Xena e Olimpia
si scambiarono una veloce occhiata d'intesa, che non sfuggì
ad Autolico il quale, schiarendosi la voce, cambiò discorso:
- Mio figlio esagera! - rise rumorosamente, - Smettiamola di parlare
di me, che sono vecchio e non valgo molto! Sediamoci! Ho fame: di
cibo ma, soprattutto, di notizie! - guardò le due donne davanti
a lui e le invitò ad accomodarsi sui triclini che circondavano
il perimetro della piscina. - E voi ne avete molte da raccontare,
vero? - sorrise furbescamente.
- Autolico ci ha sempre detto che, con voi, l'avventura era assicurata!
- gli fece eco Astidamia - E che tu, Olimpia, sei un bardo impareggiabile,
vero? - chiese conferma, puntando i suoi occhi color ambra sulla giovane.
Sentitasi chiamata in causa, Olimpia arrossì violentemente:
- Sono un bardo, sì... Ma in quanto ad impareggiabile... -
- Scommetto che sei in gamba quanto sei bella! - l'apostrofò
Teucro, con fare sicuro. Poi, prese posto su un triclinio non distante
dalla matrigna, pur ostentando verso la donna un atteggiamento di
sufficienza.
- Allora racconta! - intervenne felice il padrone di casa, mentre
giungevano i servi ad imbastire il ricco banchetto davanti a loro.
- Ho sentito delle vostre avventure nelle terre del nord e poi al
di là del Celeste Impero... Come si chiama quel posto? - chiese
alla moglie, porgendole una coppa di vino.
- Giappone. - dissero all'unisono Xena e Astidamia, ciascuna con tono
diverso. Dall'inclinazione della voce della guerriera, Autolico capì
che non era il caso d'insistere sulle terre d'oriente e cambiò
l'oggetto della sua curiosità: - Forza ragazze, raccontatemi
quel che volete, ma raccontate qualcosa! - socchiuse gli occhi, -
Abbiamo più di venticinque anni di arretrati. - li riaprì,
facendo scorrere uno sguardo acquoso sui presenti, - La notte è
lunga e io voglio assaporarla tutta... -
Xena non poté dire d'essere sicura, ma le parve che, illuminata
dal bagliore di un braciere, una lacrima sottile si staccasse e scivolasse,
delicata, sulla guancia del vecchio.
- Per gli dei,
Xe, non avevo mai mangiato così tanto e così di gusto!
– Olimpia si passò teatralmente la mano sul ventre pieno.
- Già, “di gusto” è il termine esatto: sembrava
che tu non mangiassi nulla da mesi. – la guerriera soppesò
per un attimo le proprie parole, - Che dico mesi! Sembrava tu fossi
affamata da anni! – rise ed assestò una manata sulla
schiena dell'amica, spingendola in avanti.
Olimpia, già poco stabile sulle gambe per via del vino bevuto
in abbondanza durante il convivio, barcollò pericolosamente,
finendo ad abbracciare la statua di un fauno. Rivolgendo al semidio
di bronzo uno sguardo torvo, quasi volesse farlo sentire in colpa
di trovarsi proprio lì, la fanciulla si rimise in piedi a fatica
e si rivolse a Xena: - Sempre gentile, tu. Mi spieghi una cosa? –
biascicò, la lingua impastata dal troppo cibo.
- Tutto quello che vuoi, mia cara. – Xena la prese sotto braccio
e la condusse accortamente verso la camera che era stata indicata
loro poc’anzi da Astidamia.
- Primo. – Olimpia le puntò pericolosamente addosso il
dito indice, - Devi spiegarmi come hai fatto a bere tutto quel vino
senza sentirti… senza sentirti… mmm… di terracotta,
ecco. – la giovane portò faticosamente a termine la frase,
fissando con un’insistenza ubriaca la donna che aveva a braccetto.
- Perché sono abituata e perché non ho poi bevuto così
tanto come te… - rispose compiacente Xena.
- Quel vino… - Olimpia si passò la lingua sulle labbra:
evidente omaggio alla bevanda, poi riprese: - Ora capisco perché
Autolico si sia trasferito qui! Su questa terra cresce l’ambrosia…
Quel vino sapeva di sole e di vento! Incredibile! -
La guerriera la guardò perplessa: – Quanta poesia, Olimpia!
Era solo vino! – rise di cuore, sorreggendo la compagna.
- No, cara: tu non apprezzi l’arte! – sentenziò
la bionda con trasporto, - Se tu avessi uno spirito artistico, come
per altro ho io, modestamente, allora capiresti cosa intendo…
- continuò, come se avesse appena acquistato il dono della
favella e si sentisse finalmente libera di esprimersi, - Quella bevanda
aveva la proprietà di farti sentire un fuoco dentro, un crescendo
di desiderio, come un cavallo lanciato al galoppo, come un’onda
immensa che ti prende, ti sommerge, ti… -
- Va bene, va bene! – la interruppe Xena, preoccupata per la
logorrea inarrestabile della ragazza.
- Ma Xe, - insistette la bionda, - devi ammettere di non avere affatto
spirito… -
- D’accordo, non ho spirito artistico. Contenta? – troncò
Xena, desiderosa più che mai di arrivare alla stanza. –
Olimpia, e la seconda cosa che volevi chiedermi? – chiese la
guerriera, nel tentativo estremo di sedare il bardo.
- Seconda? E… Ecco, sì, seconda. Giusto. Mmm… Come
ti è sembrata la cena, stasera? – gli occhi di Olimpia
sembravano d’acqua. Xena pensò per un istante che la
ragazza si sarebbe potuta addormentare lì su due piedi da un
momento all’altro. Ma quando aveva bevuto così? Lei non
s’era accorta che si servisse di tutto quel vino. A meno che
il parlare ininterrotto per quasi tre ore non le avesse procurato
particolare sete: ma di solito Olimpia beveva acqua! Perché
stasera tutto quel vino?
- La cena? Mi è sembrata una vecchia rimpatriata tra amici.
Mi è piaciuta, se devo dire il vero. Soprattutto quando hai
raccontato del mio regalo per il tuo compleanno… -
- La poesia di Saffo? –
- Sì, proprio quella! Ti sei alzata a declamarla e Astidamia
ha ripetuto i versi insieme a te! –
- Incredibile, vero? Ma chi avrebbe mai creduto che Saffo avrebbe
reso pubblica la poesia che le avevi commissionato! – Olimpia
fissò intensamente un punto imprecisato del corridoio, persa
nei ricordi: - Cara Saffo… - sospirò, per un attimo intenerita
al ricordo dell’amica scomparsa, - Comunque è stata una
piacevole scoperta, non trovi, Xe? –
- Sì, decisamente emozionante! - concordò la guerriera.
- Xe, - proseguì la giovane, - per il resto… Come ti
sono sembrati i nostri ospiti? – la ragazza sembrava divenuta
di colpo sobria e seria, - Non t’è sembrato tutto architettato
in modo che ogni cosa sembrasse perfetta e senza problemi? –
- Ora che ci penso, sì. Era come se volessero evitare domande
sul loro conto, chiedendoci di parlare di noi in continuazione. E’
questo che intendi? –
- Proprio così. Avrebbero potuto raccontarci tantissime cose,
eppure hanno deciso di tenere occupate noi a rivangare ricordi. Sembravano
d’accordo… –
- Sì. – rispose seria Xena, mentre si apprestava ad aprire
la porta della camera loro destinata.
- E Teucro, così spigliato ed irriverente. – continuò
il bardo, - Sempre pronto a punzecchiare il padre… –
- E a mortificare la matrigna… - concluse Xena seriamente.
- Già. – aggiunse Olimpia, pensierosa.
Giunte di fronte alla porta, Olimpia si sciolse dall’abbraccio
della compagna e abbozzò un sorriso, appoggiandosi allo stipite
della soglia, - Un mascalzone… - Guardò la compagna con
fare malizioso.
- Chi?? – chiese Xena.
– Teucro! Il tuo tipo! – rise, entrando nella stanza con
passo ancora incerto. La guerriera la seguì incredula per il
comportamento del bardo quella sera.
La camera era accogliente, immersa nella semi oscurità: solo
una candela, da un candelabro posto accanto al letto, irradiava una
tenue luce, calda e vibrante.
Xena chiuse la porta, inserendo il chiavistello, poi si voltò
ed apostrofò Olimpia da dietro: - sei furba, tu. Non penserai
di scaricarmi qui a Thera, vero? – rise, avviandosi verso il
letto, con l’evidente intenzione di prepararsi per la notte.
- Mah, in fin dei conti chi lo può sapere? – asserì
Olimpia, di botto.
Xena, voltandole le spalle, iniziò a slacciarsi il corpetto,
sorridendo: - E' troppo giovane perfino per te. Avrà si e no
20 anni. Va bene tutto, ma potrei essere sua madre... - sorrise, -
Andiamo a dormire, dai, è meglio: siamo stanche, sazie e, nel
tuo caso, anche un po' brille... Non so tu, ma io sento il bisogno
di riposare un po’… -
Il bardo non rispose, ma si avvicinò al letto, stralunata.
Come un automa si slacciò la veste, si sciacquò il viso
e il busto, tamponandosi con un telo di lino.
Xena la osservava con aria divertita e l'aiutò a sistemarsi
l'abito da notte e ad accucciarsi nel letto. Poi si preparò
a sua volta e s'infilò sotto le coperte. Intrecciò le
braccia dietro alla testa ed emise un lungo respiro.
- Olimpia, sei sveglia? - chiese cautamente
- Mmm... - fu la risposta poco convinta dell'amica.
- Senti, domattina avrei intenzione di tornare al porto... - guardò
di sbieco la compagna di stanza, che le voltava le spalle. - Vuoi
venire anche tu? - azzardò.
- Mmm... No... - fu la risposta biascicata.
- Sta bene, allora posso partire presto. - asserì, - Così
tu puoi dormire per tutta la mattina. - sorrise, - E, magari, riuscirai
a farti passare la sbronza colossale di stasera, eh? - scherzando,
allungò la mano per un buffetto sul braccio di Olimpia che,
però, non rispose alla provocazione.
- Olimpia, ci sei? - chiese a bassa voce la guerriera. - Evidentemente
no. - ammise, infilandosi del tutto sotto le lenzuola e sistemando
il guanciale. - Buona notte... - le sussurrò, spegnendo la
candela con un soffio.
Olimpia aprì
gli occhi quando il raggio di sole che entrava dalla finestra arrivò
a posarsi esattamente sul suo viso. Istintivamente allungò
la mano nel giaciglio e tastò tutt’intorno a sé:
niente, il letto era vuoto. Si mise a sedere, guardandosi intorno:
la stanza, illuminata, appariva ora in tutto il suo splendore. Ad
Olimpia mancò il fiato: le pareti erano completamente ricoperte
di affreschi. Splendidi uccelli, dalle lunghe code variopinte si lanciavano
in un cielo turchese, impegnati in acrobatici voli mentre, in lontananza,
si poteva scorgere una foresta verde smeraldo, scura ed affascinante
allo stesso tempo.
Con gli occhi ancora pieni di quelle meraviglie, Olimpia decise di
alzarsi, sistemarsi ed, eventualmente, andare in cerca di Xena. Sempre
che si facesse trovare: sparire era una sua qualità, glielo
doveva riconoscere. Appoggiò i piedi sul morbidissimo tappeto
e s'avviò verso il bacile per la toilette. Sospirò contenta
e iniziò a lavarsi il viso. Mentre stava terminando di allacciarsi
il corpetto udì un leggero tocco alla porta.
- Avanti… - disse.
La porta si aprì ed entrò una fanciulla: i capelli rossi
le ricadevano in morbidi ricci sulle spalle, una delle quali, libera
dal drappo che ricopriva completamente l’altra, si mostrava
bianca, quasi del tutto ricoperta da leggere efelidi. Olimpia ebbe
la sensazione che la giovane non fosse nativa di quelle parti: troppa
somiglianza con… i barbari delle steppe!
- La mia signora vi manda a dire che il bagno mattutino è pronto.
– disse in perfetto greco la fanciulla, con un profondo inchino.
Il lievissimo accento le ricordava quello di Bergen, il figlio di
Aristarco. Forse proveniva dalle terre sulle rive del Mar Nero. Forse
apparteneva al fiero popolo dei Daci… Già, doveva essere
una barbara, senza dubbio una schiava acquistata a qualche mercato
esotico. Scosse la testa: odiava la schiavitù, ma a quanto
pareva nessuno in Grecia era in grado di sanare quell’orribile
piaga.
Olimpia le si avvicinò affabilmente: - Il bagno mattutino?
Buona abitudine! Va pure a riferire che vengo subito, grazie. –
sorrise.
- La mia padrona vi chiede di esprimere la preferenza sull’essenza
da usare durante il bagno. – la giovane si schiarì la
voce, come se stesse ripetendo una lezione: - Iris, fior di loto,
melograno, latte di mandorle o latte d’asina? – la guardò,
ansiosa di ricevere una risposta.
- Latte… d’asina? – ribatté Olimpia stupefatta.
- Sì, come Cleopatra: la mia padrona sa che siete stata più
volte ospite della famosa regina e, pur sapendo di non poter aspirare
a tanto sfarzo, vuole comunque essere in grado di accontentarvi. –
rispose la giovane, ossequiosa.
- Dei… - disse fra sé il bardo passando, imbarazzata,
una mano tra i capelli, – Va benissimo l’iris, grazie.
Ma posso esprimermi solo per me stessa: la mia amica non c’è
e, sinceramente, non so dove sia andata a finire… –
La ragazza sorrise: - Xena è uscita, signora, questa mattina
presto. Mi ha pregata di farvi sapere che tornerà non prima
di sera perché ha alcuni affari da sbrigare al porto. Mi ha
inoltre chiesto di avvisarvi ha lasciato le pergamene nuove nella
vostra bisaccia ma che dovrete sistemarle voi, perché sapete
come fare. – terminò con un dolce sorriso, che le creò
due fossette ai lati del volto.
- Pergamene nuove? Ma che… - Olimpia capì e, gentilmente,
congedò la ragazza, assicurandole che a minuti sarebbe scesa.
Si avvicinò alla cassapanca su cui era appoggiata la sua bisaccia
e subito la vide: la vecchia pergamena su cui Xena le aveva lasciato
il messaggio.
“Olimpia, dormivi così bene che non ho avuto cuore
di svegliarti! Come già ti ho accennato ieri, anche se dubito
che tu te ne ricordi, vado al porto: Autolico mi ha prestato volentieri
uno dei suoi cavalli. Ho alcune faccende da sbrigare che, forse, mi
permetteranno di capire cosa sta succedendo su quest’isola troppo
perfetta. Se tutto va bene sarò a casa prima del tramonto.
A quanto pare è la regola, qui. A dopo, Xe ”.
La ragazza richiuse velocemente la pergamena, sbuffando. – Accidenti,
Xe! Ancora una volta mi hai lasciata sola… E io che faccio ora?
– si avvicinò alla finestra, osservando svogliatamente
il via vai dei servi nel cortile della villa. Improvvisamente si ricordò
del bagno che l’aspettava.
- E va bene: tu fa pure l’investigatrice, cara principessa guerriera.
– sorrise furbescamente tra sé, - Ma vedremo chi alla
fine della giornata avrà raccolto più informazioni…
- frugò nella bisaccia e tolse un abito di seta, corto alle
ginocchia: il regalo di Teseo e Arianna dopo l’avventura a Cnosso.
Decise che si sarebbe fatta bella e che si sarebbe dedicata alle cosiddette
“cose da donne”. Sì, avrebbe passato il giorno
ad oziare e chiacchierare e, si sa, con le chiacchiere si raccoglie
più materiale che alla Biblioteca di Alessandria…
Uscì dalla stanza sorridendo e si recò nel gineceo,
ritrovandosi improvvisamente avviluppata in un crescendo di essenze
e vapori profumati.
Subito le si fece in contro la giovane serva di poco prima: sorridendo
la invitò a spogliarsi, aiutandola in tale mansione. Alcuni
segni lasciati dagli allenamenti svolti sulla nave erano ben evidenti,
sparsi qua e là per il corpo del bardo che, imbarazzata per
la poca femminilità dimostrata dal proprio corpo, si sentì
in obbligo di parlare, quasi a voler coprire con le parole gli occhi
della fanciulla davanti a lei.
- Eh… Dura la vita della guerriera… Ti lascia certi segni
addosso, non trovi? – visto l’ostinato silenzio della
ragazza, Olimpia riprese: - Forse un bel bagno, lungo e caldo, ridarà
alla mia pelle quella morbidezza che il sole e il vento le hanno tolto.
– fissò la serva, accomodante. Dalla fanciulla solo un
debole abbozzo di sorriso. Olimpia iniziò a sconfortarsi: doveva
trascorrere tutto il giorno con un serva muta? Avrebbe ricavato più
informazioni utili dal fauno di bronzo, ne era certa. S’avviò
con passo sicuro verso la grande vasca fumante e vi si immerse con
piacere, constatando che l’acqua era alla temperatura ideale
per un bagno lungo, quale era quello che era sua intenzione fare.
La giovane dai capelli rossi s’inginocchiò sul bordo
della vasca ed iniziò a passare una spugna sulle spalle di
Olimpia.
- La signora ha dato precise istruzioni perché io, per non
infastidirvi durante il bagno, non parli se non interrogata... Se
il mio silenzio vi è stato d’imbarazzo, vi prego di perdonarmi.
– la ragazza parlò con un filo di voce, l’accento
straniero appena percepibile. Le sue mani si muovevano esperte sulle
spalle e la schiena di Olimpia: il bardo si abbandonò con piacere
alle cure della serva.
- Non devi farti problemi… - soppesò il fatto di non
saperne ancora il nome: - Come posso chiamarti? – chiese la
bionda.
- Il mio nome è Melia. – la voce giunse come da lontano.
- Mmm, un nome greco per… - s’interruppe Olimpia, non
volendo sembrare scortese.
- Sì, - l’anticipò la giovane, - un nome greco
anche se non sono greca. Avete capito bene, signora. – sorrise
alla nuca della donna davanti a sé, - La mia famiglia proviene
da molto lontano. –
Olimpia si voltò, appoggiando una mano bagnata su quella della
ragazza. – Non volevo essere rude, mi spiace. Ma conosco abbastanza
le terre del nord per capire all’istante che non sei originaria
di qui. Anche se mascheri molto bene la tua provenienza: il tuo accento
è praticamente perfetto. –
- Io non sono nata in Grecia, signora. Ma mia madre parlava la sua
lingua natia con noi e così pure mio padre; finché vissero
fu sempre così. – un velo di tristezza offuscò
gli occhi chiari.
- Mi dispiace siano morti. – sussurrò Olimpia.
- E’ stato tanto tempo fa. – la ragazza trasse un lungo
respiro, recuperando un po’ di serenità. – Ormai
non ci penso più. – fece voltare Olimpia e, presole un
braccio, iniziò a sfregarlo energicamente. Poi, passò
all’altro ed, infine, iniziò il suo assalto pulitore
alla nuca, ingentilendo il tocco nei pressi di un vistoso livido violaceo.
Melia sorrise: - E’ vero, signora, la vita da guerriera lascia
molti segni. Fossi in voi, comunque, non rinuncerei a quella vita
per tutto l’oro del mondo! – ricambiò lo sguardo
sereno e compiaciuto di Olimpia.
- Chiamami Olimpia, per favore. – iniziò il bardo, -
Mi fai sentire fuori posto trattandomi da nobildonna. –
- Come volet… Vuoi, Olimpia. Anche se credo che, davanti alla
mia padrona, sarà bene che io continui a trattarti da nobile:
non le piace che i servi diano confidenza agli ospiti. –
- Ti tratta male? – s’informò Olimpia, seriamente
interessata alla faccenda.
- Affatto! Io non sono una schiava, sono regolarmente pagata per le
mie mansioni qui. Ma, giustamente, ognuno ha il proprio posto nell’ordine
delle cose e deve comportarsi di conseguenza. – Melia fece voltare
Olimpia e l’aiutò ad uscire dalla vasca, coprendone immediatamente
il corpo con un telo di morbido cotone. Iniziò quindi a frizionarle
le braccia, il busto ed, infine, le gambe, asciugandogliele perfettamente.
Olimpia guardava ammirata la perfezione dei gesti della ragazza: sembrava
che le mani sapessero da sole cosa fare per sciogliere i muscoli laddove
erano contratti. Si abbandonò al piacevole e sapiente tocco
di Melia.
- Non posso massaggiarti come si deve se restiamo in piedi. Prego,
stenditi su quel letto: il ripiano è di marmo, ma è
ricoperto di morbida pelle, per cui non ti farai male. E’ necessario
che il sostegno sia rigido… -
- …perché la schiena abbia un buon appoggio e non prenda
posture scomode, lo so. – la interruppe ridendo Olimpia.
La serva la guardò sorpresa: - Sai molte cose anche tu per
la cura del corpo! – asserì felice.
- In realtà è la mia amica ad essere esperta: io vivo
di luce riflessa, in questo campo. – rispose pacatamente Olimpia.
Le mani di Melia, improvvisamente unte di olio di rosmarino, iniziarono
a passare delicatamente ai lati della spina dorsale del bardo, andando
poi a posizionarsi sulle spalle, concentrandosi sulle contratture
e scendendo infine nella zona lombare. – Sei molto dura, qui,
proprio sul ventre di questo splendido Drago... – constatò
la ragazza, spostando con l’avambraccio una ciocca di capelli
cadutale sul viso.
- Sulla nave ho avuto dei crampi dolorosissimi. – la informò
il bardo, evitando di accennare al tatuaggio, unico segno, indelebile
per giunta, in grado di suscitarle ricordi spiacevoli, - Mi hanno
immobilizzata per ore e devo ammettere di non essermi ripresa del
tutto. Spero non sia nulla di grave. – finì, lasciando
andare un sospiro doloroso dopo che Melia ebbe dato il colpo finale
ad un muscolo particolarmente restio a rilassarsi.
- No, nulla di grave. Ma Xena te l’avrà detto, no? Tu,
con questi crampi, non farai certo la fine del povero signore, sei
fortunata. –
- Cos’ha avuto Autolico, per l’esattezza? – chiese
Olimpia, soffrendo per l’ennesima volta ai gesti esperti di
Melia.
- E’ successo non molto tempo fa… Circa dieci mesi orsono.
- la voce della ragazza divenne un sussurro, assumendo un tono particolarmente
amaro, - Quella sera il padrone era uscito a piedi e s’era addentrato
nelle vigne, da solo. Nessuno s’era preoccupato per la sua assenza:
era solito sparire per interi pomeriggi e tornare a notte fonda. Gli
piaceva passeggiare per le sue terre e stare a parlare con i contadini
che le lavorano. Ma quella sera uno strano presentimento s’era
impadronito della mia padrona: girava ansiosa per casa, incapace di
fare altro che preoccuparsi. Teucro… - la ragazza si fermò,
imbarazzata, - Volevo dire, il figlio del padrone non è mai
stato particolarmente tenero con lei, ma quella sera le diede retta
e partì insieme ai servi alla ricerca del padre. – sospirò,
facendo voltare il bardo ed iniziando a massaggiarle le gambe. –
Lo trovarono riverso tra i filari, incapace di rispondere e di alzarsi
a camminare da solo. Un braccio ed una gamba restavano immobili, il
povero padrone era come diviso a metà. – Melia chiuse
gli occhi, richiamando l’immagine di Autolico dalla memoria.
- Povera padrona: quando lo portarono in casa sembrò impazzire.
Passarono la notte a vegliare il signore e il giorno dopo vi fu una
lite furibonda tra figlio e matrigna. –
- Perché? A che pro litigare per un malanno sicuramente dovuto
all’età avanzata? Autolico non è più giovane,
certe malattie vengono con l’avanzare degli anni, purtroppo…
- la interruppe Olimpia, messasi a sedere sul giaciglio ricoperto
di pelli.
- Teucro incolpava la matrigna di aver portato il malocchio sull’isola,
con la sua venuta. La mia padrona e Autolico erano sposati da poco
e lei si era trasferita a Thera solo da qualche settimana, quando
successe l’irreparabile… - Olimpia poté notare
la pelle di Melia accapponarsi all’improvviso.
- Ma mi sembra che Autolico si sia ripreso bene, no? Parla normalmente
e usa discretamente il braccio malato. –
- Sì, dopo aver bevuto i decotti della signora, fatto lunghi
massaggi ed esercizi giornalieri sia all’asciutto che in mare:
Teucro è un sostenitore convinto della ginnastica in acqua
e si è impegnato a fondo perché il padre guarisse. Ha
mandato a chiamare i medici più rinomati di Atene, alcuni addirittura
da Roma, oltre che un paio di gran sacerdoti di Thot e un druido…
-
- Accidenti! – soppesò Olimpia, - Un vero plotone! Comunque,
non chiamerei la malattia di Autolico “irreparabile”,
- sentenziò, infilandosi la tunica di seta, aiutata da Melia.
– Anzi: è stato “riparato” molto bene, direi!
– concluse sorridendo.
- Io non intendevo quello, affatto. – rispose tristemente la
fanciulla, raccogliendo la fiala d’olio di rosmarino ed apprestandosi
ad uscire dalla stanza con Olimpia: - Proprio mentre il padrone rischiava
di morire fece la sua apparizione per la prima volta su quest’isola
il… il … - gli occhi le si riempirono di lacrime.
Il bardo si fermò e fissò insistentemente la serva:
- Chi? –
Melia fece per rispondere, ma i suoi occhi si posarono su qualcosa
alle spalle di Olimpia e divennero improvvisamente seri e freddi.
Velocemente abbassò lo sguardo e chinò la testa in segno
di rispetto: - Vi saluto, signora. Spero che i miei servigi vi siano
stati graditi. Chiedete pure di me quando vi aggrada: sono sempre
al vostro servizio. – salutò con voce profonda ed atona.
Poi, si girò e scomparve dietro ad una tenda.
Olimpia restò per un attimo basita di fronte al comportamento
della serva e si voltò giusto in tempo per ritrovarsi di fronte
la padrona di casa.
Gli occhi color ambra della donna misero a disagio il bardo che si
sentì come se fosse stata colta in fallo quando, invece, non
aveva nulla da imputarsi.
- Spero che Melia abbia lavorato bene, Olimpia. – la voce flautata
di Astidamia le giunse come da un’altra dimensione.
- Eh? Oh, sì… molto bene, molto esperta… - rispose
svogliatamente il bardo. Doveva assolutamente ritrovare Melia e terminare
quel discorso, a tutti i costi.
- Forse non ci
siamo capiti. – Xena iniziava a spazientirsi, misurando a lunghi
passi lo spazio quadrangolare della fornace: - Sei o no il più
abile fabbro di Thera? -
- Sì, anche l’unico che c’è, per questo.
Ma non sono un orafo, Xena. Non – sono – un – orafo
- ! Chiaro il concetto? – l’uomo, ricoperto di fuliggine
da capo a piedi si portò i pugni ai fianchi e fissò
la guerriera con l’aria di chi ha chiuso un discorso. Definitivamente.
Xena alzò gli occhi al cielo: quell’uomo l’avrebbe
fatta andare fuori dai gangheri se non si fosse applicato per un attimo
solo a mettere in funzione la testa e cercare di venirle in contro!
– Tallio, senti, il lavoro non è poi così difficile,
se solo… -
- Niente da fare Xena, non posso. – la interruppe l’uomo,
spostandosi verso un enorme braciere incandescente.
La donna lo seguì e gli si piazzò davanti: - Se solo
tu stessi ad ascoltare cosa devi fare! Il materiale te l’ho
procurato io, ti ho spiegato come devi lavorarlo: è semplice
e, per uno come te, facilissimo! Perché continui a dire che
non ne sei capace? – puntò i suoi occhi schiettamente
in quelli dell’uomo.
Tallio si grattò lungamente un sopracciglio, sbuffò
e stortò la bocca verso destra. Xena riuscì a stento
a reprimere un sorriso soddisfatto: buon segno, la volontà
dell’uomo stava cedendo. Tallio era sempre stato così,
fin da quando l’aveva conosciuto. Bastava lavorarselo un po’…
- Mi dispiace Xena, non… Non me la sento. -
La sicurezza della guerriera si sgretolò come un castello di
sabbia. – Cooosa? Non te la senti? Ma che lagne sono queste?
– Xena stentava a credere alla situazione assurda: ma era quello
il vecchio Tallio che conosceva, artista dell’incudine, che
amava paragonarsi, a ragione, al dio Efesto in persona? Com’era
possibile che non sapesse destreggiarsi con un gingillo d’argento!
- Il problema è… - l’uomo sembrava imbarazzato.
Sbuffò, non sapendo che pesci pigliare:
- Insomma, l’ultima volta che ho lavorato un monile d’argento
la sventura s’è accanita su quest’isola. –
iniziò ad armeggiare nervosamente con gli attrezzi senza, per
altro, che gliene servisse uno, in verità. – Mia moglie
me l’aveva detto: quel ciondolo ha una forma strana, quel ciondolo
non me la dice tutta, quel ciondolo… -
Xena interruppe quel mantra istupidito piazzando le mani sulle spalle
dell’uomo: - Senti, non so di che ciondolo tu stia parlando,
ma il mio non è un gioiello, è un’arma! –
- Un’arma d’argento? – chiese sorpreso il fabbro,
- E che te ne fai? – puntò uno sguardo eloquente sul
chakram e la spada della guerriera.
- Non per me, è per la mia compagna. Voglio un’arma maneggevole
e leggera, che si possa lanciare e riprendere con facilità
ma anche trasportare senza dare nell’occhio. Sai com’è,
le strade non sono più sicure, ormai. – Xena si affidò
all’ultima, tenue speranza di ricavare qualcosa dalla mattinata
trascorsa nella fornace.
- Per il resto della Grecia non so, ma di sicuro quelle di Thera non
lo sono più davvero. – lasciò andare il fabbro,
rigirando il disco d’argento che Xena gli aveva prontamente
infilato tra le mani.
- Ah, sì… Il famoso “assassino” misterioso,
giusto? – proseguì la guerriera con finta indifferenza.
- Un vero mostro, vorrai dire! – la riprese Tallio, - Non si
limita ad uccidere, Xena: mutila le sue vittime in modo tanto atroce
e orrendo che a stento si può definire “assassino”.
E’ una belva, di sicuro… - si passò una mano callosa
sugli occhi, - Solo che nessuno è riuscito a capire che tipo
di belva sia. – sospirò. – L’ultima sua vittima
era un giovane del villaggio di Oia, dall’altra parte dell’isola.
S’è attardato sui monti per cercare un paio di pecore
smarrite e non è più tornato. L’han trovato in
uno slargo a picco sul mare, la gola e il petto squarciati, uno sguardo
di orrore impresso sul volto. Non si può andare avanti, Xena:
la gente sta scappando da Thera e nessuno fa nulla. – Tallio
terminò il suo monologo andandosi a sedere su una panca poco
distante dal mantice principale. Xena lo seguì e gli si piazzò
davanti: - E l’autorità locale? – chiese in modo
perentorio, - Nessuna guardia, nessun intervento speciale? –
Il fabbro alzò gli occhi sulla donna davanti a lui: - I saggi
hanno tenuto un conclave poche lune fa: è stato chiamato un
sacerdote del dio Apollo, ma neppure il suo intervento è servito
a qualcosa… - terminò sconsolato.
Gli occhi di Xena s’accesero rabbia: - Vi siete affidati agli
dei?! Ma com’è possibile! Al posto di cercare di venire
a capo della situazione voi chiamate un sacerdote di Apollo! Bravi,
proprio bravi! –
- E chi dovevamo chiamare, Xena? La tua armata, forse? – Tallio
si alzò e sfidò con fierezza lo sguardo iroso della
guerriera, - Forza, risolvi tu il Mistero di Thera, come già
lo chiamano i bardi. Facci vedere di cosa sei ancora capace! –
il respiro andava accelerando, - O il passare del tempo ti ha resa
innocua, Principessa Guerriera? – la schernì l’uomo.
Xena, per tutta risposta, gli sferrò un potente manrovescio
che lo catapultò al di là della panca sulla quale era
stato seduto fino a poco prima.
- Ora basta! Cerca di calmarti o le cose finiranno male! – la
guerriera si avvicinò al fabbro e gli tese una mano, aiutandolo
ad alzarsi. Tallio si ripulì il labbro dal rivolo di sangue
che aveva iniziato a uscirne lentamente: sembrava più calmo
o, dopo il volo, solo conscio del rischio che aveva corso.
- Perdonami, non volevo assalirti: non c’entri nulla, tu. –
strinse la mano della donna con fare conciliatorio.
- Pace fatta. - siglò Xena, - Allora, me la forgi quest’arma
o no? –
Tallio si rassettò brevemente i vestiti. – Sì,
con piacere. Ho capito come la vuoi e mi metto immediatamente al lavoro:
dammi qualche ora e sarà tua. – sorrise ed accompagnò
la guerriera all’ingresso. – Un’ultima cosa, Xena.
–
La donna si voltò, curiosa.
- C’è sempre la luna piena. – continuò il
fabbro.
- Cosa? -
- Dico, c’è sempre la luna piena quando l’assassino
compare. – abbassò il tono di voce, in modo confidenziale,
- C’è chi dice che si circondi di lupi… Alcuni
giurano di averli sentiti ululare… - scosse lievemente la testa
in cenno di saluto e scomparve nel buio della sua fucina.
Xena stette a guardare mentre l’oscurità inghiottiva
la sagoma dell’uomo, poi si diresse alla locanda poco distante.
La luna, la notte, la fretta di rincasare… Tutto era collegato,
ormai l’aveva capito. Ma i lupi… che c’entravano
i lupi? Possibile che qualcuno si servisse di quegli animali per portare
a termine i propri delitti? E a che pro? E se anche fosse stato così,
dove si potevano tenere nascoste quelle bestie su un’isola che
si poteva percorrere tutta, facilmente, in una giornata di cavallo?
No, c’era qualcosa che non quadrava. Doveva indagare sui lupi:
il mistero stava tutto lì, ne era certa.
Se soltanto Astidamia
avesse smesso di darle il tormento! Olimpia da parecchio tempo non
ascoltava più le parole della padrona di casa: la visita alla
villa era interessante, sì, ma ora iniziava ad annoiarla. Aveva
la sensazione di soffocare ad ogni passo e sentiva l’impellente
urgenza di correre a cercare Melia e terminare il discorso lasciato
in sospeso. Perché la ragazza si era tanto commossa prima di
andarsene? La curiosità la stava torturando.
Le due donne si fermarono davanti all’enorme affresco che ricopriva
l’intero muro all’ingresso della villa. Olimpia lo osservò:
non aveva fatto caso, la sera prima, a quanto fosse tetro. Era un
paesaggio notturno, una veduta di Thera dal mare, come se l’artista
che l’aveva eseguito si fosse appostato su una barca al largo
dell’isola per effettuare il dipinto.
- Ti piace? – chiese Astidamia, notando l’interesse del
bardo. – Ho indicato io agli artigiani cosa dipingere e come.
– affermò, con una punta d’orgoglio.
Olimpia non rispose. Osservava attentamente un particolare davanti
a sé: la luna, piena ed opalina nel cielo blu scuro, circondata
dalle nuvole. Il contorno delle nubi ritagliava sulla luna un disegno…
Ma dove aveva visto quella forma? Era sicura d’aver già
notato da qualche parte quell’insieme, ma non si ricordava dove.
Si voltò verso la padrona di casa per proseguire l’estenuante
visita e finalmente capì: era sempre stato lì, davanti
ai suoi occhi, presumibilmente sin dal giorno del loro arrivo sull’isola.
Colpita dallo sguardo insistente del bardo, Astidamia si portò
d’istinto le mani alla gola, afferrando con le dita il monile
che portava appeso al collo.
- Lo trovi interessante? – chiese con aria vagamente preoccupata.
Olimpia non rispose, arrossendo per essere stata colta in flagrante.
La padrona di casa continuò, lusingata dalla pausa lasciatale
dall’altra donna: - Incuriosisce molto, non è vero? –
il bardo le rivolse uno sguardo interrogativo, - Per la sua forma,
intendo – si affrettò a precisare la donna, - Ho commissionato
questo gingillo al fabbro di qui e devo dire che ha fatto un ottimo
lavoro! – sorrise.
- E’ la testa di un... lupo? – chiese la giovane.
- Sì. – gli occhi color ambra di Astidamia assunsero
un’espressione guardinga. – E’ un… - sospirò,
- ma sì, perché non dirtelo? L’hai già
notato anche sull’affresco… - riprese a giocherellare
con il ciondolo, - E’ un amuleto. – il nome fu pronunciato
come se la donna si stesse liberando di un grosso peso, - Nella Colchide
siamo molto superstiziosi, lo saprai. Usiamo ornarci con gioielli
dalle svariate forme, ma ciascuno di essi è un talismano, nella
maggior parte dei casi. Un amuleto proprio come questo… - rigirò
il gioiello d’argento tra le dita pallide.
- E in questo caso ti dovrebbe proteggere da cosa? – Olimpia
iniziava a mettere insieme i pezzi del rompicapo, ma voleva certezze.
- Dalle forze maligne che ci seguono come un’ombra… -
Astidamia fece cenno ad Olimpia di seguirla. Dopo quello che sembrò
un tragitto durato un’eternità, il bardo si ritrovò
in una stanza dalle pareti ricoperte da drappi rossi, le piccole finestre
schermate da pesanti cortine e il pavimento completamente occupato
da tappeti. Piccoli tavoli gremiti di strani oggetti occupavano gli
angoli della stanza, illuminata da innumerevoli candelabri. L’aria
era greve di spezie e fumi dolciastri, su un piccolo altare di ebano
bruciava un bastoncino d’incenso, simile a quello che aveva
visto molte volte nel suo viaggio nel Celeste Impero.
- Qui è dove mi rifugio quando il mondo fuori mi sembra inaccettabile.
Talvolta ci passo giornate intere, anche senza uscirne la notte...
Non so cosa ne pensi Autolico, non penso neppure che sappia che vengo
a nascondermi qui, ma è l'unico modo che mi è rimasto
per ritrovare me stessa. – sospirò mestamente la padrona
di casa. La donna fece cenno ad Olimpia di accomodarsi su alcuni cuscini
poco distanti. Quando il bardo si fu sistemato, Astidamia, sedendosi,
continuò: - Ho sposato Autolico perché innamorata realmente
di lui. Sapevo di non incontrare le simpatie del figlio, ma non mi
interessava ciò che diceva la gente di me: io non sono una
strega… - passò lo sguardo sull’intera stanza,
- …Nonostante le apparenze. – sospirò di nuovo.
– Amo davvero mio marito e sarei disposta a fare qualsiasi cosa
per lui. – guardò schiettamente Olimpia negli occhi,
- Mi sono trasferita qui per farlo felice, pur sapendo che il viaggio
e le troppe preoccupazioni stavano minando il suo fisico. Quando il
male l’ha colpito avevo già previsto che la colpa sarebbe
ricaduta su di me… - si guardò le mani raccolte in grembo
e rimase muta.
Olimpia credeva alla donna che aveva dinnanzi e che le stava aprendo
completamente il cuore. Presa dalla commozione, allungò le
mani e strinse forte quelle della donna tra le sue.
Come rinvigorita dal gesto Astidamia si riscosse dal mutismo in cui
era caduta, alzò il viso e guardò il bardo negli occhi:
le sue lacrime brillavano alla luce dei candelabri.
di
Dori