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"Nè demoni o Dei"
romanzo seguito di "Identità Sepolta"

ROMANZO DI A. SCAGLIONI

(Capitolo III)

Parte 1

(17) Croft

 

Richiusa la porta del suo appartamento alle spalle, Brian scaglia con un moto di rabbia le chiavi verso il vaso di metallo nel piccolo ingresso, mancandolo clamorosamente e mandando il mazzo a sbattere contro la parete e scivolare dietro il mobiletto.

"Perfetto! Assolutamente perfetto!" sbraita a se stesso "La perfetta conclusione di una giornata perfetta!"

Resta per un attimo a chiedersi se debba provare a spostare il mobile per recuperare subito le chiavi. Poi, con una scrollata di spalle si libera del soprabito gettandolo verso l'appendiabiti. L'indumento si affloscia sul pavimento sfiorando solo il pomello. Senza degnarlo di uno sguardo, l'uomo entra nel salotto e si lascia cadere sulla poltrona emettendo un grosso sospiro. Si sentiva esausto. Un'intera giornata in giro per la città alla ricerca di un quasi introvabile ex-professore universitario, e tutto per cosa? Per sentirsi raccontare una favoletta di duemila anni prima, a base di guerriere, stregoni, anime gemelle e altre corbellerie dello stesso calibro. Roba che perfino al View avrebbe scatenato l'ilarità generale. Se davvero Cheryl si era interessata a tutto quel ciarpame, niente di strano che l'avesse fatto in segreto.

Con un altro sospiro, Brian si alza e va al mobile bar servendosi generosamente dalla bottiglia di whisky piena a metà. Roba da pazzi! Ma come aveva potuto pensare di aver trovato in quel ridicolo articolo un indizio per arrivare alle vere ragioni della morte di Cheryl? Era evidente che non c'entrava assolutamente niente. Si trattava probabilmente solo di un approfondimento che stava facendo nell'inchiesta sull'Amazzone, ma doveva essersi resa conto lei per prima dell'assurdità della cosa. Ecco perché non ne aveva fatto parola con nessuno, neanche con lui.

Ma se è così, allora, perché ha sottolineato e cerchiato con tanta forza quel nome, Xena?

E allora? Probabilmente lo aveva fatto soprappensiero, come a volte capita di fare disegnini mentre pensiamo o stiamo al telefono. Niente di più, e sicuramente lui non aveva intenzione di perdere ulteriore tempo su quella pista idiota. No, grazie. Gli era bastato quello perso oggi.

Non sapeva esattamente cosa si fosse aspettato di ottenere da quel vecchio professore, anche simpatico tutto sommato, ma che sembrava preso di peso da una foto ingiallita del primo novecento. Qualunque cosa fosse, non era certo quello che aveva ottenuto, e temeva di non essere stato molto bravo a nascondere la sua delusione.

Come promesso aveva accompagnato Sutherland per la sue commissioni e lo aveva atteso pazientemente all'esterno di ogni negozio e ufficio in cui si era fermato, con la netta impressione che il buon professore stesse sfacciatamente approfittando di lui, ma con la speranza, solo ora si rendeva conto quanto immotivata, che potesse fornire qualche risposta ai suoi interrogativi. Quando alla fine, erano ripartiti alla volta della casa del professore, Brian, la cui pazienza era ormai arrivata al limite, non ce l'aveva fatta più e dopo cinque minuti di viaggio silenzioso, in cui il vecchio si era limitato a controllare i suoi acquisti calcolando mentalmente quanto aveva speso, aveva interrotto senza troppi complimenti i suoi calcoli.

"Professore, non crede che sarebbe ora di cominciare a dirmi quello che sa su questa Xena?"

Il tono di voce gli era venuto un po' più brusco di quanto avrebbe voluto, ma non aveva intenzione di scusarsi.

"Come?" aveva chiesto Sutherland, dando una discreta interpretazione del professore distratto, destato dalle sue profonde meditazioni.

"Professore, la prego" aveva sbottato a questo punto Brian "non mi prenda per un idiota. Sono due ore che la porto in giro. Se avesse utilizzato un taxi avrebbe speso almeno trecento dollari. Non penso di chiederle troppo."

Il vecchio gli aveva lanciato un'occhiata in tralice. E non era un sorrisetto, quello che gli aveva scorto sulle labbra seminascoste dai baffi e dalla barba? Quasi senza accorgersene Brian aveva stretto le dita intorno al volante, imponendosi di mantenere la calma.

"D'accordo." aveva finito per dire Sutherland con un'irritante luce d'ironia nello sguardo. "Mi dica che vuole sapere esattamente."

"Beh, innanzitutto chi era questa Xena e perché Cheryl avrebbe potuto associarla alla figura dell'Amazzone?"

"Non sappiamo molto della guerriera chiamata Xena" aveva esordito il professore e la sua voce aveva istintivamente assunto il tono che evidentemente era abituato a tenere durante le sue lezioni, ma con un sottofondo strano, che Brian non avrebbe saputo precisare, e che tuttavia non sfuggiva al suo orecchio esercitato, quanto e più di quello di un poliziotto, ad interpretare anche le più minute discrepanze in quelli che intervistava. "Quello che posso dirle è ciò che potrebbe trovare in tanti libri di mitologia dell'antica Grecia. Xena di Amphipoli, originariamente pare fosse una spietata condottiera che razziò e distrusse decine di villaggi in quelle terre, più o meno tra i duemila e i duemilacinquecento anni fa. Poi d'un tratto, per ragioni mai completamente chiarite, cambiò vita e cominciò a percorrere quegli stessi territori in cerca di redenzione dagli errori del passato. Insieme a lei, viaggiava una fanciulla di circa una ventina di anni, Olimpia di Potidea..."

Qui Brian aveva distolto un attimo l'attenzione dalla strada per osservare il volto di Sutherland. Se lo era solo immaginato o davvero la voce del professore si era incrinata per una frazione di secondo? Ma vera o immaginaria che fosse la sua impressione, l'espressione del vecchio ora appariva totalmente assorta nel suo racconto.

"Olimpia era una contadina che possedeva però grandi doti poetiche, divenne la compagna inseparabile di Xena e narrò in poemi le avventure vissute insieme a lei. Battaglie con spietati signori della guerra, despoti malvagi e creature soprannaturali. Di tutto il suo materiale non c'è pervenuto nulla o quasi, purtroppo, anche se negli anni quaranta si era sparsa la voce di un ritrovamento in una tomba sconosciuta in Macedonia. Voce per altro mai confermata."

"Ma allora come fate a sapere di loro?" aveva chiesto Brian.

"Naturalmente come si sanno sempre queste cose. Dai raffronti di cronache dell'epoca di altri autori. Tracce della loro storia sono state trovate in testi ritrovati in Egitto, in Persia e in altri paesi, Grecia compresa. E in un'altra tomba in Egitto qualche anno fa furono anche rinvenuti dei resti che allora io pensai potessero appartenere ad Olimpia, ma oggi non ne sono più tanto convinto."

"Come mai?"

"Così." aveva risposto Sutherland con un sorriso."Chiamiamolo istinto di studioso."

"E perché aveva pensato che potessero essere i resti di questa Olimpia? E che ne sarebbe stato di Xena? Non erano inseparabili?"

"E' appunto per questo che io non credo più che possa trattarsi di lei. In quella tomba furono trovati anche dei frammenti di pergamene di cui nessuno è mai riuscito ad identificare il possibile autore. Io ebbi modo di studiarli, grazie all'aiuto di una mia vecchia conoscenza che aveva partecipato alla spedizione, e me ne spedì delle foto. Erano testi che raccontavano, per quel poco che ne rimaneva, di Xena e Olimpia, dei loro viaggi e, tra le righe, della possibile morte di Xena in una terra lontana. Perciò ne dedussi che quella potesse essere proprio la tomba di Olimpia che distrutta dal dolore per la perdita della sua compagna si fosse lasciata morire e che quelle pergamene fossero da attribuire proprio a lei, ma adesso non la penso più così. Sono sicuro che qualunque cosa sia successa loro, comunque siano morte, siano state sepolte insieme, chissà dove, ma insieme."

Nuovamente Brian si era voltato a guardare il professore, ma questa volta il vecchio aveva voltato il viso verso il finestrino laterale, impedendogli di osservarlo.

"Professore, tutto bene?"

"Sì, certo." aveva risposto lui, ma sempre senza spostare il viso dal finestrino. "Lei crede nelle anime gemelle, signor Croft?" gli aveva chiesto poi all'improvviso.

Brian era rimasto per un attimo perplesso sulla singolarità di una domanda del genere nel contesto di cui stavano parlando. Poi una luce si era accesa nella sua mente.

"Professore, sta cercando di dirmi che quelle due... sì, Xena e Olimpia... erano una coppia? Che stavano... insieme, in quel senso?"

Sutherland aveva voltato finalmente il viso, rivolgendolo di nuovo verso la strada davanti a loro. Su di esso non vi era traccia di alcuna emozione.

"Vuol dire amanti? Probabile. I costumi sessuali della Grecia di duemila anni fa erano molto più liberi e meno ipocriti dei nostri. Una relazione tra loro non avrebbe sollevato più di tanto l'attenzione. In questo il mondo non ha fatto alcun progresso." risponde con tono piatto l'anziano ex-docente. "Ma non era questo che intendevo. O almeno non solo questo."

Il professore si agitava sul sedile come in cerca di una posizione più confortevole, o forse semplicemente alla ricerca delle parole che esprimessero al meglio quello che voleva dire.

"No. Io mi riferivo ad una vera comunione spirituale. Ad un qualcosa che sia la somma di due anime e al tempo stesso più grande del loro insieme."

E a questo punto era partito con un'aggrovigliata storia di esseri che in un tempo antichissimo sarebbero stati divisi in due da divinità invidiose della loro armonia, e bla bla bla. La disquisizione era durata per tutto il tragitto di ritorno, quarantanove interminabili minuti, ma Brian aveva rapidamente perso contatto, isolandosi nei suoi pensieri e lasciando che il professore continuasse in quegli assurdi sproloqui, maledicendosi per la sua stupidità e ringraziando mentalmente il cielo per avergli almeno risparmiato ingorghi stradali. Ripensandoci ora, ricordava solo a sprazzi qualche frase qua o là.

"... così da allora, le due metà continuano a cercarsi senza sosta, ma solo in casi rarissimi..."

"... il consumismo di oggi ha ridotto il concetto di anima gemella ad una banale cottarella da S. Valentino, ma..."

"... da quei testi emergeva soprattutto il profondo, indissolubile legame tra quelle due donne..."

E bla, bla, bla. Alla fine, Brian aveva lasciato il vecchio sul cancello di casa, rifiutando il più cortesemente possibile il suo invito ad entrare per un tè o un caffè, e aveva rivolto il muso della macchina con una innegabile sensazione di sollievo nella direzione opposta. Man mano, però, che tornava ad avvicinarsi alla città, il sollievo aveva lasciato il posto ad un senso di fastidio e ad un nervosismo crescente. Ormai era tardi per tornare al giornale. Tanto valeva andarsene a casa e cercare di rimettere un po' d'ordine in quel marasma di pensieri. Insomma, a conti fatti, cosa aveva appreso da questa sua geniale intuizione? Che più o meno duemila anni fa c'erano probabilmente due donne che se ne andavano su e giù per il mondo allora conosciuto, e che tra una lotta e l'altra con draghi fiammeggianti e crudeli tiranni, col pretesto delle anime gemelle, si scopavano l'un l'altra come ricci. Bell'affare, e allora? Come cavolo c'entrava questo con l'Amazzone e l'assassinio di Cheryl?

Affronta la realtà, Croft, non solo non hai fatto un solo passo avanti nella tua indagine, ma hai perso tutta una giornata in irrilevanti sciocchezze e domattina aspettati pure una bella lavata di capo per esserti reso irreperibile, se ci fosse stato bisogno di te al giornale.

Quasi senza accorgersene, Brian aveva allungato la mano verso il telecomando sul tavolino accanto e già da qualche minuto la penombra del salotto si era illuminata dei colori vividi del piccolo schermo di fronte a lui. Perso nelle sue riflessioni, il giornalista si era limitato ad osservare meccanicamente le immagini che gli scorrevano davanti, con l'inviato di turno che si agitava scompostamente in primo piano, il microfono in pugno, poi, prima una parola, poi due, tre e infine intere frasi avevano infranto il muro dell'indifferenza nella sua mente.

"... gettando nel panico più totale l'intero quartiere. All'inizio si era pensato infatti al ritrovamento di una bomba carta pronta ad esplodere, poi invece era circolata la voce che si trattasse di un cadavere, ma infine la realtà anche più agghiacciante pare stabilita. In un normale sacchetto per la spazzatura sarebbero stati rinvenuti gli scheletri di uno o più bambini piccolissimi. La polizia, immediatamente intervenuta ha transennato la zona, impedendo a noi e a chiunque altro di avvicinarsi, ma ripeto, la notizia troverebbe conferme. Questa mattina due netturbini avrebbero rinvenuto in un sacco della spazzatura ossa infantili. Nessuno osa per il momento supporre niente, ma è logico che il pensiero di tutti corra ai bambini scomparsi, le piccole vittime del maniaco che ormai tutti chiamano The Ogre..."

Brian resta come impietrito a fissare lo schermo televisivo, con le dita contratte sul telecomando e le nocche sbiancate dalla pressione.

"Oh, cazzo! Adesso sì che sono sistemato, pensa, mentre gli occhi vagano intorno alla ricerca del cellulare. Hannigan mi strapperà le palle personalmente e se le cucinerà in salsa tartara.

Ma forse, c'era ancora un modo per cercare di cavarsela. Se fosse riuscito a mettere insieme qualche notizia e buttare giù un pezzo prima che il capo lo rintracciasse.

"Tess!" urla quasi nell'apparecchio, quando sente la voce irreprensibilmente professionale della centralinista del View. "Croft. Mi ha cercato Hannigan?"

"Brian, dove diavolo ti eri cacciato?!? Se ti ha cercato? Ha fatto il diavolo a quattro fino a due ore fa. Poi è schizzato via e da allora non si è più visto. Probabilmente è alla stazione di polizia."

A fare il mio lavoro. Sempre più perfetto.

"Ascolta, tesoro, cerca di procurarti tutte le notizie che puoi su questa storia, in... diciamo dieci minuti... e spediscimele immediatamente per posta elettronica."

"Ma Brian, io..."

"Per favore, Tess. Non c'è tempo da perdere. Fai come ti dico e non te ne farò pentire."

La pausa che segue è di quelle quasi rumorose. A Brian sembra quasi di vedere il sorriso che deve essersi stampato sul volto della non più giovanissima ma ancora più che appetibile centralinista del View.

Oh beh, un sacrificio accettabile per salvarmi il didietro.

"D'accordo" dice la voce dall'altra parte, ora sorprendentemente flautata. "Faccio prima possibile."

"Non deludermi. Ti adoro."

Prima di spegnere il cellulare, Brian cancella tutti i possibili messaggi registrati, sicuro che la segreteria ne sia piena.

Mi hai cercato? Oh Hannigan, mi dispiace. Il mio apparecchio deve avere qualche problema.

Bah, puzzava di balla da una distanza di dieci miglia, ma meglio di niente. E comunque se gli avesse presentato il suo pezzo per tempo, il capo non avrebbe potuto dirgli nulla. E Brian Croft si siede al computer in attesa, la mente ormai lontanissima da Sutherland e i suoi vaneggiamenti su anime gemelle e manoscritti dimenticati.

 

 

(18) The "Ogre"

 

L'agente Dooley batte ritmicamente l'estremità della matita che tiene tra le dita seguendo il tempo della canzone dal lettore CD, le cui note gli echeggiavano nelle orecchie attraverso gli auricolari. L'esperienza gli aveva insegnato che nonostante l'ora tarda (l'orologio sulla parete segna le tre e dieci del mattino), qualche visita imprevista o qualche controllo a sorpresa di un superiore, potevano sempre essere in agguato, e quindi di tanto in tanto si sporgeva dal bancone dietro cui è destinato a trascorrere quella notte, così come la maggior parte delle notti della sua vita, gettando un occhio sulla porta a vetri del distretto in fondo al vasto ingresso. Ma il passare delle ore e l'insolita tranquillità che regnava, alla fine gli avevano fatto abbassare il livello di guardia. Aveva già avuto due colpi di sonno e quindi per non rischiare che si ripetessero aveva alzato il volume del lettore e si stava sforzando di seguire il ritmo delle canzoni cercando di tenere lontano il torpore.

Per cui quando la porta si spalanca improvvisamente, l'uomo quasi cade dalla sedia sulla quale si teneva pericolosamente in bilico sulle gambe posteriori (un altro trucchetto per tenersi desto). Sulla soglia c'è qualcuno che sul momento non riesce bene a distinguere. Magra, avvolta in un cappotto liso e di almeno due misure più grande, con una sciarpa malamente arrotolata intorno alla testa, la figura che Dooley riconosce dopo qualche secondo, appartiene alla vagabonda del quartiere, Rose... Vattelapesca, una vecchia alcolizzata all'ultimo stadio che è stata già innumerevoli volte ospite delle loro celle, in attesa di smaltire la sbornia del momento.

Rose abitava, se così si può dire, in una specie di gigantesca cassa di legno da imballaggio, in un vicolo sul retro di Sorrentino, il supermercato più grande del quartiere. All'inizio, per la verità, i gestori del negozio la facevano sloggiare praticamente un giorno sì e un giorno no, ma Rose tornava sempre con la sua inseparabile valigia a ruote, trovata chissà dove, e una padella e un fornellino a spirito che vi teneva legate sopra con una corda da pacchi. Per cui alla fine si erano arresi e avevano lasciato che rimanesse. La vecchietta era stata praticamente adottata da tutto il personale che passava spesso da lei per lasciarle qualche scatoletta, del pane, del latte e anche qualche soldo che però Rose spendeva invariabilmente per procurarsi alcolici di pessima qualità. Anche la cassa da imballaggio (che Rose aveva arredato con un sacco a pelo e l'angolo cucina, costituito dalla padella e dal fornello) era stato un gentile omaggio dei commessi di Sorrentino. In cambio Rose aveva promesso di tenere sempre pulito il posto che le era stato assegnato e bisognava ammettere che manteneva la promessa con molto impegno, comportandosi quasi sempre bene, tranne sporadiche occasioni in cui alzava un po' troppo il gomito. Allora la si poteva sentire piangere o lamentarsi anche per tutta la notte, finché il distretto locale non veniva allertato da qualche abitante dal sonno leggero, e Rose non finiva per passare il resto della notte in guardina, e il fatto che fossero sempre le notti più fredde, l'aveva spesso fatto sospettare che la cosa non fosse poi così casuale. In uno dei tanti soggiorni di Rose presso il distretto, Dooley aveva dato un'occhiata alla sua scheda e scoperto con sorpresa  che la vecchia Rose era in realtà più giovane di lui di tre anni, avendo compiuto da poco i quarantacinque. La miseria, la vita di strada e l'alcolismo l'avevano ridotta in quello stato. Le ragioni che l'avevano spinta in quella direzione non erano mai state chiare, ma nella sua tranquilla follia, Rose vaneggiava a proposito di un qualche bambino, presumibilmente suo figlio, scomparso.

E mentre Dooley lascia la sua sedia dietro il banco e si dirige verso la donna sulla porta, i suoi pensieri sembrano fondersi con le parole che Rose sta biascicando, mentre regge tra le mani tremanti un sacco grigio dalla cui estremità pende un vivace nastro rosso.

"Il mio bambino... il mio bambino... hanno ucciso il mio bambino..."

"Rose... Che diavolo ti succede?!... E chiudi quella porta che si gela!"

Il poliziotto prende la donna per un braccio e la tira dentro, richiudendo la porta a vetri con un tonfo.

Tremante, irrigidita, Rose si lascia condurre strascicando i piedi, le dita delle mani serrate ad artiglio intorno al sacco. Dooley la fa sedere sulla panca di metallo in fondo alla sala.

"Ehi... vuoi calmarti...? Che c'è? Faceva troppo freddo fuori? Che hai lì? Fammi vedere."

E così dicendo, l'uomo fa per strappare dalle mani serrate della vagabonda il sacco, ma questa con lo sguardo fisso nel vuoto, continua a tenerlo stretto a sé. Persa la pazienza, dopo aver cercato di prenderglielo un paio di volte con le buone, Dooley afferra le mani della donna e la costringe ad aprirle.

"NO!" urla lei. "IL MIO BAMBINO! IL MIO BAMBINO!"

"Ma che cazzo dici?! E smettila di strillare o questa volta non te la cavi con qualche ora di prigione!"

E con un ultimo strattone, Dooley tira a sé il sacco di plastica, lacerandolo e spargendo il contenuto sul pavimento della sala, dove rimbalzano risuonando sinistramente minuscoli oggetti bianchi di differenti dimensioni.

Un attimo dopo, mentre Dooley cerca disperatamente di mettersi in contatto con qualcuno dei colleghi, l'unico suono nella grande sala sono i singhiozzi della vecchia Rose, che inginocchiata a terra, sta cercando di recuperare tutti i pezzi di quell'orrido puzzle, inframmezzati da una frase ossessivamente ripetuta e appena comprensibile nella sua bocca quasi priva di denti.

"Il mio bambino... Hanno ucciso il mio bambino."

 

 

(19) Jennifer

 

Nella gelida alba, Jennifer si tira su per l'ennesima volta il risvolto del cappotto, cercando vanamente di ripararsi dal fastidioso vento di tramontana che le taglia in due il viso. Leccandosi le labbra screpolate dal freddo, ripercorre con la mente i momenti che hanno preceduto la sua imprevista sortita a quell'ora impossibile. Lo squillo del telefono l'aveva risvegliata da un sonno agitato popolato di immagini e suoni e parole, confusi in un incomprensibile caos che nel momento del faticoso ritorno alla coscienza, l'aveva lasciata per qualche momento profondamente perplessa sul luogo e il tempo in cui si trovasse. Era rimasta per diversi secondi a fissare attraverso le ciglia socchiuse e impastate dal sonno, quella cosa nera e inquietante a pochi centimetri da lei, da cui sembrava provenire quel suono che le traforava il cranio, cercando di darle un significato. Poi la sua mano quasi in modo indipendente da un qualsiasi ordine del cervello, incapace ancora di connettere lucidamente, si era avventurata fuori dalla coperte per raggiungere lo strano e sconosciuto oggetto squillante, tentando di farlo tacere. E mentre le dita vi si stringevano intorno, il pollice traditore aveva sfiorato d'istinto il pulsante con il piccolo OK intermittente e la voce che era giunta dal ricevitore aveva cacciato in un attimo quel senso di estraniamento.

"Rowles!"

Jennifer era rimasta ancora per qualche momento ad osservare il minuscolo cellulare, con un vago senso di nausea, come se ancora non fosse ben convinta della sua esatta natura. Poi se lo era portato all'orecchio.

"Che diavolo vuoi? Lo sai che ore sono?"

"Rowles, ascolta, non riattaccare."

La voce di Carruthers conteneva un'insolita nota di angoscia che la fece esitare nella sua intenzione di riattaccargli davvero sul muso.

"Per favore."

Queste ultime due parole erano arrivate dopo una pausa, come se il poliziotto avesse dovuto costringersi a pronunciarle, ma con un implicito tono di implorazione che Jennifer non aveva mai sentito a sua memoria dall'uomo prima di allora. Era rimasta in silenzio, in attesa.

"So che è prestissimo, ma è successa una cosa..."

Nuova pausa.

"Ho bisogno che tu venga subito. Sono al diciottesimo distretto, Clairmont Avenue. Prendi un taxi e mettilo in conto al dipartimento."

"Che è successo?"

"Devi parlare con una persona. Ti prego, Rowles, non farmi difficoltà. Non ho alternative. Ho bisogno di te."

Due implorazioni nello spazio di un minuto.

Jennifer aveva gettato soprappensiero un'occhiata ai vetri della finestra appannati dall'escursione termica con l'esterno. E d'un tratto il freddo esterno le era sembrato invadere anche lei stessa. Ciò che aveva visto per una frazione di secondo oltre la finestra le aveva fatto come emergere davanti agli occhi immagini del sogno interrotto. Erano confuse, annebbiate nella ritrovata lucidità del risveglio, e lei le aveva cacciate subito con un brivido, ma questo non aveva impedito che lasciassero dietro di loro un senso indefinibile di paura.

Per un attimo, un attimo brevissimo, dietro quei vetri aveva intravisto degli alberi di una foresta oscura che parevano tendere i loro rami simili ad artigli verso di lei. E non c'erano alberi fuori dalle sue finestre. Non ce ne erano per molte miglia, in quel quartiere, o in altri simili che lo circondavano.

Quasi come se fosse ancora in sogno, si era alzata, si era avvicinata alla finestra ed aveva guardato fuori.

"Rowles. Sei sempre lì?"

Solo allora si era resa conto di stringere ancora in pugno il cellulare. Se lo era portato nuovamente all'orecchio e le sue labbra avevano pronunciato le parole, prima che la sua mente potesse fermarle.

"Sto arrivando."

Ed aveva spento senza attendere risposta da Carruthers, con gli occhi incollati ai vetri. Tra i palazzi addormentati, le solite luci ammiccanti della città notturna si riflettevano nelle sue pupille.

 

 

 

Interludio

 

 

Dietro la porta chiusa: l'amore

 

Improvvisamente, nonostante l'umidità della notte, l'aria si è fatta torrida in quella piccola stanza, in cui le pareti sembrano d'improvviso stringersi intorno a loro. Xena ha cominciato subito a baciarla sul collo. Ma non sono i piccoli baci delicati con cui generalmente inizia ogni loro rapporto. Non questa volta.

Olimpia sente le sue labbra succhiare, i suoi denti mordere, non tanto da penetrarle la pelle, questo no, ma abbastanza da mandarle lunghe fitte di piacere lungo la spina dorsale. Qualunque cosa debba succedere di lì a poco in quella stanzetta, su quel piccolo, scomodo e ruvido giaciglio, di sicuro sarà molto più interessante del solito.

Olimpia, dal canto suo, ha il viso immerso nei capelli della compagna, in quel profumo che ha sentito ed in cui si è persa tante volte, più di quante ormai riesca a contarne (e ora le dispiace di avere smesso di farlo molto tempo fa), ma in qualche modo questa volta le sembra che permei l'intero ambiente, fortissimo, inebriante, e se ne riempe i polmoni.

Poi la bocca di Xena lascia il suo collo e risale fino alle sue labbra che lei spalanca lasciando che la lingua della compagna la penetri, iniziando una danza sinuosa con la sua, mentre il peso di lei le si abbatte addosso, precipitandole entrambe sul pagliericcio sottostante.

E vortica la mente di Olimpia, in quegli attimi di frenesia e di ardore, mentre sente più che vedere le mani esperte di Xena che la liberano dagli abiti, solo vagamente cosciente delle sue che stanno facendo altrettanto sul corpo della compagna.

(Sposa! Sposa!! E' la mia sposa!!)

E i vestiti volano dall'altra parte della stanza, mentre i due corpi nudi si stringono, si avvolgono, si annullano l'uno nell'altro, e d'un tratto il tempo sembra nuovamente dilatarsi oltre ogni possibile limite. Gli ansiti dei loro respiri, i battiti accellerati dei loro cuori unificati in un groviglio di sensazioni inestricabilmente intrecciate tra di loro.

Si dice che nel  momento in cui si muore tutta la nostra vita ci passi davanti agli occhi in un lampo, ma lei aveva sperimentato la morte e non ricordava niente del genere. Il mondo si era semplicemente offuscato intorno a lei, prima di gettarla in un buio fitto e solido come la parete di pietra che la sua mano stava artigliando in quel preciso momento.

No. Era adesso, mentre la sua mente vagava come cercando rifugio da quella valanga, quel terremoto, quel diluvio di desiderio che pareva averla travolta, era ora che il passato le tornava davanti, che le era concesso di ripercorrere i suoi ricordi e rivivere i momenti da cui tutto questo era nato.

Da quel primo, primissimo attimo in cui l'aveva vista, e...

 

...non ne è ben sicura. Una donna, bruna, alta, fiera e bellissima, che trattiene senza apparente sforzo il braccio muscoloso di quell'uomo che stava per colpirla. Possibile? E quella donna è praticamente nuda per di più, senza armi, senza protezione... Eppure tutto in lei evoca sicurezza. Nella sua voce non avverte la minima esitazione. Una dèa, forse? Aveva sentito dire che a volte gli dèi appaiono ai mortali, anche se a lei, né a nessuno che conoscesse, era mai capitato (non ancora almeno). Ma non ha molto tempo per rifletterci sopra, perché d'un tratto scoppia il caos, e al centro c'è lei che lotta, colpisce, salta, vola letteralmente, ed è in quel momento che...

 

... si era innamorata di lei? Se lo era chiesto molte volte. Quando era avvenuto esattamente? Era una cosa accaduta gradualmente, giorno dopo giorno, momento dopo momento, oppure era stato il risultato di un attimo? Magari di quell'attimo meraviglioso e terribile, in cui le loro bocche si erano finalmente incontrate? Proprio come ora, le labbra della guerriera, dopo aver percorso tutto il suo corpo scendendo lungo i seni dai capezzoli inturgiditi, fin sotto il ventre teso e muscoloso, stanno suggendo da altre labbra, inumidite dal desiderio, mentre il velluto dei suoi capelli le scivola sull'interno delle cosce, spingendola a mordersi la lingua per non urlare, per non emettere in un singolo, altissimo grido tutto il suo piacere, il suo stupore di come ogni cosa, nonostante il tempo e le avversità continui ad avere la stessa fragranza, lo stesso sapore della...

 

... prima volta. E' la prima volta, questo solo la sua mente riesce a pensare, mentre il viso di Xena lentamente scende su di lei. E quelle labbra, fresche, morbide, appassionate premono sulle sue. E' un bacio delicato, dolcissimo e quasi timido, ma ben diverso da quelli (non molti, per la verità) che ha sperimentato alla sua giovane età. Lei si sente come una statua di marmo. Non potrebbe  muovere un muscolo neanche se ne andasse della sua stessa vita, ma neanche Xena la tocca. Il loro unico contatto sono le loro bocche, e in quel momento è come se si parlassero molto meglio e molto più profondamente di quanto abbiano mai fatto prima, perché questa volta è di amore che parlano senza emettere un suono. E lei si chiede come abbia fatto a non capirlo, a non vederlo prima, come, ogni volta che i suoi occhi si posavano su di lei, o ogni volta che le sue mani la sfioravano. Come ha potuto non accorgersene? Ora...

 

... mentre la bocca della sua compagna (sposa! sposa!! sposa!!!) ripercorre il suo corpo al contrario lasciando una scia umida ed incandescente ad un tempo sulla sua pelle, lungo valli e colline, fino a raggiungere nuovamente il suo collo, il suo viso, le sue labbra, recando con sé il suo stesso odore, il suo stesso sapore da condividere, la sua mente torna ad un mattino di tanti anni prima, ad una tenda che si apre e ad uno sguardo in cui d'improvviso sorpresa, sconcerto, delusione e cos'altro, gelosia? s'inseguivano. E lei in qualche modo se lo era aspettato, lo aveva...

 

... voluto, pur non comprendendo esattamente cosa l'abbia ispirata a dormire con quel ragazzo, anche se tra loro non è accaduto nulla (troppo giovane ed ingenuo lui, ma se così non fosse stato, lei non avrebbe comunque mai permesso che potesse accadere). Adesso che vede gli occhi di Xena e legge il dolore dentro di essi, intuisce perché l'ha fatto e, da qualche parte nel profondo, prova vergogna e rimorso. Ma il suo orgoglio alla fine prevale e riesce a nasconderlo meglio di quanto non si creda capace, e la fissa con aria di sfida, rispondendo al suo silenzioso rimprovero con parole gelide e cattive. Ma quello che Xena non sa, quello che non saprà mai, sono le notti che trascorrerà a piangere, ripensando a quel momento ed al dolore provocato volontariamente alla sua amica, giurando a se stessa che una cosa del genere non accadrà mai più. E invece...

 

... era accaduto eccome, e nel modo peggiore. E adesso, mentre le sue labbra abbandonano quelle dell'altra, assaporando la sua pelle, con il leggero gusto salato di sudore che la ricopre, per a sua volta baciare, mordere e succhiare, quei seni generosi offerti alla sua bocca avida di desiderio, si rende conto di come in parte, in quel tempio, di fronte a quell'altare, con l'uomo che aveva appena sposato che l'attendeva, aveva rivisto quello stesso sguardo, mitigato appena da un sorriso forzato per non turbare la sua felicità. Ma...

 

... non è felicità quella che prova in questo momento. E' uno strano, indefinibile groviglio di emozioni, mentre fissa i suoi occhi in quelli di Xena, che non le sono mai apparsi più azzurri, più profondi, più tristi, ma lei continua a fingere. Perché deve. Perché Xena le ha detto che sarà felice a sua volta se questo le darà felicità e non può non cercare di accontentarla con tutte le sue forze, per l'amore che le porta, perché lei si senta tranquilla, sicura di lasciarla in mani fidate, perché non abbia il minimo dubbio che quella è la miglior soluzione per entrambe. E perché non sappia mai della paura che alberga nel suo cuore, perché non sospetti mai nemmeno di sentimenti che cominciano appena a nascere, ma che non hanno diritto di esistere. Sì, è meglio così, che le loro strade si dividano ora, prima che la tempesta possa esplodere travolgendo tutto, compresa la loro amicizia. E' un segno degli dèi, e i segni divini non vanno ignorati, neanche quando un addio ("Non ti permetterò di dirmi addio") strazia l'anima, e non sopisce come sperava la paura, ma anzi l'aumenta, riempiendola di sgomento davanti ad una decisione definitiva e che non lascia spazio ai ripensamenti. Ormai è tardi, ma...    

 

... il ricordo di Perdicca e del motivo assurdo e incomprensibile (oggi ma non allora, quanto sciocchi si poteva essere a quell'età), per il quale avesse accettato di sposarlo, si appanna nella sua mente e lascia il posto all'impulso che le monta dentro possedendola interamente e spingendola a fare una cosa che non accade di frequente fra di loro, ma quando accade riempie il loro rapporto di un'eccitazione senza pari.

Talvolta, sempre senza avvisaglie premonitrici, Xena le lanciava il segnale, che generalmente consisteva in un gesto ben preciso: si sedeva sul bordo del letto o del loro occasionale giaciglio, chiudeva gli occhi e gettava la testa all'indietro, lasciando che le sue chiome corvine le scendessero morbidamente lungo la schiena, restando così, appoggiata sulle braccia tese dietro di lei, e con i suoi magnifici capelli che sfioravano la superficie sulla quale erano distese e che, alla luce della candela nella stanza di qualche locanda o del fuoco acceso nel mezzo di un accampamento, mandavano riflessi d'indescrivibile bellezza. Poi, lentamente si voltava verso di lei, gli occhi si socchiudevano e la fissavano con un'espressione che aveva ormai imparato a riconoscere e ad attendere con ansia.

"Prendimi" dicevano quegli occhi "stanotte sono tua".

La prima volta che era accaduto, lei si era sentita spaventata. Xena le stava davvero chiedendo di prendere l'iniziativa, di condurre il gioco, di dominarla? O era la sua fantasia sovreccitata a suggerirglielo? Ma non era stata molto a domandarselo e l'aveva fatto. Semplicemente. Si era messa sopra di lei e, seguendo le istruzioni che le dava sorridendo per calmarla, aveva cavalcato, posseduto la sua Principessa Guerriera, e i suoi gemiti, che salivano gradatamente, man mano che l'amplesso aumentava d'intensità, fino a divenire vere e proprie urla di piacere, erano stati un premio ed un incoraggiamento per il futuro. Da allora, questo speciale tipo di rapporto, era rimasto come una lieta eccezione a cui ricorrere solo di tanto in tanto, solamente quando le circostanze lo permettevano, e se era Xena a desiderarlo. 

Ma adesso, è stata lei invece ad iniziarlo, senza chiedere, incurante delle circostanze e di qualsiasi cautela, seguendo soltanto l'istinto e il selvaggio impulso che si è impadronito di lei, proprio come lei si è impadronita di Xena, che tra le ondate di piacere che le sta evidentemente provocando, le invia occhiate sorprese, ma anche invitanti, meravigliata e felice di questo suo sfoggio di carattere, e allarga le gambe ancora di più per concederle un migliore accesso, mentre il tono dei gemiti e degli ansiti si alza sotto i colpi sempre più veloci e violenti del suo bacino e il sapiente uso delle dita che la penetrano con destrezza ormai lungamente acquisita, e le unghie di Xena scavano sottili solchi rossi sulla sua schiena, per esplodere alla fine in un grido simultaneo quasi liberatorio, quando il flusso dei loro umori trova sfogo e si mescola in mezzo alle loro gambe. Poi, con il respiro ancora ansimante, le due donne cercano ognuna lo sguardo dell'altra in cui immergersi e le loro labbra si uniscono in un ultimo lieve bacio a sigillo del più totale, violento ed appagante coito che abbiano mai avuto.

E intanto che, nel silenzio ristabilito nella piccola stanza, il respiro ed il battito dei loro cuori ritrova normalità nel ritmo, Olimpia, il corpo sudato ancora strettamente aderente a quello di Xena, svuotata di ogni energia e al tempo stesso piena di pace e serenità, riapre appena gli occhi per guardare dalla finestrella i primi deboli baluginii dell'alba ormai imminente, e li richiude con un sorriso soddisfatto, cercando una posizione ancora più confortevole sul suo morbido materasso umano, che già dorme con le braccia protettivamente allacciate intorno a lei. 

 

(3 - continua)

 





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