione sul viso del giovane risalta perfino nella scarsa illuminazione della stanza.

"Ritirati, ho detto! Vai a controllare che la stia sia ben chiusa e domani mattina presto devi alzarti a dare da mangiare alle bestie."

Abbassando la testa, Alexi fa per voltarsi e uscire, quando un pugno battuto con violenza sul tavolo fa sobbalzare tutti.

"Ora basta!! Nessuno uscirà da questa stanza senza averci dato prima le risposte che vogliamo." Gli occhi cerulei della Principessa Guerriera sembrano sprizzare fiamme di gelo intorno."Tu!" e il suo dito si punta su Alexi che è rimasto immobile con un piede dentro e uno fuori dalla porta. "Torna immediatamente qui! Voglio delle risposte e le voglio subito! E vi consiglio di fare come dico perché se mi conoscete tanto bene, saprete anche che ho molti sistemi per costringervi a parlare!"

Istintivamente Olimpia che è rimasta sorpresa dall'improvvisa reazione della compagna, le posa una mano sulla spalla nel tentativo di calmarla. E in quel momento è come se la folgore attraversasse il corpo di Xena, mentre la guerriera si abbatte all'indietro con un urlo e contemporaneamente, una fitta fortissima attraversa il cranio di Olimpia come se l'asta di una freccia lo avesse trapassato da parte a parte e una serie d'immagini e sensazioni le scorrono velocissime davanti agli occhi e nella sua stessa carne.

Sente la gamba frantumarsi sotto l'azione di un violentissimo colpo di maglio...

Vola per la stanza mentre un tronco di enormi proporzioni la colpisce al petto, spezzandole ogni costola e schiacciandole i polmoni...

Il suo corpo avviluppato da corde e catene è immobilizzato, braccia e gambe tese allo spasimo, fino quasi a spezzarsi e centinaia di punte acuminate le scavano la pelle...

Nugoli di frecce la trafiggono in ogni parte...

Il freddo acciaio di una lunga lama pone fine al dolore con un sibilo secco, colorando il buio di rosso...

Poi, improvvisamente come è arrivato, il caos che l'ha travolta svanisce e Olimpia si ritrova distesa sul pavimento, con la mente confusa ma nessuna traccia delle sofferenze lancinanti che fino a pochi istanti prima le martoriavano il corpo. Il suo respiro è corto e subito i suoi occhi corrono alla compagna, che si sta rialzando faticosamente a pochi passi da lei, poi seguendo la direzione del suo sguardo, si posano sulla figura del vecchio che ora giace abbandonata sulla poltrona, e solo in quel momento il suo cervello registra la voce angosciata di Alexi, mentre questi cerca di trattenere il corpo dell'uomo anziano dallo scivolare al suolo.

"Padre! Padre! Rispondimi!"

 

 

 

 

(14) "The Ogre"

 

"Vai!"

Il pesante cassonetto agganciato al congegno idraulico comincia a sollevarsi lentamente verso il macina rifiuti in attesa di ingoiarne il contenuto. Il conducente del camion dalla cabina di guida sorveglia che la manovra avvenga correttamente. D'improvviso, uno dei due ganci cede di schianto e il cassonetto si rovescia da un lato precipitando al suolo e vomitando intorno sacchi di spazzatura non chiusi e rifiuti organici.

"Maledizione!" urla l'addetto al carico, spostandosi con un balzo laterale un attimo prima che la maleodorante valanga lo seppellisca.

"Che accidenti combini là dietro?" gli grida la voce del conducente, che udito il fracasso ha immediatamente interrotto la manovra ed è sceso di cabina per accertarsi dell'accaduto.

Il suo collega sta fissando con aria avvilita il cassonetto rovesciato in terra con tutto il suo contenuto sparso intorno.

"Oh, porco..." sibila tra i denti. "E adesso quanto ci vorrà per rimettere a posto questo casino?!"

"Lascia perdere. Piuttosto, stai bene?"

"Sì, l'ho evitato per un pelo."

"Ma che è successo?"

"E che ne so? Forse il gancio era rotto."

"O forse non l'hai fissato bene tu. D'accordo. Inutile stare a discutere. Diamoci da fare a sistemare questo disastro e poi rispostiamo il cassonetto sul bordo della strada. E sta' attento a quello che tocchi."

"Già, adesso non ci mancherebbe altro che una siringa infetta."

Sacramentando a bassa voce i due uomini cominciano a raccogliere con cautela sacchi di plastica pieni fino all'orlo, da cui fuoriescono in continuazione altri rifiuti e miasmi nauseabondi di alimenti andati a male.

"Cazzo. Aspetta, vado a prendere le mascherine, prima di aggiungere a questo merdaio anche la mia colazione di stamattina." dice il conducente, dirigendosi verso la cabina di guida. "Ma proprio il cassonetto dietro un ristorante messicano dovevi rovesciare?"

"La prossima volta mi farò cascare addosso quello di Ives st. Laurent, per farti piacere."

"Sarebbe un'idea. Almeno ti toglieresti quella puzza di..."

"EHI! E questo che cavolo è?"

Con una mano ancora sulla maniglia della portiera del camion, il conducente si volta all'improvvisa esclamazione del collega, e si volta verso di lui.

"Cosa? Di che stai parlando?"

Ma la domanda gli muore in gola, quando vede il volto dell'altro diventato di un pallore impressionante, mentre fissa ad occhi spalancati il contenuto di un sacco grigio che stringe tra le mani visibilmente tremanti. Poi, l'uomo lascia il sacco e schizza all'indietro come se fosse stato morso da un serpente.

"Ma che ti prende, oggi?" comincia a dire il conducente avvicinandosi, prima che il suo sguardo si posi sul sacco che adesso si trova proprio ai suoi piedi. E' un sacco uguale a tanti altri, del solito anonimo colore grigio con un allegro fiocco giallo che doveva essere annodato in cima e si era evidentemente sciolto al momento della caduta dal cassonetto. Dall'apertura spunta qualcosa di bianco ed allungato con un leggero rigonfiamento ad un'estremità. I due uomini restano per qualche attimo immobili a fissarlo come ipnotizzati. Poi, il conducente si scuote con una risatina.

"Ma andiamo, che cazzo vuoi che sia? Siamo sul retro di un ristorante, no? Sono ossa di pollo o di coniglio, o roba del genere. Prendilo e buttalo nella macina."

"Prendilo tu."

L'uomo si è allontanato di buoni tre o quattro passi e continua a fissare il sacco sempre più pallido.

"Insomma, si può sapere che ti succede? Sei ubriaco già a quest'ora?"

Cercando di evitare di mostrare al collega il tremito alle mani che ha preso anche a lui, il conducente si china e tende il braccio verso il sacco con una leggera esitazione, poi, sbuffando, lo afferra e si appresta a gettarlo nel macina rifiuti, quando lo sguardo gli cade per una frazione di secondo all'interno. Occhi e bocca si spalancano e l'involto grigio gli scivola dalle mani finendo nuovamente al suolo e spargendo, questa volta completamente, il suo contenuto tutto intono.

"Cristo!"

"Oh, merda!"

Le due imprecazioni risuonano quasi contemporaneamente nella strada fattasi improvvisamente silenziosa, mentre frammenti di teschi ed ossa umane di proporzioni minuscole, rotolano sul terreno spargendosi intorno con un orrido picchiettio.

 

(2 - continua)





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