INTRODUZIONE/ESODO
Nella stanza regnava
il buio.
Le serrande erano chiuse sulle piccole finestre dai bordi dorati,
in modo da non permettere alla luce naturale d’entrare.
Unica fonte d’illuminazione erano delle candele poste irregolarmente
su un tavolino, addobbato ad altare.
I candelabri erano in pesante ferro battuto e, vicino ad ognuno d’essi,
v’erano dei teschi finti, di precisa manifattura.
Sul centro del tavolino v’era posto un grande libro che sembrava
molto vecchio, sprizzava polvere non solo ad ogni movimento ma, persino,
stando fermo.
Una giovane ragazza, seduta sulle ginocchia, davanti all’altare,
girò una pagina del libro, senza staccare lo sguardo dalle
lettere incise sulle pagine con un raffinato e ricercato carattere.
Opera degna del migliore degli scriba.
La ragazza indossava una semplice tunica nera, lunga fino ai piedi
ed avente un cappuccio che le copriva la testa.
Solo alcuni ciuffi dei mossi capelli castani erano sfuggiti da sotto
esso, ricadendo sul suo volto regolare e dalle forme delicate d’ella.
I grandi occhi cerulei continuavano a scrutare le parole scritte sul
libro, riga dopo riga, mentre la rosea bocca le pronunciava a bassa
voce.
Le sue mani si muovevano staticamente intorno e sopra una candela,
più grande delle altre e rossa, posta davanti le sue gambe.
In un tumulto di scintillii argentei, dorati e rosa, un uomo alto,
dal fisico ben scolpito, avente corti capelli neri ed un volto dall’aspetto
virile, comparve nella stanza.
Il suo abito, fatto di panatoli e corta casacca smaniata, era totalmente
bianco e costernato di paittes e lustrini, ad illuminare quasi quel
posto fino ad allora parente tetro.
L’uomo si guardò intorno, in quel barlume oscuro e scosse
la testa, contrariato.
Non gli piaceva quell’ambiente, era troppo deprimente e serioso
per chi, come egli, amava le frivolezze.
L’uomo volse lo sguardo all’altarino della giovane ancora
concentrata al massimo ed intenta a recitare le frasi di quella che
era una particolare formula.
L’uomo apparso come per incanto, poco prima, attese qualche
altro istante che la ragazza finisse e lo degnasse d’attenzione
ma ciò non avvenne ed egli si spazientì presto.
<<Evi…>> Chiamò la ragazza, senza, però,
ottenere risposta.
Ella continuava il proprio metodico compito parendo dome in trans.
<<Evi…>> Riprovò l’uomo ma fu come
prima, neanche l’ombra d’un attenzione.
<<Evi hai finito??>> Chiese con più insistenza,
mentre la sua voce assunse un tono acuto e stridulo, capriccioso.
La ragazza lesse qualche altra parola, quindi si zittì di colpo,
chiuse il libro e s’alzò in piedi, voltandosi verso l’uomo
che attendeva impaziente, una sua risposta.
<<Allora?>> Chiese ancora, egli, alzando le braccia, sconcertato.
<<Ho finito.>> Riespose Evi.
<<Sarai anche la protetta del buon vecchio Morte… Che
Clemenza me ne protegga… Ma sei lenta!>>
Evi lo fulminò con lo sguardo. <<Ci vuole pazienza, caro
Marte. Io me la prenderei più con me stessa, al posto tuo e
con quella frana di Discordia, che sembra incapace di scoccare bene
quelle freccette.>> Replicò, ella, stizzita.
Marte contorse il volto in un’espressione scandalizzata.
Cercò di replicare ma non gli giunsero alla mente parole adatte,
quindi si limitò a posare le mani sui propri fianchi ed a corrucciare
il volto in un’espressione offesa.
<<Hanno due giorni, Marte, non un minuto di più.>>
Esclamò Evi.
Il dio alzò gli occhi al cielo, come ad invocare qualcuno di
superiore a lui. <<Speriamo questa sia la volta buona per riappacificare
e calmare quelle due!>>
Quindi schioccò le dita e sparì in uno scintillio di
cuoricini dai colori sfaccettati, così com’era venuto.
CAPITOLO/ATTO
PRIMO
Il primo raggio di sole di quella che si presentava essere una mattina
al tempo mite, illuminò il cielo, costernato, fino a poco prima,
dalle altrettanto luminose stelle.
Il buio stava cedendo gradualmente il posto l chiarore del giorno.
Xena, infastidita dal sole che le brillava sul volto, aprì
gli occhi.
O,perlomeno,cercò i farlo. Sentiva gli occhi così pesanti…
Continuavano a chiudersi contro la sua volontà che, invece,
cercava di aprirli.
Finalmente ci riuscì ma il sole le diede subito fastidio.
Le ci volle qualche istante per abituarsi alla luce che, più
che benigna in quanto promotrice di vita, in quell’istante le
risultò terribilmente fastidiosa e le lanciò contro
una sfilza di maledizioni mentali.
Cercò di tirarsi su, d’erigersi in posizione seduta ma,
anche quell’azione, le risultò difficile, pesante. Come
la sua testa, del resto. Oh, la sua testa. Era un mattone. Un mattone
che qualcuno cercava di spaccare con dei terrificanti attrezzi da
fabbro. Un mattone vuoto, però, pensò.
Infatti la sua testa le pareva vuota, priva di ricordi inerenti agli
ultimi momenti.
Guardò su, verso l’alto e vide i grandi, maestosi ed
antichi alberi erigersi quasi fino a sembrare voler toccare il cielo.
Era in un bosco. Che ci faceva in un bosco? E come diavolo c’era
arrivata?
Si scostò i capelli dalla fronte: la confusione si faceva sempre
più grande.
Pensò che doveva aver bevuto veramente molto, la sera prima,
per ridursi così.
Sentì perfino una sensazione di nausea che le diede, a suo
credo, la conferma della sua ipotesi.
Ma questo non la faceva di certo stupire di se stessa.
Da tempo, ormai, l’alcool era il suo migliore amico, fidato
compagno d’ogni giorno, d’ogni avventura, malessere, eccetera,
eccetera.
Cercò di raccogliere le forze. Anzi, più correttamente,
un po’ di volontà.
Doveva pur alzarsi di li.
Si tolse di dosso la coperta e fece per alzarsi, quando il suo sguardo
cadde accanto ad ella.
Non poté credere ai propri occhi.
Le idee cominciarono a confondersi così velocemente da farle
sembrare d’aver un vortice nella testa.
Sentiva la ragione venirle meno ed uno spasmo di pazzia crescere piano,
dentro lei.
Credette di sognare, sperò di farlo.
Non aveva sperato tanto, da “quella volta”, che un qualcosa
di purtroppo reale, fosse un incubo.
Non aveva mai preteso di vivere in un bel sogno, lei non era mai stata
fatta per quelle cose.
Era uno spirito troppo tormentato per poter volere ciò.
Perciò, gli incubi erano più reali che i sogni per lei
e per questo, li odiava.
Ma mai quanto odiava la realtà.
Ed in quel momento, quando il divario tra la natura delle sue ipotesi
riguardo a ciò che stava vedendo, si stava facendo più
grande, a favore della realtà, odiò quest’ultima
ancora di più.
Se solo avesse saputo quanto stava sbagliando e dove quella realtà
supposta erroneamente l’avrebbe portata…
Lanciò un grido. Di rabbia, di sfogo, di battaglia.
Era da molto che non s’era sentita così stupida, debole,
soggiogata, usata ed imbecille.
Olimpia, sino ad allora dormiente al suo fianco, s’alzò
di scatto, odendo quel rumore.
Il bagliore del sole illuminò i capelli già di per se
dorati del bardo.
Un grande punto interrogativo sembrava essere dipinto sul suo volto,
mentre i chiari occhi vibravano, fissando, con insistenza, quelli
dell’altra.
<<Xena, che hai?>> Chiese con un tono un po’ preoccupato.
Non era tipico della Principessa Guerriera svegliarla lanciando un
urlo che sembrava quello d’un animale finito nella morsa d’una
presa da cacciatore o, tutt’al più, quello di Callisto.
Xena sentì quella pazzia rimbucata in lei poco prima, alimentarsi
come una fiamma al vento.
Quella creatura che aveva di fronte, la stava trattando con sufficienza,
con arroganza.
Si sentì ancora più stupida e presa in giro.
Oltre ad averla usata ancora una volta, l’ennesima, Olimpia
la stava prendendo in giro. O, almeno, questo era ciò che Xena
credeva.
Ma non gliel’avrebbe permesso. No.
Xena urlò di nuova ma, questa volta, lanciando un concreto
grido di battaglia, diverso però, da quello consueto.
Fu solo un attimo: l’amazzone non si rese neanche conto di quello
che stava accadendo che si ritrovò colpita al volto da un forte
pugno.
Non capiva, non c’era spiegazione a ciò.
La sua mente, abituata ai continui problemi e confusioni, fece appena
in tempo a dare la colpa di quel gesto della sua Xena a qualche sortilegio,
maleficio che si ritrovò atterrata ancor più dalla donna
dai capelli corvini che le era montata sopra, a cavalcioni, cominciando
a colpirla con scomposta ed irruente violenza, come fosse un animale
selvaggio in pena.
Dapprima Olimpia non riuscì a reagire, tutto ciò l’aveva
colta troppo inaspettatamente, senza preavviso né senso.
Non poteva, però, farsi riempire di botte e botte che, per
giunta, arrivavano con una tale rabbia violenta da ferire più
per l’intento che per la consistenza materiale, in sé.
Olimpia parò i pugni di Xena, ponendo l’avambraccio tra
il corpo di lei ed il proprio volto.
La donna dagli occhi cerulei non s’arresa, anzi, era stupita
dal comportamento d’Olimpia che pareva stupita a sua volta dall’aggressione
di Xena.
Quest’ultima non era abituata a vederla arrendevole.
O fragile.
Cercò di colpirla ancora ma Olimpia riuscì a parare
anche quella volta, bloccando entrambe le braccia di quella che credeva
la sua adorata amica.
<<Xena, per gli dei, che ti prende? Non sei in te!>> Esclamò
l’amazzone.
Ogni parola d’Olimpia, oltre che il modo in cui le pronunciava,
feriva Xena nel profondo.
La sua rabbia cresceva sempre più.
<<Smettila di fingere! Non credere di poterti prendere gioco
di me!>> Rispose la mora, tornando all’attacco.
L’amazzone ribaltò la situazione: Xena finì a
terra, lei s’alzò di scatto, posizionandosi in posizione
di difesa.
Non aveva certo intenzione d’attaccare colei che credeva la
sua cara amica, aspettava solo una sua prossima mossa.
Per poter affrontare e risolvere il problema, doveva prima capirlo.
<<Cosa t’è successo? Perché ti comporti
così? Io… Perché dovrei fingere e cosa?>>
<<D’interessarti a me, di non odiarmi… - Rispose
la guerriera corvina, quasi urlando. – Stai cercando di fregarmi…
- Continuò, poi, col tono di chi ha follemente inteso tutto.
– Sì, sì. – Sussurrò annuendo con
la testa. – No, no, no, no… - Continuò poi. –
Non mi fregherai, non ti permetterò di confondermi ancora…>>
Olimpia era sempre più frastornata. Continuava a non capire…
L’ultima volta che Xena era sembrata un’altra persona
era perché aveva invocato il male per sconfiggere Lord Larek,
in Tibet ed ancor prima, quando la dea Vendetta le aveva infilato
la cintura di Venere e Xena era diventata dea dell’amore.
Doveva esserci una spiegazione simile anche questa volta.
<<Io ti voglio bene non potrei mai volerti fare qualcosa di
simile… - Cercò di convincerla e rassicurarla. - …Magari
in passato ti ho fatta soffrire ma tutto ciò è davvero
passato. Come puoi dubitare di me, Xena?!>>
Xena si portò una mano al volto e se lo coprì. Stava
andando in totale paranoia.
<<Tu… Tu mi fai diventare ancora più pazza, bastarda!>>
Urlò la guerriera dagli occhi cerulei.
Quella frase suonò a se stessa come una specie d’arresa,
detta in quella situazione. Le sembrò di colpirsi da sola.
Doveva riflettere… Olimpia aveva estratto contro ella le armi
peggiori e la sua testa era troppo a pezzi per pensare al meglio.
Aveva bisogno di tempo per preparare una buona difensiva ed analizzare
quel caso.
Si piegò a terra di scatto, afferrò del terriccio sesso
e lo gettò in faccio alla bionda.
Olimpia cominciò a strofinarsi gli occhi e Xena, estraendo
la spada che teneva legata alla veste, colpì l’amazzone,
approfittando del momento di debolezza che le aveva creato.
Ma la colpì con l’elsa dell’arma e non col taglio.
Quindi scappò.
Un piccolo rumore:
un ramoscello spezzato. Poi un fruscio.
Si voltò di scatto: l’arco era teso come ogni centimetro
del suo corpo.
I sodi muscoli erano pronti, tesi come corde di violino, a servizio
della missione.
I chiari occhi seguivano il suono.
Ormai aveva puntato la preda.
Sentì ancora un piccolo rumore, alle sue spalle: si voltò
di scatto.
Un solo colpo, scoccato dall’arco.
Colpito ed affondato.
Xena sorrise lievemente, soddisfatta di se stessa: s’era assicurata
un buon pasto per un po’. Quel cerco era proprio grassoccio.
<<Che brava la mia Xena!>>
La Principessa Guerriera si voltò immediatamente, odendo quell’esclamazione
e vide Olimpia appoggiata ad un albero, le braccia incrociate sul
petto, sul volto un’espressione beffarda.
Xena la guardò con aria interrogativa.
<<Non t’ho sentita arrivare.>> Disse, stupendosi
di se stessa.
Non le capitava quasi mai di non accorgersi d’avere qualcuno
alle spalle, o d’essere osservata.
E quando si trattava del bardo, di solito, i suoi sensi erano ancor
più vigili ed attenti.
La Principessa Guerriera osservò Olimpia: indossava un completo
diverso: alti calzari neri, pantaloni infilati dentro ad essi, color
verde chiaro come la tunica. Aveva i capelli raccolti all’indietro.
A Xena parve così strana…
<<Dove hai preso quelle vesti?>> Chiese, continuando su
quella linea di stupore. Qualcosa non le quadrava.
Olimpia ignorò deliberatamente la sua domanda e si guardò
in torno.
<<Se tu non fossi sempre ubriaca – Esordì la bionda
con tono aspro, da rimprovero. – i tuoi sensi sarebbero migliori
e m’avresti sentita arrivare.>>
Dall’espressione nella quale s’era contorto il volto di
Xena, si capiva benissimo quello che aveva in testa. Non avrebbe quasi
avuto bisogno di parlare.
Inizialmente non capiva quella frase di colei che credeva il suo bardo,
non aveva senso.
Forse stava scherzando.
Xena cercò di fare mente locale, per vedere se c’era
qualche ricorrenza particolare ove s’usava beffarsi degli altri:
genetliaco… no, non era il giorno del suo compleanno. Era passato
da non molto. Qualche festa popolare? Neanche. Niente.
<<Non farmi la parte dell’ingenua che casca dalle nuvole,
proprio su questo!>> Tornò a dire Olimpia con un tono
che pareva irritato.
E lo era.
Olimpia provava fastidio ogni volta che vedeva Xena.
Riusciva a farla arrabbiare, a farle perdere le staffe. Così
come nessun’altro riusciva a fare.
Ed ora se ne stava lì, di fronte a lei, con quell’espressione
stupita e di che cerca di capire, dipinta sul volto.
Non la stava insultando, ne aggredendo e ciò risultò
così strano ad Olimpia.
Cercò di capire dove Xena volesse arrivare con quell’atteggiamento.
Forse voleva solo farla arrabbiare.
Sì, probabilmente si trattava di ciò.
<<Olimpia, di cosa stai parlando? Che ti prende?>> Chiese
ancora, la Principessa Guerriera, completamente ignara di ciò
che realmente stava accadendo e di quello che colei che credeva la
sua adorata compagna di mille avventure, aveva nella mente.
Olimpia si convinse della sua idea: Xena stava certamente cercando
di farle perdere completamente la calma. E ci stava riuscendo perfettamente.
Infondo Xena era così, ai suoi occhi, piena dei suoi piccoli
piani subdoli, volti a confondere la mente, a far vacillare e sbagliare.
Era una mezza psicopatica, instabile e maniacale.
<<Ora mi hai proprio stufata!>> Esclamò, quindi,
Olimpia, staccandosi dal tronco del grande albero al quale era stata
appoggiata.
Fece qualche passo in avanti, verso la Principessa Guerriera e le
puntò un dito contro.
<<Non so cosa tu abbia in mente. – Sibilò. –
Ma con me non attacca. Ti conosco fin troppo bene, manipolatrice psicotica!>>
Xena strabuzzò gli occhi: quelle parole cominciavano ad essere
pesanti.
<<Olimpia smettila. Se è uno scherzo, finiscila.>>
<<No, finiscila tu! – Replicò la bionda. –
Non bastano le tue continue follie, tutti i tiri che mi fai, ora ti
permetti pure di prenderti gioco di me?!?>>
Quella che Xena credeva la sua poetessa, sembrava davvero infuriata.
I suoi splendidi occhi, avevano una luce strana che, più che
una luce, sembrava il riflesso di questa.
Le turchesi iridi di Olimpia sembrarono alla Principessa Guerriera
brillare solo di rabbia.
Ed in quell’istante, Xena capì.
Quello non era uno scherzo.
Il rancore che traspariva dal tono, dalle parole e persino da quegli
occhi ai quali Xena era tanto affezionata, era reale.
La Principessa Guerriera si fece fredda in un istante.
L’impressione, la sensazione di stranezza che aveva avuto non
appena aveva visto Olimpia, era fondata.
<<Qual è il problema?>> Chiese, la Principessa
Guerriera, volendo capire.
<<Qual è il problema? – Ripeté Olimpia,
come se Xena avesse detto una gran eresia. – Me lo chiedi pure?
Tu sei il problema!>>
Quell’esclamazione avvenne in modo diverso dalle altre.
Xena vi scorse qualcosa di diverso dalla rabbia. V’era…
stanchezza. E, forse, una punta di dolore. E risentimento.
La Principessa Guerriera, invece di capire, continuava a confondersi
sempre più.
Non riusciva a trovare un senso o una anche minimamente plausibile
spiegazione a quella situazione, a quell’Olimpia così
diversa dal solito e, questo, senza un valido motivo.
<<Per…Per quale motivo?>> Osò, Xena.
Voleva, doveva scoprire cosa c’era sotto, dietro a quel comportamento
assurdo.
Olimpia, dal canto suo, era sempre più infastidita.
Xena si comportava in una maniera così strana… Ragionevole,
quasi… equilibrata.
Cosa così assurda per la Xena che conosceva lei.
Per quella Xena rovinata più da se stessa che dalla vita.
Olimpia s’era abituata a vederla così: un personaggio
oscuro ed instabile che soffocava entro se stesso il meglio di se.
Mentre la Xena che aveva di fronte, sembrava aver una pace particolare
col “proprio lato buono” e ciò confondeva Olimpia,
molto.
Vedere Xena equilibrata, disequilibrava lei.
Dov’era finita la Xena rabbiosa, selvaggia e violenta che non
faceva altro che volerle spaccare la faccia?
Facendosi vedere vulnerabile, a Xena, le avrebbe dato una soddisfazione
che non voleva darle di ceto, quindi decise di cambiare faccia e coprirsi
con quell’armatura di freddezza che da un bel po’ la caratterizzava.
<<E’ semplice. – Iniziò a spiegare, risoluta.
– Ovunque tu vada, qualsiasi cosa tu tocchi, si trasforma in
merda.>>
Quelle parole, dette in quel modo, arrivarono dritte, dritte e taglienti
al cuore di Xena.
Era ciò che credeva verità, a farle male.
La Principessa Guerriera non era certo una debole ma aveva sempre
avuto i propri complessi e tormenti, riguardo a quella che era stata,
a quel alto oscuro ch’era sempre dentro ella e del quale non
riscriva a liberarsi.
Centro. Olimpia aveva fatto centro.
Ma non era soddisfatta.
Quella Xena così “tranquilla” le ispirava ancor
più cattiveria.
<<T’annegherai nella tua stessa merda, così come
provi ad annegare tutti quelli che ti stanno intorno. – Ormai
c’aveva proprio preso gusto nell’affondare quel coltello
immateriale nel cuore di quella che credeva la sua grande nemica.
– Volente o nolente, crei solo disastri e distruzione e la cosa
più preoccupante, è che ti piace. Godi nel far male.
Ed io sto godendo nel ripagarti con la tua stessa moneta. Perché
meriti solo questo. Non sei capace di niente, eccetto che distruggere.>>
Le crudeltà che provenivano dalla bocca di Olimpia, facevano
male alla Principessa Guerriera, un male che le armi non avrebbero
potuto fare.
di
Lisa