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Vola al di là della neve

di Svetlana Yaroslavna  Puskovic

 

26 La farfalla ad ali spiegate

Seattle, Washington state.
L’acqua s’era quasi freddata e Lara si domandò se non fosse giunto il momento d’uscire. Ormai era più d’un ora e mezza che si rilassava immersa in quella vasca circolare, scavata nel pavimento della stanza da bagno. Le grinze sui suoi polpastrelli fecero capolino dalla fitta spuma di sapone, che come un manto ricopriva la superficie dell’acqua, e parte del corpo di Lara quando si decise a uscire. I suoi piedi bagnati tracciarono un’impronta temporanea sul marmo bianco del pavimento, mentre brividi di freddo la sollecitarono ad avvolgersi nel suo accappatoio color lilla. Il gradevole olezzo del bagno schiuma alla ginestra le aveva piacevolmente profumato la pelle, e qualche ciocca della sua folta capigliatura sfuggita alle mollette. Gradualmente la stanza s’irraggio dei toni vespertini che filtravano dall’ampia vetrata a cupola posta sopra la vasca. Lara corse in camera sua e raggiunse la finestra, sapeva che mai come a quell’ora poteva ammirare la cuspide innevata del monte Rainier tingersi d’un brillante arancio cadmio. Da quando era arrivata a Washington state, era solita ammirarlo a ogni tramonto, prima che il buio della notte lo occultasse persino alle stelle.
- D’ora in poi sarà la mia statua della libertà! – Aveva confidato al fratello a poche ore dal suo arrivo a Seattle, quando lui, tra incredulità ed entusiasmo, le mostrava fiero la reggia invernale. Lara abbandonò il monte con lo sguardo, ed ebbra della sua luce si sentì pervasa da un’ancestrale energia che la rinvigorì nello spirito, ma il suo corpo fiaccato dal bagno caldo la spinse a tuffarsi nel confortevole letto a due piazze, sormontato dal baldacchino.
- Lara? –  Si sentì chiamare dal fratello appena giunto in camera sua. Lara si levò a mezzo busto e scorse il fratello madido di sudore, nella sua tuta da ginnastica in lycra che come una seconda pelle rivestiva il suo fisico scultoreo.
- Non dirmi che hai portato le tue Reebok a battere l’asfalto con un simile freddo solo per scolpire quei bicipiti, Clark! - Lo ammonì la sorella scuotendo la testa, ormai aveva familiarizzato col puntiglioso perfezionismo che contraddistingueva il carattere del fratello. Sapeva che Clark prendeva sempre tutto sul serio, ma ciò non gl’impediva di coltivare quell’innato senso dell’umorismo che lo rendeva irresistibile. Clark non si cimentava mai in un’impresa se prima non era saldamente persuaso di portarla al termine nel migliore dei modi; Lara era convita che la sua spiccata inclinazione al successo poteva facilmente trasformarlo in un leader del settore industriale, oppure in un senatore in corsa per la Casa Bianca, ma il giovane Clark aveva scelto d’intraprendere la carriera forense, e a dispetto dei suoi ventisette anni e della scarsa esperienza in ambito pratico, eccelleva già tra i venerandi penalisti di Seattle.
- Niente footing oggi, soltanto addominali, e sollevamento pesi giù in palestra. – Replicò sfinito, passandosi l’asciugamani sulla chioma castana. – Volevo dirti che è appena arrivato quel maggiordomo inglese che mi hai chiesto di contattare, l’ho fatto accomodare giù nel salone e ti sta aspettando. –
Lara si scapicollò giù dal letto colta da irrefrenabile entusiasmo. – Willard è qui? Oh, vado subito! –
Esclamò, prima di sgusciare via come un’anguilla al piano di sotto. Willard macchinava con le lancette del suo Rolex per adeguarle all’ora locale. Il peso del jet lag gravava come piombo sulle sue articolazioni, fin troppo provate dal lungo volo intercontinentale.  Quando Lara lo raggiunse nel salone, interpretò la sua stanchezza dalle marcate occhiaie che gli appesantivano lo sguardo al pari di due sassi.
- Willard! Che immenso piacere rivederti. – Lo accolse Lara, stringendosi il cinturino dell’accappatoio, in lieve imbarazzo per l’essersi precipitata dal suo ospite in tenuta termale, ma Willard non badò neppure un attimo al vestiario della giovane, stupito com’era di ritrovarla negli Stati Uniti a condurre una nuova vita.
- E’ un piacere anche per me, signorina Lara; pensi che la credevo a Londra, e poi, d’un tratto ricevo un’offerta di lavoro da parte di suo fratello che mi reclama in America per conto suo. –
Lara s’allietò per le parole di Willard. - Spero sia superfluo domandarti se hai accettato la mia proposta, non voglio pensare che hai affrontato un simile viaggio solo per declinare di persona. -
Willard sorrise con l’aria di chi aveva già deciso. - Nessun rifiuto, sono qui per prestare la mia opera professionale. - Poi si spostò in direzione della porta a vetri alle sue spalle, e ricavando uno spiraglio attraverso il tendaggio, scorse l’ampia distesa di terreno che circondava l’intera abitazione. Poco prima ne aveva percorso un tratto in automobile, e sotto l’ipnotico sdrucciolio della ghiaia, s’era persuaso che l’avvocato Clarck Haley, nel tempo libero amasse concedersi lunghe galoppate in groppa a quei cavalli ricoverati nella scuderia. – Non immaginavo che le parcelle per i giuristi fossero così esose a Seattle. - Commentò il nuovo maggiordomo di casa Haley, alludendo alle agiatezze che lo circondavano. Lara si raggomitolò nella poltrona adiacente al camino, badando bene che il suo accappatoio non si slacciasse all’altezza della vita.
- Schiettamente non conosco gli onorari dei penalisti qui a Seattle, ma i quarantamila metri quadrati di questa abitazione sono decisamente fuori il budget di una matricola del foro come mio fratello. Vedi, Willard, quando la madre di Clarck divorziò da mio padre, si trasferì qui a Seattle per questioni di lavoro. Clarck la raggiunse qualche anno dopo, a seguito dell’incidente stradale in cui persero la vita i miei genitori. – Willard l’ascoltava taciturno, auspicandosi che il suo accoramento trasparisse per rincuorare la ragazza. - Fu grazie a Clark che la vita di sua madre subì una svolta inaspettata. –
- In che modo lui vi riuscì? – Domandò Willard. Lara ammiccò sorridente.
- Un bel pomeriggio di aprile, sua madre gli chiese di pronunciare ad alta voce i primi sei numeri che gli giungessero in mente, con la sola accortezza di indicare i primi cinque compresi tra uno e cinquantanove, e il sesto tra uno e trentanove. Clarck lo fece, di getto, senza rifletterci su parecchio, e come d’incanto indovinò la combinazione vincente del powerball! –
Willard sgranò gli occhi sorpreso. - Beh, che dire, una volta tanto non ha piovuto sul bagnato. –
- Già. - Replico vaga la giovane mentre il verde smeraldo dei suoi occhi si adombrava oltre un sottile velo di mestizia. Compunta, smorzò i toni gioviali della sua parlantina, un’improvvisa afflizione le era crollata addosso.  Willard percepì il turbamento della giovane, gli parve quasi di palparlo come fosse un’entità concreta.
- E’ in pena per la signorina Astrel, non è così? – Lara fissò Willard negli occhi, stupita dalla sua lungimiranza, avrebbe voluto cedere al pianto, lasciare che Willard la rassicurasse, promettendole magari che tutto si sarebbe risolto in breve tempo e nel più fausto dei modi.
- Oh Willard, sono terrificata dall’idea che possa esserle accaduto qualcosa di brutto! Quando sono arrivata a Seattle ho provato a rintracciarla in Russia, chiamando a quel collegio. Mi ha risposto una donna, diceva di essere la direttrice della scuola. – Willard si fece interessato alla narrazione della giovane, quasi muoveva le dita nel desiderio d’espugnarle informazioni su Astrel.
- Ha parlato con la direttrice del Majakovskij? E cosa le ha detto? –  Lara s’irrigidì nelle spalle, quasi l’eco di quella voce crocidante le risuonasse ancora dentro le orecchie.
– Se ti dicessi che è stata scortese userei un eufemismo, non so per quale ragione quella donna fosse così in collera con me, ma ricordo che dopo avermi strillato che Astrel era sparita, ha riagganciato il telefono senza concedermi il tempo di ribattere in alcuna maniera. – Willard si accigliò insospettito.
- Quella donna non mi piace, possiede un non so cosa di losco oserei dire. – Lara sottoscrisse l’impressione di Willard.
- Tutto quello che so sulla vicenda di Astrel l’ho appreso dai notiziari russi, perfino il volto bieco della Rosencrans mi è stato presentato attraverso la tv. –  Lara si passò una mano intorno al collo massaggiandolo.  - Willard, posso farti una domanda? – Il maggiordomo assentì compiacente – Secondo te è potuto accadere qualcosa di brutto ad Astrel? – Willard aggrottò le ciglia in segno di scongiuro. Il frustrante ruolo di spettatore del fato lo aveva indotto a soppesare tutte le possibilità, lui non escludeva il peggio, ma in cuor suo anelava una lauta novella che come manna dal cielo giungesse a scacciar via ogni tribolazione. Lara pendeva dalle sue labbra, sapeva che comunque avesse risposto, Willard non aveva altro da elargire se non il suo personale parere, eppure, la giovane sembrava in attesa d’un vaticinio divino. Il maggiordomo avvertì un inedito senso di responsabilità premere sulla coscienza, non poteva scorare la ragazza con le sue perplessità, risponderle che temeva per la vita di Astrel l’avrebbe devastata.
- Ecco, signorina Lara, conosco Astrel da quando era appena una fanciulla, l’ho vista crescere e trasformarsi in una giovane donna, e se c’è un aspetto del suo carattere che è sempre rimasto tale, di certo quello e l’intraprendenza. Non penso sia saggio azzardare ipotesi in merito ad una vicenda di cui non conosciamo la trama, sarebbe prolifico invece, confidare in lei, e reputarla all’altezza di qualsiasi condizione la vita le abbia posto innanzi. – Lara accolse le motivazioni di Willard come valide, la sua emotività fu in parte rabbonita dalla razionalità.
Un cielo terso e sussurrati aliti di vento facevano da sfondo ad una serena mattina d’inizio maggio. Una brulla distesa di sabbia, maculata dalla neve, accoglieva me ed Astrel, che accovacciate sotto il canto delle foglie ammiravamo il germogliare della natura. Il fiume Kama fluiva in sottofondo serpeggiando tra le rocce e i ponteggi che lo sovrastavano.  La penna che impugnavo con la mano sinistra stazionava a mezz’aria pronta a imprimere d’inchiostro la candida pagina del mio nuovo diario.
- Quanto tempo ti ci vorrà per scegliere una frase adeguata? – M’incalzò Astrel avvicinando il mento alla mia spalla, quasi a voler sbirciare i segreti di quella pagina ancora vuota. Le sue mani calde mi cingevano la vita, mentre il suo petto mi faceva da comodo riposo per la schiena.
- Beh, non saprei, questa non è una frase qualunque, sto cercando di trovare il titolo adeguato al nuovo capitolo che stiamo vivendo, qualcosa che lo compendi e che riassuma al contempo tutto il mio trascorso. Astrel mi fissò col sorriso fra le labbra, per la prima volta dopo parecchio tempo, ritrovai in lei quella gioviale serenità che persone come Ivan, Ruslan o la Rosencrans, ci avevano estirpato via dal cuore.
- Ma per sintetizzare tutto questo occorrerebbe un romanzo, non una semplice frase. –
- Aspetta! – Esclamai, illuminata da estro poetico – Ci sono! Ora so come esordire. – Astrel rimase in attesa che le svelassi la mia ispirazione.
- La farfalla ad ali spiegate. Che ne dici? –
- La farfalla ad ali spiegate? - Ripeté lei armoniosa, trasmutando quel verso in una gradevole musicalità.
- Una farfalla come quella che hai tatuata sulla pancia?-
- Sì, proprio come quella. Due ali pronte a spiccare il volo battendo l’aria, due ali capaci di prescindere le leggi gravitazionali e d’inscrivere nel vento la propria direzione. Non credi anche tu che volare significhi esser liberi? – Astrel annuì fissando il cielo, con gli occhi che carpivano le tonalità di blu.
- Un po’ come volare al di là della neve, non è così? –
- Esatto. – Rimarcai – Sai, se la gente riuscisse a volare oltre la neve sarebbe libera, così come lo saremmo noi. – La mia compagna cambiò posizione, adesso si era accovacciata sulle mie gambe lambendomi il ventre con la gota destra. Quando le posai una mano sui capelli lei socchiuse gli occhi, insieme godemmo di quel momento d’intimità.
- Libera in che modo? – Con le punte dei polpastrelli le carezzai il collo, mentre riflettevo su come spiegarle al meglio ciò che intendevo.
- Immagina la neve come se fosse un manto. Sotto questo manto si celano sterpi e timidi germogli d’orchidea. I timidi germogli soggiacciono all’asfissiante coltre di ghiaccio, ogni istante anelano di potersi cibare di un solo refolo d’aria, di un fugace assaggio di cielo. Bramano incessantemente affinché i miti raggi di sole giungano ad annientare il loro supplizio. Gli sterpi, invece, non penano il freddo e non occorrono di luce né aria. Non sanno cosa si celi al di là, anzi, non sono neppure consapevoli di trovarvisi sommersi nel ghiaccio. La neve è il pregiudizio dell’umanità. Sono in molti a perpetuarlo tramite pensieri e gesti, senza neppure rendersene conto, e ogni volta che agiscono in tal maniera, il manto di neve si fa sempre più fitto e pesante. Ciò che temo, è che prima o poi quelle timide orchidee morranno asfissiate. – Astrel adesso non aveva più gli occhi socchiusi, ma li teneva sgranati e fissi su di me, erano come incantati. Sembrava una bambina d’altri tempi che udiva la fiaba del cantastorie.
- Le orchidee saremmo noi? – Mi domandò, cimentandosi nella mia metafora – martoriate dai pregiudizi altrui e impossibilitate per questo a spiccare il volo? –
- Siamo anche noi, certo. –
- Ma se la gente che perpetua il pregiudizio ha l’animo arido come gli sterpi, non ha interesse a sciogliere il manto nevoso, sono già morti, e non gli occorre cibarsi del sole e dell’aria. – Sorrisi amaramente alla mia compagna, soppesando con rammarico le sue parole.
- Ora capisci perché io e te non possiamo prenderci per mano e volare? La gente non è interessata alla nostra causa. A quale scopo una bella famigliola di borghesi con due figli e un cane, dovrebbe arrestarsi a riflettere sulle ragioni che ci vietano di possedere altrettanti? Dicono che non possiamo amarci né fare sesso, che il matrimonio non è lecito così come non lo è allevare figli; Parafrasando, essi pretendono che ci annulliamo. Già, preferiscono cancellarci più che sforzarsi di non temerci come fossimo untori di peste. – Astrel tornò a mettersi seduta e mi strinse a sé con tutto l’amore che provava; anche se non avevo mai creduto nella magia, non mi giungeva altra parola per definire quell’emozione di totale assenza di dolore che la sua vicinanza mi donava, era come un nirvana.
- Forse io e te non abbiamo calore a sufficienza per sciogliere la neve, ma la primavera giungerà come ogni anno. – Scrissi il titolo a lettere maiuscole, fiduciosa che fosse d’auspicio. Avrei preferito scolpirlo sulla roccia piuttosto che su una pagina di diario, così da conferirgli maggiore tempra, ma con Astrel al mio fianco, quella frase avrebbe albergato per sempre nel mio cuore, così da ricordarmi a ogni levar del sole che le anime ricongiunte sono farfalle ad ali spiegate.
- Credo sia meglio tornare dagli altri. – Disse Astrel stiracchiandosi le braccia verso l’alto.
- Sì, è ora d’andare, sono quasi le due. – Acconsentii, appagata dalla piacevole mattina trascorsa sulla battigia del fiume Kama.  Percorremmo a piedi un breve tratto di sabbia, poi tornammo a battere il sentiero lastricato raggiungendo infine la strada principale. Astrel mi prese per mano, sentivo ch’era in cerca di sostegno, forse soltanto di serenità per ripristinare il suo equilibrio emotivo. Quel giorno eravamo entrambe eccitate per l’aver raggiunto Perm’, ultima tappa della nostra tournee, e angustiate al contempo, perché consapevoli che quella fredda città ai piedi degli Urali, rappresentava il capolinea di un viaggio durato ben cinque mesi. Non avrei mai creduto che un lasso di tempo così breve sarebbe bastato per avvizzirci a uno stile di vita girovagante. Viaggiando in compagnia di artisti circensi, avevamo da loro imparato, che peregrinare di luogo in luogo agevola nel trasformarsi in cittadini del mondo. La mancanza di una residenza fissa non implica la perdita d’identità, ma consente all’io di sperimentare meglio il qui e ora. Sono in molti a credersi perduti senza le proprie radici, io e Astrel invece, avevamo compreso che solo sdradicandosi ci si affranca dal suolo. Divincolarsi dal potere dei media, dai valori etici sigillati nella religione, dalle consuetudini comportamentali inscritte negli usi e nei costumi, significa un’unica cosa, giovare di una salubre catarsi che rende ameno lo spirito. All’orizzonte apparve l’imponente tendone da poco issato, coronato da festose bandierine che cimavano oltre i cordoni di lampadine. I camion per il trasporto delle attrezzature e i box per gli animali erano sparsi nella parte posteriore del tendone, mentre nel lato opposto, si estendeva l’ingresso per gli spettatori, affiancato dal modulo che fungeva da biglietteria, corredato di ben sei sportelli e d’indicazioni luminose in cima al tetto. L’inconfondibile profumo dello zucchero filato impregnò l’aria e viaggiò fino a raggiungermi, era come se volesse darmi il benvenuto, addolcendo il mio ritorno in quel regno suggestivo che a ogni giorno trascorso sentivo sempre più parte di me.
- Ehi? Arkadij vi stava cercando per fare una prova, fra tre ore comincia il primo spettacolo. – Vociò Valdamea appena sbucata dal suo camper, adorna di monili e scintillanti tessuti come suo consueto. Un brusio di voci confuse si levò alle nostre spalle, proveniva dal lato opposto del tendone. Valdamea si concentrò un momento su quel parlottare a tratti gavazzano, e un sorriso allettato le apparve in volto.
– Ecco la gente di Perm’ che accorre a darci il benvenuto. – Gli spettatori facevano già la fila alla biglietteria per aggiudicarsi un posto al nostro spettacolo di debutto. Astrel parve lusingata all’idea di ricevere un’accoglienza calorosa, andare in scena per la prima volta in una nuova città era per molti degli artisti più emozionante che presentare un numero inedito. Dapprima non riuscivo a comprendere che differenza potesse comportare l’esibirsi in un luogo differente, d’altronde, la performance era sempre la stessa, e anche il tendone sotto il quale andava in scena lo spettacolo rimaneva il medesimo. Che ci si trovasse a Mosca, a Novgord, a Perm’ o Kazan, la città restava preclusa allo show dai teloni. Ma la gente, quella cambiava continuamente, di luogo in luogo. I loro volti, adombrati nel buio degli spalti, altro non erano che incognite per gli acrobati sui trapezi, ma ugualmente non poteva dirsi per i loro applausi. Ogni artista, prima o poi, affina il suo udito a ricavare un’emozione da quegli scontri di mani. Anch’io avevo imparato che al di la di una caotica esultanza si nascondesse ben altro, forse un vero e proprio linguaggio. Ci sono applausi di stupore, applausi di cortesia, applausi di simpatia, e la durata di essi indica l’intensità del sentimento suscitato. Ed era proprio l’applauso d’inizio tappa il più ambito fra i circensi, quel tripudio di mani che nel suo battere incalzante voleva significare un'unica parola, benarrivati.  Prima di raggiungere Arkadij e provare insieme a lui, Astrel e io ci recammo di tutta fretta nel caravan in cui alloggiavamo per indossare i costumi di scena. Il nostro alloggio era una roulotte dalle modeste dimensioni, nulla a che vedere con i sei metri di lunghezza e  i tre di altezza su cui si estendeva il motorhome di Valdamea. A dispetto della tappezzeria originale che rivestiva i pannelli interni dell’abitacolo, facendo pendant con la moquette e la tendina sull’oblò posteriore,  quel caravan non avrebbe fatto invidia neppure a una tenda da campeggio. Il turbovent spesso non dava segni di vita e quando la notte entrava in funzione per scaldare l’aria, ci tormentava con un logorante ronzio. L’acqua del boiler bastava appena per una doccia, e ogni volta che ne lasciavamo scorrere qualche litro in più, il serbatoio per le acque reflue si riempiva. A ogni sosta eravamo costrette ad azionare i piedini stabilizzatori, così da neutralizzare  le oscillazioni causate dai nostri movimenti; senza il loro supporto sembrava di stare a bordo d’un peschereccio col mare in burrasca.  Ma a dispetto della precarietà in cui versavamo, quella grottesca stamberga profumava già di focolare, e quello per me, era un profumo del tutto inedito. Cosa può esservi di più dolce al modo che condividere lo spazio domestico con la persona amata? Non importa se a separarci dalle brutture della vita vi fosse un muro in cemento armato, un pannello in alluminio, o un semplice cartone, ciò che davvero contava, era la garanzia di possedere un rifugio ove ritirarsi ed escludere il resto. Quel pomeriggio tutto fermentava di buoni propositi, una piacevole verve regnava su ogni cosa come una sottilissima caligine, e io ne coglievo l’essenza cibandovi la mia ispirazione; così, quando ci ritirammo nel caravan, decisi che la prima storia ad adornare le pagine del mio diario avrebbe avuto a tema un’eccitante giornata risalente a qualche mese addietro. Ci trovavamo a Nižnij Novgorod, una metropoli della Russia europea situata nella confluenza del fiume Oka con il Volga, città natale di Maksim Gor'kij. A differenza di Perm’, Nižnij Novgorod rappresentava la nostra prima tappa dopo la dipartita da Mosca. La smania di debutto fermentava in ogni dove, per me e Astrel più che smania si trattava d’autentico terrore, prima d’allora la luce dei riflettori non s’era mai accesa su di noi, anche se eravamo ben coscienti, che di luce in scena ne sarebbe brillata ben poca. Valdamea sosteneva che non vi fosse modo migliore di occultare qualcosa se non ostentandola sotto il naso di tutti. La logica di quell’assunto mi era subito sfuggita e non riuscivo a scrutarvi altro di una grossolana incoerenza, eppure, a nessuno mai sarebbe saltato in mente che due ragazze ricercate dalla polizia si esibissero quotidianamente al circo, innanzi a centinaia di spettatori. Certo per attuare una simile strategia, che pareva presa a prestito dalla C.I.A, occorreva ingegnarsi e non abbandonare alcun dettaglio al caso. La corretta alchimia tra luci e ombre era fondamentale per la nostra esibizione, cosa più della luce permette all’occhio di conoscere? Così, con il benestare d’Arkadij, Valdamea aveva curato ogni sfumatura della nostra performance, agevolata dal temperamento mite e acquiescente che caratterizzava il giovanissimo domatore di cavalli. Ricordo che conoscemmo Arkadij a Mosca, il pomeriggio stesso della partenza - E’ l’uomo più atletico ch’io abbia mai conosciuto. – Ci aveva informato Valdamea servendoci una tisana al tiglio nella dinette del suo camper. – doveva fare il trapezista non il domatore di cavalli. -  Aveva poi commentato, mescolando la sua tisana con un cucchiaino da caffè per farvi sciogliere lo zucchero. Astrel sedeva di fronte a me agguantando la tazza bollente con entrambe le mani, mentre una voluta di vapore le oscillava sul viso. – Eccolo che arriva! – Esclamò d’un tratto Valdamea scrutando fuori dal finestrino. Astrel si destò e liberò la tazza dalla sua presa, sfregandosi le mani per asciugare il vapore che si era condensato sui palmi arrossati.
- Non mi avrai chiamato per comunicarmi la tua rinuncia alla tournee, vero? – Si sincerò Arkadij in procinto di varcare l’uscio del camper. I Fluenti ricci che ricoprivano il capo di Valdamea, come una maestosa  criniera, m’impedirono di osservare fuori dalla porta e conferire un’identità alla voce sonora che avevo udito, ma appena un attimo dopo, i ricci corvini liberarono la mia visuale e il volto liscio e glabro di Arkadij apparve con un sorriso cordiale. Mi stupii particolarmente constatare che il famigerato domatore di cavalli avesse sì e no diciotto anni, dalla fugace descrizione che Valdamea ne aveva fatto, m’ero convinta che fosse un uomo più adulto. Arkadij mi strinse la mano garbatamente, poi fece lo stesso con Astrel. Qualcosa nel suo sguardo vezzoso mi diceva che ci conoscesse già, e se così fosse stato non c’era di che meravigliarsi. Arkadij si mise presto a proprio agio catapultandosi sul letto disfatto della cartomante, ma Valdamea lo bacchetto seccamente invitandolo a togliersi gli stivali da cavallerizzo. Arkadij eseguì con un’espressione giocosamente esasperata, e poi tornò imperterrito ad accosciarsi sul letto. – Non mi hai ancora presentato le tue ospiti, Valdamea, questo non è da buona padrona di casa. – Si vendicò lui punzecchiandola spiritosamente. La donna stette allo scherzo e fingendosi sostenuta ci presentò come le sue nuove amazzoni. Lo sguardo d’Arkadij s’abbatté inquisitorio su di noi. Con un guizzo tornò in piedi e ci raggiunse, quasi da vicino potesse studiarci con maggiore dovizia.
- Ma voi due non siete… -
- Sì, siamo proprio noi. – Lo ammutolì Astrel, certa di trarre le corrette conclusioni. – Le ragazze svanite nel nulla. –
Arkadij si volse verso la cartomante trasecolato, con gli occhi sgranati e una risatina inebetita. Le parole gli mancavano e quasi senza rendersene conto formulò la domanda più consona in quella circostanza.  - Cosa ci fanno qui? –
Valdamea ostentò la sua reticenza, quasi lo facesse di proposito per suscitare in Arkadij maggiore curiosità. - Loro due vanno nascoste, e non v’è luogo migliore che in pista, durante il tuo numero. –
Arkadij storse il naso contrariato, lanciandoci l’ennesimo sguardo sbigottito. - Perdonami, Valdamea, ma sei un tantino maldestra come Arsenio Lupin. –
La ricciuta cartomante sbuffo con gli occhi che le roteavano verso l’alto. – Ascoltami bene, Arkadij. – Lo riprese, tenendo in scacco la sua attenzione - Immagina il tuo numero, i cinque destrieri che incombono in scena col  manto bianco, tu che ti cali dall’alto e atterri proprio al centro della pista sorreggendo la fiaccola accesa -
- Valdamea? Valdamea? – Tentò di zittirla Arkadij con le mani approntate verso la donna, come se  fosse alle prese con un macchinario impazzito in cui non trovava il pulsante Off .
- Conosco alla perfezione il mio numero. -
- Giusto. – Riconobbe lei smorzando quei toni appassionati. – Dunque, ciò che ti chiedo e di modificarne il finale. – L’aitante domatore si concesse una pausa meditativa, poi si accomodò sul divano bianco pronto ad assecondare la cartomante.
- Bene, sono tutto orecchie. – Valdamea raggiunse il tavolo innanzi al divano, lo stesso su cui prima aveva adagiato i tarocchi, e in piedi di fronte ad Arkadij cominciò a mimare la scena sul tavolo, quasi fosse alle prese con un modellino.
- Quando il tuo numero si conclude, i cavalli bianchi escono di scena. – Diceva, affannosi con le mani per simularne l’azione. – Anziché congedarti dal pubblico, tu ti attarderai al centro della pista, mentre una musica incalzante fa da preludio al loro arrivo. – Arkadij l’ascoltava in silenzio. – E infine, le due amazzoni incombono in scena illuminate solo dalla luce che emana la tua torcia, del tutto insufficiente per consentire al pubblico di riconoscere i loro volti. –  Seguì un silenzio carico di suspense, Valdamea teneva ancora le mani arcuate sul tavolo, ma quando udì la decisione d’Arkadij le lasciò cadere lungo i fianchi disfatta.
- Le amazzoni non vanno per niente bene. – disapprovò tassativo, neutralizzando ogni speranza. Fissai Astrel negli occhi e lessi in lei la mia stessa preoccupazione, se Arkadij non ci avesse accettato, non potevamo prender parte alla tournee, e Valdamea non era certo una fonte inesauribile di assi nella manica. - Tuttavia. – Seguitò, facendo breccia nel silenzio ch’era crollato. – Potrei rivalutare la cosa se accettereste di interpretare due Valchirie. – Arkadij si mise in piedi e affiancò Valdamea, che apprensiva bramava un nostro assenso.
- Ti riferisci alle fanciulle che nella mitologia norrena montano cavalli alati e conducono i guerrieri caduti in battaglia nel Valhalla? - Domandai, particolarmente incuriosita. Arkadij annuì.
- Precisamente. -
Così, appena due settimane dopo, debuttavamo a  Nižnij Novgorod. Il numero d’Arkadij era il terzo dopo la pausa d’intermezzo fra il primo e il secondo tempo, ma quella sera a  Nižnij Novgorod, nel corso dello spettacolo inaugurale, l’esibizione del domatore di cavalli subì un repentino slittamento nella scaletta; Arkadij doveva entrare in scena subito dopo l’intervallo, e quando lo informarono di ciò, l’intervallo stava quasi per concludersi. All’interno del caravan, Astrel ed io ci destreggiavamo alle prese con i lacci e le cerniere dei nostri costumi di scena. Valdamea s’era ingegnata affinché quelle vesti risultassero spettacolari e dissimulanti al contempo. Una cuffia in lattice raccoglieva la mia chioma alla base della nuca, celandosi sotto un elmetto in stile vichingo, munito di parrucca biondo oro. Dalla cintura che indossavo alla vita pendeva un fodero provvisto di spada, che frusciava, scontrandosi, con l’organza metallizzata della gonnellina. Anche il corpetto era realizzato in organza metallizzata con effetto laminato. Di medesima fattura era il costume di Astrel, tanto che vederglielo indosso mi dava la sensazione di riflettermi allo specchio.
- Beh, per un ballo in maschera sarebbe l’ideale! – Aveva commentato Astrel, sfoderando la spada dalla guaina con una certa inesperienza.
- Già, guadagneresti in originalità.- Sottoscrissi. Astrel tese la sua arma contro di me, impugnandola con entrambe le mani.
- Ho sempre ambito sfidare qualcuno a duello. – Pronunciò con voce rapsodica, tentando di soffocare il riso sotto una maschera di solenne valorosità.
- Non vorrai suscitare le ire di Odino? – Astrel cedette a una risata, tradendo il suo conturbante personaggio.
- Perché, cosa potrebbe accaderci se Odino s’adirasse? – Dei colpi tuonanti cominciarono a picchiare sui pannelli laterali del caravan, con una tale irruenza che la roulotte prese a ondulare. Rapidamente si propagarono lungo l’alluminio della scocca riecheggiando tutt’intorno. Astrel trasalì con un guizzo e la spada le sgusciò via dalle mani.
- Siete lì? Aprite, presto! - Strillò una voce trafelata. Corsi alla porta e la spalancai, Astrel m’affiancò con l’espressione interrogativa. L’aria gelida della sera invase ogni angolo del nostro umile focolare. D’improvviso ci sentimmo abbrancare e risucchiare fuori.
- Siete già pronte, che gran fortuna. - Si rallegrò Arkadij, mentre ci trascinava dagli avambracci, lungo il sentiero di ghisa che conduceva all’ingresso posteriore del tendone.
- Ma che sta succedendo? – Domandò Astrel, affannando un passo dietro l’altro.
- Hanno anticipato il mio numero, andiamo in scena adesso. – Avrei voluto maggiore tempo per assimilare ciò che mi apprestavo a fare. Del tempo per familiarizzare con quelle insolite vesti, e magari, del tempo per sbirciare le poltrone e le tribune gremite di gente attraverso il sipario. Invece, mi ritrovavo già in sella al mio cavallo alato, che docilmente si avviava verso il tendaggio ancora chiuso.
- Dannazione! – Imprecò Arkadij, lo vidi gironzolare sotto di me, innanzi gli zoccoli del cavallo, armeggiando con le cinghie che sorreggevano le ali del destriero.
- Le hanno affibbiate in maniera scorretta! – Si lamentò – Sono troppo lente, rischiamo che le ali si ribaltino finendo per penzolare sulla pancia del cavallo. – L’orchestra cominciò a suonare alcune note introduttive, mentre le luci si facevano pian piano soffuse.
- Prova a sistemarle. – Gridai dall’alto della sella, tentando di sovrastare la musica.
- No, non c’è tempo. – Sentenziò lui, pronto a scattare via. Astrel sopraggiunse a cavallo e mi affiancò insieme al suo destriero.
- Ricordate: due colpetti con i talloni per farli partire. – Ci raccomandò appassionato, poi si dileguò slanciandosi in una folle corsa. – E non abbandonate mai le redini! – Sentivo il cuore dentro al petto che batteva all’impazzata, da quell’altezza tutto acquisiva un’insolita prospettiva, era come starsene seduti su un trono a osservare il proprio regno in fermento. Ma il mio atteggiamento non era paragonabile a quello d’un sovrano che domina imperioso, io ero semplicemente terrorizzata. Probabile che il mio cavallo lo avvertisse e per tale ragione continuava a scudisciarmi le gambe nude con la sua coda. Mille ansie si affastellarono tra i miei pensieri, qualcuno avrebbe potuto riconoscerci, oppure, come Arkadij temeva, le ali si sarebbero ribaltate; magari sarei caduta da cavallo spezzandomi una vertebra.
- Rilassati, Sveta, sarà divertente, vedrai. – Astrel riuscì a rasserenarmi con le sue parole. Voltandomi verso lei compresi che non l’avevo ancora ammirata a fondo. Vederla montare a cavallo con quel costume da valchiria mi spezzò il fiato, era grintosa e impavida come un’autentica guerriera pronta a scendere nell’arena.  Il numero d’Arkadij era già cominciato e sapevamo che a breve sarebbe giunto il nostro momento. Quando le tende si spalancarono innanzi ai nostri cavalli, una folata d’aria ci travolse insieme alla musica. Quella sera il ruolo di pubblico spettava alla moltitudine di gente che assiepava le tribune, invece, fui io l’autentica spettatrice dello show. Come raccomandato da Arkadij, cominciai a tallonare lievemente, ma il cavallo partì prima che io lo chiedessi. Non fui capace di governare le redini per stabilire la direzione, il cavallo agì in totale autonomia, ed eseguì vari giri intorno la pista galoppando a ritmo incalzante. Arkadij stazionava al centro della scena esibendosi con la sua fiaccola, mentre i nostri stalloni orbitavano intorno a lui come satelliti. Fu solo un crepitio di zoccoli sulla sabbia e di applausi che intramezzavano la musica, poi ripiombammo dietro le quinte e il sipario calò alle nostre spalle. Strabiliante.
Fu così anche il secondo giorno, e il terzo, poi, quell’inedita esperienza, quello tsunami d’adrenalina, smorzo la sua impetuosità divenendo man mano sempre più familiare. Ormai giunte a Perm’, saremmo state capaci di montare a cavallo con gli occhi bendati, e avremmo potuto dominare la scena con ben migliori esibizioni. Astrel aveva imparato a eseguire correttamente la levade, ovvero riusciva a far impennare il cavallo sulle zampe posteriori con i garetti che rasentavano il suolo, io invece, mi destreggiavo abilmente con la croupade, lasciando che il mio stallone eseguisse un balzo in alto ripiegando al contempo le quattro zampe. Naturalmente avevamo anche appreso la courbette, un’elegante inchino in stile regale. Tuttavia, Arkadij rimaneva la stella indiscussa del suo numero, e il nostro ruolo meramente “decorativo”, non ci consentiva di sfoggiare quelle modeste abilità in scena.
Un autocarro telonato Zil 4362 avanzava lentamente sulla  Pereselencheskaya Ulitsa. I fari anteriori del veicolo proiettavano due coni luminosi sull’asfalto buio, fendendo una temporanea breccia nella notte di Perm’. I teloni del vano carico gozzovigliavano agitati dall’aria. La lancetta sul contachilometri rasentò lo zero quando il camion si accostò sul ciglio destro della strada, e lo raggiunse definitivamente non appena il mezzo arrestò la marcia. Il motore si spense e gli anabbaglianti cedettero il posto alle luci di posizione.
- Ci siamo. – Annunciò Ivan mantenendo le mani sul volante di guida, e sporgendosi in avanti con lo sterno. – Lo vedi? Il circo è laggiù.- Al suo fianco, sul lato passeggeri, Alekseij annuì.
- Ho la schiena a pezzi, dannazione! Tutti questi chilometri mi hanno sfasciato le ossa. – Si lamentò Ivan stiracchiandosi goffamente nello spazio ridotto dell’abitacolo.
- E pensare che volevi partire da Mosca. – Lo biasimò Alekseij con l’aria sonnolenta. – Dovresti essermi grato per l’averti proposto di affittare un mezzo a Glazov. - Aggiunse, soffocando uno sbadiglio. Il cellulare d’Ivan cominciò a vibrare all’interno del cruscotto. Il giovane si destò sul sedile e lesto cacciò il braccio all’interno del vano plastificato. Era in attesa di una telefonata, e desiderava rispondere prima che all’altro capo riagganciassero, ma la sua mano che procedeva a tastoni dentro il cruscotto buio non riusciva a recuperare il telefono.
- Dove diavolo si è cacciato! –  Alekseij assisteva alla scena asettico, infastidito da quella gazzarra. Finalmente Ivan reperì il telefono e quando lo estrasse dal cruscotto, la luce bianca dell’lcd penetro negli occhi spossati d’Alekseij, consentendo al giovane di leggere ciò che vi era scritto sul monitor: Anonymous. Alekseij osservò l’amico condursi il cellulare all’orecchio e rispondere con  fare ossequiante.
- Sì? –
- Sei arrivato a destinazione? – Chiedeva una voce all’altro capo del telefono.
- Sì, sono a Perm’, mi trovo a circa cento metri dal circo. –
- Bene. – Si rallegrava la voce. – Sai ciò che devi fare, contattami a lavoro compiuto. –
- Sarà fatto. – Poi la conversazione s’interruppe. Alekseij si accigliò contrariato, adesso la sonnolenza s’era sfumata.
- Così non va bene, Ivan. – Disse, esprimendo il suo malcontento. Ivan ripose il cellulare e fece una smorfia seccata.
- Non ricominciamo un’altra volta, per cortesia! – Alekseij sbottò in un grugnito. – Il fatto è, che mi piacerebbe conoscere la terza persona che sta in mezzo al nostro affare. –
- Non sta in mezzo al nostro affare, Aljoŝka! Ma ci ha regalato quest’ opportunità.- Precisò Ivan inalberato. – Io devo fargli un piccolo favore, e visto che noi due siamo in affari insieme, ho deciso di farti collaborare.- Alekseij cominciò a ravviarsi il caschetto con fare nevrotico.
- Sai perfettamente che le mie intenzioni sono quelle di collaborare e ricevere la parte che mi spetta. – puntualizzò il giovane biondino. – Ma la tua reticenza mi ha stancato. Voglio sapere chi è. - Ivan girò la chiave e il motore s’avviò con un sobbalzo della carrozzeria.
- Se vuoi la tua grana devi adattarti alle mie condizioni, e spero che non torneremo più sull’argomento. – Concluse, scrollandosi di dosso la concitazione. Il camion tornò a occupare la carreggiata procedendo lineare verso la meta.
I piedi mi dolevano terribilmente, e i tacchi a spillo su cui troneggiavo non facevano altro che acuire la mia sofferenza, rendendo un supplizio ogni passo avanzato sulla ghiaia. Lo spettacolo inaugurale di Perm’ si era appena concluso, e ciò a cui ambivo in quel momento, era bruciare la distanza che mi separava dal mio caravan. Astrel mi conduceva per mano, incalzando la marcia ogni qual volta il gelo della notte impazzava; il suo scenografico costume da valchiria non era capace di offrirle protezione contro le intemperie. Una volta varcato l’uscio del nostro rifugio godemmo di un delizioso tepore che ci avvolse come una soffice trapunta. Adesso potevo calcare il pavimento scalza, e rilassare la pianta del piede su una base liscia. Impiegai meno d’un minuto per dismettere le vesti di guerriera, ma Astrel era riuscita a battermi sul tempo e riposava già i suoi muscoli sul materasso, con indosso una sottile camicetta da notte. Lesta la raggiunsi e non resistetti all’invito del suo corpo etereo e semi vestito. Mi distesi su di lei con estremo garbo, quasi temessi che quel petalo soffice potesse stropicciarsi. Astrel manteneva gli occhi chiusi, ma quando avvertì la mia essenza, un sorriso le affiorò sulle labbra. Le sue mani s’addentrarono tra i miei capelli, poi migrarono lungo la schiena.
- Ti ho mai detto che i tuoi occhi possiedono le cromature di un lago ghiacciato in uno sguardo caldo come l’estate? - Mi domandò, ricambiando le carezze sulle gote.
- Sì. – Confermai, travolta dalle emozioni – e io ti ho mai detto che sei la ragione per cui batte il mio cuore? – Lei penetrò il suo sguardo nel mio, entrambe sapevamo che per comunicare ciò che sentivamo le parole erano soltanto superflui e vacui suoni, ma non resistemmo alla tentazione di pronunciare quell’ennesimo ti amo.
- Indossalo. – Ordinò Ivan, porgendo all’amico un passamontagna nero di lana. Alekseij lo agguantò e con riluttanza se lo sistemò sul capo. Ivan fece lo stesso, poi s’infilò un paio di guanti, e recuperò una torcia da quel cruscotto in cui prima armeggiava per rinvenire il cellulare. Alekseij aprì la portiera del camion e rigenerò i suoi polmoni con l’aria gelida della notte, lo strano cappuccio che gli fasciava il volto stava per indurgli un attacco di claustrofobia “ Mi sento un condannato alla forca.” Pensò. Oltre il parabrezza scorse Ivan attraversare il cono di luce proiettato dai fari, il giovane non s’era accorto che l’amico era sceso dal mezzo, e rapido lo raggiunse chiudendosi la portiera alle spalle. Ivan ghermiva tra i guanti neri la sua torcia tattica SureFire M6 Millennium, apprezzando l’alluminio aerospaziale che ne temprava il corpo esterno. Ciò che impugnava non era una comune lampadina tascabile, bensì un potente dispositivo d’illuminazione impiegato in molte operazioni dei corpi speciali militari. L’M6 Millennium poteva essere applicata su armi di grosso calibro, e fungeva anche da pratico strumento per l’autodifesa, era infatti capace di stordire l’eventuale nemico abbacinandolo con un fascio di luce pari a 500lumen.
- Se ti piace mandare in fumo i tuoi rubli, Ivan, perché non lo fai acquistando un po’ di roba da sniffare? – Lo schernì Alekseij arraffandogli la torcia di mano e accendendola, un incredibile bagliore squarciò la notte.
– Porca troia! Ora capisco perché questi giocattoli piacciono tanto agli sbirri, non gli sfuggirebbe neppure un granello di polvere con una luce così. – Ivan si riappropriò del suo costoso oggetto.
– Ognuno spende i rubli come gli pare, e adesso andiamo. - Disse, incamminandosi nel vasto parcheggio. Alekseij lo osservò incedere con passo sciolto e annientare le tenebre con la sua luce. Rassegnato, il biondino lo appressò.
- Perdona il mio sarcasmo ma, guardati un momento per la miseria! Passamontagna, guanti scuri, e torcia al seguito: sembri un ladro da quattro soldi, Vanja. –
Ivan lo folgorò con lo sguardo.  - Sarò pure un ladro da quattro soldi, ma il bottino di questa sera farebbe invidia a tutti i casinò di Las Vegas. –
La luce del M6 si rifranse nell’ampio tendone del circo, donando intensità alle striature gialle e blu che coloravano il telo. A fianco del tendone, il camion per la biglietteria esponeva i medesimi cartellini sul vetro di ogni sportello: CLOSED. Alle loro spalle, Lo Zil 4362 sostava nel parcheggio deserto con i fari di posizione accesi, facendosi via via più lontano, a ogni passo che i due avanzavano verso l’ingresso del circo. Giunti a ridosso del tendone, Ivan e Alekseij furono ostacolati da una lunga fila di transenne modulari, i due non s’attardarono neppure un istante innanzi l’ostruzione e con un balzo atletico valicarono le stanghe. Ivan continuò a camminare risoluto, girando intorno al tendone fino a raggiungere la parte posteriore dello stesso, ove uno spiazzo di grandezza analoga al precedente, apparve alla luce della torcia. Un accampamento di caravan, camper e autotreni di grossa stazza, occupavano buona parte di quello slargo. Alekseij incrociò le braccia e studiò insieme all’amico la struttura approssimata di quel villaggio ambulante, poi si concesse un sorrisetto mordace.
- E dimmi, Vanja, come farai a rintracciare la tua cara Svetlana in mezzo a tutti quei camper? Non vorrai risvegliare l’intero circo? Ivan arcuò due dita e minacciose le esibì innanzi agli occhi verdi d’Alekseij.
- Non sono venuto fin qui per quella sgualdrina, è la sua amichetta che ci serve! – Una collera furibonda si originò in lui, cominciò a scorrergli nelle vene trasformando il sangue in una colata di lava incandescente. In quel preciso momento, un uomo tarchiato e di bassa statura sopraggiunse cogliendoli di sorpresa.
- Chi siete voi due? – Alekseij lo scrutò dai pertugi del suo passamontagna.
- Lavoriamo al circo. – Rispose prontamente, impegnando al massimo le sue carenti doti da commediante.
- No, sono io che lavoro al circo – Puntualizzò l’uomo, irritato per la mendacità del suo interlocutore. – e non vi ho mai visti prima d’ora. – Ivan eruppe in uno sfogo d’ira, una primordiale bestialità lo dominò in ogni cellula del suo virgulto corpo. Con un balzo felino si lanciò contro l’uomo atterrandolo. L’impiegato del circo si ritrovò steso al suolo dolorante, due occhi di fuoco lo trapassarono come lame aguzze. - Che volete da me. – rantolò terrificato, mentre il peso del suo aggressore gli comprimeva la gabbia toracica. Ivan gli adescò il collo con entrambe le mani e cominciò a operare una crescente pressione.
- Se davvero ti sta a cuore la tua infima esistenza, allora dovrai fornirmi alcune informazioni. – Lo avvisò Ivan, modellando le fauci con sogghigni ferini. L’impiegato del circo fu assalito da violenti conati di vomito quando il suo aggressore gli pressò un ginocchio contro il ventre.
- Lasciami, ti supplico, lasciami libero. – Ivan dissentì col capo.
- Spiacente, ma sono io a condurre il gioco. So che in mezzo a quest’allegra combriccola ospitate due ragazze, tu le conoscerai sicuramente, non passano certo inosservate. - L’uomo non riusciva a pronunciarsi, la morsa che gli attanagliava il collo agiva come un cappio, e i suoi polmoni reclamavano ossigeno. - Vorrei tanto che tu m’indicassi dove sono alloggiate. – Alekseij assisteva alla scena impettito, del tutto indifferente allo strazio che martoriava l’uomo.
- Se lo strozzi non parlerà mai. – Osservò, con blando interesse per le sorti dell’uomo, quasi stesse commentando la scena di un documentario. Ivan ne convenne e allentò la presa, mentre l’impiegato del circo divorava l’aria con ampie boccate.  Quando il ritmo del suo respiro assunse una cadenza regolare, l’uomo fornì le informazioni che gli erano state chieste, maturando a ogni parola rivelata il desiderio di tornare libero. Ivan lo mantenne immobilizzato al suolo ancora per qualche istante, annaspando il braccio dietro di sé, fino a quando non trovò la torcia che poco prima impugnava per far luce tutt’intorno.  L’impiegato del circo non ebbe il tempo di comprendere ciò che stava per accadergli, qualcosa lo colpì all’altezza della fronte causandogli una fitta atroce, e in un istante la notte si fece ancora più buia, amorfa, senza suoni né odori, senza vita. Il suo corpo giacque al suolo esanime, inerme, e lì rimase mentre il suo aggressore s’incamminava verso la meta.
I fluttui del mare mi cullavano come un infante,  il mio corpo beccheggiava senza fardelli nell’incommensurabile oceano. All’orizzonte non v’era terra, in fondo al mare nessuna fine. In quello spazio senza luogo vi era soltanto il mio corpo bagnato di vita. Quel vuoto mi colmava di consapevolezza, la totale assenza di riferimenti permetteva alla mia essenza d’ancorarsi all’unica certezza, esistere. E d’un tratto l’acqua si fece sabbia, finissima e bianca, così candida da risultare abbacinante sotto i raggi solari. E il sole avanzava verso me, in tutte le direzioni, la sua luce accecava i miei occhi, li suppliziava barbaramente, non riuscivo a sfuggirgli. Poi riaffiorai dal mio sogno, la coscienza tornò a concentrarsi sul mondo concreto. Eccomi di nuovo a Perm’, dentro il caravan, sdraiata sul letto; ma il sole era ancora lì, più abbagliante che nel sogno. Non riuscivo a comprendere ciò che stava accadendo, udivo un gran trambusto, il caravan sussultava, e Astrel gridava terrificata. Avrei voluto reagire in qualche maniera, ma quel sole senza calore m’impediva di vedere. La voce d’Astrel si fece lontana e affievolita, nella roulotte tornò la quiete, e tutto tacque sinistramente. Poi si udì un passo marcato calcare il pavimento, seguito da un altro più pesante, un altro, e un altro ancora. Adesso avvertivo la presenza di qualcuno a un pelo dal mio corpo. Un respiro trafelato fendeva l’aria, famelico come quello d’una belva a caccia di prede.
- Chi sei? – Domandai a quel soffio che si trasformo ora in una sorta di grugnito. Durò un solo istante, un istante effimero e interminabile, un dolore estremo mi lacero la testa, poi il sole si spense.
Ivan salì sul vano di carico dello Zil e abbandonò il corpo sedato d’Astrel sopra un giaciglio allestito alla rinfusa. Poi tornò alla guida e accese il motore. Dallo specchietto retrovisore scorse Alekseij avvicinarsi a gambe levate, dopo un minuto fu al suo fianco sul lato passeggeri.
- Non costringermi mai più a indossare questa robaccia! –Si lamentò vivamente strappandosi di dosso il passamontagna.
- Dov’è la mia torcia? – Lo riprese Ivan con tono arrogante, sgommando con i pneumatici sull’asfalto, mentre la lancetta del contagiri subiva impennate vertiginose. Il camion abbandonò il parcheggio e con una sterzata si reintrodusse sulla Pereselencheskaya Ulitsa.
- Oh Vanja, quel giocattolo è un vero portento! Prima gliel’ho puntato in faccia, e poi… -
- Poi cosa? –
- Poi l’ho colpita alla testa. – Ivan scollò gli occhi dalla strada.
- Tu cosa? Non l’avrai mica uccisa? – Alekseij si strinse nelle spalle esprimendo dubbio. - Cazzo, Alekseij, l’hai uccisa? –
- Ti ho detto che non lo so! – Lo aggredì lui spazientito, cominciando a ravviarsi i capelli con maniacale ritmicità. Il telefono d’Ivan tornò a suonare, questa volta il giovane lo stringeva già in mano, e premendo il tasto verde lo adagiò all’orecchio.
- Sì? –
- L’hai presa?- Domandava la medesima voce della conversazione precedente.
- Sì, è qui. –
- Eccellente, sai come procedere, conducila a destinazione. – Ivan annuì e interruppe la telefonata, ingranò la quinta al suo veicolo e si diresse dove gl’era stato ordinato.
La voce di un uomo si levò con gli albori del giorno, risuonò salmodiante come quella del muezzin sul minareto, e si sparse nell’accampamento circense rapida più del vento. – E’ morta! -  Annunciava - Svegliatevi tutti. Presto! E’ morta anche lei, ci sono due cadaveri. -

27 Luna cadente

L’Aston Martin DB9 nera sostò innanzi l’hangar, Lara aprì la portiera e scese dall’auto. Un uomo in doppio petto rosso granata le corse incontro schiudendo l’ombrello.
- Ben arrivata, signorina, prego, mi segua dentro l’hangar. – Lara si riparò sotto l’ombrello affiancandosi all’uomo, e rapida tentò di stare al suo passo, schivando con abilità le pozzanghere fangose che s’erano create sul terreno. Quando raggiunsero l’hangar lo scroscio della pioggia si fece più marcato, era come se una band di percussionisti si esibisse oltre le loro teste, ma fissando il tetto, Lara vide soltanto una smisurata copertura ad archi policentrici. Le dimensioni industriali dell’aviorimessa la sbalordirono, più Lara vi si addentrava, più aumentava in lei la sensazione di possedere un corpo pietosamente minuscolo. Il Challenger 605 l’attendeva al centro dell’hangar con il pilota già a bordo. Quasi stentò a credere che un aeromobile capace di effettuare voli transoceanici, lungo ventuno metri, con velocità di crociera pari a  870 km/h, fosse lì soltanto per lei, pronto a staccarsi dal suolo in qualsiasi momento desiderasse. Da un oblò sulla fusoliera, Lara scorse il volto di Clarck che sorridente le faceva cenno di salire a bordo. Lei lo raggiunse, salendo due gradini alla volta, tanto era la curiosità di conoscere l’elegante cabina passeggeri del Challenger 605.
- Ecco mia sorella. –  La presentò Clarck all’assistente di volo, mentre lei varcava l’ingresso un po’ spaesata. Ad attenderla nessuna fila interminabile di angusti sediolini, né corridoi assiepati di gente intenta a sistemare i bagli sulle cappelliere, ma una frizzante coppa di champagne abbinata a del fresco caviale. L’hostess fece accomodare Lara su di una poltrona, mostrandole come allacciare la cintura di sicurezza, poi si ritirò in cabina di pilotaggio.
- Clarck, non dovevi fare tutto questo per me. – Si espresse Lara intingendosi le labbra nello champagne. Clarck né mandò giù un sorso più deciso.
- Noleggiare un aereo privato è il minimo che potessi fare per agevolarti nel tuo viaggio, ma se davvero vuoi recarti a Mosca, lasciami almeno venire con te, potrei… - Lara lo interrupe adagiandogli una mano sulla spalla, poi lo abbracciò amabilmente.
- Clarck, sai quanto Astrel sia importante per me, sono mesi che non ricevo più sue notizie, e non posso  trascorrere le mie giornate davanti alla tv tentando di tradurre i notiziari russi. Voglio andare a Mosca, devo comprendere cosa sta accadendo realmente. –
-Sì, ma lasciami venire. –  Ribadì Clarck accorato.
- Che tu venga o meno non cambierebbe nulla, qui hai il tuo lavoro, i tuoi da fari. Rilassati, Clarck, Willard è già a Mosca e sai che potrò contare su di lui se mi occorrerà qualcosa. – Il giovane avvocato si scostò dall’abbraccio e abbozzò un sorriso arrendevole, riconoscendosi in parte nell’ostinata caparbietà della sorella. L’assistente di volo fece ritorno nella cabina passeggeri.
- Il pilota è pronto per il decollo, quando la signorina lo desidera ci metteremo in volo. -  
Lara ammiccò al fratello in segno di congedo. - Ti chiamo non appena atterro. – Clarck annuì conducendo nuovamente la sorella fra le braccia.
- Cerca di non metterti nei guai. – Le raccomandò con una punta di paternalismo, poi scese la scaletta del Challenger e fece ritorno nell’hangar.
Le mie palpebre si schiusero a rilento, mentre colori sfumati su forme confuse, si dipanavano tutt’intorno. Voci estranee e rumori indefiniti serpeggiavano ovunque, li avvertivo, reali e sonori, eppure non ero capace di localizzarli. Sulla mia testa sembrava gravare il peso di un titanico macigno, ma quando condussi le mani al capo, vi erano soltanto i capelli. La vista obnubilata cominciò a schiarirsi, affinando ogni dettaglio presente sulla scena. La prima cosa che riuscii a osservare fu una distesa bianca e orizzontale, la seguii in tutte le direzioni, notando che a un certo punto si congiungeva ad altre superfici bianche formando degli angoli di novanta gradi. Si trattava di un soffitto e se incombeva su di me, voleva dire che ero sdraiata. D’improvviso acquistai piena cognizione del mio corpo, e compresi di giacere su un letto. Mi drizzai a mezzo busto affossando le mani sul materasso, e assalita dai capogiri studiai l’ambiente che mi attorniava.  Un comodino separava il mio letto da un altro privo di coperte e lenzuola. Alla mia destra, una parete di mattonelle color terra bruciata ospitava due finestre che davano su un cortile, mentre in fondo alla stanza s’innalzava una vetrinetta da pavimento a cinque scaffali, affiancata da un armadio malandato e sghembo rispetto alla parete. Dalle finestre filtrava una pallida luce artificiale, e ciò marcava di mestizia ogni angolo di quella scarna stanzetta. Una miasmatica voluta d’etanolo raggiunse il mio olfatto, proveniva dal corridoio, si spostava con l’aria e accompagnava quel trambusto di voci adirate che udivo incalzare.  La porta della stanza, fino a quel momento chiusa, fu spalancata da una bellicosa spinta. La maniglia si schiantò contro la parete scalfendo l’intonaco.       Una donna, estranea come il luogo in cui mi trovavo, fece irruzione nella stanza

- Eccola qui! –  Esclamò a se stessa contorcendosi in smorfie di diniego. I suoi occhi mi sferzarono con dispregio. A un tratto mi fu addosso, si scagliò contro di me come un mastino aizzato alla lotta, abbrancandomi l’avambraccio con entrambe le mani. Mi strattonò fino a farmi scapicollare giù dal letto, ove un freddo e inospitale pavimento mi attendeva. La mia testa era in preda ai capogiri, vorticava come una trottola e non fui capace di difendermi.
- Cos’hai fatto ha mia figlia? –
Strillò la donna strascicandomi sul pavimento dai capelli, come fossi uno straccio inumidito.  Un uomo entrò in camera in quel momento, anche lui con gran foga, temei che fosse lì per aggredirmi anch’esso, invece si lanciò contro la donna nel tentativo di rabbonirla.
- Annette! Per l’amor del cielo, falla finita. – L’uomo le immobilizzò le braccia impedendole di staffilarmi ulteriormente. Gattonai fino a raggiungere un angolo della parete ove mi rannicchiai in posizione fetale.
- Chi siete? Che volete da me? – La donna cominciò a dimenarsi nella stretta dell’uomo
- Devi dirmi cosa hai fatto a mia figlia, voglio sapere dov’è Astrel.-
Udire quel nome fu come ricevere un colpo di frusta, uno scossone che riverberò nella mia mente scatenando un profluvio di ricordi. Il circo, Perm’, il caravan, le urla d’Astrel che invocava il mio soccorso, la luce abbacinante, e adesso? Adesso che ci facevo tra le mura di una stanza amorfa a difendermi da una donna invasata dalla rabbia?
- Sei una povera illusa se credi di farla franca, pagherai per quello che hai fatto a mia figlia. –
Continuava a redarguirmi lei, scalpitando tra le briglie, mentre l’uomo si dimenava con essa nel tentativo di domarla, come un torero ispanico a una corrida. Quando riuscì a quietarla, la condusse fuori dalla stanza.
- Sei solo una squallida ragazzetta dell’est, hai inficiato la dignità di mia figlia con i tuoi facili costumi, giuro che la pagherai! –
Condussi le mani alle orecchie e premetti più che potei, illudendomi che quel gesto banale fosse sufficiente a estraniarmi da ogni cosa. Chiusi gli occhi e cominciai a piangere, non so se versai lacrime di sconforto, paura o rabbia, forse tutte e tre le cose, drasticamente rapprese nello strazio del mio sfogo. Trascorsero alcuni minuti di quiete, poi, una mano delicata si posò sul mio capo, tiepida come un raggio di sole al mattino. Alzando lo sguardo incrociai gli occhi cortesi di un uomo sulla cinquantina. L’ennesimo volto estraneo avrebbe dovuto scorarmi più di quanto non lo fossi già, eppure, quel viso emanava soltanto calore.  Allungò la sua mano verso di me, offrendomi appoggio per ritornare in piedi. Accolsi il suo aiuto volentieri, e barcollando tornai a reggermi sulle gambe. Lui mi scortò fino al letto, invitandomi a sedere sul materasso.
- Stai bene, Svetlana? – Lo fissai sperduta, implorando soccorso e alloggio, non sapevo chi fosse ma con lui accanto mi sentii al sicuro.
- Ti starai domandando chi sono. – Col capo assentii alla sua logica considerazione.
- Mi chiamo Willard, e fino a poco tempo fa ho prestato servizio come maggiordomo in casa Lawless. –
- Willard. - Ripetei con ansito. Adesso quel volto cordiale possedeva un nome e un trascorso, Astrel mi aveva parlato così a lungo del suo premuroso maggiordomo, che ebbi l’impressione di conoscerlo anch’io da parecchio tempo. - Willard, sa dirmi che posto è questo? –
- E’ un ospedale. –
- Un ospedale? –
- E cosa ci faccio in ospedale? –
- Questa mattina sei stata ritrovata priva di sensi nel tuo caravan, al circo. L’acrobata che ha chiamato i soccorsi ha creduto che anche tu fossi morta, come l’ausiliario del circo rinvenuto a pochi metri dalla tua roulotte. - Fissai fuori dalla finestra in cerca di un orientamento temporale, notai che era calato il buio, poi andai alla ricerca di un orologio per quantificare le ore, ma intorno a me non c’erano lancette. Willard comprese di non aver colmato del tutto il mio black-out mentale, così proseguì lineare. - Sei stata trasportata in ospedale, e i medici ti hanno diagnosticato una lieve commozione celebrale. Credo ti abbiano sedata, a quanto pare hai riposato per tutto il giorno. -
- Anche Astrel è qui, vero? In quale reparto è stata ricoverata? Io voglio vederla. Willard mi sfiorò la gota angustiato, concedendomi, anche se solo per un effimero istante, l’illusione di possedere un padre amorevole.
- Svetlana, io credevo lo sapessi. –
- Sapere cosa? –
- Astrel è stata rapita. – Le forze che fino a prima tacevano al mio richiamo, mi pervasero ora ogni cellula del corpo, sentivo di possedere energia a sufficienza per schizzare dal letto e saettare via, in ogni direzione, superando qualsiasi barriera pur di raggiungere Astrel.
- Come rapita? No, ci deve essere un errore. – Willard mi affiancò sedendosi accanto a me.  La mia reazione d’autentico stupore lo smarrì notevolmente, a quanto pare, il maggiordomo era persuaso che fossi già informata sui fatti. - Ci deve essere un errore! – Rimarcai stentorea, fissandolo negli occhi e anelando il suo assenso. Il padre di Astrel ha promesso d’elargire denaro a chiunque gli avesse riportato indietro la figlia, che senso avrebbe un rapimento in simili circostanze? –
- A mio avviso, il signor Lawless non doveva esporsi pubblicamente offrendo denaro, così facendo ha dato un’immagine magniloquente di sé, e i primi malintenzionati non ci hanno pensato su due volte a rapire la figlia per espugnargli il triplo della somma offerta. –
- Hanno chiesto un riscatto? – Il maggiordomo assentì preoccupato.
- Chiedono sei milioni di rubli per il rilascio. – Calò un silenzio severo, amaro come la cruda consapevolezza di non possedere neppure un terzo di quella cifra. La vita della mia compagna s’era ridotta a infima merce di scambio, merce che io non potevo acquistare, ma di certo potevano farlo i suoi genitori. Mi tuffai a capofitto fuori dalla stanza, tra i meandri scuri di un corridoio che non conoscevo. Lo percorsi divorando lo spazio, sobillata dal bisogno di reagire. Giunsi fino in fondo alla corsia, dove il corridoio si slargava in una gretta sala d’attesa. Lì vi trovai la donna che prima mi aveva aggredito, accomodata su una rigida sedia di plastica a rimuginare insieme al marito. Pararmi innanzi a lei fu un gesto audace, forse un po’ troppo azzardato visto il trascorso recente, ma in quel momento non avrei temuto neppure il male in persona.
- Lei deve pagare il riscatto, deve pagarlo subito! –
- Il riscatto? – Vociò la donna furibonda, dimenticando che a ospitarla era un luogo di degenza per ammalati. – Adesso fai pure la farsa, so bene che c’entri qualcosa in questa storia, di certo sarai in combutta coi rapitori. - Il marito si condusse le mani al capo snervato, conscio che tutti gli sforzi compiuti per rabbonirla erano andati in fumo con la mia semplice apparizione. Smise di curarsi di lei e le consentì d’attaccarmi una seconda volta, abulico la osservò schiaffeggiarmi ripetutamente. Ancora le forze vennero meno, proprio quando più mi occorrevano. Le gambe si fecero flaccide, inconsistenti come l’aria. Caddi a terra prigioniera di un corpo debole, mentre una pioggia di mani mi scudisciava il capo. Tentai di pararmi da quelle nerbate come meglio potei, ma fu la tempestività di Willard a salvarmi, la sua determinazione nell’afferrare i polsi della donna e stringerli con forza fino a farla desistere. 
- Sì, prendi pure le sue difese. – Lo biasimò la donna sfregandosi i polsi doloranti. – Sei solo uno sguattero venduto, spero ti piaccia lavorare in America. –
Willard mi sorresse dalla vita e tra le sue braccia tornai in piedi. Rimasi al suo fianco tremante.
- Loro devono pagare il riscatto. Willard, ti supplico fai qualcosa! -
Il maggiordomo  mi osservò intenerito, rassicurandomi con lo sguardo, stava per proferire quando si rabbuiò repentinamente. Lo vidi osservare un punto fisso dietro di me, la sua attenzione fu attratta da qualcosa. Ancor prima di voltarmi per conoscere la causa del suo sgomento, avvertii la presenza di qualcun altro intorno a noi. Nella sala d’attesa non c’era soltanto Willard e i genitori di Astrel, no, dietro di me sostava una persona. Mi girai a rilento, quasi temessi di scoprire chi fosse, e quando la sua identità mi fu nota, tutte le mie ansie furono giustificate. Come poteva essere innanzi i miei occhi? Lei, la causa di tutti i nostri mali, l’arcigna megera che ci aveva costretto alla fuga, la donna più scellerata ch’ io avessi mai incontrato in vita mia, la Rosencrans. 
- Ho il preciso incarico di riaccompagnarti al Majakovskij. – Affermò brutalmente, con enfasi, stando ben attenta affinché non passasse in sordina neppure una sfumatura del suo cinismo. Udire la sua voce mi raggelò il sangue, al pari di artigli che graffiano su una superficie d’ardesia.
 - Tua zia ti sta già aspettando a Mosca. Quando arriverai, sarai trasferita in un altro istituto a San Pietroburgo, affinché tu possa terminare gli studi. -  La luna piena si fece cadente, ora che non possedevo più la mia preziosa metà, sapevo che presto anch’io sarei scomparsa, eclissata dalla luna nuova. Il dominio delle tenebre sulla luce, della tribolante afflizione sulla gioia di volare insieme; l’odio separa ciò che l’amore ha unito, lo comprese Empedocle in un tempo remoto, e lo seppi io in quell’istante, l’istante in cui tutto ebbe un termine.
Uno stillicidio d’acqua accompagnò Astrel nel suo graduale ritorno alla coscienza. Quando fu nel pieno possesso dei sensi, a quel gocciolamento regolare si aggiunse un acerrimo tanfo di muffa. L’umidità le aveva raggelato le gambe fin dentro le ossa, la gola le bruciava e quando mandava giù l’aria, i polmoni parevano inzupparsi d’acqua come spugne. Una massiccia corda bianca le ruotava intorno alle caviglie impedendole di muovere i piedi, mentre un’altra, di maglia più sottile, le avvinghiava i polsi in una stretta angariante. Astrel non riconobbe il luogo in cui si era appena svegliata, le scarse condizioni di luce le impedirono di osservare oltre i due metri, il raggio di luce emanato dalla torcia elettrica accanto a lei non arrivava al di là. Sul pavimento in cui sedeva, si alternavano mattonelle bianche e grigio chiaro, quasi a voler formare una sbiadita scacchiera. Si udì uno scatto alla serratura seguito da uno sferragliamento, che riecheggiando tra le mura, fornì ad Astrel una vaga idea dello spazio intorno a sé.
- Potevi anche servirle quella brodaglia su un piatto. – Astrel riconobbe la voce d’Ivan, era certa che fosse appena entrato e che si trovasse a poca distanza da lei, lo percepì attraverso l’effluvio di vodka, ma non fu capace di vederlo, tutto ciò che accadeva fuori dal cono di luce, rimaneva un’incognita. Nel suo ristretto universo luminoso si materializzò Alekseij, senza preavviso. Fra le mani reggeva un pentolino fumante e genuflettendosi gliel’avvicinò al naso.
 - E’ l’ora della merenda, dolcezza. – Astrel fugò il volto in entrambe le direzioni, tentando di allontanarsi come poteva da quel banchetto sgradito. Alekseij recuperò un cucchiaio dal marsupio che portava alla vita e rozzamente lo intinse nel pentolino per rabboccarne la superficie concava.
- Mangia. – Le intimò, conducendole il cucchiaio alla bocca. Astrel serrò le labbra, l’ultima cosa che gradiva in quel momento era del cibo. – Apri quella dannata bocca! – Alekseij adagiò il pentolino sul pavimento per liberarsi la mano destra, a quel punto le agguantò la mandibola conficcandole il cucchiaio dentro la cavità orale.
- Se ti dico di mangiare tu devi obbedirmi. – Astrel sgranò gli occhi, una poltiglia dal sapore nauseabondo cominciò a scivolarle nell’esofago. In preda a un conato di vomito tossì ed espulse il cibo sulla faccia schifata d’Alekseij. 
- Perché mi trovo qui, e che cosa avete fatto a Svetlana? – Il biondino si ripulì il viso con la manica della giacca, iracondo afferrò il pentolino e le rovesciò parte del contenuto sui seni, poi tornò ad afferrarle la mandibola, questa volta con maggiore virulenza.
- Giuro che se lo rifarai, mi calerò le brache e ti farò assaggiare qualcos’altro. - Ivan, che fino a quel momento aveva languito nel buio, entrò in scena pronto a dire la sua.
- Stammi bene a sentire, puttana, qui si mangia una sola volta al giorno, se ti rifiuti, faro in modo che saranno i morsi della fame a divorare te. –
- Cos’avete fatto  a Svetlana? –  Rimarcò lei indefessa, noncurante del bruciore ai seni causatole da quel brodame ancora caldo.
- Svetlana! Svetlana! Non ti frulla altro in quel cazzo di testa? – Vociò Ivan con le vene pronunciate sulla tempia, mentre la pelle intorno al collo si tingeva d’un rosso vivo. Nei suoi occhi divampò una collera ingovernabile, Alekseij ne riconobbe i tratti e per un momento tornò alla notte precedente, quando il suo amico, in preda ad analogo raptus, s’era scagliato contro l’ausiliario del circo uccidendolo.
- Mi spiace per te, ma la tua amichetta è morta. – Astrel si rabbuiò, il suo cuore perse un colpo, poi cominciò a palpitare all’impazzata.
- Menti. – Lo contraddisse con voce grave. Ivan scosse la testa, sogghignando spavaldo.
- No, non mento, Alekseij l’ha fatta fuori. – Astrel gravò su Alekseij con gli occhi, lo fissò con massima dovizia, tentando di captare anche il più minuto segnale contraddittorio, una smorfia, un battere di palpebre, una sfumatura della voce, qualsiasi gesto che potesse confermarle l’ipotesi della menzogna.
- Beh, non era mia intenzione mandarla all’altro mondo, è stato un incidente, capita. -
Astrel si sentì morire, se non fosse già stata al suolo, di certo vi sarebbe cascata come un peso morto. - Non può esser vero. -
- Lo è. – Affermò Ivan persuasivo, poi varcò il confine luminoso e insieme ad Alekseij s’addentrò nel buio, di nuovo gli scatti alla serratura seguiti da un tonfo, poi il silenzio tornò a intervallarsi col gocciolamento di prima. Astrel non si mosse, rimase attonita su quel pavimento algido, trafugata come un vecchio relitto, depredata della cognizione temporale e spaziale. Su di lei erano calatele tenebre, la notte non si alternava più al giorno. Il nulla impazzava nella sua mente, si estendeva come un arido deserto, e Astrel vi vagava in cerca d’un oasi, ma l’unico pozzo a cui abbeverarsi aveva l’acqua avvelenata, esattamente come la certezza di aver perso la sua metà
Mosca, Majakovskij
La pioggia picchiava prepotente sui cristalli delle finestre, un mesto velo di solitudine aleggiava nella stanza, bigio come le nuvole che occultavano il sole. Il clima rifletteva fedelmente ciò che provavo, anche se nel mio cuore non era il grigio a predominare ma un lugubre nero. Era come se una mano nerboruta mi avesse lacerato il petto e strappato via il cuore, lasciandomi esangue e morente. Straziata, riposavo sul letto in cui dormiva Astrel fino a qualche tempo fa, e con la testa affossata nel suo cuscino anelavo l’evanescente essenza di lei. Mi parve di captare il suo profumo, probabile che si trattasse solo della mia immaginazione, ormai non aveva importanza, se davvero un effimero tocco di lei vi fosse rimasto, le mie lacrime l’avevano dissolto. Il giorno era appena nato, eppure a me pareva che fosse già calata la notte. Nel pomeriggio sarei partita per Sampietro Burgo, ancora una volta via dal Majakovskij, ma questa volta, non volevo abbandonarlo. Astrel non era più accanto al mio cuore, di lei non possedevo che una sbiadita ombra, e quell’ombra, riverberava tra le pareti della stanza. L’intero mondo mi si era rivoltato contro, accanito e spietato. Tutto ciò da cui eravamo in fuga, alla fine ci aveva raggiunto e travolto come un’onda assassina. Da sola non riuscivo a rimanere a galla, intorno a me c’erano tante braccia ma nessuno allungava il proprio verso me. I genitori d’Astrel mi odiavano, la Rosencrans non poteva altrimenti, mia zia non mi rivolgeva la parola, orripilata all’idea che amassi una ragazza, E  Willard… lui era volato a Londra, la morte improvvisa del fratello l’aveva costretto ad abbandonare la Russia. Il peso della mia impotenza si era fatto insostenibile, la consapevolezza di non poter corrispondere a quel riscatto mi stava mandando alla follia, c’era soltanto una soluzione, l’unica che in quel momento riuscivo a contemplare, e si trovava dentro il cassetto del comodino. Ispirai molto lentamente, più di una volta, poi acquisii la tenacia che mi occorreva per aprire il cassetto e afferrare quello scatolino. Lo tastai fra le mani senza osservarlo, avvertendo il cartone di cui era fatto piegarsi alla pressione delle dita. Così piccolo, eppure così letale. Al suo interno, venti compresse di Alprazolam erano ben confezionate nel loro involucro plastificato. Io le scartai una ad una, dipanandole sul materasso in fila indiana. Ogni compressa era da 0,50 mg e corrispondeva a venti gocce orali. Assumendone una, avrei placato temporaneamente la mia ansia, e io lo feci, mandai giù la pillola senza pensarvi; ingoiarne una seconda, sarebbe significato assumere quaranta gocce d’ansiolitico, e ciò avrebbe steso perfino un cavallo, mandai giù anche quella compressa. Se solo ne avessi ingerita una terza, avrei raggiunto un totale di sessanta gocce. Non erano quelle le mie intenzioni, non volevo abbandonarmi a uno stato di letargia, o ancor peggio indurre il coma, no, io desideravo soltanto raggiungere il cento. Non era poi così complicato, mi occorrevano appena tre pasticche, e in mano ne stringevo già quattro. Le osservai a lungo, ammucchiate sul palmo della mia mano, cos’altro stavo attendendo? Perché indugiare? Astrel non sarebbe più tornata, morendo, avrei soltanto reso un favore a me stessa e a tutta quella gente che mi odiava. Dischiusi le labbra a rilento e condussi la mano alla bocca, inclinai il palmo così da far scivolare le pillole in basso, verso la lingua. Proprio nel momento in cui stavo per ingurgitare la prima compressa, dei tocchi alla porta giunsero a rivoluzionare la scena. Trasalii d’impulso, quasi mi avessero svegliato da un brutto sogno. Le pillole cascarono per terra spargendosi in ogni parte, fui tentata di recuperarle, ma qualcuno continuava a bussare. Mi apprestai ad aprire la porta, decisa a liquidare con sveltezza la persona che attendeva dietro l’uscio, così da poter riprendere il mio da fare lì dove l’avevo interrotto. Fu una ragazza a profilarsi innanzi a me. La osservai attentamente, lunghi capelli rossi e profondi occhi verdi, Il suo viso m’era vagamente familiare, non era una studentessa del Majakovskij, ma ero certa d’averla già incontrata. Esitò qualche istante prima di presentarsi, forse era in attesa che ossequiassi gli onori di casa, che la mettessi a proprio agio.
- Ciao. – Fu l’unica parola che mi venne in mente per accoglierla, banale ma appropriata. Lei ricambiò il saluto e decisa si presentò.
- Mi chiamo Lara e sono appena atterrata dagli Stati Uniti, tu devi essere Svetlana, giusto? –
- Sì, sono io. – Confermai, apprezzando la sfumatura cordiale della sua voce.
- Posso entrare? –  Mi domandò timidamente indicando alle mie spalle.
- Naturalmente, accomodati pure. – Replicai, scostandomi dall’ingresso. - Mettiti pure a tuo agio. – Lara tolse via il piumino che indossava e lo adagiò sul letto di Astrel, con il tacco della scarpa mandò in frantumi una delle mie pillole, non se ne accorse neppure, e avvicinandosi alla finestra ne urtò una seconda.
- Ti starai domandando che ci faccio qui e cosa voglio da te. – Ipotizzò lei, tentando di decifrare la mia espressione criptica, del tutto assorbita dalla compressa polverizzata sul pavimento.
- In un certo qual modo ti conosco già. Tu sei la migliore amica di Astrel, non immagini neppure quanto mi abbia parlato di te, era così in pena per quel viaggio che avevi scelto d’intraprendere. –Lara sorrise, visibilmente emoziona. Osservandola mi tornarono in mente le parole d’Astrel, quando sosteneva che l’amica del cuore fosse un indefettibile ottimista, una persona che in virtù di tale pregio riusciva sempre là dove gli altri avrebbero fallito. Sapevo di doverla informare sui fatti, e auspicavo soltanto che ciò non avrebbe svigorito del tutto quell’ottimismo. - C’è una cosa che devi sapere, Lara. Riguarda Astrel. – Lei s’incupì repentinamente e io mi domandai come avesse fatto a capire.
- So già tutto. – Affermò lapidaria, lasciandomi di sasso, ero così persuasa che fosse giunta a Mosca per far visita all’amica, che senza accorgermene avevo escluso ogni altra possibilità. Lara mi si avvicinò e timidamente mi fasciò la mano tra le sue. - Dobbiamo farci forza, Svetlana, è il momento d’impugnare le armi e combattere. -Riuscii a tastare la sua determinazione, fluiva nel mio corpo attraverso le sue mani, era pura energia. La mia coscienza prese a recalcitrare, rimbrottandomi per la mia indolenza, per quell’abulica arrendevolezza cui non avrei dovuto cedere. Astrel era ancora viva, e io, stavo per morire, uccisa dalla mia inettitudine, Perche? Strinsi la mia mano con quella di Lara, adesso anch’io ero forte come lei.
- Sono pronta. – Lara annuì, certa di poter contare sul mio sostegno.
- Dobbiamo fare in modo che quel riscatto sia pagato. – Affermò risoluta, beffandosi delle difficoltà. Io sottoscrissi, ma a differenza sua non riuscivo a rimanere fredda e determinata. Il mio sguardo cadde sulla maniglia della porta d’ingresso, proprio nel momento in cui cominciava a muoversi, scendendo lentamente verso il basso. Qualcuno stava per entrare in camera mia, ero certa che fosse la Rosencrans, di lì a poco l’avrei vista apparire risoluta, lieta d’annunciarmi che il taxi per l’aeroporto mi stava attendendo giù in strada.  Ora che la porta s’era aperta, anche Lara si voltò verso l’imposta, entrambe osservammo la stessa persona fare il suo ingresso. Un ingresso avventato, come quello di un forestiero che in una notte di burrasca si fionda dentro una locanda.  Ma l’attrice di quella comparsa non fu la Rosencrans, come io m’aspettavo, bensì Irina. Fu lei a piombare in camera mia, lesta come una lepre, con lo sguardo smarrito e l’impellenza di proferire che le struggeva dentro.
- Non servirebbe a nulla pagare il riscatto. –  Dichiarò persuasiva, intromettendosi nella discussione come se fino a quel momento ne fosse stata parte.
- Che intendi dire? – La interrogò Lara, pur non sapendo chi fosse. Irina mi osservò perplessa, la vidi tornare indietro e richiudere a chiave la porta, poi fu di nuovo accanto a noi implorandoci di starla a sentire. Lara e io  l’assecondammo
- Ho taciuto fin troppo e ho sbagliato. – Le sue parole suonarono come l’incipit di una lunga e dolorosa confessione. – D’ora in poi non sarò la serva di nessuno, Ivan non è più il mio carceriere. –
- Ivan? – Ripetei confusa.
- Già, proprio lui. Ha reso schiava me, e a reso schiave voi. – Irina si scompose in una smorfia di diniego, e lentamente scosse il capo. – Probabilmente, tu e Astrel credevate che fuggire significava affrancarsi da lui, vi sbagliavate. - Lara ascoltava in silenzio, del tutto incapace di dipanare una loggia.
- Aspetta un momento, Irina. Io e Astrel non siamo fuggite da Ivan, ma dalla Rosencrans, o meglio, dalle conseguenze che le sue scelte avrebbero comportato. –
- Che differenza vuoi che faccia? – Sferzò lei – Non ti lasciano scampo entrambi. – Irina lesse il caos nei miei occhi, le parve di tastarla quella matassa arrovellata che aveva generato fra le mie idee, e con maestranza tentò di sbrogliarla per tesserne un filo alla volta. - Ok, facciamo alcuni passi indietro. Ricordi quel periodo in cui il Majakovskij era sull’orlo del collasso?  Quando tutti sostenevano che la scuola avrebbe chiuso a causa dei debiti contratti dalla direttrice? – Ricordavo alla perfezione quel periodo, ma non capivo che attinenza avesse col presente, con Ivan, e con la direttrice. - Tu sai che la Rosencrans è una patita del gioco d’azzardo, e di certo non ci metterai parecchio a comprendere che fu il gioco a farla indebitare fino al collo. E ora rifletti: com’è riuscita la Rosencrans a sanare i suoi debiti e risollevare le sorti della scuola se al gioco non vi ha mai rinunciato? -
- Irina - La interrupi bruscamente – ti prego, questo non è il momento di parlare della Rosencrans, Astrel è stata rapita e l’unica cosa che ho a cuore -
- Ma non capisci? – Mi esortò lei galvanizzata. – E’ ad Astrel che voglio arrivare! – Lara incrociò le braccia imponendosi di portare pazienza, avrebbe voluto sbottare, chiedere alla ragazza di venire al dunque, semmai ce ne fosse stato uno, ma rimase buona e taciturna. -
- Lo sai cosa faccio da un anno a questa parte? Dove trascorro le mie notti? - Di nuovo altri quesiti sommati ai primi, Irina si stava adoperando con tutta se stessa per narrarmi gli avvenimenti con ordine e gradualità, eppure, più proferiva, più quella matassa che tentava di sciogliere si aggrovigliava in uno snervante ginepraio. - Ivan mi costringe a prostituirmi. – Affermò d’un fiato rimanendone a corto subito dopo. – Già, ogni notte, con uno o più uomini. Naturalmente non sono l’unica abitante del suo harem, come me, molte altre sono costrette da lui. –  Le sue confessioni mi sconvolsero, eppure sentivo che quello era solo l’esordio di una storia perversa, una storia che teneva in serbo il peggio per imbottirvi l’epilogo. - Se questo ti ha lasciato sgomenta, Svetlana, lo sarai ancor più quando capirai che Ivan è solo una pedina, un burattino le cui fila sono mosse da una mano senza volto… o almeno era così fino a poco fa, prima che io non mi trovassi nel luogo giusto al momento giusto, prima che io non origliassi quella conversazione telefonica. –
- Conversazione telefonica? – Domandò Lara, ridestandosi dal suo paziente silenzio. Irina annuì.
- Ho udito la Rosencrans parlare al telefono. C’era Ivan all’altro capo! Così ho capito che il mio aguzzino non lavorava per conto proprio, e ogni tassello è tornato maledettamente al suo posto. La Rosencrans ha risollevato le sorti della scuola, e continuato a nutrire il suo vizio, sfruttando barbaramente me e altre ragazze. – Lara e io ci lanciammo un’occhiata carica di orrore, la confusione di prima si era diradata, ma rimaneva ancora un punto non a fuoco. Che attinenza avesse Astrel in tutto ciò non mi era chiaro, e il solo pensiero di formulare delle congetture sinistre mi terrorizzava, scelsi di far proseguire Irina. - C’è dell’altro. – Dichiarò con una certa compassione, quasi fosse in apprensione per me. La sua voce si fece discreta, pacata. –  E’ stata la Rosencrans a persuadere il padre d’Astrel, l’ha esortato a offrire una ricompensa, in quanto era certa che ne avrebbe beneficiato personalmente. -
- E come poteva? –
- Tramite Ivan. Lui sapeva che alloggiavate presso Ruslan, così ha congeniato un piano eccellente. La Rosencras avrebbe convinto il signor Lawless a elargire una ricompensa, Ivan l’avrebbe riscossa ufficialmente, mentre lei l’avrebbe fatto ufficiosamente. Ma qualcosa non è andata per il giusto verso. –
- Lo so bene. – Dissi, del tutto basita. Le nostre vicende erano state governate da una forza occulta e invisibile, e non comprendevo fino a che punto tale forza si fosse addentrata nell’accaduto successivo. - La polizia ci ha raggiunto al locale di Ruslan, ma io e Astrel siamo riuscite a fuggire, a quel punto abbiamo abbandonato Mosca viaggiando fino a Perm’ insieme a una compagnia circense, e questo né Ivan, né la Rosencrans potevano saperlo. – Lara ascoltava con estremo interesse, ricostruendo, tramite le mie parole, una vicenda che le era ignota. Irina mi contraddisse dissentendo con lo sguardo.
- Forse non l’avrebbero mai saputo, ma qualche giorno addietro un testimone oculare ha contattato il padre d’Astrel, sosteneva d’avervi viste aggirare sulle rive del fiume Kama, in prossimità del circo. A quel punto la Rosencrans ci ha impiegato un attimo a riprendere il comando della situazione. –
- Non starai tentando di dirmi? –
- Che è stato Ivan a rapire Astrel, e che a riscuotere il riscatto sarà la Rosencrans. Sì, è propriamente ciò che ho appreso poc’anzi. –  Un tremito mi pervase il corpo, mai, mai in alcun modo avrei potuto immaginare ciò. Stavo quasi per avere un mancamento, non so come, ma all’improvviso il pavimento divenne instabile, roteava come la pedana di una giostra. Lara mi sorresse prontamente, supplendo all’inefficienza dei miei arti inferiori.
- Siediti un momento, sei pallidissima. – Lara mi accompagnò fino alla sedia vicino la scrivania. - Vuoi un po’ d’acqua? – Mi domandò, continuando a stringermi la mano. Irina osservava la scena affranta, intimamente costernata, sapeva di non aver svuotato del tutto il sacco, e temeva che facendolo m’avrebbe inflitto un colpo fatale, non aveva scelta.
- Devo informarti su un’ultima cosa, Sveta. – Lara ed io ci destammo allarmate, pur non essendo a conoscenza di ciò che Irina intendesse affermare, ne anticipammo la severità dal suo temperamento ottenebrato. - Ivan ha commesso un errore grossolano e irreparabile, si è mostrato in volto, e adesso Astrel conosce l’identità del suo rapitore, per tale ragione, la Rosencrans gli ha ordinato di ucciderla non appena il signor Lawless avrà ceduto al ricatto. - La mano di Lara si contorse in una stretta convulsa stritolando la mia. Mi conoscevo fin troppo per non possedere la facoltà d’anticipare le mie reazioni, se ero stata capace di stuzzicare l’inesorabilità della morte perché la mia amata era ostaggio d’incogniti scellerati, ora che avevo appreso della sua imminente uccisione, non mi rimaneva che riprendere quel gioco letale lì dove l’avevo interrotto. E invece no! Se davvero amavo Astrel più di ogni altra cosa, allora la perfidia del destino andava soverchiata.
- Dobbiamo riferirlo alla polizia, non c’è tempo da perdere! – Affermai scattando in piedi, incerta se afferrare il telefono oppure saettare fuori e recarmi personalmente al commissariato di polizia.
- E’ una follia! – Mi ostacolò Irina perentoria.
- Perché mai? –
- Perche? Vuoi che si bevano le fantasticherie di una ragazza come me? L’intera scuola mi considera pazza e disturbata a causa delle mie crisi notturne, e tu? Sei sparita per cinque mesi. Non abbiamo uno straccio di prova, è la parola di due collegiali bizzarre contro quella di una direttrice veneranda e integerrima.- Lara avallò le argomentazioni d’Irina.
- Ha ragione, Svetlana. Agendo così rischiamo solo di perdere Astrel. –
- L’abbiamo già persa! – Strillai disperata, incapace di mantenere quella flemma intellettuale necessaria a ponderare in modo corretto. Mi ritirai in un angolo della parete, poggiando la fronte al muro e rimanendovi rasente con gli occhi chiusi. Irina s’appestò a uscire di scena, sentivo i suoi passi allontanarsi e confondersi col cigolio della porta.
- Sveta, dovevo dirtelo. Ti scongiuro non tradirmi, o lui ucciderà anche me. –
La porta si richiuse e segui un momento di quiete. Lara mi affiancò, raccogliendosi insieme a me in quel punto anonimo della stanza. Posò la sua mano sopra la mia spalla e la mantenne lì per un po’, mentre taciturna e discreta mi osservava. Percepivo il suo respiro, mi concentrai su di esso, sulle cadenze regolari e profonde che aveva assunto; agii come un soporifero sulla mia smania, e ritrovai la compostezza perduta. Voltandomi m’imbattei nel suo abbraccio rincuorante.
- So che le parole di quella ragazza riecheggiano fra i tuoi pensieri lancinanti come coltellate, ma se continui a rimuginare sul fatto che Astrel morirà, allora ogni speranza è preclusa. Cambia la tua prospettiva, concentrati piuttosto, sull’idea che è ancora viva e che da qualche parte sta aspettando proprio te. – Lo straordinario temperamento di Lara mi sbalordì. Anche in un contesto dai toni così drammatici, lei era riuscita a ricavare una nota positiva. Ciò mi lusingò, spingendomi a disseppellire la speranza; sapevo di poter contare sul sostegno di Lara, con lei accanto a invalidare le mie debolezze, avrei affrontato ogni sfida con indomito potere.
- Portami da lei. – Dissi, osservando Lara negli occhi, ella annuì, lieta di accogliere la sfida.
- Lo farò, ma prima, la tua direttrice scolastica deve fornirci una piccola informazione. –
La preside Rosencrans appose una mano nella cavità del muro, piacevolmente tastò il tessuto che rivestiva la base della sua cassaforte, era soffice e verde, esattamente come un tavolo da poker. La donna socchiuse gli occhi e le parve di percepire l’odore delle carte da gioco, il loro fruscio impercettibile mentre si aprono a ventaglio sulla mano, cuori che si alternano a fiori, picche a quadri, e in sottofondo il tintinnio delle fiches. Adesso le carte avevano ceduto il posto ai rubli e la donna ne stringeva in mano ben 200.000. La fortuna era tornata a farle visita e la Rosencrans intendeva sigillarla nell’acciaio della sua cassaforte. Doveva mettere in serbo quel denaro, e sottrarlo ai suoi impulsi rovinosi, ma così facendo, avrebbe perso l’occasione di vincere al baccarat, di sfidare la roulette, mancando persino il quotidiano appuntamento con la leva della Slot Machine. Urgeva pensare rapidamente, in presidenza poteva entrare qualcuno da un momento all’altro e localizzare la postazione segreta della cassaforte, infine si decise. Scelse di serbare quella somma, nella sua borsa, giusto il tempo di recarsi al casinò Arbat.
Ogni volta che mi approssimavo a solcare quell’uscio lo facevo con una certa agitazione, il cuore non mancava mai d’accelerare i battiti, e sui palmi delle mani avvertivo una sgradevole sensazione di umido. Recarsi in presidenza, al cospetto della Rosencrans, era ciò che uno studente del Majakovskij temeva di più. In genere la direttrice delegava agli insegnanti il compito di informare gli alunni sull’ordine del giorno, ma quando urgeva comunicare qualcosa di spiacevole, allora amava farlo personalmente, così da gustare lo scompiglio che affiorava sul volto del malcapitato. Ormai non ero più una studentessa del Majakovskij, mio malgrado mi venne da sorridere pensando al passato, quando un semplice ammonimento da parte della preside mi faceva accumulare ansie e crisi di panico.
- Eccoci arrivate. – Informai Lara, indicandole la porta chiusa della presidenza, poi irruppi battagliere insieme a lei. La Rosencrans era in piedi vicino l’appendi abiti, indaffarata a sbrogliare la sciarpa che si era avviluppata intorno alla tracolla di una borsa. Il mio ingresso inaspettato e recalcitrante la sbalordì, ma lo stupore sparì presto dal suo sguardo, cacciato via dall’odio, se avesse posseduto la facoltà di freddarmi con gli occhi, sarei morta in quell’istante.
- Svetlana Yaroslavna! Come osa fiondarsi in presidenza senza neppure bussare? – Alla mia sgradevole presenza s’aggiunse quella di una sconosciuta, una giovane dai capelli rosso rame. La Rosencrans la studiò con tutta l’alterigia di cui era prospera. - E’ questa chi è? – Mi domandò contorcendo le labbra. – Una nuova conquista suppongo. – Lara incedette rapida verso la Rosencrans, si arrestò a un passo da lei e la squarciò con gli occhi.
- Vederla in televisione mi aveva stomacato, e ora che la conosco personalmente mi si accappona la pelle. - La direttrice sgranò le palpebre e serrò i denti, era furibonda.
- Tu, ragazzina, pagherai amaramente la tua baldanza! –
- Oh, non vorrei che questo piccolo screzio mi costi la bocciatura. – La irrise Lara, conscia di poter smorzare la superbia della donna con un semplice gesto, un gesto che l’avrebbe resa docile e condiscendente. Osservai Lara chinarsi verso il suo stivale e recuperarvi un oggetto che fino a quel momento aveva tenuto ben nascosto. Quando lo estrasse e tornò in posizione eretta, non credei ai miei occhi. La preside s’irrigidì come una statua di marmo, certa che il suo dispotismo nulla poteva contro quell’arma che la ragazza dai capelli rossi le premeva sulla fronte.  Una pistola! Sì, proprio come nella scena madre di un poliziesco, Lara impugnava l’arma con entrambe le mani e lambiva con l’indice il grilletto, pronta a opporvi pressione. - Mi ascolti attentamente, poiché mi esprimerò una volta soltanto. – La Rosencrans tacque catatonica, quasi fosse in trance. – So che ha rapito la mia amica e la tiene prigioniera da qualche parte, dunque, se incidere la sua lapide con la data odierna non è ciò che desidera, le consiglio caldamente di riferirmi dove ha segregato Astrel. - Fu lo stupore a ridestare i sensi della preside, le parole di Lara agirono come una sorta di elettroshock. Non conosceva nulla della giovane che la minacciava, ancor meno da quale fonte avesse appreso quelle informazioni.
- Se premerai il grilletto non avrai scampo. L’intero istituto udirebbe lo sparo e giacché siamo in pieno giorno qualcuno ti vedrà fuggire e avvertirà la polizia. –
- Apprezzo tali premure nei miei riguardi, ma la inviterei a preoccuparsi per la sua sorte. – La donna avvertì la canna della pistola premere con maggiore prepotenza sulla pelle vizza della fronte, e nuovamente si sentì paralizzare.- Adesso conterò a ritroso come in un’ipnosi, ma le garantisco che se arriverò a zero senza aver ricevuto alcuna risposta, lei si addormenterà in eterno. – Lara avviò il suo lento e graduale countdown, parti dal numero dieci e giunse fino al sei senza ottenere risultati. La tensione aumentava a dismisura, più i numeri decrescevano, più in me impazzava l’angoscia, temevo che la preside non avrebbe mai parlato. - Quattro! – Tuonò Lara enfatizzando il tono. – Tre, due… -
- D’accordo! Abbassa la pistola, ti dirò ogni cosa. - Lara si sentì enormemente sollevata, ma non lo diede a vedere. Accordò alla preside un momento di tregua e le sgravò il capo dalla minaccia di un proiettile. - La tua amica si trova a Perm’. –
- Perm’? – Replicai non molto sorpresa, Ivan non sarebbe andato lontano con un ostaggio al seguito. – Beh è un po’ troppo generico, deve fornirci un indirizzo. –
- Penso di avervi fornito già abbastanza. – Ghignò nevrastenica scaricando la tensione accumulata. Lara tornò a puntarle la pistola contro.
- Dalla sua irriverenza desumo che non le dispiacerebbe un bel buco nel cervello. – La Rosencrans sapeva di essere senza alternative. Svincolarsi da quella condizione era possibile solo confessando. A nulla sarebbe occorso gridare aiuto, correre verso il telefono o l’uscita, non con un’arma pronta a far fuoco che la puntava.
- E’ un’ex struttura ospedaliera, un edificio dismesso sull’Ural’skaya Ulitsa.-
Ural’skaya Ulitsa, avevo già sentito pronunciare quella via. Rapida raggiunsi il PC e avviai una ricerca su Google maps, digitai la via sulla città di Perm’ ed ecco che apparve indicata  da una goccia rossa. Correva parallela al fiume Kama, nonché alla ferrovia Transiberiana. Studiandola attraverso il satellite capii perché quella via mi era familiare, al numero civico 112 sorgeva il circo statale di Perm’ non itinerante, Arkadij me ne aveva parlato a lungo. Stampai la cartina dal browser web e quando l’ebbi in mano un dubbio m’assalii. Era il medesimo dubbio che crucciava Lara e fu lei a dargli voce.
- Chi ci garantisce che non stia mentendo? –
- Già, e volendo supporre che dica il vero, non ci impiegherà un istante di più a contattare Ivan e predisporgli di spostare Astrel da un’altra parte. –
- Bene, vorrà dire che la porteremo con noi, è l’unico modo che abbiamo per impedirle di sabotarci. – La preside indietreggiò di qualche passo, esterrefatta.  
- Con noi? Ma, Lara, come potremmo mai imbarcarla su un volo di linea? –
Lara sorrise risoluta.  – Non ci sono soltanto i voli di linea, fidati di me, Svetlana. – Mi esortò, senza l’incombenza di dovermi convincere troppo, io nutrivo già una gran fiducia nei suoi riguardi; la sua intraprendenza nel barcamenarsi in situazioni critiche, quella capacità di non perder mai di vista l’obiettivo erano encomiabili. Lara incarnava lo stereotipo di donna che sempre avevo ambito essere. – L’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci adesso, è riuscire a condurla fuori di qui. Ho noleggiato un’auto ed è parcheggiata in strada, proprio davanti alla scuola. –
- E se tentasse di fuggire? –
- Non lo farà, non con una pistola premuta contro la schiena e le mani legate. – La direttrice non accennò a ribellarsi, imboscando la sua alterigia dietro una sospetta condiscendenza. Uscire dalla presidenza era l’unica possibilità che le restava, lungo i corridoi, per strada, avrebbe trovato l’occasione per affrancarsi definitivamente. Passai al setaccio ogni angolo della presidenza alla ricerca di qualcosa che fosse idoneo per immobilizzarle mani. Perlustrai l’intera cassettiera, e alcune scatole tracimanti di scartoffie, nulla. Poi lo vidi, in gran vista, era lì sulla scrivania, vicino al mouse che avevo usato un momento prima. Un rotolo di nastro adesivo per imballaggio, l’ideale! Lesta lo passai a Lara, che avvolse i polsi della donna con grande attenzione. Fui io ad avanzare per prima, io conoscevo l’istituto e per tale ragione andai in avanscoperta appressata da Lara e dalla Rosencrans. Prima di procedere sostai sull’uscio della presidenza ispezionando il corridoio, Dovevamo fare in fretta. All’intervallo mattutino mancavano meno di dieci minuti e se solo ci fossimo trovate per i corridoi durante il trillo della campana, sarebbe stata la fine! Optai per l’uscita laterale di emergenza, certa che non venisse mai usufruita, se non dopo le nove dagli alunni che uscivano la sera, come me ai vecchi tempi. Imboccai il corridoio a desta, Lara mi seguì spintonando la Rosencrans.
- Azzardi un passo falso e la freddo all’istante. – L’uscita d’emergenza era sempre più vicina, ancora pochi passi e l’avremmo raggiunta con successo, tutto procedeva egregiamente, fino a quel momento. Dei passi incalzavano alle nostre spalle, qualcuno ci aveva visto. – Ferme! – Tuonò una voce, non mi occorse voltami, sapevo già che il signor Vyacheslav stava per raggiungerci, e un attimo dopo era innanzi a me a bloccarmi il passaggio. Mi sentii morire dentro, ero stata colta in flagrante mentre tentavo si sequestrare la direttrice del Majakovskij.  La Rosencrans sorrise, notevolmente sollevata. Solo una spiacevole esperienza a opera di una teppista, un evento increscioso dal lieto epilogo, così avrebbe dichiarato alla stampa, e poi avrebbe aumentato lo stipendio al signor Vyacheslav.
- Signorina Svetlana! – Mi redarguì l’inserviente con inamovibile severità. – Il suo è un gesto azzardato e pericoloso, e io mi auguro soltanto che riuscirà a trarre in salvo la signorina Astrel, e impedire per sempre a questa malfattrice di schiavizzare delle giovani donne. - Non scorderò mai la bestiale metamorfosi sul volto bieco della Rosencrans. Il rosso cremisi sulle gote smilze mischiato al nero delle pupille dilatate, le labbra scarne arcuate verso il basso e le rughe increspate come la superficie del mare impazzata dal vento. Non avrebbe mai creduto possibile che un uomo umile e remissivo fomentasse un simile risentimento, tanto da ammutinarsi e permettere a due squilibrate di sequestrarla.  Fu grazie alla collaborazione del signor Vyacheslav che riuscimmo a raggiungere l’auto e allontanarci dal Majakovskij.
Il Challenger 605 sorvolava un incommensurabile tappeto di nuvole. Il sole del tramonto sfiorò le mie gote irraggiandomi il risveglio di luce vespertina. Assonnata, ammirai attraverso il finestrino la suggestività di un panorama inconsueto. Apposi una mano sul vetro, quasi nutrissi l’ambizione di trapassarlo e tuffarmi su quel giaciglio paradisiaco. Il rumore dei motori creava un riverbero perpetuo, ma l’altitudine rendeva ovattato ogni suono. Sbadigliai a fondo ridestandomi da quel languore. Appena dopo il decollo ero crollata in un sonno profondo e per più di due ore avevo riposato cullata dall’aria.  Probabilmente era solo l’effetto dello stress accumulato, imputarne la causa agli ansiolitici assunti mi parve inverosimile. Sapevo che non avrebbero nuociuto al mio organismo se entro un’ora dall’assunzione avessi indotto il vomito. E la fortuna volle che le cose andarono così; fu grazie al tempestivo e fortuito arrivo di Lara che riparai al danno.
- Finalmente sei sveglia. –  Abbandonai il panorama all’imbrunire, e mi voltai verso Lara che aveva appena preso posto sulla poltrona al mio fianco. I raggi del sole s’infittirono fra i suoi capelli accendendoli di un rosso cremisi.
- E così hai un aereo tutto tuo. –  Lara cacciò un’occhiata fugace all’elegante cabina del Challenger, posando lo sguardo sul bouquet di tulipani gialli che prendeva vita sotto i riflessi dello champagne colpito dal sole.
- Oh, non è mio, Clarck l’ha noleggiato per me quando ha saputo che intendevo recarmi a Mosca. – In fondo alla cabina, la Rosencrans sedeva su un divano a due posti, con la cintura di sicurezza allacciata e le mani costrette nell’appiccicosa morsa del nastro adesivo. Lara era riuscita nel suo intento, imbarcarla su un aereo diretto a Perm’.
- Posso farti una domanda, Lara? –
- Naturalmente. –  Rispose lei mettendosi comoda sulla poltrona.
- E’ davvero così semplice ricevere il porto d’armi negli U.S.A? – Lara si concesse una risata di cuore, poi estrasse la sua arma dallo stivale che la custodiva come una fondina. La maneggiò con leggerezza esibendola ai miei occhi, e mi domandai se la sicura fosse inserita. La puntò contro il finestrino, accertandosi che la Rosencrans, alle nostre spalle, non si accorgesse di nulla.
- Secondo te il vetro è infrangibile? –
- Non vorrai mica verificarlo? – Mi sincerai, con un pizzico di preoccupazione. Lara prese la mira e tese bene il braccio, poi focalizzò l’obiettivo con gli occhi, e ispirò profondamente, infine premette il grilletto. Un colpo, due colpi, tre. Il mio stomaco si rivoltò su se stesso, con le mani afferrai i braccioli della poltrona e v’infossai le unghie tanto da lasciarvi il segno.
- Bang! –  Esclamò divertita, soffiando sulla canna della pistola. Il finestrino era ancora intatto, e nessun suono di deflagrazione si era udito.
- E’ scarica. – Lara avvicinò le labbra al mio orecchio e parlò a voce bassa.
- No, è finta. – Strabuzzai gli occhi e sorrisi dallo stupore, la direttrice del Majakovskij sequestrata con un giocattolo, impensabile! Lara indicò la Rosencrans alle nostre spalle e si avvicinò l’indice alla bocca. – Sss, quella carogna non deve sospettarlo neppure lontanamente. – Poi ripose l’arma nello stivale e aggiunse. – C’è chi va in giro con lo spray al peperoncino, e chi, come me, preferisce questi giocattoli terrificanti. -
Perm’. Eccomi, fra le tue strade un’altra volta. Il sole sta nascendo, ma è ancora fievole, come le mie speranze. Astrel mi manca più dell’aria e ritrovarmi in questa algida metropoli, senza lei, mi strazia di malinconia. Dalla jeep su cui viaggio vedo il Kama che fluisce in lontananza, fu ammirando quelle acque che la farfalla ad ali spiegate spiccò il suo primo volo, e ora, aveva perso un’ala ed era crollata al suolo, arenandosi morente. Il freddo è intollerabile, il fuoristrada che ho noleggiato insieme a Lara ha il riscaldamento guasto, e mi domando se anche la mia Astrel patisca il gelo. Dallo specchietto retrovisore scorsi il volto della Rosencrans, era cereo e fiacco, provato da un lungo viaggio e dalla corda che Lara le aveva avvinghiato intorno al corpo. Non provai compassione alcuna per lei, nessuna pena nei confronti di una donna spietata e senza scrupoli.
- E’ questa? E’ l’Ural’skaya Ulitsa? – Chiese conferma Lara mantenendo la destra sullo slargo. Un ampio rettilineo a quattro corsie si perse all’orizzonte, accompagnato dai binari del tram. Sui lati della strada si alternavano macchie di verde a palazzi dai muri scorticati.
- Sì. – Affermai, invitando Lara a decelerare, in base alla fotografia rilevata dal satellite mancavano pochi metri all’imbocco del sentiero sterrato che ci avrebbe condotte fino alla struttura indicata dalla preside. Di lì a poco apparve l’ingresso, Lara si destò alla guida e svoltò prontamente a destra. Le ruote abbandonarono l’asfalto e s’inoltrarono nel sentiero scosceso, lievemente in pendenza. La jeep cominciò a incespicare tra le buche, sussultando e ondulando con moderata intensità. Una foresta di betulle s’infittì intorno a noi inghiottendoci nel suo ventre silenzioso. La città era svanita d’un tratto. Lara manteneva le mani salde al volante e sollecitava il freno per evitare che il fuoristrada acquisisse velocità in discesa.
- Spero non ci abbia ingannato. – Mi augurai, domando la mia preoccupazione come Lara faceva con la jeep.
- Sta tranquilla, Svetlana. – Mi rasserenò Lara. – Non è nella posizione di governare il gioco. – Disse con fare intimidatorio, sferzando la passeggera alle nostre spalle con un ghigno truculento. – Se ci accadesse qualcosa di spiacevole, lei ne sarebbe coinvolta di conseguenza. - Le buche smisero d’ostacolare il nostro cammino, ma a sprangarci il passaggio ci pensò un cancello ricoperto di ruggine. Era alto circa tre metri e sulla sommità svettavano delle cuspidi a forma di lancia. Ai lati correva un muro di mattoni rossi ricoperto dalla vegetazione. Con buona probabilità ci trovavamo di fronte all’ingresso del nosocomio abbandonato, ma prima d’accedervi occorreva superare l’ostacolo.
- Provo ad aprirlo. – Dissi, scendendo dal fuoristrada e procedendo verso l’inferriata. Una sottile caligine si levava a un palmo dal suolo coprendo i miei passi sul terreno fangoso. Giunta innanzi al cancello m’accorsi che una lunga catena ad anelli correva intorno alla toppa, ma a differenza dell’inferriata non era ricoperta dalla ruggine, bensì brillava di un argento vivo. Nessun catenaccio la bloccava, così mi fu semplice sbrogliarla e spalancare il passaggio. Varcai il confine a piedi, ora le mie suole non affondavano più nel fango, ma battevano una superficie solida. Attraverso la nebbiolina che si diradava in più parti scorsi un lastricato formato da ampi ciottoli, stranamente rigati dal passaggio di pneumatici.  Mi chinai per studiare quei segni, erano delle scie fangose che partivano dal cancello e si perdevano più in là; qualcuno ci aveva preceduto. Lara sopraggiunse con la Jeep e sostò davanti all’ingresso per consentirmi di salire, poi ci avviammo. Le betulle continuarono ad accompagnarci per circa duecento metri, dove si sfoltirono repentinamente formando una vasta radura. Il sentiero selciato confluì sullo slargo. Lara inchiodò di scatto, ora che le pareti di betulle non correvano più ai lati della via, nulla poteva proteggerci. Al centro di quel bacino brullo s’issava un edificio di quattro piani. Versava in condizioni d’abbandono e degrado.
- Sarebbe meglio proseguire a piedi. – Proposi, valutando la breve distanza da percorrere. – Se davvero Ivan è lì dentro potrebbe udire il rumore dell’auto. – La Rosencrans riaffiorò dal suo prolungato stato di quiescenza, dimenandosi rabbiosa come una preda nel sacco. – Siete due povere folli! – Strepitò, tentando vanamente d’affrancarsi, ma la corda le correva per tutto il corpo, Lara si era adoperata affinché risultasse più costrittiva di una camicia di forza. – Non avete alcuna possibilità, Ivan vi farà fuori. - Lara spense il motore e abbandonò l’auto, io l’appressai. La Rosencrans rimase sulla jeep, immobilizzata dalle caviglie fino alle spalle, tutto ciò che poteva fare era chiedere soccorso a voce, ma soltanto la selvaggina l’avrebbe udita. L’edificio si faceva sempre più imponente a ogni passo che avanzavamo. Fiancheggiai Lara facendo scorrere il mio braccio intorno al suo, quel palazzo diroccato m’inquietava come una casa infestata dagli spettri, ma lì dentro c’era un folle in carne e ossa, privo di remore morali e fortemente subordinato ai peggiori istinti primitivi. I calcinacci crollati giù dalle pareti circondavano l’intero stabile. Sui davanzali delle finestre si accumulavano sedimenti di materiale mischiato alle schegge dei cristalli infranti. Il vecchio ingresso dell’ospedale era preceduto da un vialetto pedonale in pietra battuta delimitato da aride aiuole. Intorno a noi non c’era vita, nessun tipo di movimento ad animare il panorama, solo rovine e natura selvaggia. C’incamminammo sul vialetto e giunte davanti a un mastodontico portone dal legno fradicio esitammo… non occorreva soltanto tenacia, forse anche un pizzico di follia, ma se eravamo state capaci di sequestrare la direttrice di un collegio prestigioso scarrozzandola, indisturbate, fino a Perm’, forse potevamo anche affrontare la sfida che ci attendeva dietro quel portone. Non vi era occasione migliore per sfoderare dallo stivale il giocattolo di Lara, prima ancora che io lo proponessi, lei ghermiva già la pistola in mano, pronta a intimidire ogni minaccia. Posai la mano sul legno ruvido indugiando ancora un po’, infine gravai il legno di tutta la mia forza e il portone si spalancò cigolando. Dal tetto a spiovente uno stormo di uccelli neri spiccò il volo gracidando, probabilmente erano corvi. Una voluta di polvere si levò nell’aria affaticandomi il respiro, sentivo il bisogno di tossire ma lo repressi categoricamente, produrre altro rumore era rischioso.  Ci addentrammo furtive in un atrio buio, spalla a spalla, sostenendoci a vicenda. Rasenti ai muri correvano in fila alcune panche corredate di schienale, c’erano anche delle sedie sbieche. Più avanti, un corridoio intersecava l’androne, e in fondo s’issava una scala illuminata dalla luce naturale proveniente dai piani superiori.
- Da che parte? – Parlò Lara a voce bassissima, quasi sillabando. Davanti a noi si profilavano tre possibilità, potevamo imboccare il corridoio a sinistra o a destra, oppure salire ai piani superiori. Immaginai che condurre un ostaggio su per le scale doveva essere disagevole, probabilmente, Ivan aveva recluso Astrel in una delle ex stanze di degenza al piano terra.
- Beh, andiamo a sinistra. – Lara mi assecondò e passo dopo passo ci addentrammo nel corridoio in direzione ovest calpestando un tappeto di detriti.  La visibilità era ridotta, lungo le pareti non esistevano finestre, ma un susseguirsi di porte. Soltanto alcune erano aperte, consentendo alla luce del giorno di fendere il buio in punti circoscritti del corridoio. Un alternarsi suggestivo di tenebre e luce, paura e speranza. A un tratto vidi Lara fermarsi e puntare la pistola verso il primo cono di luce, apparentemente contro le pagliuzze di polvere che vi danzavano. Ma a breve una figura umana fece la sua comparsa al centro di quell’insolito riflettore. Mi parve quasi una visione celestiale, maglione candido e capelli oro, poi lo vidi in volto.
- Alekseij! – Alekseij sogghignò e allargò le braccia, come a darci il benvenuto.
- Ci avete messo un po’ ad arrivare, potevate anche posteggiare la vostra jeep davanti all’ingresso. – Un flashback mi attraversò la mente, rapido come il bagliore di un lampo. Udivo le urla strazianti di Astrel mentre qualcuno la conduceva via dal caravan, e al contempo qualcun altro mi colpiva facendomi perdere i sensi. Come avevo fatto a non capire? Ivan aveva agito in coppia.  Lara lo minacciò sanguinaria, dissimulando la paura in uno sguardo spietato.
- Fai un solo passo e ti riempio il corpo di piombo. - Alekseij s’incupì, e quel sarcastico risolino gli morì sulle labbra. La canna della pistola puntava dritta al suo petto. Rimase immobile, congelando i suoi muscoli e l’espressione, soltanto le pupille si muovevano sinistramente, quasi ordissero le fila di una qualche strategia. Si scagliò contro Lara con un balzo felino, istantaneo. Riuscì a disarmarla colpendole la mano con un calcio, poi la ghermì dall’addome e le puntò al collo un coltello a serramanico.  Lara sentiva il cuore scoppiarle dentro, la sua pistola giaceva sul pavimento, vicino i miei piedi. Provai a chinarmi per recuperarla, ma Alekseij non mi lasciò scampo.
- Ferma! Non provare a toccarla o la sgozzo come un maiale. – A quanto pare Alekseij non s’era accorto che la pistola fosse un’arma finta e inoffensiva, ma poco importava, adesso era lui a minacciarci. - Lì dentro, ora! – M’intimò, indicando la porta aperta alla mia destra, lo assecondai senza esitazioni. Lui mi seguì all’interno della stanza scaraventando Lara sul pavimento, poi corse fuori e ci intrappolò. Lara si rialzò massaggiandosi una spalla, mentre Alekseij macchinava dietro la porta per bloccare la maniglia.
- Stai bene? – Lara annuì, se pur dolorante.
- Lo hai chiamato Alekseij, io credevo fosse Ivan. –
- No, Lara, a questo punto non so neppure se Astrel si trovi qui, forse la Rosencrans ci ha raggirato sul serio. – Lara tentò di rincuorarmi, la situazione stava sfuggendo al nostro controllo, la percepivo scivolarmi di mano e sentivo di nulla potere, eppure Lara non si arrese.
- Per prima cosa occorre abbandonare questa stanza, se abbiamo poche possibilità di successo, rimanendo chiuse qui non ce ne resta neppure una. – Entrambe ci guardammo intorno. La nostra prigione non era altro che una stanza sgombera, con un singolo ingresso e due finestre sul lato opposto. Mi avvicinai a un’imposta arrampicandomi sul davanzale, sarebbe bastato un balzo per uscire, ma un’inferriata impediva il passaggio.  Afferrai la ringhiera con una mano per testarne la solidità, e con sorpresa mi accorsi che era instabile.
- Si muove! – Esclamai carica di speranze. Lara salì sul davanzale e cominciò a scuotere la barriera con energia. Aggiunsi le mie forze a quelle di Lara e insieme lavorammo per sradicare l’ostacolo. L’inferriata dondolava sempre più, dei calcinacci si staccarono dall’alto, dovevamo farcela, era la nostra unica via.  Ancora qualche percossa e finalmente venne giù con un tonfo sordo, trascinando me e Lara verso il basso. Impattammo contro il terreno, ma la vegetazione, raccolta in scomposti arbusti, attutì in parte il colpo.  Tornammo in piedi a fatica, annaspando in mezzo ai cespi che ci coprivano fino al bacino. Poi accedemmo a un vialetto pedonale, simile a quello dell’ingresso, si allungava in parallelo all’edificio, e lo percorremmo verso est. Eravamo finite nel retro del vecchio ospedale.
Alekseij correva verso il fuoristrada posteggiato all’imbocco del sentiero, era certo che vi fossero le chiavi inserite, e se così non fosse stato, avrebbe avviato ugualmente il motore. Il biondino si arrestò a pochi metri dall’auto, aveva il respiro corto, e trafelato si chinò lievemente poggiando le mani sulle ginocchia. Il parabrezza e i finestrini della jeep erano appannati dalla condensa, quando Alekseij tornò in forze, si diresse verso lo sportello anteriore del lato guida e l’aprì.
- Ma cosa… - La meraviglia prevalse in lui, sul sedile posteriore sedeva una donna avvoltolata da una corda. Il giovane la fissò negli occhi alcuni istanti, poi la riconobbe.
- Lei è la direttrice del Majakovskij! – La Rosencrans annuì impettita, ebbra d’orgoglio per minimizzare la svilente situazione in cui versava. - Slegami immediatamente.- Ordinò tassativa. - Dobbiamo impedire a quelle due squilibrate di mandare in fumo i nostri soldi. -
- Dunque è lei la misteriosa persona che ha assoldato Ivan, ecco perché il bastardo s’è rifiutato di informarmi in merito alla sua identità. –
- Non c’è tempo da perdere, ti ho detto di slegarmi! – Alekseij tornò a impugnare il coltello a serramanico, e con attenzione liberò l’anziana preside da quell’intrico di corde.
- Aspetta, Lara. – La esortai, fermandomi sul vialetto. Lara smorzò la sua camminata andante, fino ad arrestarsi completamente qualche centimetro avanti a me. – Dobbiamo agire d’astuzia, loro sono in due, e ciò che peggio, conoscono questo luogo, mentre tu e io procediamo alla cieca. – Lara volse lo sguardo all’edificio e lo studiò dagli ultimi piani fino a raggiungere il suolo. Per la prima volta lo sconforto fece breccia in lei dissolvendo ogni auspicio, la scaltrezza nulla poteva in un contesto così avverso.  Priva di ogni risorsa, Lara non avrebbe anelato ad altro che a desistere, issare una bandiera bianca e celebrare la sua resa, delegando al fato l’orditura degli eventi. In un certo qual modo le cose andarono così, fu una mera casualità se i nostri occhi caddero su quel dettaglio all’apparenza insignificante. Era una finestra a bocca di lupo, studiata per consentire ai luoghi seminterrati di ricevere luce e un corretto ricambio d’aria. Sboccava proprio accanto a noi, seminascosta dalle erbacce, ma ancor più stranamente, da cartoni nuovi e puliti. Ciò poteva significare soltanto una cosa: qualcuno li aveva apposti di recente. Raggiungemmo l’imposta intralciate ancora dai cespugli aridi, e scoperchiammo la bocca di lupo per scrutarvi all’interno. Questa volta non vi erano grate né sbarramenti d’altro genere a ostacolarci. Lara introdusse la testa e si sporse nel vuoto col busto.
- Svetlana, guarda. – Mi misi a carponi sporgendomi all’interno, il tetto del seminterrato lambiva il mio capo, quasi percepivo il suo ruvido contatto sfregarmi il viso. Osservai verso il basso, sotto di noi c’era un tavolo rettangolare d’acciaio, il pavimento era rivestito da mattonelle bianche e grigie che si alternavano creando una scacchiera.
- Forse è la vecchia cucina dell’ospedale. – Ipotizzai, la mia voce riverberò nel buio.
- Può darsi. –
- Tu credi che Astrel sia qui dentro? – Domandai, premendo con la mano sulla lastra di cartone appena rimossa.
- C’è un solo modo per scoprirlo. – Lara cambiò posizione riportando la testa all’esterno, poi si calò in quella stretta feritoia facendo passare prima le gambe. Atterrò sul tavolo d’acciaio creando un rumore metallico. – Seguimi. – Scendere lì sotto fu abbastanza semplice, e solo quando i miei piedi toccarono il tavolo compresi che il nostro ingresso era a senso unico, arrampicarsi su una parete liscia sarebbe stato impossibile.
- Come faremo a uscire da qui? - Domandai, osservando la bocca di lupo vicino al tetto, Lara non rispose. Mi voltai di scatto verso lei, preoccupata, e la intravidi di spalle in mezzo al buio, mentre col braccio indicava un puntino luminoso in fondo alla vecchia cucina. Mi avvicinai a lei e strizzando gli occhi tentai di mettere a fuoco.
- Che cos’è? – Lara scosse la testa.
– Non lo so, sembra una lambada poggiata sul pavimento. E tutto buio qui dentro, non credo ci sia la corrente. –
- Forse è una torcia, o forse lì c’è una porta e la luce proviene dalla stanza attigua. – Strinsi la mano di Lara e m’incamminai nel buio. – Vieni con me. – Percepivo il freddo concentrarsi in gelidi refoli d’aria che sapevano di terra umida, il pavimento sembrava bagnato, malgrado le tenebre riuscii a osservare la parete alla mia sinistra, in parte illuminata dalla luce che filtrava attraverso la bocca di lupo. Era rivestita da un pannello plastificato, e intervallata da una serie di sportelli larghi un metro e alti circa sessanta centimetri, disposti su tre file a partire dal pavimento. La studiai incuriosita, domandandomi a cosa potessero servire quelle strane ante d’acciaio. Quando fummo abbastanza vicine alla luce, notammo che si trattava realmente di una torcia elettrica gettata sul pavimento. Le pile erano quasi scariche e il bagliore emesso fu appena sufficiente a svelarci un viso assopito e stremato, il volto di una fata che sentivo mia più del cuore che avevo nel petto. Mi chinai su di lei cedendo dallo shock, la vidi priva di sensi, riversa sul pavimento, legata e seviziata. La accolsi fra le braccia, lieta di poter sfamare la mia anima agonizzante, cibandola dell’unica ambrosia che la teneva in vita. Lara si accovacciò accanto a me.
- Astrel. - Mugugnò, impietosita da quel viso emaciato. Astrel si mosse appena emettendo un lamento. Sussurrai il suo nome baciandole la guancia.
- Apri gli occhi, amore mio, è tutto finito. - Astrel fluttuava tra la coscienza e l’abbandono, l’abisso del nulla lambiva il suo essere tentando di smorzarne la vita, ma lei combatteva per riaffiorare alla percezione.
- Svegliati, Astrel, coraggio! – Continuavo a esortarla, finché non vidi il ceruleo dei suoi occhi pervadermi di vita.
- Svetlana… - Fu la prima parola che sussurrò, armoniosamente se pur a fatica. – Sei viva! -
- Certo che lo sono. - Lei mi sorrise angelicamente, facendomi tornare la dea che non sentivo di essere, ma che i suoi occhi riuscivano a trasformare.
- Ho creduto che fossi morta, ho sofferto tremendamente. - Scossi il capo tra le lacrime, anche se non occorreva persuaderla del contrario. Lo stupore di Astrel accrebbe quando accanto a me si materializzò il sorriso della sua amica d’infanzia. - Lara? – Lara non riuscì a replicare, sopraffatta dall’emozione, si limitò a carezzarle il capo. - E’ incredibile! Cosa ci fate qui? E come avete fatto a trovarmi? – Domandò Astrel, mentre il concetto del tempo e la percezione del suo scorrere l’abbandonavano completamente, non sapeva se nel cielo splendessero le stelle oppure il sole, né quanti emicicli la stella diurna avesse compiuto su di lei.
- E’ una storia lunga. – Spiegò Lara cominciando a lavorare sulle corde che la imprigionavano. – Ti spiegheremo ogni cosa appena avremo abbandonato questo luogo. – Astrel tornò a contemplarmi, vogliosa di ricambiare il mio abbraccio, per scaldarsi la pelle e sfiorarmi le labbra.
- Ti amo. – Pronunciò, affondando la testa sulla mia spalla. - Dovevo immaginarlo che eri viva e che saresti tornata da me, invece non ho fatto altro che augurarmi la morte. -
- Anch’io avrei dovuto farlo, ma adesso sei qui con me, e questa volta nessuno potrà più separarci. – Lara riuscì a liberarle le mani e le caviglie senza l’ausilio di alcun oggetto affilato, solo adoperandosi con zelo per sbrogliare uno a uno i nodi.
- Si va a casa, Astrel! – Esclamò Lara con fare alacre, per meglio sollecitare la sua amica a ritornare in piedi. Sollevai Astrel dalla vita e l’affidai alle sue gambe solo quando si sgranchirono del tutto.
- Dobbiamo uscire da qui. – Dissi, preoccupandomi di trovare una via di fuga, certa che la bocca di lupo non ci avrebbe agevolato nell’impresa.
- Non prima di avervi fatto a pezzi! – La buia cantina s’illuminò inaspettatamente cogliendo i nostri occhi impreparati, il pavimento a scacchiera si estese in tutte le direzioni sotto la luce dei neon appena accesi. Ora che nessun dettaglio si celava nell’ombra, compresi che il seminterrato del vecchio nosocomio non era adibito a ospitare le cucine, bensì qualcosa di più sinistro e orripilante, lì sotto, celato alla luce del sole, si nascondeva l’obitorio. Il tavolo su cui eravamo atterrate altro non era che un asettico giaciglio per le salme da tagliuzzare con i bisturi, e quelle singolari ante d’acciaio sulla parete plastificata, le celle frigorifere dove conservare i corpi. Mi parve d’annusare l’odore della morte, di tastare la rigidità dei cadaveri che lenti s’avviavano verso una raccapricciante decomposizione. Ma quelle lugubri fantasie si stagliarono nell’orizzonte dell’astratto come minacce inconsistenti, ciò che in quel momento occorreva temere era la persona viva appena scesa di sotto. La sua visita non mi sorprese, sapevamo fin dall’inizio che Ivan s’aggirava tra le rovine dell’edificio in attesa di mettere le mani sulle banconote profumate che avrebbe ricevuto in riscatto, eppure, adesso le sue mani erano impegnate a intimidirci con la pistola. - Pensavate davvero che uno come me si lasciasse fregare da tre stupide femminucce? – Di certo la sua pistola non era un giocattolo, e se pur lo fosse stata, ciò non rendeva inoffensivo il folle che avevamo innanzi. Astrel cominciò a tremolare vacillando per la debolezza, Lara la sorresse per non farla cadere. Mi soffermai un momento su di loro, osservandole vicine e impaurite, perfino Lara, indefettibile guerriera, adesso si prostrava dimessa al sogghigno losco di chi pensava a come finirci meglio. Ammutinarsi ad Ivan non sarebbe valso a nulla, tentare di disarmarlo o attaccarlo era inconcepibile, a meno che non l’avessimo fatto mirando a una sua debolezza, e io ne conoscevo una.
- Ivan. – Chiamai il suo nome con una certa affabilità, procedendo di un passo verso lui.
- Resta dove sei, puttana! –
- Ivan, ti prego, non trattarmi così. – Lo esortai pacatamente, azzardando ancora un passo nella sua direzione. – Devo confessarti una cosa, sento che se non lo faccio adesso non ci sarà un’altra occasione. – Ivan riassestò la mira, ora la canna della pistola incombeva esclusivamente su di me. Avrei voluto scappare, cominciare a strillare per sfogare il mio terrore, non potevo. Mai come in quel momento la fredda razionalità doveva prevalere e mettere a tacere ogni altro istinto. - Ho commesso un grave sbaglio. – Affermai appassionata. – Non avrei mai dovuto rifiutarti, solo ora che ti ho perso ho compreso quanto tu sia speciale. –
- Piantala di prendermi in giro, brutta stronza! -
- Puoi anche non credermi, ma sono sincera. –
- Te lo dico io cosa sei, una fottuta lesbica che mi ha preferito a una femmina. –
- Sì è vero. – Confessai affranta. – E’ stata lei ad allontanarci, mi ha costretto a fuggire dal Majakovskij quando le ho confidato d’amarti. Non sopportava l’idea che noi due potessimo stare insieme, e ha minacciato di ucciderti se solo mi fossi avvicinata a te. – M’interruppi sfiatata, rabbonire l’ansia mi costò più energie di quanto non ne avrei consumate domando una tigre. Ivan non proferì per alcuni secondi, annuendo tra sé, come a dare il plauso alle riflessioni che gli correvano in testa.
- Se le cose stanno come dici, di lei non deve importarti nulla. –
- Infatti è così. – Confermai, nel tentativo di trasformare in certezze le sue mezze convinzioni.
- Bene, vorrà dire che non c’impiegherò più di un secondo a farla fuori. – Ivan smise di puntarmi la pistola contro per trasformare Astrel nel suo bersaglio - No! – Strillai, occupando nuovamente la traiettoria che avrebbe percorso il proiettile, auspicandomi che la mia carne facesse da solido scudo. – No, Ivan, aspetta un momento. Se la uccidi i suoi genitori non pagheranno il riscatto. – Lo persuasi con enfasi, certa che se avessi fallito, per tutte noi sarebbe stato fatale. – Fatti consegnare il denaro e fuggiamo insieme, ti seguirò ovunque tu voglia. –
- Noi due insieme?  Potremmo sposarci e comprare casa a Yaroslavl’. Sì, una casetta sulle rive del Volga. – Non saprei dire se quel tono trasognato e cantilenante fosse sintomo di un reale coinvolgimento da parte sua, oppure una mera presa in giro nei miei riguardi, quali che fossero state le sue intenzioni non mi restava che assecondarlo. Mi spostai di altri due passi verso lui, raggiungendolo finalmente, e passandogli il braccio intorno alle spalle, quasi anelassi il suo contatto.
- Ivan - Gli sussurrai all’orecchio sfiorandogli appena il lobo con la lingua. – Tutti i nostri sogni potranno trasformarsi in realtà, ma se davvero mi ami devi fidarti di me e consentirmi d’impugnare la tua pistola, dopo quello che Astrel mi ha fatto subire, concedimi almeno di spararle a una gamba, così che non potrà fuggire. – Ivan mi scaraventò sul pavimento con uno spintone.
- Sei pazza! Non permetterò mai a una femmina di disarmarmi. – Le sue grida risuonarono per l’obitorio, Lara e Astrel s’irrigidirono trasalendo, come se una scossa elettrica le avesse attraversate. Mi rialzai prontamente.
- Sono solo una femmina è vero, per tale motivo non dovresti temere di cedermi la pistola, che minaccia potrei rappresentare per un uomo virgulto come te? Non avrei neppure il tempo di prendere la mira che mi avresti già neutralizzato, o reputi di non esserne all’altezza? - Lo provocai, persuasa di sollecitare il tasto giusto. Ivan mi ghermì da dietro stringendomi un braccio intorno all’addome, poi mi afferrò il braccio e lo tese verso Astrel, lasciando in fine che la pistola scivolasse dalla sua mano alla mia.
- Sparale! – M’intimò, mantenendomi il braccio teso e giostrandolo come fossi un burattino. – Sparale ho detto! –  Avvertivo il suo respiro soffiarmi sul collo, il fetido tanfo d’alcool mi riportò alla memoria quei drammatici momenti, e il ricordo fu reso vivido dall’intima vicinanza a cui mi costringeva.
- Fuggite! – Strillai, migrando il braccio verso l’alto con un gesto inconsulto, resistendo fino allo stremo alla forza contraria che Ivan esercitava sul mio polso. Fu un saliscendi spasmodico e difficilmente controllabile, tanto che premetti il grilletto per errore… Il proiettile s’avviò fulmineo, schizzando lungo l’anima della canna, fino alla volata, dove incontrò accidentalmente il mignolo e l’anulare d’Ivan che si squarciarono in raccapriccianti brandelli. L’urlo atroce che emise fu simile al latrato di un cane in agonia. Il dolore lo costrinse a genuflettersi per terra con la mano sanguinante, mentre la sua carne lacera lo circondava, sparsa sulle mattonelle chiare. Inorridita assistevo alla scena, mentre la pistola mi scivolava dalle mani e toccava il suolo con un tonfo sordo. Fui assalita dalla nausea e indietreggiai atterrita.
- Via da qui, presto! – Sollecitò Lara, correndo verso l’unica porta presente in obitorio. Ivan l’aveva lasciata aperta e quando varcammo l’uscio, un largo androne ci accolse nel suo perimetro quadrangolare. Il pavimento richiamava la scacchiera della stanza attigua, mentre sulle pareti cresceva una fila di mattonelle rettangolari che salivano fino a incorniciare l’ uscita del vecchio ascensore.  Di fronte a noi c’era una scala dal passamano inesistente, grezzamente accomodata da un separé a soffietto bianco. Tenendoci per mano salimmo fino al pianterreno, sboccando all’estremità di un corridoio. Non ci fu neppure il tempo di pianificare le mosse successive che un’ennesima minaccia ostacolò la nostra impresa. Ci arrestammo sull’ultimo gradino della scala, rimanendo vicine per proteggerci a vicenda. Lo stupore obnubilò lo sguardo di Lara connotandosi d’incredulità, com’era potuto accadere? In che maniera la Rosencrans era riuscita ad affrancarsi dalle massicce corde che lei stessa le aveva aggrovigliato intorno al corpo?
- Cosa ci fa la preside qui? – Domandò Astrel, esterrefatta quanto Lara, osservando l’anziana donna imperiosa, imbracciare un fucile a pompa. Quando Alekseij l’affiancò sguainando il coltello, Lara fornì una risposta ai suoi quesiti. Sentivo che questa volta non ce l’avremmo fatta, non contro due ostili armati fino ai  denti.
- Mi compiaccio. – Esordì la Rosencrans bramosa di riscatto – Vedo che avete portato a termine la missione e liberato l’ostaggio, spero vi siate divertite nel vestire i panni delle 007, poiché da questo momento il gioco si farà un tantino sgradevole. – Alekseij si scompose in una risata cinica, la situazione cominciava a intrigarlo, era esilarante vedere una vecchia bacucca dalla statura minuta maneggiare goffamente un’arma così ingombrante. - Conducile fuori, ho in mente una cosa. – Dispose la donna al sogghignante biondino. Alekseij si avvicinò a me imponendomi di rimanere quieta.
- Di lei si occuperà Ivan. – Affermò, cominciando a trascinarmi giù per le scale, verso il luogo mostruoso dal quale ero evasa.  Non potevo ribellarmi al suo coltello, così come Astrel e Lara non potevano farlo al fucile. A ogni gradino sceso percepivo l’algido soffio della fine agghiacciarmi la pelle, se avessi varcato ancora l’uscio di quell’obitorio, avrei detto addio alla vita dove ogni cosa sapeva di morte. - Muoviti! – Alekseij mi spinse fin dentro l’obitorio, poi, senza neppure accorgersi di ciò che vi era accaduto, sbarrò la porta e tornò di sopra. Ivan adesso era in piedi. Lo vidi di spalle con la schiena nuda, lievemente curvato sul tavolo mortuario. La bocca di lupo lo illuminava dall’alto accentuando le fattezze statuarie dei suoi bicipiti bracciali, mentre lui terminava di fasciarsi la mano ferita con la stoffa della camicia. Il mio ingresso gli fu indifferente, non si voltò neppure a osservarmi, e continuò la sua medicazione accompagnandola da un fischiettare spensierato. Nella stanza il sangue era dappertutto, gli imbrattava i pantaloni e la pelle, alcuni brandelli di carne erano stai appiattiti dai suoi passi e si spalmavano oscenamente tra le mattonelle. Mi rannicchiai accanto alla porta, inorridita.
- Sei stata cortese a risparmiarmi tre diti – Commentò, voltandosi con uno slancio ferino, al quale oppose un sorriso rincuorante. – Come potrò mai sdebitarmi con te? – Mi raggiunse e si adagiò per terra, vicino a me, ancora una volta accompagnato dalla sua pistola che stringeva con la mano sana. Sapevo che era giunto il momento, questa volta nulla e nessuno avrebbe impedito che accadesse, e la ferale cornice dell’obitorio avrebbe celebrato la mia dipartita dal mondo. - Hai delle bellissime mani – Mi sussurrò all’orecchio con voce profonda, come un amante appassionato.  – le tue dita sono lunghe e affusolate, ne hai cinque, proprio come i proiettili che mi rimangono nel caricatore. -
- Ivan, ti supplico. - Lo implorai a fatica, percossa da tremiti.
- Oh, non angustiarti, non ne vale la pena. – Mi consolò, abbozzandomi una carezza sul viso col fagotto insanguinato che gli fasciava la mano. Poi si rialzò, facendosi ciclopico ai miei occhi che dal basso lo fissavano. Respirava spasmodicamente, gonfiando i pettorali a ogni boccata d’aria ingurgitata. In piedi mi puntò la pistola contro il capo. - Potevamo realizzare tutti i nostri progetti, acquistare quella casa sul Volga, passeggiare tra le vie innevate di Yaroslavl’, sorseggiare un tè bollente all’imbrunire, e invece no! Tu hai preferito rovinare ogni cosa. – Imboscai il capo tra le braccia, adagiando la fronte sulle ginocchia, tutto ciò a cui potevo ambire era che Ivan mi freddasse con un singolo colpo, una morte fulminea era preferibile a una lenta e atroce agonia.  La mano tremula si fece ferma e determinata, sgravata da ogni remora premete il grilletto, conscia che il proiettile ormai partito avrebbe ossequiato la traiettoria impressagli. La pallottola giunse alla meta, lacerando la pelle, frantumando le ossa e infilzando la carne. Imperterrita soggiacque alla spinta iniziale e rettilinea s’addentrò nella materia cerebrale. La morte sopraggiunse al rintocco dell’ultimo palpito nel petto. Fine… nulla… dissoluzione… La deflagrazione aveva posto a serio rischio i miei timpani, l’unica cosa che riuscivo a udire in quel momento erano i battiti folli che mi sferzavano il respiro. Le mie membra erano illese, nessun corpo estraneo a invadermi l’organismo. Ero viva e senziente. Sollevai il capo dalle ginocchia scrutandomi attorno smarrita. Ivan non si era allontanato di un passo, impietrito come una colonna fissava un punto vuoto con gli occhi strabuzzati e le pupille stranamente immobili. La sua mano cedette la presa e la pistola scivolò verso il basso, poi la gravità reclamò anche il suo corpo, e lui s’accasciò al suolo come la tela di un sacco vuoto. Lì per terra giacque, con gli occhi ancora spalancati e un foro insanguinato sulla tempia. Un colpo era partito, ma a spararlo non era stata la pistola di Ivan. Se pur esterrefatta dall’accaduto, non mi attardai a pormi quesiti, e rapida balzai in piedi per fuggire via quanto prima. Un ombra fece capolino dalla finestra a bocca di lupo, e una sagoma umana in controluce pronunciò il mio nome.
- Vieni via, Svetlana, fai presto! – Mi era noto quel timbro di voce femminile e conoscevo la persona a cui apparteneva, ciò nonostante, rifiutai la possibilità che potesse trattarsi di lei. Mi appropinquai alla finestra, senza avvicinarmi troppo al tavolo macchiato di sangue usato da Ivan per medicarsi. Cacciai gli occhi verso l’alto e mi sorprese costatare di non essermi sbagliata, era proprio lei, Irina, che dal tetto mi esortava a prestarle ascolto.
- Tu? Come hai fatto? – Irina m’interruppe perentoria.
- Non c’è tempo adesso per spiegare, usa la pistola d’Ivan per scassinare la serratura e corri fuori, Astrel è in serio pericolo. -
Alekseij riprodusse da principio il filmano catturato dal suo cellulare per visionarne la nitidezza, l’audio era appena disturbato e creava un sottile riverbero metallico, a ogni modo le parole pronunciate da Astrel si udivano correttamente.
- Ti è stato inviato un codice di conto corrente, accredita i soldi entro due ore oppure mi uccideranno. -Poi il clip s’interrompeva con un fermo immagine di Astrel, legata e inginocchiata tra due arbusti in mezzo una fitta selva di betulle, mentre la canna di un fucile l’assoggettava all’obbedienza.
- Invialo. – Ordinò la Rosencrans adagiando il fucile sul tronco avorio di una betulla per inspirare piacevolmente l’aria salubre della foresta. Adesso poteva stendere le braccia in tutta scioltezza e muoversi liberamente in qualsiasi direzione, ossequiando solamente alla propria volontà.  L’intrigante sapore della rivalsa le fermentava dentro lo stomaco, nulla come la vista della sua rapitrice legata a un albero poteva offrirle maggiore appagamento. E quel senso di sublime onnipotenza accresceva tutte le volte che Lara si dimenava tra le corde.
- Liberatela! – Strillò Astrel con le lacrime agli occhi. – Lara non è coinvolta in questa lurida vicenda. –
- Non lo è? – Chiese la Rosencrans fingendosi meravigliata - Beh, io sono di un altro parere. – Commentò, avvicinandosi al tronco di betulla sul quale Alekseij aveva immobilizzato Lara. Non resistette alla bramosia di picchiarla e rapida le sferrò un pugno centrandole la mandibola. Lara chinò il capo verso il basso contorcendosi in uno spasimo di sofferenza. La preside le infittì le dita tra i capelli e facendo presa su di essi le riportò la testa in posizione eretta. - Sei caparbia e spietata, maledettamente cinica, una come te avrebbe fatto strada nella vita, peccato che non ne avrai più l’occasione. – Alekseij ripose il cellulare in tasca, e si avvicinò alla direttrice.
- Il clip è stato inviato correttamente. –
- Bene. – Rispose lei abbandonando Lara ai suoi mugugni di dolore. – E’ arrivato il momento di sbarazzarci d’entrambe. –
Alekseij si sorprese. – Dovremmo sbarazzarcene adesso? Perché non attendiamo prima che il denaro sia accreditato. –  La Rosencrans avallò la proposta del giovane. – Lei comunque non ci occorre. – Puntualizzò, indicando Lara con un gesto rozzo del braccio. – Uccidila. –
- No! – Strillò Astrel con tutto il fiato che aveva nei polmoni, la voce era l’unica arma in suo possesso, se pur vacua e inefficace. Provò a divincolarsi dalle corde, ma scivolò sul terreno e ridestarsi le fu impossibile, le sue mani erano bloccate dietro la schiena, non le rimase altro da fare che osservare i tronchi snelli delle betulle troneggiare su di lei.
Insieme al vento sfrecciavo tra le fronde e gli arbusti, inoltrandomi alla cieca nel percorso accidentato in mezzo alla boscaglia. Irina correva qualche metro avanti a me per indicarmi la strada, non sapevo dove mi stesse conducendo, appena fuori l’edificio aveva indicato un punto impreciso a sud esortandomi a correre in quella direzione. Ci stavamo muovendo in senso opposto rispetto all’ingresso del nosocomio, tra le betulle che cimavano su un terreno a dislivello. A un tratto Irina svanì in mezzo al verde e con lei il mio orientamento nella monotonia del panorama. La chiamai a gran voce ma in mia risposta solo un surreale silenzio. Smisi di correre e cominciai a camminare, abbozzando un ideale percorso rettilineo. Non capivo dove fosse sparita, d’improvviso il terreno s’interruppe, sprofondando in un dirupo che scendeva a strapiombo per circa sei metri. Mi arrestai sul ciglio del precipizio, studiando dall’alto la vallata sottostante, e capii d’esser giunta a destinazione. Vidi Astrel accasciata al suolo, Lara legata a un albero, Alekseij in piedi e la preside in procinto d’imbracciare il fucile.
- Ferma! – Vociai in cima al precipizio, ghermendo con entrambe le mani la pistola che avevo trafugato al cadavere di Ivan. Si destarono tutti volgendo lo sguardo verso l’alto, la reazione di Lara e Astrel fu d’autentica gioia e speranza. - Non osi toccare quel fucile. – La preside sottostette al mio comando e in cerca di soccorso migrò lo sguardo verso il giovane Alekseij. Lui s’irrigidì spiazzato, del tutto incapace di fronteggiare la situazione. Di lì a poco un’altra arma incombette su di lui, era quella d’Irina, misteriosamente comparsa nell’insolita arena che dall’alto osservavo come una spettatrice sulla cavea. Il tempismo d’Irina mi consentì di scendere fin giù seguendo un percorso laterale. Una volta lì continuai a intimidire la preside mentre Irina faceva lo stesso con Alekseij.
- Getta il tuo coltello. – Lo comandò, mentre lui si fingeva ignaro.
- Non possiedo alcun coltello. – Dichiarò con fare innocente, riconoscendo il volto della giovane e ricordando la pelliccia bianca che per lui aveva indossato quella notte nei pressi di Balashikha.
- Gettalo ho detto! Qui per terra, vicino ai miei piedi. – Alekseij aprì la cerniera del suo marsupio e con un gesto fluido estrasse il coltello, poi lo lanciò, lasciando che cadesse esattamente dove Irina gli aveva chiesto.
- Non vorrai ammazzarmi, vero? –
- Taci! – Lo ammonì lei carica di risentimento, calandosi per afferrare il pugnale. Quando lo ebbe recuperato s’avviò, procedendo all’indietro per mantenere Alekseij in ostaggio, e con qualche difficoltà raggiunse il tronco di betulla su cui Lara soccombeva prigioniera. Impiegò il coltello come un’accetta e mediante un colpo netto recise le corde che ruotavano intorno al tronco. Lara si scrollò di dosso le corde allentate, Irina le passò il pugnale per consentirle di liberare Astrel. La Rosencrans assistette alla scena impotente, il fucile era a pochi passi da lei, le sarebbe bastato allungare il braccio per afferrarlo e freddare quell’insolente, ma sapeva di non potersi concedere simile rivalsa. Lara liberò Astrel dalle corde. Adesso la situazione si era ribaltata in nostro favore, nonostante fossi io a poter premere il grilletto questa volta, compresi che avrei dovuto farlo realmente se avevo a cuore la sorte di tre ragazze innocenti. Uccidere Alekseij e la Rosencrans era l’unica alternativa contemplabile per fuggire da quell’incubo.
- Io ti conosco, Irina. – Affermò Aleksej atteggiandosi adulatorio. – Non saresti capace di ammazzare un uomo a sangue freddo, è roba da farabutti, e tu sei solo una brava e onesta ragazza. –
- Purtroppo Ivan ha tirato fuori il mio lato peggiore, così com’è riuscito a fare con te, d’ora in avanti ucciderò qualsiasi uomo che osi violare la mia libertà. – Avanzai di qualche passo per avvicinarmi ancora all’anziana direttrice, non ero pronta ma dovevo agire, la mia mente era così assorbita dallo scempio che stavo per compiere che non mi accorsi di aver posato il piede destro su un tratto sdrucciolevole del terreno, fu uno sbaglio madornale. Persi l’equilibrio e scivolai battendo la schiena al suolo, la pistola slittò dalla mia presa. La Rosencrans colse l’occasione offertale dal fato e ancor prima di pensarvi aveva già il fucile in mano. Non si attardò a puntarmelo addosso, costringendomi a rimanere distesa. Irina si lasciò distrarre dall’accaduto, e per un brevissimo momento abbasso la guardia, ma ad Alekseij fu sufficiente per sferrarle un calcio sulla mano e disarmarla, catturandola poi tra le sue possenti braccia. Il mio fallo aveva scatenato una ridda d’eventi così avversi che in un batter d’ali tutto si era ribaltato, e ogni nostra conquista era andata perduta, eravamo di nuovo in trappola.  Le costole mi dolevano per il colpo, su di me ondeggiavano le frasche, maculando il cielo bianco vestito di nuvole, avrei preferito che fosse quello l’ultimo spettacolo offertomi dagli occhi, e invece dovetti subire il dispregio incarnato nel viso turpe della preside. Se solo qualche minuto addietro, tra le grinfie del mio aguzzino, mi avessero detto che sarei morta per mano della Rosencrans… beh, di certo non vi avrei creduto. La canna del fucile premeva sul mio ventre, facinorosa come l’anziana donna che stava per trucidarmi. La preside si accigliò sanguinaria, allargò appena i piedi, socchiuse gli occhi, e comandò alla mano di sparare. Astrel agì prima che vi riuscisse, balzando su di lei e atterrandola più in là, sull’orlo di una pendice, dove entrambe scivolarono, ruzzolando avvinghiate. Mi rialzai di scatto, ignorando il male alle costole, e curvata dal dolore raggiunsi il ciglio della discesa. Le osservai rotolare come trottole, se pur la pendenza del terreno fosse esigua acquisivano sempre più velocità. Gli alberi non riuscivano a frenarle, solo quando raggiunsero la vallata che si estendeva oltre il declivio smisero di capitombolare. Lara fu al mio fianco, pronta a calarsi fin giù per soccorrere Astrel. Udimmo uno sparo che si propago tra la foresta spaurendo i volatili annidati sui rami. Il terrore mi assalì, qualcuno laggiù aveva sparato a qualcun altro, tutto ciò che riuscivo a vedere erano due corpi riversi sulla vallata. Mi precipitai di sotto incurante del suolo impervio, inciampando più volte tra i sassi, Lara mi seguì rischiando di fratturarsi entrambe le gambe, tanta era la foga con cui scendeva. Astrel era immobile, sdraiata a pancia in giù con il volto che premeva contro il suolo e i capelli infittiti tra le erbacce. Lara la sdraiò supina, muovendola da un fianco con estrema delicatezza, poi lasciò che la stringessi fra le braccia.  Aveva gli occhi chiusi, e non rispondeva alla mia voce, ma quando le tastai la gola il suo battito vitale mi attraversò l’anima colmandola di letizia.
- Sei viva. – Lara sorrise col respiro ancora affannato.
- Guarda. –  Disse, indicando il corpo della Rosencrans alle mie spalle. Mi voltai a osservarla, una larga macchia di sangue si ingrandiva circondandola.
- E’ morta. –  Commentai lapidaria, senza alcuna sfumatura di rammarico. Astrel rinvenne con un lamento e poggiò il capo sulla mia spalla. - Stai bene? – Le domandai stringendola forte.
- Credo di sì. – Poteva esser il lieto fine tanto agognato, il sommo  momento del respiro profondo che spazza via ogni supplizio patito. No, deliziare di quel sollievo non c’era ancora concesso, non quando la sorte d’Irina rimaneva un’incognita. Fu l’ennesima deflagrazione a informarci che era stata già sentenziata.  Sperare sarebbe equivalso a illudersi, Alekseij l’aveva in scacco, e ora l’aveva uccisa… presto avrebbe fatto lo stesso con noi. Lara si rabbuiò contrita, Astrel gemette stringendosi a me. Allo sparo segui un momento di quiete, interrotta solo dal volare scompaginato di alcuni corvi. Dalla pendice apparve Alekseij, lo intravidi tra le betulle, percorrere la breve scarpata rapidamente, ma non lo fece con le proprie gambe, né rispondendo alla sua volontà, fu la forza di gravità a reclamarlo a valle, dopo che Irina aveva conferito una spinta iniziale al suo cadavere. Lei accompagnò la salma fin giù, come a un insolito funerale, e indefettibile conclamò la sua rivalsa definitiva.
- Evidentemente Alekseij non mi ha preso sul serio pocanzi. –  Irina era di nuovo un’anima libera, tutte noi in quel momento lo fummo.


Epilogo.
Mi svegliai da un lungo e rigenerante sonno, fra le lenzuola profumate dell’hotel Kadashevskaya a Mosca. La mia dea mi contemplava con gli occhi fulgidi, deliziando del mio risveglio, quasi ammirasse un’alba spettacolare. Sbadigliai profondamente, stiracchiando i muscoli sul materasso, mentre il corpo nudo di Astrel si adagiava sul mio. Il sole del mattino filtrava dalla finestra illuminando il nostro amore.
- Promettimi che d’ora in poi ci sveglieremo sempre così. – Mi chiese Astrel, baciandomi il collo appassionatamente. La sua mano si addentrò sotto le lenzuola, dove a lei soltanto era concesso scivolare.
- Te lo prometto. – Sussurrai estasiata.
Il telefono della camera squillò più volte, entrambe lo fissammo, lì sul comodino, domandandoci se si trattasse del servizio sveglia. Astrel allungò il braccio e afferrò la cornetta, rimanendo piacevolmente sdraiata sul mio seno. - Pronto? Sì, sono io. D’accordo, gli dica di attendermi lì per favore. – Astrel riportò la cornetta al suo posto e mi osservò compunta. - Accidenti! – Esclamò.
- Cosa c’è? –
- Mio padre, è giù nella hall, desidera vedermi. – Spiegò senza accennare a staccarsi da me.
- Va da lui. – La esortai, se pur a malincuore. – Vorrà parlarti. –
- Che tempismo! Proprio adesso doveva arrivare. – Astrel scese dal letto e contrariata si rivestì. Mi alzai a mia volta e la aiutai a prepararsi, raccogliendole la chioma con un fermaglio a forma di camelia.
- Non preoccuparti, ora che nessuno ci da più la caccia, né ci vuole morte, abbiamo tanto tempo da spendere insieme. – Sdrammatizzai, quasi a voler esorcizzare ogni cosa. Lei mi scrutò negli occhi, imprimendomi l’anima di luce, poi carezzò la mia pelle nuda lungo tutta la schiena.
- Io voglio che sia per sempre. Voglio che questo tempo non abbia mai fine, non potrei immaginare il mio futuro senza di te. – Mi tuffai fra le sue braccia vestite di seta.
- Astrel, noi due siamo fatte per stare insieme, l’amore che ci lega non può quantificarsi nel tempo, “per sempre”, è troppo poco, ma farò in modo che basti. – Lei annuì col sorriso dolce sulle labbra, mi baciò amabilmente e dopo aver indossato i tacchi si approssimò alla porta.
- Faccio presto. – Mi promise davanti all’uscio.
- Parla con lui e non ti affrettare, io ti aspetto volentieri. –
Il signor Lawless sedeva su una poltrona di pelle marrone nel salottino della hall, con entrambi i gomiti poggiati sui braccioli e la gamba destra accavallata sulla sinistra. Di tanto in tanto scrutava le scale in fondo alla sala, auspicandosi che la figlia scendesse, ma il suo sguardo si perdeva subito altrove facendosi assente.
- Ciao, papà. –  L’uomo trasalì e balzò in piedi, ritrovandosi davanti la figlia.
- Astrel! –  Pronunciò sorpreso, agitando le mani con dei movimenti rapidi e brevi, sembrava quasi che volesse strapparsi le parole dalla bocca perché da sole non uscivano. Astrel lo studiò attentamente, chiedendosi da quanto tempo non lo vedesse, gli parve cambiato, incanutito e svestito di superbia.
- Non so che dire. – Confidò alla figlia, mostrandosi in tutta la sua debolezza.
- Beh, potresti cominciare col domandarmi se sto bene. – Le suggerì Astrel perplessa.
- Stai bene? – Ripeté prontamente come un attore che aveva scordato la battuta. Astrel si lasciò sfuggire una risata divertita.
- Sì, sto bene. –
- Ho incontrato la tua amica Lara, qui davanti all’ingresso, mi ha detto che ti trasferirai a Seattle con lei e la tua, la tua… insomma… - L’imbarazzo di prima tornò a ostacolargli il linguaggio. Astrel rise ancora con una punta d’amaro.
- La mia? – Lo incalzò. Lui si arrese ed espirò fiaccato.
- Non lo so che termine usare in questi casi, la tua fidanzata, è così che dovrei dire? –
- Sai, io non mi dilungo in mediocri quesiti, la chiamo Svetlana e mi basta. –
- Fantastico.- Il signor Lawless rimuginò taciturno, riflettendo sulla possibilità di riportare in auge il padre dispotico che era un tempo, ma se questo aveva indotto la figlia a girovagare per mezza Russia, forse era opportuno cambiare approccio.- E che cosa farete tu e Svetlana in America? – Domandò pacifico, se pur contrariato.
- Ci costruiremo una vita. Troveremo un lavoro, acquisteremo una casa, proseguiremo gli studi, e un giorno diventeremo qualcuno. – I progetti della figlia lo spiazzarono, se avesse dato retta ai suoi istinti le avrebbe mollato due manrovesci e poi l’avrebbe ricondotta a Londra di peso.
- Oggi, e un domani? Te lo sei chiesto? Come farai ad avere dei bambini, a formare una famiglia? – Tentò di farla ragionare, inamovibile sull’idea che la figlia avesse perduto ogni senno. – Dimmelo, Astrel, come farai? –
- Papà, io ho già una famiglia. – Protestò lei, seriamente urtata.
- Una famiglia! – Esclamò l’uomo, quasi canzonandola. – E me la chiami famiglia una donna che sta con un’altra?  E questa la definizione di famiglia che troveresti su un qualsiasi dizionario? -
- Non m’importa se la mia vita non è conforme a ciò che detta un dizionario, santo cielo!  Nel mio linguaggio famiglia significa amore, rispetto, rifugio, e lei mi da tutto questo, al pari di un uomo. -
- Allora perché non ti sceglievi un uomo? – Astrel scosse la testa esasperata, suo padre non poteva esser così cieco.
- Perché è lei che amo, vuoi comprenderlo oppure no? E se il tuo dizionario t’impedisce di accettarlo, allora dovrai rinunciare a tua figlia. - Il signor Lawless tacque contrito, estenuato da quello screzio. Lo sguardo severo della figlia lo umiliò e come un cane percosso fece per andare. Prima di congedarsi, tuttavia, si espresse per l’ultima volta adottando un tono alquanto pacato e remissivo.
- Forse, se la gente s’interrogasse sulle ragioni che originano l’odio piuttosto che  stereotipare l’amore nelle definizioni, al mondo ci sarebbero meno conflitti. Grazie per avermelo insegnato, saprai sempre dove trovarmi, Astrel. -  Astrel non riuscì a proferire, tanta fu l’emozione, anche lei aveva imparato qualcosa, dagli sterpi era sbocciato un fiore, e probabilmente, un giorno, ne sarebbero sbocciati degli altri, chissà…
Raggiunsi Astrel nella Hall e mi allietai nel vederla serena. La presi per mano e la condussi insieme a me fuori l’hotel. Per strada c’incamminammo, baciate dal sole e dal vento profumato.
- Desidero salutare Mosca, verresti con me al Gorki Park? Voglio che la nostra farfalla spicchi il volo ancora una volta. – Astrel annuì con trasporto.
- La primavera è giunta, tutto rinasce da qui. –

 

FINE.

 




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