EPISODIO N. 4
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CAPITOLO IV

<<Mamma, dove vai?>> la voce del bambino si levò nel silenzio notturno in cui si trovava la sala. La donna si fermò sulla soglia e tornò indietro, accostandosi al giaciglio dove fino ad alcuni istanti prima dormiva il piccolo. Gli si inginocchiò accanto e gli posò un bacio sulla fronte, accarezzandogli i ricci ancora scompigliati.
Il bambino la guardava un po’ stupito, ma contento di quelle inaspettate attenzioni.
<<Tranquillo, Teucro, torno presto>> continuò ad accarezzarlo, quasi come se non si volesse separare da lui.
<<Sì, mamma, ma dove vai? Posso venire con te?>> gli occhi gli si illuminarono all’idea di una passeggiata nel cuore della notte.
<<No, tesoro, devo andare da sola. È una cosa da grandi. Quando sarai cresciuto mi accompagnerai a cavallo, va bene?>> cercò di trattenere le lacrime.
“Perdonami se ti sto mentendo, piccolo mio. Purtroppo non ci sarò, Teucro. Dovrai crescere senza né madre né padre, ma ricorda sempre che hai la forza di entrambi che ti scorre nelle vene”
Il viso del bambino si arricciò in un broncio e guardò la madre con occhi di rimprovero. La donna non poté fare a meno di rivedere nel figlio l’espressione che assumeva il viso del padre quando era contrariato. Gli sorrise di nuovo dolcemente.
<<Avanti, Teucro, non imbronciarti. Domattina ti porterò al fiume a nuotare, d’accordo?>>
“Perdonami per tutte queste menzogne, figlio mio, perdonami…”
L’alternativa dovette sembrargli sufficientemente allettante perché tornò immediatamente ad illuminarsi.
<<Posso portare la spada di legno che mi ha regalato papà?>>
<<Certo, puoi portare quello che vuoi. Ora però dormi, altrimenti domani mattina non ti sveglierai in tempo>> gli rimboccò le coperte e lo guardò alcuni istanti prima di alzarsi ed avviarsi verso la porta. S’impose di non voltarsi indietro mentre si allacciava il mantello sulle spalle.
<<Mamma?>>
<<Sì?>> si sforzò di non girarsi e di trattenere le lacrime che avevano cominciato a pungerle gli occhi con il loro calore.
<<Ti voglio bene>> la voce di Teucro era limpida ed innocente. Le lacrime non ebbero più controlli e le corsero lungo le guance. Prese un respiro per mantenere la voce ferma.
<<Anch’io, figlio mio…anch’io>> uscì subito quasi sbattendo la porta per non fargli ascoltare i singhiozzi che non riusciva più a contenere.
Si trattenne dal correre a perdifiato per il corridoio per non svegliare la servitù. Controllò i battiti del cuore e moderò il passo, lasciando che le lacrime scendessero sulle gote senza però emettere nessun suono. Si strinse nel mantello per ripararsi dal freddo gelido che le si stava propagando dal cuore. Quando uscì dalla sua dimora rivolse lo sguardo alla finestra della stanza del figlio. Non c’era nessuna luce: sicuramente era tornato a dormire senza chiamare nessuno.
Mormorò una preghiera ed entrò in una rientranza del porticato dove un cavallo carico l’attendeva. Fissò il fagotto che gravava sul dorso dell’animale ed ebbe un momento di esitazione.
“Forse è il destino che ha deciso così, chi sono io per intromettermi nella trama del fato?”
L’animale scosse la criniera sbuffando debolmente e la sottrasse ai suoi pensieri. Una nuova decisione le illuminò lo sguardo ed afferrò le redini, dirigendosi con passo sicuro verso il perimetro della città.
La notte era sufficientemente inoltrata perché non ci fosse nessuno per le strade che potesse vederla, però la luna non era ancora ascesa completamente ad occupare il suo posto nel cielo permettendo così che non ci fosse abbastanza luce perché le guardie potessero vederla dagli spalti. Si diresse verso la zona nord dove la cinta muraria non era ancora stata terminata e si calò sul capo il cappuccio, accelerando appena il passo. Si muovevano in un silenzio pressoché totale perché aveva avvolto gli zoccoli del cavallo con delle stoffe che ne ovattavano lo scalpiccio. L’animale avanzava a stento per il peso che trasportava. Spesso la donna si voltata per controllare che fosse ben fissato e che il suo contenuto rimanesse nascosto dal telo scuro che lo copriva. Quando un raggio più sicuro della luna lo illuminò con più chiarezza, furono visibile delle chiazze scure umide dai riflessi purpurei.
Una volta uscita dal perimetro cittadino imboccò una strada lastricata che si dipanava verso una zona boschiva. Non appena fu al riparo tra gli alberi accese una lanterna che aveva con sé e si fece strada sicura tra la vegetazione. I riflessi che la luce creava sulle piante arbustive del sottobosco rendevano l’oscurità circostante ancora più minacciosa, ma pareva non accorgersene.
Ad ogni passo s’inoltrava sempre di più e la decisione sul suo viso si faceva più ferma, il suo sguardo perdeva ogni traccia di umanità, diventando tagliente ed implacabile.
La mano che reggeva la lanterna non tremava ed il passo era sicuro, dando la sensazione che, con o senza illuminazione, si sarebbe inoltrata senza esitazione tra gli alberi. Con gli occhi osservava le piante che si susseguivano, percorrendo il sentiero che queste indicavano dopo aver lasciato quello in terra battuta. Il cavallo prese a farsi irrequieto, agitando spesso la criniera e seguendo recalcitrante la sua guida.
Dopo poco giunse ad una parete rocciosa completamente ricoperta di rampicanti che ne nascondevano la superficie. Tranquillizzò la cavalcatura e ne assicurò le redini ad un ramo basso che sporgeva a poca distanza. Estrasse dalle pieghe del mantello un pugnale a lama larga con cui cominciò a sfoltire la copertura vegetale con gesti ben precisi, tesi a non lasciare la roccia completamente spoglia. Ad ogni fronda che cadeva a terra emerse la figura di un architrave sgraziato chiuso da un pesante masso che celava quanto si nascondeva oltre quell’entrata così accuratamente occultata.
Quando i contorni furono sufficientemente visibili si fermò, il respiro leggermente ansante. Si asciugò la fronte con la mano ancora libera e ripose la lama. Rimase alcuni istanti ad osservare l’entrata davanti a sé. Non pareva né sorpresa né preoccupata che la via fosse preclusa. Volse uno sguardo rapido alla cavalcatura ed al suo carico come a voler trarre da quel fagotto la forza necessaria per portare a termine la sua opera.
Un raggio di luna riuscì a perforare la coperta che le fronde degli alberi formavano nella zona più fitta ed illuminò con freddo cinismo l’animale che, sorpreso ma confortato da quella luce naturale così diversa dall’esitante fiamma della lanterna, si sistemò sulle zampe. Al suo movimento uno dei legacci che tenevano fermo il telo cedette ed un braccio uscì penzoloni allo scoperto.
Il pallore dell’arto spiccava con macabra evidenza sul nero del tessuto e rendeva ancor più evidenti le striature purpuree che lo percorrevano. Quando se ne accorse, la donna ebbe un breve sussulto, ma riuscì a contenersi e ne trasse sicurezza. Pose entrambe le mani ai bordi della lastra che bloccava l’entrate e, chinando la testa, mormorò una lenta litania. Quando ebbe finito mosse le dita seguendo uno schema preciso sulla roccia e si allontanò di un passo.
Il silenzio che era disceso fu rotto dallo stridere di roccia contro roccia ed uno sbuffo di polvere si sollevò posandosi sulla sua cappa nera quando la lastra liberò l’accesso. Davanti a lei si apriva un lungo tunnel buio da cui saliva un odore di terra bagnata e di stantio. Prese un lungo respiro, afferrò la lanterna che aveva posato a terra e si avvicinò al cavallo, sciogliendone le briglie e conducendolo con sé oltre la soglia. Il tunnel era sufficientemente ampio perchè entrambi potessero passarci senza che l’angustia del luogo innervosisse la cavalcatura.
Man mano che s’inoltrava, l’odore di terra umida si faceva sempre più forte e penetrante e ciò, insieme alla lieve pendenza del terreno, indicava che stavano scendendo sotto la superficie. Il percorso s’interruppe bruscamente e le si parò innanzi un portale ligneo intarsiato. Alzò la lanterna ed illuminò le figure scolpite nel legno: la luna si presentava in tutte le sue fasi ed un gruppo di sacerdotesse officiava i rituali dimenticati di un culto arcano ormai scomparso quasi completamente ed assolutamente nascosto nelle sue forme superstiti.
Spinse con forza il battente di destra ed entrò, conducendo con sé l’animale. Con la lanterna accese le fiaccole disposte lungo la parete circolare della sala, al cui centro s’innalzava un altare in pietra nera lucido e sfavillante senza nessun segno dell’abbandono che, invece, impregnava le colonne e la pavimentazione della cripta sotterranea. I riflessi rossastri delle torce che si specchiavano sulla pietra nera rendevano terrificante l’aria stessa di quel luogo.
Facendo ben attenzione a non cadere in un cataletto scavato nella pavimentazione che partiva dall’altare stesso, avvicinò il cavallo all’altare e sciolse i legacci che fissavano il cadavere al dorso dell’animale. Non senza difficoltà trasportò il corpo sulla pietra ed aprì il telo che lo copriva. Il viso di Lenore pareva solo addormentato, ma un profondo squarcio si apriva al centro del petto ed il sangue che vi era sgorgato aveva imbrattato le vesti ed il tessuto in cui era stato avvolto. Gli accarezzò il viso con dolcezza e compose la salma con estrema cura.
Toltasi il mantello, si avvicinò all’animale, gli tolse la bardatura e lo bendò, conducendolo accanto all’apertura del canale di scolo. Estrasse la lama che aveva con sé e, con un gesto secco e preciso, tranciò di netto la gola del cavallo che si accasciò al suolo quasi immediatamente mentre il suo sangue cominciava a scorrere lungo l’altare e poi la pavimentazione, riempiendo i piccoli canali che si ramificavano lungo la sala. Con il fluire del liquido scuro, la donna sentì nascere in sé una potente energia: tornò davanti all’altare e le sue mani, con le dita chiazzate di rosso, tracciarono alcuni simboli sulla fronte e sul petto del cadavere di Lenore. Quando finì, giunse le mani in atteggiamento di preghiera e la sua voce si levò nel silenzio mormorando una lenta litania. Il mormorio si trasformò gradualmente in canto e le sue note rimbombarono potenti nella sala.
Il flusso del sangue s’invertì e prese a risalire i bordi della pietra nera fino a riempire completamente la scalmanatura che correva lungo tutto il bordo della lastra su cui era adagiato il corpo. Una vibrazione potente scosse l’aria mentre delle gocce di sudore cominciarono ad imperlarle la fronte. Continuò a cantare con forza e sicurezza, dimentica della gola che si stava ribellando allo sforzo cui la stava sottoponendo.
Il sangue cominciò ad uscire dal canale per andare verso il corpo sempre più velocemente fino a risalirne le forme, dirigendosi verso la profonda ferita che gli aveva procurato la morte. La sua voce continuava a tessere l’intreccio dell’incantesimo che avrebbe restituito allo sposo tanto amato una parvenza di vita sufficiente ad operare la sua vendetta. Non si fermò, lasciandosi guidare dalla forza dell’incantesimo stesso che stava evocando.
<<Mamma!>>
La voce delicata dai toni infantili di Teucro proruppe con inaspettata forza dall’entrata e quando il suo viso rotondo fu illuminato dalla luce delle torce la donna sgranò gli occhi per la sorpresa, ma riuscì a controllare la sua reazione e non ruppe l’armonia.
“Teucro, cosa ci fai qui? Non dovevi venire, non ora…”
Il bambino guardava stranito la scena che gli si apriva davanti agli occhi. La madre era in piedi vestita di una tunica nera disadorna, il cadavere del padre disteso su quell’altare oscuro, la carcassa di un cavallo sgozzato il cui sangue risaliva inquietantemente verso il padre e la voce della madre, così diversa da quella che ascoltava tutte le sere quando cantava per farlo addormentare, che gli premeva sulle orecchie con la forza della tonalità potenti del rituale. Fece qualche passo nella sua direzione, ma il suo sguardo gli intimò di fermarsi. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: il suo viso, sempre bello e radioso, ora era contratto per lo sforzo e la concentrazione e rivoli di sudore le correvano lungo tutta la fronte.
<<Madre…>> disse con voce esitante, spostando il peso da un piede all’altro per non contravvenire al suo tacito ordine di non muoversi. Non riusciva a spiegarsi perché non gli rispondesse ma continuasse invece a cantare quella strana canzone. Alla fine si risolse ad avanzare verso quell’altare che gli faceva così tanta paura.
<<Mamma, perché papà è disteso lì?>> trovò la forza di chiederle. Si avvicinò ancora, nonostante lei continuasse a guardarlo chiedendogli di non avanzare oltre.
“No, sta fermo Teucro, non entrare nel cerchio di potere. Rimani lì, te ne prego piccolo mio, non fare un altro passo!”
Quasi come se avesse potuto sentire i suoi pensieri, Teucro si fermò di scatto, voltandosi verso il portale che aveva da poco attraversato. La donna corrugò la fronte preoccupata. Quando il suono metallico delle armi riuscì a superare il suo canto, pregò che si stesse sbagliando. I battenti furono spalancati con forza e le torce illuminarono il metallo delle corazze, degli scudi e delle lame. Comprese che il suo tentativo era fallito ed interruppe il canto. Immediatamente il sangue tornò a seguire il suo corso naturale e prese a scorrere lungo i canali verso i botroi, dei piccoli pozzi circolari, da dove poi confluì nelle viscere stesse della terra.
<<Non muoverti di un passo, strega!>> le intimò il capo della coorte. Lei abbassò le braccia ed indirizzò lo sguardo verso il figlio.
<<Teucro, vieni qui>> allargò le braccia per riceverlo ed il bambino sorrise obbedendo felicemente al suo richiamo.
<<Cosa vuoi fare, strega?>> insistette il soldato <<Lascia andare il bambino!>>
Lei lo guardò con un sorriso dolce e gentile.
<<Non farò del male a mio figlio, puoi deporre la spada. So cosa mi aspetta e non opporrò nessuna resistenza. Ora voglio solo salutare mio figlio un’ultima volta>>
La sua espressione, la morbidezza della sua voce così diversa da quella che aveva udito entrando, toccarono il cuore del soldato che ordinò ai suoi d attendere. Il bambino guardava stupito la madre e quegli uomini armati senza capire perché dovessero portalo via.
<<Mamma, perché devi andare via? E perché papà…>> la madre lo interruppe posandogli l’indice sulle labbra.
<<Shhh. Te lo spiegherò più tardi>> con un gesto rapido s’incise profondamente l’incavo del gomito con lo stesso pugnale che aveva usato per sacrificare il cavallo. Il bambino sgranò gli occhi quando vide il sangue sgorgare dalla pelle chiara della madre.
<<Shhh>> gli ripeté con un sorriso dolcissimo. Bagnò la punta delle dita nella ferita e tracciò dei simboli sulla fronte del bambino. Gli posò un bacio sulla guancia sussurrandogli <<Sii forte>>.
Esitando sulle gambe si alzò e fissò lo sguardo in quello del capitano.
<<Sono pronta>>
L’uomo fece cenno ad un soldato di prendere il bambino ed ad altri due di portare via la donna.
<<Niobe, non vorrei, ma sai benissimo che devo…>>le disse abbassando gli occhi, quasi per vergogna dell’ordine che aveva appena dato. Lei gli sorrise.
<<Fai il tuo dovere e non ti curare d’altro>>
Guardò il bambino che si agitava tra le braccia del soldato per scendere e gli accennò di star calmo. Con un ultimo sorriso attese che i due armati facessero gli ultimi passi che ancora li separavano, poi mosse la mano con un gesto fulmineo in direzione del suo petto. Tutti fecero un passo indietro, temendo che stesse per scagliare la sua magia contro di loro. Fu solo quando videro l’elsa del pugnale spuntarle dal corpo mentre si accasciava atterra che compresero ed uscirono in fretta dalla sala, chiudendosi alle spalle i battenti e con loro l’immagine che nascondevano.


<<A me quel tipo non piace>> sentenziò Xena quando si richiuse la porta della camera alle spalle. Olimpia la guardò cercando di far finta di nulla.
<<Chi?>>
La guerriera la fissò inarcando il sopracciglio destro ed incrociando le braccia sul petto. Il bardo continuò a rimanere in silenzio.
<<Non fare finta di niente: parlo di Teucro, il figlio dell’arconte>>
<<E allora? A me non sembra una cattiva persona. È stato molto gentile…>> disse con una leggera esitazione nel tono della voce.
<<Quello l’avevo notato anch’io. Come ho visto il modo in cui ti ha guardata per tutto il tempo>>
Olimpia le sorrise.
<<La cosa ti infastidisce?>>
Xena assunse un’aria indifferente.
<<Ne dovrei avere motivo?>>
Il guanto di sfida era stato lanciato e nessuna delle due aveva la minima intenzione di cedere, così continuarono nella loro guerra di sguardi indifferenti. Olimpia fu la prima a rompere il silenzio.
<<Non lo so, dimmelo tu>>
<<Io credo proprio di no: non sono tua madre, puoi fare quello che vuoi>> le rispose la guerriera.
<<Bene, mi fa piacere sentirtelo dire. Anche perché se fossi mia madre, dovrei rinunciare al tuo fascino magnetico>>
<<Solo a quello?>> incalzò provocatoriamente la guerriera.
<<Per cominciare a quello, il resto poi viene di conseguenza>>
Entrambe risero, scaricando il carico di tensione accumulata.
<<Deponiamo le asce di guerra?>> chiese il bardo
<<Asce di guerra? Quali asce di guerra?>> Xena le cinse la vita con le braccia avvicinando il suo viso ad un soffio da quello dell’amazzone
<<Io non le ho mai sfoderate>> la guardò negli occhi sorridendole e le sfiorò leggermente le labbra con le sue. Olimpia ricambiò il sorriso.
<<Ah sì? Figuriamoci allora!>>
<<La cosa ti stupisce?>>
<<Non più>>
Le due guerriere risero nuovamente e le intenzioni dell’una erano più che chiare e condivise per l’altra. Xena tornò a chinarsi sul viso dell’amata e ne assaporò le labbra dolcemente, profondendo in quel bacio tutto il suo desiderio. Senza separasi dalla guerriera, Olimpia le sfiorò le braccia con le mani risalendo fino a cingerle il collo. L’abbraccio di Xena si fece più stretto ed il bardo le rispose con altrettanto trasporto.
Dei colpi decisi ed ansiosi alla loro porta fecero prepotentemente irruzione nella stanza, interrompendo la loro effusione. La guerriera, sbuffando, si avvicinò al battente. Prima di vedere chi fosse, si girò verso Olimpia.
<<È solo rimandato>> il desiderio le illuminava ancora gli occhi. L’amazzone, di rimando, le schioccò un bacio.
Quando lo aprì si trovò di fronte un servitore che aveva visto nella sala privata dell’arconte quella mattina che attendeva con un vistoso affanno. Lo guardò corrugando la fronte in un’espressione interrogativa.
<<Sì?>> gli chiese vedendo che ancora non aveva cominciato a parlare.
<<L’arconte…richiede la sua…presenza…urgentemente>> riuscì a riferire tra un respiro e l’altro. Le sopracciglia della guerriera si avvicinarono ancora di più.
<<Cos’è accaduto?>>
Il servitore fece cenno di no con la testa.
<<Non ne sono a conoscenza. Mi ha solo incaricato di portare Xena alla sua presenza>>
La guerriera annuì mentre Olimpia le si affiancava sull’uscio.
<<Guai?>> chiese. Xena fece cenno di sì con il capo.
<<A quanto pare sì. L’arconte ci vuole d’urgenza>>
<<Ehm>> entrambe si voltarono verso il servitore. <<L’arconte ha chiesto solo di Xena…>> il suo imbarazzo era più che evidente.
La guerriera lo guardò inarcando il sopracciglio destro.
<<Come scusa?>>
<<Io porto solo un messaggio. L’arconte ha chiesto di Xena e di nessun altro>>
Il servitore si eresse in tutta la sua altezza cercando di dare più autorità alla sua figura. Xena fece per parlare, ma Olimpia la trattenne posandole una mano sull’avambraccio.
<<Vai solo tu allora, ti aspetto qui. Magari mi faccio un giro in piazza. Non preoccuparti>>
La guerriera esitò un attimo indecisa sul da farsi. La guardò negli occhi alcuni istanti, poi prese una decisione.
<<Come vuoi>> si rivolse poi verso il servitore <<Dov’è l’arconte?>>
L’uomo fece un rapido inchino e si girò verso il corridoio, seguito dalla guerriera.
Olimpia rientrò e si chiuse la porta alle spalle. Si guardò intorno, notando ancora con piacere quanto quella camera fosse diversa da quella in cui avevano alloggiato due sere prima. Dal balcone entrò un raggio di sole limpido che illuminò la sua sacca delle pergamene posata accanto al letto.
Sospirando l’aprì e ne estrasse una pergamena, una boccetta d’inchiostro ed uno stilo. Srotolò sul tavolo la pelle e rilesse le ultime righe che aveva scritto dopo essersi seduta comodamente. Con cura stappò l’inchiostro ed intinse la punta dello stilo che si colorò di nero. Rifletté alcuni secondi con espressione assente, poi cominciò a vergare alcune parole con la sua grafia chiara ed armoniosa. La scrittura la trasportò a tal punto che non sentì quando bussarono alla porta. Il battente si aprì in silenzio e Teucro rimase sulla soglia ad osservare il bardo nel suo ambiente natura con un sorriso che le illuminava il viso assorto.
Sentendosi osservata, Olimpia si voltò verso la porta ed incrociò lo sguardo del ragazzo. Provò a sorridere piuttosto imbarazzata.
<<È da molto che sei qui?>> gli chiese.
<<Abbastanza da rendermi conto che quando scrivi sei ancora più radiosa>>
L’amazzone abbassò lo sguardo ancor più imbarazzata per nascondere che le gote avevano cominciato a tingersi di porpora. Teucro rise appena.
<<Scusami, non volevo assolutamente metterti in imbarazzo>>
<<No, tranquillo…>> gli disse Olimpia alzandosi dalla sedia dopo aver posato lo stilo ed arrotolato la pergamena.
<<Mi hai solo presa alla sprovvista>> gli sorrise. <<Hai bisogno di qualcosa? Xena è andata dall’arconte perché…>>
<<No>> la interruppe Teucro <<Non cerco Xena. Sono qui per te. Volevo chiederti se ti andava di fare un giro della città>>
Olimpia rimase un po’ in silenzio, indecisa se accettare o meno.
<<Sono sicuro che Xena ne avrà per un po’, non vorrai rimanere qui al chiuso e da sola in una giornata come questa?>>
<<Deduco che non accetteresti un rifiuto>>
Teucro annuì ed Olimpia, tappata la boccetta dell’inchiostro, si avvicinò alla porta. Gentilmente il giovane l’aprì e con un inchino le fece cenno di passare per prima.

di Nihal

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