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"Nè
demoni o Dei" ROMANZO DI A. SCAGLIONI (Capitolo
I) Parte
1
(11) Xena e Olimpia Appena superate le prime
file di alberi, Xena e Olimpia rallentano la corsa e si guardano
alle spalle. In lontananza sembra ancora di udire le urla provenienti
dalla locanda, ma niente lascia pensare che le due donne siano state
inseguite. Col respiro solo lievemente accellerato, Olimpia si ferma
appoggiandosi ad un albero, mentre Xena, a pochi passi da lei, si
lascia cadere a terra seduta su una radice sporgente di una grossa
quercia, posando accanto a sé la sacca. "Accidenti. Comincio
ad essere troppo vecchia per queste cose." dice con un affanno
maggiore. "Già. E la prossima
volta che decidi di fare una cosa del genere che ne diresti di avvisarmi
prima? Basterebbe una strizzatina d'occhi o un colpetto col gomito." "Non c'era tempo.
Non volevo che capissero le mie intenzioni. Mi sono fidata della
tua capacità di intendermi al volo." risponde la guerriera,
lanciandole uno sguardo sorridente. "E direi che ha funzionato." "L'ho capito solo
all'ultimissimo momento. Appena in tempo per raccogliermi addosso
a te prima di rompermi la
testa o una gamba contro i bordi della finestra. Quella faccenda
di collegamenti tra anime gemelle va perfezionata." "Storie. Sei andata
benissimo." Xena si alza dal suo
sedile improvvisato e scruta nell'oscurità della vegetazione sopra
e intorno a loro. Nonostante il sole cominci ormai ad essere alto
nel cielo solo pochi raggi riescono a filtrare attraverso il fitto
intrico di rami e foglie. "Non mi pare che
ci abbiano inseguite." dice Olimpia, andandole accanto e cercando
anche lei di scorgere qualcosa tra gli alberi. "Direi di no. E
mi chiedo il perché." "E Argo? E' rimasta
nella stalla. Non le faranno del male, vero?" chiede Olimpia,
guardandola preoccupata. "Non credo. E'
più probabile che qualcuno se ne impossessi. E' una bestia troppo
bella per non approfittarne. Beh," conclude la guerriera, con
aria decisa "tanto torneremo presto a prenderla." "Xena, perché non
li abbiamo affrontati? Erano solo..." comincia a chiedere Olimpia,
per poi fermarsi improvvisamente. "Ah, lascia perdere. Non
dirmelo. Erano contadini, non guerrieri e avremmo finito per ferire
qualcuno o peggio." "Visto?" dice
Xena, dandole una leggera pacca sulla spalla. "Te l'ho detto
che mi capisci al volo. Sai, all'inizio forse non riuscivo a crederci
sul serio, ma quella cerimonia amazzone sembra davvero aver raffinato
la nostra intesa." Olimpia le lancia un
rapido sguardo in tralice. "Quanto ci vorrà
prima che riusciamo semplicemente a leggerci nel pensiero?"
chiede con un leggero tono ironico nella voce. "Adesso non esagerare."
risponde Xena, guardandola perplessa. "Non credo che arrivi
fin là." "Perché porre limiti
agli arcani disegni del destino?" "E piantala, bardo!"
dice la guerriera, tirandole un colpettino nel braccio. "Non
voglio che tu mi legga nel pensiero." "Ohoh, abbiamo
dei segreti adesso? Ti avviso che non possono esserci segreti tra
una regina amazzone e la sua consorte, e..." Ma la mano di Xena pone
improvvisamente fine allo scambio di battute scherzose tra le due,
posandosi sulla bocca di Olimpia. "Shhh." La ragazza la guarda
sorpresa e quando la mano le viene tolta dalle labbra, tace guardandosi
intorno e cercando di individuare cosa possa aver allarmato la compagna. "Che c'è?"
chiede alla fine con una voce appena udibile. "C'è qualcuno che
sta venendo in questa direzione." risponde l'altra con tono
di voce ancora più basso, ma in qualche modo perfettamente percepibile
per lei. E immediatamente, l'amazzone
e la guerriera si acquattano all'unisono, scomparendo dietro i cespugli.
Nel silenzio totale
che d'un tratto sembra regnare sulla foresta, Olimpia chiude gli
occhi e cerca di accedere a quel livello interiore in grado di percepire
suoni e rumori così lievi da sfuggire all'orecchio più acuto, come
le ha insegnato Xena. Da principio non ode
nulla, al di fuori del leggero fruscìo delle foglie degli alberi
che si muovono appena sotto l'azione della brezza e del gocciolìo
residuo di pioggia che cade dai rami sul terreno e sui cespugli.
Poi lentamente, mentre la sua concentrazione giunge al massimo,
un rumore comincia a staccarsi dall'uniforme concerto di
piccoli suoni che la circonda, precisandosi e permettendole
una vaga individuazione. Il rumore sembra provenire
dal punto più folto della vegetazione. Olimpia cerca con un
ulteriore sforzo di distinguere ancor più nettamente il genere di
suono che le sta arrivando. Un fruscìo di foglie, interrotto a pause
regolari, come il passo strascicato, stanco di un vecchio, inframmezzato
però da qualcos'altro, un altro rumore non altrettanto facilmente
identificabile. Uno schiocco secco, come frustate nell'aria. Olimpia riapre gli occhi
e volge lo sguardo verso Xena, che a pochi passi da lei, appare
immobile e concentrata sul punto tra gli alberi da cui paiono provenire
i rumori. Sentendosi fissare dalla compagna, Xena allunga un braccio
per indicarle di restare in silenzio e torna a puntare tutta la
sua attenzione verso la vegetazione di fronte a loro. Seguendo lo
sguardo della guerriera, anche Olimpia ricomincia a fissare gli
alberi che uno accanto all'altro formano una quasi impenetrabile
barriera alla vista. Improvvisamente i rami
di alcune piante iniziano a scuotersi e a vibrare come mossi da
una mano invisibile, e gli occhi di Olimpia si spalancano nella
comprensione. Quel rumore secco che
non riusciva ad individuare, era il tipico rumore prodotto da un
ramo piegato e poi lasciato andare all'improvviso all'indietro,
come quando si cerca di farsi strada tra i rami bassi degli alberi.
Ma quegli alberi non avevano rami bassi, a quel che lei poteva giudicare.
Dal suo punto di vista, i rami più vicini al suolo si trovavano
almeno a sette, o anche otto cubiti da terra. E se la persona (l'essere?) che
strascicava i piedi sul letto di foglie era la stessa che spostava
i rami, a chi o cosa si sarebbero trovate di fronte, non appena
l'ultima barriera di vegetazione fosse stata superata? Con lo sguardo, quasi
ipnotizzato sul debole movimento di foglie, ancora ad una certa
distanza da loro, Olimpia fa istintivamente un paio di passi verso
la compagna e le posa la mano sul braccio, avvertendo subito la
tensione nei muscoli di lei, ma con quella strana, inquietante capacità
che si è stabilita tra loro, anche una sottile eppure potente corrente
di calore che si comunica alla sua mente e al suo corpo lenendo
la sensazione di paura che l'ha improvvisamente invasa. La mano
di Xena si posa sulla sua stringendola per un breve attimo. Poi
la guerriera estrae silenziosamente la spada dal fodero e lentamente
comincia a spostarsi alla sua sinistra, indicando ad Olimpia la
direzione opposta. Per un attimo, la ragazza la guarda interrogativamente,
poi capisce. Qualunque cosa stia
avanzando verso di loro, sembra seguire una linea retta che conduce
proprio al punto dove si trovano nascoste. Spostandosi di fianco,
una a sinistra, l'altra a destra, otterranno il doppio scopo di
togliersi dalla strada dell'individuo, chiunque sia, che sta sopraggiungendo,
e al tempo stesso di prenderlo tra due fuochi, in caso di necessità.
Con un rapido cenno della testa, Olimpia conferma a Xena di aver
capito le sue intenzioni e sempre silenziosamente si muove nella
direzione indicata. . Il tempo sembra fermarsi,
mentre le due donne restano immobili ai due lati dello stretto sentiero
in cui da un momento all'altro potrebbe spuntare la misteriosa ed
inquietante fonte dei sinistri rumori che si avvicinano sempre di
più tra la folta vegetazione nell'oscurità di una foresta che forse
l'immaginazione crea più buia di quel che dovrebbe, visti i raggi
di un limpido sole che tentano di farsi strada attraverso lo stretto
intrico di rami sopra le loro teste. La mano di Olimpia è
talmente contratta intorno all'impugnatura di uno dei suoi sai
da darle quasi l'impressione che non le appartenga più, e per quanto
la ragazza vorrebbe allentare la presa e far tornare la circolazione
nelle dita, tutto il suo corpo sembra in preda ad una paralisi.
Le pare di avvertire distintamente la peluria sul collo drizzarsi
come se fosse in presenza di un pericolo gravissimo e imminente,
e i suoi pensieri che vagano disordinatamente tra le spiacevoli
sensazioni fisiche e gli ancor più spiacevoli presentimenti che
le si affacciano alla mente, tutti vaghi ed indefiniti e per questo
ancora più spaventosi, cercano qualcosa di solido a cui aggrapparsi.
Dal punto in cui si
trova, non può vedere Xena, che sa essere nascosta a circa dieci
passi da lei dietro i cespugli sul bordo opposto del sentiero, ma
appena il suo pensiero si fissa sull'immagine della compagna, immediatamente
una confortante sensazione di sicurezza e completezza l'invade disperdendo
le paure e i cattivi presagi che la stavano soffocando. "Ti amo." Le parole si formano
autonomamente sulle labbra e ne escono come in un soffio, a cui
un'eco pare rispondere nella sua mente (Ti amo anch'io)
lasciandola per un attimo
interdetta, indecisa se l'abbia davvero udita o se sia frutto solamente
della sua immaginazione, incantata dall'idea che quella possa davvero
essere una prova che Xena abbia avvertito realmente il suo pensiero.
Istintivamente un sorriso le si disegna sul volto e contemporaneamente
le sue dita si rilassano sull'elsa del pugnale, mentre tutta la
sua persona si scuote dall'irrigidimento che l'aveva posseduta.
Olimpia fissa nuovamente
lo sguardo sugli alberi di fronte a lei e solo in quell'attimo,
quando una mano spunta da dietro sue spalle e le preme qualcosa
sul viso impedendole di respirare, realizza di aver commesso un
errore forse fatale. No! Non è possibile!
Non di nuovo! E' l'ultimo pensiero
cosciente che l'attraversa prima di crollare all'indietro tra quelle
braccia sconosciute.
Subito dopo aver visto
Olimpia allontanarsi e sparire dietro un grosso cespuglio sull'altro
lato del sentiero, in modo tale che se non avesse saputo che c'era,
neanche lei sarebbe stata in grado di individuarla (Brava ragazza! Sei
un fenomeno, piccola. Dovrei dirtelo più spesso.)
Xena si era appostata a sua volta dietro un albero a ridosso di
una fila di altri cespugli che le forniva un ottimo punto di osservazione
sulla fitta schiera di alberi sul fondo della piccola radura che
si apriva alla fine del sentierino. Spada in pugno e con la mano
libera posata leggermente sulla lama del chakram
si era messa ad aspettare. Il rumore che, all'inizio
appena distinguibile, l'aveva allarmata si era andato progressivamente
avvicinando. Con i sensi tesi a cercare di sondarlo il più possibile,
Xena era entrata in quella specie di zona interiore in cui, per
istinto ormai addestrato da lunghi anni, il suo cervello concentrava
ogni sforzo sull'obiettivo, selezionando e scartando uno dopo l'altro
tutti gli altri rumori, suoni o immagini che rischiavano di disturbare
o di alterare il punto focale della sua ricerca. Il rumore, adesso, proveniva
da immediatamente dietro l'ultima fila di alberi che separavano
il folto della foresta dalla radura. Acuendo la vista, nonostante
l'oscurità, si percepivano perfettamente le scosse a cui erano sottoposti
i rami degli alberi. Rami troppo alti per essere d'ostacolo ad un
normale essere umano. Chiunque ci fosse dietro gli alberi non poteva
essere normale, né umano. Un gigante? La razza
si era ormai quasi estinta e dei pochi superstiti, che lei sapesse,
nessuno abitava in quelle zone. Un ciclope? Erano i protetti e favoriti
di Nettuno, ma dalla morte del Dio del mare si erano dispersi e
anche se niente escludeva che qualcuno, sopravvissuto, potesse essersi
spinto fino là, Xena non riusciva a credere che potesse essersi
allontanto così tanto dalle coste che loro prediligevano. E anche
se si fosse trattato di un semplice animale, quale bestia poteva
arrivare a quell'altezza? Un orso, forse. Ma gli orsi si ergono
in tutta la loro statura solo in caso di pericolo, altrimenti preferiscono
muoversi a quattro zampe. E inoltre a quella ridotta distanza il
suo sensibilissimo odorato avrebbe già individuato con certezza
il plantigrado. No, l'odore ancora debole che cominciava ad avvertire
aveva sicuramente qualcosa di selvatico, ma non assomigliava a niente
che avesse sentito prima. Tesa a raccogliere ogni
minimo indizio attraverso i suoi sensi, Xena resta quasi sorpresa
dall'improvvisa sensazione che l'assale. Un'ondata di calore sembra
avvolgerla tutta, mentre i suoi sensi già sovreccitati le rimandano
l'impressione quasi fisica di un abbraccio e il suo cuore e la sua
mente si spalancano ad accogliere anche in quel momento quelle emozioni
che invariabilmente risvegliano in lei. Nonostante siano mesi
ormai che lei e Olimpia si sono ritrovate, questa specie di filo
emotivo che le collega la lascia ancora senza fiato. Capacità latenti
da sempre esistite ed esaltate in modo misterioso dallo scambio
di sangue nel corso della cerimonia amazzone del congiungimento
che, durante il lungo periodo in cui erano state separate e di cui
non riuscivano a ricordare niente, non erano rimaste soltanto inalterate
ma parevano addirittura ulteriormente migliorate, e che sospettava
fossero la ragione principale per cui erano riuscite a ritrovarsi.
Le parole le si disegnano
nella mente con accecante chiarezza (Ti amo) riempiendole l'anima
di una luce così intensa da stordirla per un attimo. Cercando di
riprendere possesso delle proprie facoltà, Xena, senza pensarci,
invia verso Olimpia attraverso lo stesso canale la sua risposta,
che trova espressione fisica in un appena visibile muoversi di labbra. "Ti amo anch'io." Quei pensieri sembrano
restare per alcuni istanti sospesi nell'aria come un invisibile
arcobaleno teso tra le loro due sorgenti, poi d'improvviso la sensazione si spegne, come una torcia immersa
in una pozza d'acqua, e i sensi di Xena si riacutizzano al mondo
che la circonda. Il contraccolpo è talmente
forte che la guerriera traballa come se repentinamente privata di
un sostegno e istintivamente deve appoggiarsi al tronco d'albero
vicino a lei per non cadere, mentre un subitaneo terrore l'assale. OLIMPIA!! Le sua bocca non emette
un fiato, ma quel nome le risuona nella mente quanto e più di un
urlo, un istante prima che una fitta sul collo la riporti pienamente
in sé. Ma è una pausa brevissima. Appena sufficiente ad avvertire
sotto le dita il soffice piumaggio di un minuscolo dardo, prima
che la guerriera si abbatta al suolo priva di conoscenza.
(12) Jennifer
e Carruthers
La mano si tende verso
il suo viso e Jennifer l'afferra portandosela alle labbra. "Io ti amo, Joyce.
Mi sono innamorata di te dal primo momento in cui ti ho vista. Ora
me ne rendo conto. Che stupida sono stata." Il volto dietro la mano,
rimasto in penombra fino a quel momento si avvicina e la luce lo
illumina mostrando i tratti delicati e bellissimi della ragazza.
I suoi occhi le sorridono e le labbra si aprono, ma nessun suono
ne esce e d'improvviso, in un
lampo, l'immagine scompare e Jennifer si ritrova sola a fissare
il buio della sua stanza. Appena si rende conto
della realtà intorno a lei, un singhiozzo strozzato le preme alla
gola e lacrime brucianti cominciano a scorrerle lungo le guance.
Per qualche minuto gli ansiti e i singhiozzi della donna sono gli
unici suoni udibili nel silenzio, poi con uno sforzo di volontà,
Jennifer si alza e passandosi una mano tra i capelli lasciati crescere
in quei mesi fino a caderle ora fluenti sulle spalle, si avvicina
al grande mobile a specchio che troneggia alla parete opposta della
stanza. Accendendo la lampada al lato, una luce tenue si diffonde
nell'ambiente, e lei si china verso la sua immagine riflessa. Sotto
gli occhi umidi e arrossati dal pianto, scorge ombre scure accentuate
dal pallore su un viso ancora nonostante tutto giovane e bello. Non posso continuare
così. Devo darmi pace o finirò per impazzire davvero. Con passo strascicato,
Jennifer si allontana dallo specchio, dirigendosi verso la porta
della stanza. Appena fuori, la luce violenta che filtra dalle tende
del salotto le fa sbattere gli occhi un attimo, prima che la vista
si abitui al contrasto con il buio della sua camera da letto. Il
grande orologio a parete in cucina le conferma l'impressione: le
nove e venti. Ormai da molto tempo
aveva abbandonato la sua vecchia abitudine di svegliarsi prestissimo.
Nei giorni seguenti alla morte di Joyce, non trovava nemmeno la
forza di alzarsi dal letto. La sveglia che continuava quasi automaticamente
a puntare per il mattino, in ossequio ai tempi in cui alle sette
era già in piedi e vestita, ansiosa di recarsi al lavoro ed affrontare
una nuova giornata e che ora sembravano appartenere ad un'altra
vita, lanciava invano il suo beep elettronico per lunghi
minuti, prima di esaurirsi nel suo inutile sforzo, finché aveva
smesso di farlo. Solo col trascorrere delle settimane, era riuscita
infine a raccogliere un po' di forze per proseguire una vita che
ormai era pura e semplice sopravvivenza, pallido fantasma della
donna viva e vitale che era stata. Con un sospiro, Jennifer
si lascia cadere sulla poltrona che aveva abbandonato solo poche
ore prima, stordita e confusa nel dormiveglia, e pesta il piede
sul giornale spiegazzato, finito a terra la sera prima dopo un inutile
quanto patetico tentativo di illudersi di provare ancora qualche
interesse nei fatti della vita. Con mano malferma, raccoglie le
pagine affastellate disordinatamente una sull'altra e le posa sul
tavolino accanto. L'occhio le cade distrattamente su un titolo a
due colonne in un angolo, ma riesce solo, con la vista ancora appannata
dal sonno, a distinguere la parola
OGRE
senza comprenderne completamente
il significato. Poi, prima che possa soffermarcisi col pensiero,
lo squillo del telefono interrompe quel confuso caos nella sua mente. Per un po' resta a guardare
il piccolo cellulare posato sul tavolino senza quasi ricordare come
il giorno prima fosse all'improvviso rispuntato dal fondo di una
sacca da viaggio. Ora lentamente le memorie si ricongiungono tra
loro e ricorda che lo aveva fissato indecisa se gettarlo nella spazzatura,
poi un piccolo segnale lampeggiante le aveva rivelato come incredibilmente
quell'apparecchietto fosse ancora funzionante a distanza di... quanto?
Quand'era stata l'ultima volta che ricordava di averlo visto? E
non solo, ma come aveva immaginato la segreteria era piena di messaggi.
Senza neanche rifletterci per un secondo, Jennifer aveva subito
premuto il tasto di cancellazione e posato il cellulare là dove
adesso stava squillando. Solo che non ricordava assolutamente di
averlo riacceso. Finalmente, la donna allunga la mano e lo solleva
portandoselo all'orecchio. "Pronto?" "Rowles. Come stai?" La voce è distante ma
ha un suono familiare e reca con sé echi dolorose. "Ti prego, Carruthers,
lasciami in pace." Dall'altra parte le
ultime parole di Jennifer sembrano più lontane come se questa stesse
già allontanando il cellulare dall'orecchio e si apprestasse a spegnerlo,
perciò il poliziotto alza la voce nell'estremo tentativo di farsi
udire. "No! Aspetta Rowles,
per favore. Dammi un minuto." Silenzio prolungato,
e Carruthers già teme che Jennifer abbia interrotto, ma un attimo
dopo con sollievo avverte una specie di sospiro seguito dalla voce
stanca della donna. "Cosa vuoi?" "Rowles, ascolta,
lo so cosa pensi di me..." "No. No, Carruthers,
credimi, tu non hai idea di cosa io pensi di te. Altrimenti non
avresti mai neanche lontanamente osato chiamarmi." Questa volta tocca all'uomo,
restare per qualche attimo di troppo in silenzio cercando di mandare
giù l'amarezza che quelle parole gli comunicano. "Non me lo merito,
Rowles." riesce a dire alla fine, ingoiando un groppo nella
gola che mai avrebbe pensato di poter sentire. "Io sono solo
un poliziotto. Stavo eseguendo degli ordini..." "Certo. Ordini
che contemplavano il tradimento di un'amica. E che hanno causato
la morte di due persone." L'esasperazione si fa
strada nell'animo di Carruthers facendo recedere ma con fatica quel
senso di colpa che grava su di lui come un macigno. "Andiamo, Rowles.
Sai che non è così. Quella donna era una pericolosa psicopatica
e un'assassina e la tua amica si era schierata al suo fianco per
chissà quale maledetta ragione. Si è trattato di legittima difesa..." "Legittima difesa?!?
Almeno una ventina di poliziotti addestrati e dotati di armi moderne
contro due donne e una spada? Per favore... Adesso smettila e dimmi
solo cosa vuoi." "Ho bisogno di
te, Rowles." Le parole escono dalla bocca di Carruthers più
precipitosamente di quanto avrebbe voluto, ma lui non riesce a fermarle.
"Sono... siamo nei pasticci." "Tu e quella carogna
di Ballister? Sai, non so come esprimerti tutto il mio dispiacere." "Non riguarda solo
quel bastardo. Se fosse così non ti avrei neanche chiamata. Sono
già tre i bambini scomparsi, Jennifer, e non abbiamo la più pallida
idea di cosa ne sia stato." Ancora una volta è il
silenzio l'unica risposta che giunge dal telefono. Poi Carruthers
sente distintamente il rumore di fogli di giornale spiegati, prima
che Jennifer torni a parlare. "Stai parlando
di quel rapitore, The Ogre?" "Quella è solo
la solita trovata giornalistica ad effetto. In realtà non sappiamo
niente di cosa si nasconda dietro questa faccenda. Potrebbe essere
di tutto, dal semplice maniaco al mercato dei trapianti clandestini.
L'unico fatto certo è che quei bambini sono scomparsi senza lasciare
traccia, come se non fossero mai esistiti." "Mi immagino come
sarà in pensiero il tuo amico Ballister. Cos'è, questa volta non
riesce a tenere sotto controllo i giornali?" "Te lo ripeto,
Ballister non è mio amico e non c'entra niente. Sono io che ho bisogno
di te. Mi sei stata sempre molto utile ad entrare nella psicologia
criminale e senza di te non riesco a cavare un ragno dal buco." "Non m'interessa,
Carruthers. Io ho chiuso con voi, e poi sono sicura che Ballister
non te lo permetterebbe." "Maledizione, Rowles!
Io non sono il cagnolino di quell'uomo. Adesso sono capitano del
mio distretto e decido io i miei collaboratori. Ti prenderei come
consulente esterna e solo temporaneamente. Non ti sto chiedendo
di ritornare in servizio." "Già. Scusa, che
sbadata. Dimenticavo di farti le congratulazioni per la promozione.
Dovrebbe darti una bella spinta economica in avanti per la tua pensione.
Sono lieta che quella disgraziata storia abbia avuto risvolti positivi,
almeno per qualcuno." L'amaro sarcasmo filtra
inequivocabile nella voce della donna. Carruthers abbassa le spalle
rassegnato. "Mi dispiace davvero
che sia finita così, Rowles. E sono sinceramente addolorato per
Joyce." "No. Non osare
pronunciare il suo nome." Nonostante la voce di Jennifer abbia
mantenuto un tono ostile per tutta la conversazione, adesso raggiunge
livelli di gelo tali che Carruthers non aveva mai avvertito prima.
"Tu hai tradito la fiducia che quella povera ragazza aveva
in noi. Non hai esitato ad usarla per i miserabili scopi di quel
bastardo schifoso del tuo capo. Non
osare pronunciare il suo nome." E prima che Carruthers
abbia il tempo di replicare, il sordo e monotono rumore della linea
interrotta è l'unica cosa che giunge al suo orecchio.
(13) Xena e Olimpia
Ancora quel volto di
donna, ma dolente, rigato di lacrime questa volta, che fluttua nel
buio, una mano che si tende verso di lei, verso il
suo viso, i suoi capelli, vi immerge la dita. Labbra che
si muovono appena, senza che alcun suono ne esca, come in una silenziosa
preghiera. Poi
lentamente, quelle parole
sembrano acquistare una dimensione sonora, un tono, un significato.
La mano, che le sta accarezzando i capelli delicatamente, diviene
solida, e al volto femminile se ne sovrappone un altro, e il mondo
torna ad avere consistenza, facendola uscire da quello stato tra
sonno e stordimento. "Olimpia." La ragazza apre gli
occhi e nella scarsa luce intorno, scorge vicinissimo al suo, il
viso della sua compagna, nei cui occhi la preoccupazione lascia
immediatamente lo spazio al sollievo. "Xena." La guerriera le sorride
continuando ad accarezzarle la testa e il viso. "Sono qui. Tutto
a posto? Come ti senti?" Con uno sforzo non indifferente,
Olimpia fa per sollevarsi, ma l'improvviso giramento di testa le
consiglia di adagiarsi nuovamente sullo scarno giaciglio sul quale
è distesa. "Questa storia
sta cominciando a diventare monotona." mormora, riprovando
a tirarsi su questa volta con più cautela. "Che è successo
questa volta? Dove siamo?" Rassicurata sulle sue
condizioni, Xena le si siede accanto guardandosi intorno. Il posto
in cui si trovano per quel poco che si riesce a distinguere sembra
una stanza con pareti di pietra, con una porta dall'aspetto molto
solido e una piccola finestra con tanto di sbarre posizionata piuttosto
in alto. Devono essere passate molte ore dalla loro aggressione
a giudicare dalla poca luce che filtra dalla finestrella, e che
chiaramente non è la luce del giorno pieno, ma quella assai più
tenue che segue il tramonto. "Sul dove siamo,
non saprei che risponderti. Per quanto riguarda invece quello che
è successo, direi che siamo state messe fuori combattimento. Con
me hanno usato un dardo intinto in qualche droga soporifera che
non sono riuscita a riconoscere." Poi la Principessa Guerriera
rivolge nuovamente lo sguardo su di lei. "Tu che cosa ricordi?" Olimpia si passa una
mano sul viso, cercando di raccogliere le idee e focalizzando la
memoria sugli ultimi istanti di coscienza, prima del buio. "Aspetta! Eravamo
nel bosco. Ci eravamo appena separate per quei rumori che si avvicinavano,
quando... Non riesco a ricordare esattamente, ma...". "Io ricordo che
all'improvviso ho pensato a te." dice subito Xena, come se
le parole le bruciassero sulle labbra. "Ero lì che aspettavo
qualunque cosa stesse per uscire dal fogliame e d'un tratto ti ho
vista, ti ho sentita nella mia mente come se tu fossi stata di fronte
a me. Mi è parso perfino di sentire il tuo profumo." Gli occhi
della guerriera si distolgono dal viso della compagna. "Ho
fatto qualcosa che non avrei mai dovuto fare in un momento come
quello. Avrebbe potuto costarci molto caro." "Non è colpa tua."
Ancora un po' a fatica, Olimpia si tira a sedere in una posizione
più comoda per la schiena su quello che ormai ha riconosciuto come
un pagliericcio. "Sono stata io. Ora ricordo. D'un tratto ho
provato una paura terribile, un vero e proprio attacco di panico
e istintivamente mi è venuto di pensare a te come se ti stessi inviando
praticamente una richiesta di aiuto. Non avrei dovuto. Dovevo considerare
il problema che questa accresciuta capacità poteva procurarci." "D'accordo."
dice Xena alzandosi e cominciando ad esaminare il luogo in cui si
trovano. "Lasciamo stare per ora. Occupiamoci prima delle cose
più importanti. Dove siamo, chi ci ha rapite e perché." Cercando di ignorare
la pesantezza alla testa, Olimpia si alza a sua volta e insieme
le due donne iniziano ad esplorare la stanza. Come avevano giudicato,
l'unica uscita, una porta di legno di quercia, spessa e pesante,
non pare fornire appigli per cercare di aprirla o sfondarla. Spingendosi
il più possibile sulla punta dei piedi, Xena riesce ad afferrare
il bordo inferiore della finestra e ad arrivare con gli occhi al
livello della piccola apertura. Il paesaggio che scorge all'esterno
è formato da una fitta vegetazione che arriva a pochissima distanza
dalla parete. "Niente."
dice rilassando i muscoli delle gambe e lasciando il suo precario
punto d'osservazione. "Là fuori non si vede altro che alberi
e cespugli." "Allora siamo ancora
nella foresta." "Possibile. Ma
a giudicare dalla luce, dovrebbe essere poco dopo il tramonto. Il
che significa che dobbiamo aver dormito in pratica per tutto il
giorno e non sappiamo in realtà per quanto si estenda questa foresta,
quindi potremmo essere da qualunque parte." Olimpia si avvicina
alla compagna e le appoggia la mano sul braccio, immediatamente
avvertendo sotto le dita quel calore così rassicurante, sentendo
la guerriera rispondere al suo abbraccio e indovinando il sorriso
che deve esserle spuntato sulle labbra. "Abbiamo perso
conoscenza per molto tempo." dice. "Che tipo di droga
o altro può avere effetti del genere?" La voce di Xena si concretizza
in un debole alito caldo sulla sua fronte e Olimpia chiude gli occhi
godendo di quel contatto. "Ci sono alcune
varietà di papavero che possono farlo, ma credo che nessuna tra
quelle che conosco possa provocare una reazione simile, soprattutto
vista la minima dose che può trovarsi sulla punta di un dardo." "Con me non hanno
usato un dardo. Mi pare di ricordare qualcosa premuto sulla bocca
e di aver provato un'improvvisa mancanza di fiato. E che ne sarà
stato delle nostre armi?" chiede Olimpia, guardando in basso,
verso i foderi dei suoi sai,
che pendono desolatamente vuoti
dagli stivali. "Beh, non mi aspettavo
certo che ce le lasciassero. Ma almeno mi pare di scorgere la nostra
sacca laggiù." dice Xena, indicando un angolo della piccola
cella, in cui è appena visibile una sagoma scura appoggiata ad una
parete. "Una cosa comunque è certa. Chiunque ci abbia rapite
non ci vuole morte. Non ancora almeno. Altrimenti quale migliore
occasione per eliminarci di quando eravamo prive di sensi? Il che
penso escluda Acros e la sua simpatica combriccola. Scommetto che
se quell'uomo ci avesse avuto nelle mani mentre eravamo in quelle
condizioni, ora vagheremmo nel regno delle ombre." "Ma almeno saremmo
insieme." Xena sorride appena
alle parole di Olimpia e per un attimo i loro sguardi venati di
malinconia s'incontrano, poi le due donne si staccano, e ricominciano
a guardarsi intorno, aiutandosi con la scarsa luce. "E allora chi sono?
E cosa vogliono da noi?" "Se conoscessimo
la risposta a queste domande avremmo fatto un bel passo avanti nella
soluzione di questo mistero. Tuttavia i nostri enigmatici rapitori
dovranno pur farsi vivi prima o poi." Così dicendo, Xena si
muove cautamente verso il punto più in ombra, al centro della stanza
e un momento dopo la sua gamba urta i bordi di un tavolo. All'urto
risponde nel buio lo sciacquio di un liquido di cui alcune gocce
le cadono sulla mano prontamente tesa in avanti per mantenere l'equilibrio. "Ecco la conferma
a quanto dicevo." dice afferrando una brocca, ora perfettamente
distinguibile nella penombra, e portandosela al naso. "I nostri
amici ci hanno lasciato qualcosa per dissetarci al nostro risveglio.
E non sento odore di droga. E' pura e semplice acqua." Xena posa nuovamente
la brocca sul tavolo, dove quasi per magia, ora sono visibili anche
due piccole coppe. "Meno male. Ho
la bocca che sembra fatta di papiro seccato." Con la vista ormai abituata
alla semioscurità, Olimpia si avvicina al tavolo, solleva la brocca
dell'acqua e fa per portarsela alle labbra, quando sente Xena afferrarle
il braccio, e contemporaneamente la porta si apre con un sinistro
cigolìo e la luce di una candela si propaga nella stanza, disegnando
sulla soglia la sagoma indistinta di un uomo. La mano di Xena corre,
in un riflesso condizionato, dietro la sua schiena alla ricerca
dell'impugnatura di una spada che non c'è, mentre altrettanto istintivamente,
Olimpia fa per chinarsi ad afferrare i sai,
prima di ricordare di non averli più. Poi la fiamma della
candela si alza e i tratti del viso del nuovo arrivato appaiono,
anche se lievemente distorti dai riflessi arancioni e dalle ombre
provocate dalla luce fluttuante che rendono a tutta prima difficile
dargli una fisionomia precisa. Il volto che in quel momento è fisso
su di loro sembra giovanile, incorniciato da una barba folta ma
curata. Alto, coperto da abiti da contadino che, stranamente, nonostante
il corpo robusto e ben piantato che s'intravede sotto, non paiono
adattarglisi, l'uomo resta immobile per qualche istante, come cercando
di discernere bene nel buio della stanza le figure delle due donne,
poi le sue labbra si distendono in un sorriso. "Vieni, padre."
dice a voce alta a qualcuno che si trova evidentemente dietro di
lui. "Avevo sentito bene. Si sono svegliate." Dopo qualche momento,
un'altra figura, quella di un uomo anziano e curvo, si delinea a
fianco del primo. Stranamente la luce della candela non pare sufficiente
ad illuminare anche il suo viso, seminascosto da un pesante cappuccio
che ne copre la parte superiore. Il vecchio resta sulla soglia,
senza parlare, con la testa rivolta verso le due donne di fronte
a lui, come se nonostante il cappuccio che gli nasconde
completamente gli occhi riuscisse a vederle ugualmente, mentre
l'uomo più giovane si avvicina a loro, continuando a sorridere. "Salute a voi.
Sono lieto che vi siate riprese e che il piccolo espediente a cui
abbiamo dovuto ricorrere non vi abbia causato alcun fastidio." Olimpia è la prima a
rilassare la sua postura, pur senza ricambiare il sorriso. "Alcun fastidio?
Ho la testa che sembra un macigno." "Mi dispiace."
dice l'uomo rivolgendole uno sguardo apprezzativo. "Ma è solo
un effetto collaterale minore. Passerà in poco tempo." "Chi siete? E perché
ci avete rapite?" La voce di Xena ha assunto quel suo solito
tono gelido e duro, che dice chiaramente quanto non sia per niente
disposta a lasciarsi irretire da quell'atteggiamento conciliante.
L'uomo torna a fissare gli occhi su di lei e il sorriso lascia il
posto ad un'espressione seria e preoccupata. "E' stato necessario.
Non c'era tempo per fare altrimenti.
Lui stava arrivando." "Lui? Lui chi?
E dove sono le nostre armi?" "Conduci le nostre
ospiti di là, Alexi." Per la prima volta, l'uomo anziano fa
udire la sua voce che, in contrapposizione all'aspetto fragile e
cadente, risuona forte e risoluta nella piccola stanza. "Parleremo
meglio." Senza aggiungere altro,
il vecchio si gira lentamente e scompare oltre la soglia, mentre
il giovane si fa da parte, invitando con un gesto le due donne a
seguirli.
"Spero che adesso,
vogliate spiegarci cosa significa questa storia." Xena e Olimpia sono
tornate in possesso delle loro armi e con un moto di soddisfazione,
la guerriera si lascia scivolare la spada nel fodero che le pende
sulla schiena, mentre la sua compagna con un rapido scatto dei polsi
reinserisce i due
sai nelle fondine degli stivali. Quindi le
due donne si dispongono una accanto all'altra, a braccia conserte,
in attesa che la loro domanda trovi una risposta. Il vecchio si è lentamente
e faticosamente accomodato su una sedia ampia a schienale alto che
ha evidentemente conosciuto tempi migliori, quando dalle imbottiture
strappate in più punti ancora non spuntava il contenuto. L'intera
stanza in realtà pare intonata, con un arredamento in disfacimento
e pareti di pietra da cui filtra umidità che mantiene la temperatura
all'interno costantemente fredda. Certo non un ambiente adatto ad
una persona di quell'età. Dietro di lui, in piedi immobile, sta
il giovane con atteggiamento protettivo sull'uomo che ha chiamato
padre ed è lui che risponde alla domanda. "Ci dispiace sinceramente,
ma come vi ho detto, non avevamo scelta. Le armi ve le abbiamo tolte
solo per evitare che al momento del risveglio poteste lasciarvi
tentare dall'usarle." "Ma ora ce le avete
restituite. Cosa vi fa credere che non potremmo usarle adesso?" "Perché io so tutto
di voi, Xena di Amphipoli e Olimpia di Potidea." La voce del vecchio
di nuovo echeggia potente e
le due compagne quasi sobbalzano all'improvviso tono imperioso che
giunge dalla figura raggomitolata sulla sedia di fronte a loro,
col volto ancora parzialmente nascosto dal cappuccio. E proprio
in quel momento, l'uomo solleva il lembo che gli copre gli occhi
rivelando al loro posto palpebre incavate e ricucite tra loro in
modo rudimentale su orbite che non devono più contenere globi oculari
ormai da molto tempo. Quella visione improvvisa,
fa spalancare gli occhi ad Olimpia, che stringe le labbra, resistendo
disperatamente al desiderio di distogliere lo sguardo, ma non lascia
indifferente neanche Xena che questa volta stenta a contenere la
sorpresa. "Non ho bisogno
di vedere i vostri visi per sapere che espressione hanno in questo
momento. Orrore, ribrezzo. Eppure tu, Xena, Principessa Guerriera"
e così dicendo il vecchio si volta verso di lei come se davvero
potesse vederla "nonostante tu abbia ancora l'aspetto di una
giovane donna, hai sperimentato ben altri orrori nella tua già lunghissima
esistenza. E molti di essi li hai provocati con le tue stesse mani." A quelle parole, Olimpia,
quasi a protezione della compagna, fa un passo avanti mettendosi
tra Xena, che sembra come paralizzata da quel tono duro e accusatorio,
e il vecchio in poltrona. "Se davvero la
conosci, allora devi anche sapere che è cambiata. La donna di cui
parli non esiste più." Lo sguardo del vecchio
lentamente si sposta su di lei, e Olimpia è gelata dal pensiero,
perché non può esservi alcuno sguardo da quelle palpebre chiuse,
sigillate al punto ormai da dover probabilmente intervenire con
una lama per riaprirle. Ma la sensazione è esattamente questa, quella
di sentirsi perforare da occhi penetranti e indagatori che la scrutano
come nessun occhio umano potrebbe mai fare. "Ti sbagli, Olimpia
di Potidea. Quella donna esiste ancora nel profondo dell'anima dell'amica
che così tanto ami, della quale hai condiviso la vita e più di una
volta la morte, e alla cui esistenza ti sei legata indissolubilmente
nel sacro rito amazzone del congiungimento." Davanti a quella voce
vibrante e decisa, la ragazza arretra tornando accanto a Xena che
non si è mossa, rimanendo silenziosa alle parole del vecchio. "Le nostre vite
e il nostro passato non hanno niente a che fare con ciò che succede
qui e con voi due." dice. "Sbagli ancora,
bardo. E' il vostro stesso passato ad avervi condotte qui. Tutto
ciò che accade, accade per un preciso intendimento, anche se spesso
sfugge alle nostre misere e inadeguate menti." Il tono del vecchio
non si alza, ma in qualche modo pare che la sua voce rimbombi nella
piccola stanza come se stesse urlando. "D'accordo, vecchio."
Come scuotendosi dalla sua immobilità, Xena si fa avanti poggiando
le mani sul tavolo davanti alla poltrona dell'uomo e sporgendosi
verso di lui. "Smettiamola con gli indovinelli. Ora dicci chi
siete e perché ci avete narcotizzate e rapite." Questa volta il vecchio
non parla ed è il giovane, in piedi dietro di lui, a prendere la
parola. "Il mio nome è
Alexi e questo venerando anziano è mio padre e mentore, Aristis.
Ancora una volta vi esprimo tutto il mio rammarico per essere stato
costretto ad usare la forza contro di voi, ma non avevo altra scelta." "Vuoi dire che
sei stato tu a catturarci? Da solo?" Xena lo fissa sorpresa,
e il viso del giovane assume un colorito più accentuato. "Beh, sì, è così.
Ma devo ammettere che comunque non è stato facile. Soprattutto con
te, guerriera. La tua forza di concentrazione è notevole ed è stato
difficile aggirarla." "Oh" s'inserisce
Olimpia, un po' piccata "mentre invece con me è stato un gioco
da ragazzi, eh?" Alexi non può reprimere
un sorriso al tono indispettito della ragazza. "Non prendertela,
Olimpia, ma la tua natura solare e la tua fervida immaginazione,
mi hanno facilitato non poco l'accesso." dice. "Vuoi dire che
in qualche modo hai influito sulle nostre menti?" "Mi sono servito
della tua paura e l'ho lievemente alimentata. Sapevo che tramite
il vostro legame psichico sarei arrivato anche a Xena." Olimpia rammenta all'improvviso
quel senso di terrore che aveva provato e come era stato facile
aggrapparsi al pensiero di Xena per sopirlo, e immediatamente un
velo di avvilimento scende sul suo sguardo. "Non devi fartene
una colpa, Olimpia." prosegue Alexi. "Non potevi farne
a meno. Il tuo pensiero è sempre collegato a Xena. La vostra unione,
secondo il rituale amazzone, ha un effetto enorme su due anime gemelle
come voi. Esso vi ha legate in modi che neanche sospettate ancora.
Nemmeno le stesse forze del male che hanno tentato di neutralizzarvi,
mandandovi in un'altra dimensione, in altri corpi, sono riuscite
a tenervi separate. Anzi, loro stesse senza saperlo sono divenute
parte del disegno." "Taci, Alexi!"
La voce del vecchio tuona improvvisamente e ancora una volta, Xena
e Olimpia si chiedono come da un corpo misero ed emaciato come il
suo possa emanare una tale forza. "Sono stati dunque vani questi
lunghi anni d'insegnamento? Niente deve essere detto più di quanto
sia strettamente necessario! Ritirati!" "Ma padre..."
L'espressione di costernazione sul viso del giovane risalta perfino
nella scarsa illuminazione della stanza. "Ritirati, ho detto!
Vai a controllare che la stia sia ben chiusa e domani mattina presto
devi alzarti a dare da mangiare alle bestie." Abbassando la testa,
Alexi fa per voltarsi e uscire, quando un pugno battuto con violenza
sul tavolo fa sobbalzare tutti. "Ora basta!! Nessuno
uscirà da questa stanza senza averci dato prima le risposte che
vogliamo." Gli occhi cerulei della Principessa Guerriera sembrano
sprizzare fiamme di gelo intorno."Tu!" e il suo dito si
punta su Alexi che è rimasto immobile con un piede dentro e uno
fuori dalla porta. "Torna immediatamente qui! Voglio delle
risposte e le voglio subito! E vi consiglio di fare come dico perché
se mi conoscete tanto bene, saprete anche che ho molti sistemi per
costringervi a parlare!" Istintivamente Olimpia
che è rimasta sorpresa dall'improvvisa reazione della compagna,
le posa una mano sulla spalla nel tentativo di calmarla. E in quel
momento è come se la folgore attraversasse il corpo di Xena, mentre
la guerriera si abbatte all'indietro con un urlo e contemporaneamente,
una fitta fortissima attraversa il cranio di Olimpia come se l'asta
di una freccia lo avesse trapassato da parte a parte e una serie
d'immagini e sensazioni le scorrono velocissime davanti agli occhi
e nella sua stessa carne. Sente la gamba frantumarsi
sotto l'azione di un violentissimo colpo di maglio... Vola per la stanza mentre
un tronco di enormi proporzioni la colpisce al petto, spezzandole
ogni costola e schiacciandole i polmoni... Il suo corpo avviluppato
da corde e catene è immobilizzato, braccia e gambe tese allo spasimo,
fino quasi a spezzarsi e centinaia di punte acuminate le scavano
la pelle... Nugoli di frecce la
trafiggono in ogni parte... Il freddo acciaio di
una lunga lama pone fine al dolore con un sibilo secco, colorando
il buio di rosso... Poi, improvvisamente
come è arrivato, il caos che l'ha travolta svanisce e Olimpia si
ritrova distesa sul pavimento, con la mente confusa ma nessuna traccia
delle sofferenze lancinanti che fino a pochi istanti prima le martoriavano
il corpo. Il suo respiro è corto e subito i suoi occhi corrono alla
compagna, che si sta rialzando faticosamente a pochi passi da lei,
poi seguendo la direzione del suo sguardo, si posano sulla figura
del vecchio che ora giace abbandonata sulla poltrona, e solo in
quel momento il suo cervello registra la voce angosciata di Alexi,
mentre questi cerca di trattenere il corpo dell'uomo anziano dallo
scivolare al suolo. "Padre! Padre!
Rispondimi!"
(14) "The Ogre"
"Vai!" Il pesante cassonetto
agganciato al congegno idraulico comincia a sollevarsi lentamente
verso il macina rifiuti in attesa di ingoiarne il contenuto. Il
conducente del camion dalla cabina di guida sorveglia che la manovra
avvenga correttamente. D'improvviso, uno dei due ganci cede di schianto
e il cassonetto si rovescia da un lato precipitando al suolo e vomitando
intorno sacchi di spazzatura non chiusi e rifiuti organici. "Maledizione!"
urla l'addetto al carico, spostandosi con un balzo laterale un attimo
prima che la maleodorante valanga lo seppellisca. "Che accidenti
combini là dietro?" gli grida la voce del conducente, che udito
il fracasso ha immediatamente interrotto la manovra ed è sceso di
cabina per accertarsi dell'accaduto. Il suo collega sta fissando
con aria avvilita il cassonetto rovesciato in terra con tutto il
suo contenuto sparso intorno. "Oh, porco..."
sibila tra i denti. "E adesso quanto ci vorrà per rimettere
a posto questo casino?!" "Lascia perdere.
Piuttosto, stai bene?" "Sì, l'ho evitato
per un pelo." "Ma che è successo?" "E che ne so? Forse
il gancio era rotto." "O forse non l'hai
fissato bene tu. D'accordo. Inutile stare a discutere. Diamoci da
fare a sistemare questo disastro e poi rispostiamo il cassonetto
sul bordo della strada. E sta' attento a quello che tocchi." "Già, adesso non
ci mancherebbe altro che una siringa infetta." Sacramentando a bassa
voce i due uomini cominciano a raccogliere con cautela sacchi di
plastica pieni fino all'orlo, da cui fuoriescono in continuazione
altri rifiuti e miasmi nauseabondi di alimenti andati a male. "Cazzo. Aspetta,
vado a prendere le mascherine, prima di aggiungere a questo merdaio
anche la mia colazione di stamattina." dice il conducente,
dirigendosi verso la cabina di guida. "Ma proprio il cassonetto
dietro un ristorante messicano dovevi rovesciare?" "La prossima volta
mi farò cascare addosso quello di Ives st. Laurent,
per farti piacere." "Sarebbe un'idea.
Almeno ti toglieresti quella puzza di..." "EHI!
E questo che cavolo è?" Con una mano ancora
sulla maniglia della portiera del camion, il conducente si volta
all'improvvisa esclamazione del collega, e si volta verso di lui. "Cosa? Di che stai
parlando?" Ma la domanda gli muore
in gola, quando vede il volto dell'altro diventato di un pallore
impressionante, mentre fissa ad occhi spalancati il contenuto di
un sacco grigio che stringe tra le mani visibilmente tremanti. Poi,
l'uomo lascia il sacco e schizza all'indietro come se fosse stato
morso da un serpente. "Ma che ti prende,
oggi?" comincia a dire il conducente avvicinandosi, prima che
il suo sguardo si posi sul sacco che adesso si trova proprio ai
suoi piedi. E' un sacco uguale a tanti altri, del solito anonimo
colore grigio con un allegro fiocco giallo che doveva essere annodato
in cima e si era evidentemente sciolto al momento della caduta dal
cassonetto. Dall'apertura spunta qualcosa di bianco ed allungato
con un leggero rigonfiamento ad un'estremità. I due uomini restano
per qualche attimo immobili a fissarlo come ipnotizzati. Poi, il
conducente si scuote con una risatina. "Ma andiamo, che
cazzo vuoi che sia? Siamo sul retro di un ristorante, no? Sono ossa
di pollo o di coniglio, o roba del genere. Prendilo e buttalo nella
macina." "Prendilo tu." L'uomo si è allontanato
di buoni tre o quattro passi e continua a fissare il sacco sempre
più pallido. "Insomma, si può
sapere che ti succede? Sei ubriaco già a quest'ora?" Cercando di evitare
di mostrare al collega il tremito alle mani che ha preso anche a
lui, il conducente si china e tende il braccio verso il sacco con
una leggera esitazione, poi, sbuffando, lo afferra e si appresta
a gettarlo nel macina rifiuti, quando lo sguardo gli cade per una
frazione di secondo all'interno. Occhi e bocca si spalancano e l'involto
grigio gli scivola dalle mani finendo nuovamente al suolo e spargendo,
questa volta completamente, il suo contenuto tutto intono. "Cristo!" "Oh, merda!" Le due imprecazioni
risuonano quasi contemporaneamente nella strada fattasi improvvisamente
silenziosa, mentre frammenti di teschi ed ossa umane di proporzioni
minuscole, rotolano sul terreno spargendosi intorno con un orrido
picchiettio.
(2
- continua) |
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