Episodio N. 9
di Nihal


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di Nihal

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PREMESSA: Per la realizzazione di questo duplice episodio ho accolto come vera la teoria secondo la quale il personaggio leggendario di re Artù prende avvio dalle reali vicende di un condottiero britannico del V-VI sec d. C, ambientando così la vicenda a cavallo tra questi due secoli.
Inoltre a chi ha letto “Le nebbie di Avalon”, di Marion Zimmer Bradley, risulterà evidente quanto mi sia avvalsa della sua autorevole voce per costruire la sacra isola di Avalon ed il culto della Dea. Con ciò non era mia intenzione infrangere alcun copyright.
Da ultimo è mia premura ricordare che, essendo il V ed il VI secolo i primi periodi dell’affermazione del Cristianesimo e non potendo prescindere da questa realtà in modo assoluto, ho ripreso il filone intrapreso nella serie con il quale si identificava la religione cristiana con la nuova dottrina di Belur.
Detto questo, buona lettura.


CAPITOLO IV


506 d. C, Piana di Escalot

A Selene sembrava che quella mattina il sole avesse deciso di dar fondo a tutto il suo calore: erano passate solo poche lune dall’equinozio di primavera ed il sole era prossimo allo zenit, ma il calore era pressoché soffocante. Guardò Lisia che le cavalcava accanto su di una puledra scura procedere perfettamente composta, mentre lei, chiusa in una corazza leggera da placche metalliche e con il mantello blu sulle spalle, si muoveva irrequieta sulla sella del cavallo. Anche lo sbattere dalla spada sulla sua gamba, sensazione cui era abituata e di cui andava orgogliosa, in quel momento la infastidiva enormemente. Anche il suo cavallo, il mantello color grano che luccicava più del solito sotto l’intensa luce, scuoteva la criniera candida per il nervosismo.
<<Manca ancora molto?>> chiese Selene con tono seccato alla sacerdotessa.
<<Dobbiamo superare ancora quella collina, poi il castello di Heron sarà pienamente visibile>> la voce di Lisia, invece, era tranquilla.
La ragazza sbuffò, passandosi la mano tra i capelli corvini, contenta che la lunga treccia che le scendeva sulla schiena alleviasse almeno un po’ il caldo.

Quando giunsero in prossimità della cinta muraria che proteggeva la fortezza, Lisia fermò la sua cavalcatura. Selene si girò di scatto verso di lei con espressione interrogativa.
<<Devi andare da sola ora>> disse la donna rispondendo alla sua tacita domanda.
La sacerdotessa sciolse alcune bisacce dalla sua sella e gliele porse. La ragazza le prese con mani esitanti.
<<La Dea ti benedica, Guardiana della Luna>> le disse Lisia, accarezzandole il viso.
Selene annuì con gli occhi lucidi. Il sorriso dolce dell’altra non fece che mettere ancora più alla prova il controllo che si era imposta.
<<Le mancherai molto anche tu>>
Senza aggiungere altro la sacerdotessa voltò la cavalcatura per ripercorrere a ritroso il viaggio. Selene rimase ferma alcuni istanti prima di procedere verso l’imponente portale di legno che chiudeva la cinta muraria. Dall’alto le sentinelle, avendola vista giungere, le intimarono di fermarsi.
<<Chi va là?>> chiese la voce di un uomo che lei non riusciva a vedere da quella posizione.
Selene prese un profondo respiro prima di parlare.
<<Lancillotto del Lago, figlio di Viviana e nipote della regina Leida>> la sua voce risuonò sicura e ferma. Non dovette aspettare molto perché le venissero aperti i battenti e permesso di entrare.
Si sorprese nel vedere che ad attenderla ci fossero tre servitori e due stallieri. Smontò da cavallo e consegnò le redini dell’animale ad un giovane con non poca riluttanza.
<<Trattalo bene>> gli intimò <<Non è un animale comune>>
<<Sir Lancillotto?>> la ragazza si voltò verso l’uomo che l’aveva chiamata, mentre lo stalliere conduceva via la sua cavalcatura.
<<Re Heron e la regina Leida la attendono>> le disse con un profondo inchino.
<<Portami da loro>> ordinò Selene, stringendo sotto il braccio l’elmo che aveva preso dalla sella.
Il servitore la condusse all’interno del castello ed attraversarono alcuni corridoi prima di arrivare alla sala del trono. L’uomo entrò per primo e l’annunciò.
Quando la ragazza si trovò nell’ampia sala rettangolare, la attraversò a passo sicuro verso il trono dei due regnanti, ignorando volontariamente gli sguardi indagatori dei cortigiani riccamente abbigliati. Soffocando un moto d’orgoglio, sguainò la spada e s’inchinò davanti a re Heron, l’arma orizzontale sulle palme aperte in segno di sottomissione.
“Una Guardiana della Luna in ginocchio…” dovette serrare la mascella per non urlare.
<<Così tu sei il figlio di Viviana…>> la voce dell’uomo era profonda e roca.
<<Alzati, ragazzo! Il nipote della mia sposa non deve inginocchiarsi a me!>> continuò poi con aria conciliante. Sceso dal trono le prese la spada dalla mani e gliela restituì non appena si fu rimessa in piedi.
<<La ringrazio, maestà>> gli rispose in tono solenne, prima di porgere omaggio alla regina.
Quando ne incrociò gli occhi, ebbe la sensazione di rivedere la Dama del Lago: Leida le somigliava moltissimo e si chiese come avesse potuto sposare un uomo come Heron, scuro e massiccio, lei così elegante ed esile. L’abito di un verde brillante metteva ancora più in risalto con lo sposo, abbigliato di una livrea cremisi piuttosto semplice e con la corona, anch’essa disadorna, a sottolineare la sua nascita regale.
<<Sono lieto di conoscerla, regina Leida>> le disse un po’ assorta nei suoi pensieri.
La donna si limitò a rivolgerle un sorriso formale, ma nei suoi occhi Selene poté vedere il contegno della sacerdotessa.
<<Sono io ad essere felice di conoscere il figlio della mia amata sorella! Dimmi, come sta Viviana?>> le chiese, stavolta malcelando le sue emozioni.
<<Regna in Avalon con saggezza e fermezza, mia regina>> le rispose Selene solenne.
Leida cominciò a farle altre domande quando una risata la interruppe, facendo voltare tutta la corte verso l’entrata.
<<Madre, è il figlio di Viviana, non la sua dama di corte!>> esclamò un giovane impostato ed elegante, leggermente armato da una corazza di cuoio con alcune placche metalliche ed una spada magistralmente intarsiata appesa al fianco.
Selene notò come avesse ereditato i capelli castani del padre, ma gli occhi smeraldini della madre. Le si avvicinò sorridendo e le diede una pacca sulla spalla.
<<Sono Learco>> le porse la mano che la ragazza prontamente strinse.
<<Mio padre mi ha informato che saremo compagni d’armi>> le sorrise ancora e Selene non poté esimersi dal notare che fosse davvero un bel giovane.
<<Già>> si limitò a rispondergli.
<<Allora perché non cominciamo subito?>>
<<Learco!>> intervenne la regina <<Lancillotto ha viaggiato a lungo, vorrà riposare>>
<<Maestà>> disse la ragazza <<Con il vostro permesso, sarei lieto di cominciare: non credo che ci sia un modo migliore di smaltire un viaggio>>
Re Heron scoppiò in una grassa risata e guardò entrambi con orgoglio.
<<Leida, non ti crucciare: i ragazzi sono così. Ne hanno di energie. Andate, andate>> li incitò <<Non vorrete far aspettare il maestro d’armi!>>
Selene si congedò con un inchino dai due sovrani, e seguì il principe fuori dalla sala del trono. Mentre attraversavano il peristilio che dava sul cortile interno discorrendo di cavalli, la ragazza notò una giovane poco più che fanciulla vestita d’azzurro che accordava una piccola arpa. I lunghi capelli fulvi le fecero capire che doveva essere la figlia di Leida. Sentendosi osservata si voltò verso di loro, ma abbassò pudicamente lo sguardo quando incrociò gli occhi di Selene.
<<Allora?>> la domanda di Learco la strappò dai suoi pensieri.
<<Allora cosa?>> gli chiese.
Seguendo la direzione dello sguardo della ragazza, il principe vide la fanciulla nel cortile e sorrise.
<<È mia sorella Iria>> disse poi. <<Spero tu non abbia messo gli occhi su di lei>> la sua voce le parve quasi una minaccia.
<<Tranquillo, stavo guardando la sua arpa>> dissimulò Selene.
Poco convinto Learco fece spallucce e riprese il suo monologo sull’addestramento dei cavalli di razza.


508 d. C., Escalot

<<Forza, Learco, non sarai stanco?>> la voce di Selene era canzonatoria.
Erano l’una di fronte all’altro, le armi sguainate. Intorno a loro l’erba era calpestata ed i loro mantelli erano gettati a terra poco più in là. Il principe era piegato in due e si era appoggiato alla spada come ad un bastone, respirando affannosamente. Il sole illuminava il viso soddisfatto di Selene che rinfoderò la spada.
<<Non ho mai capito come faccia a non stancarti mai!>> le disse Learco, la fronte imperlata di sudore e la blusa sbianca sbottonata fuoriusciva dai pantaloni.
La ragazza, invece, si riassettò e rimise il mantello sulle spalle. I calzoni e la casacca, entrambi neri, sembravano appena messi e solo le tracce verdi di erba sugli stivali testimoniavano il recente combattimento.
<<Forza cugino, fattene una ragione!>> lo canzonò di nuovo, porgendogli il suo mantello.
<<E poi c’è gente che si meraviglia che mia sorella non abbia occhi che per te!>> le disse di rimando il giovane mentre assestava la fibula della cintura e rimetteva la spada nel fodero.
Selene rise incamminandosi verso l’albero secco cui avevano legato i cavalli.
<<Ancora con questa storia! Io ed Iria abbiamo in comune la passione per l’arpa>> si difese scherzosamente.
<<Ah sì?>> insistette Learco mentre montavano a cavallo.
<<Non mi dire che non ti sei accorto di come ti guarda, caro Lancillotto!>>
Si diressero al piccolo trotto verso il castello, continuando la loro schermaglia verbale.
Selene, completamente vestita di nero, cavalcava altera, una leggera sfumatura di strafottenza che le illuminava gli occhi cerulei. I capelli, più corti rispetto a quando era giunta alla corte di re Heron, erano legati con un laccio cuoio, ma una ciocca corvina ne sfuggiva e le scendeva lungo il bel viso, sottolineando la sua pelle chiara e gli zigomi alti.
<<Lancillotto mi stai ascoltando?>> la ragazza si voltò verso il principe.
<<Non mi passa neppure per la testa!>> gli rispose ironica.
Learco scoppiò a ridere e fermò la cavalcatura.
<<Forza, fellone, battiti!>> le disse ancora sorridendo, dopo esser smontato ed aver sfoderato la lama che lanciava riflessi luminosi sotto il sole.
<<Non ti bastano mai le sconfitte, eh?>> anche Selene smontò e, impugnata la sua arma, lo fronteggiò.
I due si studiarono, le spade ancora basse, girandosi intorno. L’attacco di Learco fu fulmineo, ma non la spiazzò: scartò di un passo ed il fendente fischiò nell’aria. Tornarono a studiarsi per pochi istanti prima che Selene passasse al contrattacco: incalzò il giovane con una serie di stoccate veloci che lo costrinsero ad indietreggiare, poi, rapida, si abbassò e, facendo perno sulle mani, con una sforbiciata gli fece perdere l’equilibrio. Entrambi risero e la ragazza gli tese una mano per aiutarlo a rialzarsi. Rinfoderata la spada, Learco la spintonò scherzosamente prima di rimontare a cavallo.
<<Bhè, se non fossimo cugini diretti, sarei felice se mia sorella ti sposasse>> le disse.
Selene spronò il cavallo al galoppo, guadagnando terreno.
<<Forza, principe Learco: vediamo se mi batti almeno a cavallo!>> gli disse , ignorando volutamente l’affermazione del giovane.


510 d. C., Escalot

<<No, Iria, stai sbagliando la posizione>>
Selene prese la lira nuova che le aveva regalato dalle mani della giovane e sfiorò alcune corde, traendone un dolce accordo. Su di loro il cielo era illuminato dai colori caldi del tramonto e nel cortile interno regnava una quiete quasi irreale.
Iria, avvolta in una tunica giallo intenso, ricamata lungo le ampie maniche ed intorno alla vita con delicati motivi sinuosi, osservava quella che conosceva come suo cugino che le sedeva accanto. I suoi occhi seguirono la linea perfetta del profilo ed il contorno gentile delle labbra, notando come le donasse la blusa rosso cupo ed i calzoni marroni, infilati negli alti stivali, che mettevano in risalto la sua muscolatura salda. Il fatto poi che avesse il viso senza un filo di barba non faceva che accrescere il suo fascino, se mai che ne fosse stato bisogno. Selene le schioccò le dita davanti al viso, avendo notato la sua espressione assente.
<<Ma mi stai ascoltando? Mi sembrava volessi imparare a suonare la lira….>> le chiese guardandola negli occhi.
Iria si sentì avvampare e le sue gote divennero dello stesso colore dei suoi folti ricci fulvi che le incorniciavano elegantemente il viso. Si limitò ad annuire appena.
Selene le passò la lira e mise le sue mani su quelle della ragazza per guidarla sulla struttura di mogano dello strumento, ma non le sfuggì il tremito che le percorreva. La guerriera la guardò con espressione interrogativa, ma l’altra cercò di dissimulare il suo imbarazzo.
Nessuna delle due si accorse dell’arrivo di Learco, che rimase ad osservarle all’ombra delle colonne del peristilio.
<<Lancillotto…io….>> cercò di dire la ragazza con gli occhi bassi e fissi su di un punto indefinito dell’acciottolato del cortile.
Selene posò la lira accanto a se sulla panca e le strinse le mani piccole e morbide tra le sue. Quando Iria trovò il coraggio di incrociare il suo sguardo, per la guerriera non fu difficile interpretare i suoi sentimenti.
<<Iria, credo di aver compreso, ma anche tu sai bene che non è assolutamente possibile>> le disse con voce ferma, maledicendo dentro di sé quella mascherata che la costringeva a spacciarsi per un uomo.
<<Non è vero…>> le rispose Iria <<Non saremmo i primi cugini diretti che si amano!>>
<<Ma io non ti amo!>> la interruppe Selene brusca, lasciandole le mani immediatamente.
La ragazza si coprì il viso con le mani e scoppiò in lacrime, il petto scosso da profondi singhiozzi mentre mormorava che non avrebbe potuto amare nessun altro. La guerriera le dava le spalle e soppresse l’impulso di consolarla.
Non ebbe il tempo di vedere Learco giungere ed il suo pugno la colpì in pieno viso, facendola cadere a terra. Si portò una mano al labbro e la vide sporca di sangue: un’ira che credeva di aver dimenticato le annebbiò gli occhi, ma serrò la mascella e la contenne. Uccidere il giovane che ora la guardava furente era l’ultima delle sue intenzioni.
<<Learco, per la Dea, che cosa ti salta in mente?>> gli sibilò rimettendosi in piedi, un rigagnolo di sangue che le calava lungo il mento. Dietro di loro Iria li guardava ancora in lacrime senza la forza di dire nulla.
<<Hai cercato di corrompere mia sorella, vero?>> gli occhi del principe lanciavano lampi e non attese la risposta di Selene per aggredirla.
La Guardiana della Luna questa volta non si lasciò sorprendere ed in breve entrambi perdevano sangue da più punti del viso. Con una serie di colpi Learco la costrinse ad indietreggiare. La ragazza si limitò a parare e schivare i colpi fino a quando il giovane non abbassò la guardia per una frazione di secondo, allora lo colpì con un destro in pieno addome e, mentre si piegava in due per il dolore, gli assestò una gomitata in pieno viso.
<<Ora basta!>> la voce possente di re Heron risuonò minacciosa, amplificata dalla struttura del cortile interno. I due si fermarono, continuando però a scambiarsi occhiate minacciose.
<<Cosa sta succedendo?>> chiese il sovrano, la fronte corrucciata.
<<Questo figlio di un cane importunava Iria!>> urlò Learco, afferrando di nuovo Selene per il bavero, ma senza colpirla: gli occhi glaciali di lei erano fissi nei suoi, senza la minima traccia di paura.
<<È così?>> domandò il sovrano rivolgendosi alla figlia ed abbracciandola.
La ragazza fece cenno di no con il capo. Learco la guardò interrogativo, allentando la presa.
<<Sono stata io….a non…capire….che non…mi ama….>> riuscì a dire profondamente imbarazzata <<Ma Lancillotto…ha…rifiutato….>>
Sia il re che il principe si voltarono verso Selene, che rimase impassibile.
<<L’ho fatto perché siamo cugini, e questo lo sapete benissimo, ma soprattutto perché la mia vita è votata al servizio di Avalon e mi è proibito il matrimonio. Non avrei mai approfittato di Iria senza il desiderio di sposarla>> rispose loro, modificando le reali motivazioni perché risultassero credibili.
Learco abbassò gli occhi mentre sentiva l’ira che scemava e re Heron rise quando la fanciulla scappò via. Vedendo l’espressione addolorata di Selene gli diede una pacca sulla spalla.
<<Se ne farà una ragione…>> le disse, poi si voltò verso il figlio <<Forza, stringetevi la mano e poi vai a farti rattoppare la faccia!>>
<<Scusa, cugino>> le disse il giovane porgendole la mano destra che prontamente la guerriera strinse.
<<Non preoccuparti, cugino. Ho già dimenticato>> I due si abbracciarono, poi Learco si toccò il sopracciglio spaccato.
<<Me le hai date un’altra volta, eh?>> sorrise con la solita espressione di finta invidia.
<<E non sarà l’ultima>> ribatté Selene mentre lui si allontanava.
Fece per seguirlo, ma Heron la trattenne per un braccio e le porse una pergamena. Prendendola, la ragazza riconobbe immediatamente il sigillo di Avalon impresso nella ceralacca. L’aprì e lesse rapidamente le poche righe vergate di suo pugno da Viviana. Con occhi lucidi guardò il sovrano negli occhi.
<<Devo tornare ad Avalon: Viviana mi manda a chiamare>>


510 d. C., Carmelide

Ginevra si rigirava, pensosa, la piuma d’oca tra le dita della mano destra, incurante delle piccole macchie che le sporcavano la pelle. Seduta allo scrittoio della sua stanza, rilesse le righe che aveva scritto sulla pergamena con espressione lievemente insoddisfatta. Sbuffando posò la piuma e si alzò, affacciandosi alla finestra e respirando a pieni polmoni l’aria fresca di prima mattina. Chiuse gli occhi ed assaporò la sensazione della brezza leggera che soffiava discreta sul viso e che faceva sembrare il manto erboso all’esterno la superficie del mare. Un soffio più forte la fece rabbrividire e si strinse nella sottoveste da notte.
<<Sei già sveglia?>> Dorilea entrò a passo felpato nell’ampia stanza, convinta di trovarla ancora addormentata: non era mai stata mattiniera.
<<Ginevra!>> esclamò vedendola a piedi nudi e con solo la sottile veste da notte a godersi il panorama con finestra spalancata.
<<Ti prenderai un malanno!>> disse la balia avvicinandosi e facendola togliere di lì.
<<Guarda: hai le braccia gelate!>>
La ragazza non oppose resistenza mentre la donna la faceva sedere sul bordo del letto ed apriva una delle casse in cui conservava i suoi abiti, limitandosi a guardarla sorridente. La donna prese a parlarle, ma Ginevra non se ne accorse neppure, presa com’era dal filo dei suoi pensieri.
<<Lavanda o fior di pesco?>>
Alla domanda, la principessa rispose limitandosi a fare spallucce, gettandosi poi all’indietro sul letto con le braccia spalancate ed i capelli che formavano un’aura d’oro intorno al sul bel viso, un’espressione beata che la rendeva ancora più luminosa. Dorilea roteò gli occhi, ormai abituata ad i momenti di puro sogno della giovane e la pergamena aperta sullo scrittoio non fece che confermare i suoi pensieri.
<<Ginevra, c’è bisogno che ti ricordi io che oggi tuo padre torna dal consiglio dei re?>> la voce della donna era conciliante e dolce.
<<Lo so benissimo…ed è per questo che sono così felice!>> esclamò la ragazza saltando giù dal letto e coinvolgendola in una danza improvvisata.
<<Credi che mi porterà un altro libro?>> chiese speranzosa alla balia.
<<Farebbe bene a cercarti un marito più che un altro libro! Ormai vivi solo di quella roba e non sei più una bambina!>>
Il suo tentativo di rimprovero non ottenne che uno sbuffo ed una smorfia da parte della principessa.
<<Quelli della biblioteca non vanno bene?>> la canzonò alla fine Dorilea, facendola uscire dalla stanza per farla entrare in quella attigua, in cui aveva fatto preparare una grossa tinozza con dell’acqua calda.
<<Li ho letti tutti!>> esclamò felice la ragazza, togliendosi la tunica ed immergendosi nella vasca.
La balia prese una brocca e le versò lentamente dell’altra acqua sul capo, passandole una boccetta con dell’essenza profumata. Una dolce fragranza di biancospino riempì l’aria mentre la fanciulla si lavava e la donna finiva di preparare un bell’abito rosa pallido.
<<Perché non ti dedichi alla tessitura come tua sorella?>> le chiese mentre l’aiutava ad uscire e l’avvolgeva in un telo bianco perché si asciugasse.
<<Preferisco tessere parole>> le rispose Ginevra, lasciandosi docilmente spazzolare i capelli biondi.

<<Ecco cosa succede a stare lontani da casa!>> esclamò il re abbracciando le due figlie che l’avevano aspettato nella sala del trono.
<<Ho lasciato due bambine e trovo due donne!>> diede un bacio sulla fronte ad entrambe, poi si sedette sui gradini che sopraelevavano il suo scranno rispetto al livello della stanza.
<<Questi viaggi così lunghi non fanno più per me…>> disse stendendo le gambe quando Eilan gli si accovacciò accanto posandogli la testa in grembo.
Leodegranz le mise un pettinino d’oro finemente decorato sul capo mentre le accarezzava i capelli. La ragazza lo sfilò immediatamente e se lo rigirò tra le mani, guardandolo estasiata, poi gli gettò le braccia al collo.
<<È meraviglioso, padre!>> gli disse mentre gli dava un bacio sulla gota ispida di barba non più così fulva.
<<Sapevo che ti sarebbe piaciuto….ora però devo parlare con Ginevra da solo>> le disse.
Eilan annuì e, dopo avergli dato un altro bacio, uscì felice continuando a fissare il dono che aveva ricevuto. Leodegranz fece cenno a Ginevra di sedergli accanto mentre lei lo guardava interrogativa, composta nel suo abito rosa chiaro che scopriva appena le spalle. Mentre si sedeva dove il padre le aveva indicato, il re riconobbe nelle sue movenze l’eleganza della moglie.
<<I capelli intrecciati così ti donano molto>> le disse sfiorando dolcemente la spessa treccia bionda che le coronava il capo.
<<Sai, ormai sei una donna…>> cominciò l’uomo guardandola dritto negli occhi.
La ragazza non aveva la più pallida idea di dove il padre volesse andare a parare, ma rimase in silenzio con le sopracciglia aggrottate, in attesa che proseguisse.
<<Il tuo precettore decanta la tua bravura e sono molto orgoglioso di questo, ma è arrivato il momento che tu assolva ad un altro dovere>>
Gli occhi di Ginevra si riempirono di lacrime: non poteva chiederle quello!
<<Non piangere, tesoro>> le disse abbracciandola <<Non ti ho già scelto lo sposo! Tua madre non avrebbe permesso che facessi una cosa del genere: io e lei ci sposammo per amore, non per imposizione dei nostri genitori e voglio che sia così anche per te>>
I singhiozzi le si fecero più flebili, ma non riusciva ugualmente a frenare le lacrime.
<<Però non puoi innamorarti se resti chiusa in questo castello>> proseguì il re senza sciogliere l’abbraccio <<Sono terminati i lavori della nuova dimora di re Uter e celebrerà l’evento con un torneo…saranno presenti tutti i figli delle più importanti casate ed io sono stato invitato dal re in persona. Verrai con me>> chiuse poi secco.
<<NO! Non sposerò mai uno di quei principi pomposi e zotici, capaci solo di menare le mani!>> esplose Ginevra, alzandosi di scatto e fronteggiando il padre con sicurezza pur avendo ancora gli occhi arrossati dal pianto.
All’uomo parve di trovarsi di fronte a pura fiamma e stentò quasi a riconoscere in quella donna la figlia sempre così dolce ed amabile. Dopo un attimo di esitazione, però, tornò presente a se stesso.
<<Taci! Io sono tuo padre e mi devi obbedienza!>> tuonò, alzandosi anche lui in piedi.
Era la prima volta che doveva alzare la voce con lei, ma soppresse ogni tentennamento. Rimasero l’uno di fronte all’altra per alcuni istanti, poi Ginevra abbassò gli occhi.
<<E sia…>> disse con un filo di voce.

CAPITOLO V

510 d. C, Piana di Escalot

<<Sei proprio sicuro di voler andare da solo?>> la voce di Learco tradiva una sincera preoccupazione mentre cavalcava al fianco di Selene.
<<Sì, cugino. Ad avalon devo andare da solo>>
I due continuarono ad avanzare fianco a fianco, in silenzio. Learco aveva trovano in Selene, per lui Lancillotto, dapprima un compagno d’armi, poi un fratello cui si era sinceramente affezionato ed ora la Dama del Lago rivoleva suo figlio sulla sua isola. Con quale diritto lo reclamava, dopo averlo allontanato?
La ragazza, dal canto suo, se da un lato desiderava ardentemente ritornare al Tempio, rivedere Lisia e le altre Guardiane con cui era cresciuta, dall’altro l’addolorava dover lasciare la corte di Heron, dove aveva compreso il significato di famiglia. Per quanto Viviana l’amasse come una creatura sua, aveva sempre soffocato i suoi sentimenti nell’aura di Somma Sacerdotessa, severa ed incline al rimprovero. Quando aveva lasciato l’isola, aveva permesso che partisse senza neppure un saluto.
Selene chiuse gli occhi ed ebbe la sensazione di risentire l’abbraccio di Leida prima che montasse a cavallo, forse per non tornare più. Mai come in quel momento sentì sulle spalle il peso opprimente del marchio che portava.
<<Ora torna indietro, Learco. Da qui continuo da solo>> disse dopo aver fermato la cavalcatura ed essersi voltata verso il principe.
L’altro la fissò negli occhi chiari, incerto se accettare la sua decisione, ma la fermezza dei suoi lineamenti lo costrinse a cedere.
<<Torna presto, Lancillotto del Lago>> le disse porgendole una mano in segno di saluto che l’altra prontamente strinse.
<<Possa la tua dea proteggerti>> concluse, voltandosi poi per ripercorrere a ritroso la strada verso il castello.
Selene lo osservò andar via fino a quando non scomparve nella leggera nebbia che offuscava l’alba quella mattina. Sfiorò la spada, come se volesse assorbirne la forza, ed accarezzò il collo del cavallo, avvicinandosi al collo della bestia.
<<Ora, mia cara, corri come il vento>>
Accompagnò le sue parole con un movimento secco delle gambe e la puledra partì al galoppo senza esitare, lanciandosi in una corsa possente, che tuttavia la ragazza sembrava controllare perfettamente. Gioì nel sentire l’aria fredda sferzarle il viso e scomporle i capelli corvini, mentre il mantello blu svolazzava sulle sue spalle. Gli occhi le caddero sulla fibula che lo tratteneva ed ebbe la sensazione che la luna piena incisavi sopra le stesse sorridendo.


510 d. C, Carmelide

<<Che cosa assurda!>> sbottò Ginevra scostando il drappo che chiudeva la reda, una sorta di carro coperto in cui viaggiava assieme alla balia.
<<Sono perfettamente in grado di cavalcare, ma mi tocca rimanere qui come un topo in gabbia>> disse poi.
Dorilea roteò gli occhi rassegnata, non potendo però darle torno. Sebbene fosse vestita ben più semplicemente della principessa, soffriva notevolmente per il caldo ed aveva le gote in fiamme e la fronte imperlata di sudore. Innanzi a lei Ginevra si agitava, inquieta nell’austero abito zafferano che indossava. La donna non l’aveva mai vista così irritabile e facile all’ira come durante quel viaggio: la fanciulla si era giustificata incolpando il caldo e la sua non abitudine ai lunghi viaggi, ma lei la conosceva fin troppo bene per crederle.
Dorilea sapeva perfettamente quali aspettative avesse Leodegranz per il torneo cui si stavano recando e che Ginevra vi si era arresa solo perché, in fondo, l’uomo non voleva che il suo bene.
<<Cara, non vorrai che i tuoi pretendenti ti vedano vestita da uomo e ti scambino per un paggio!>> provò a scherzare, ma la ragazza non rise, degnandola appena di uno sguardo.
<<Non parleresti così se fossi tu ad essere messa in esposizione come una vacca al mercato>> sbottò la principessa.
La donna abbassò lo sguardo non riuscendo a sostenere la rabbia e la frustrazione negli occhi di colei che amava più di una figlia.
<<Ginevra, non ti lascerò sola: stai tranquilla>> le disse poi, trovando il coraggio di posare una mano su quella della giovane.
Ginevra dapprima non reagì, poi si gettò al collo della balia, lasciando che questa le carezzasse i morbidi capelli biondi mentre profondi singhiozzi le attraversavano tutto il corpo.
Dorilea non disse nulla, permettendole di dare fondo a tutte le sue lacrime. Del resto ogni sua parola, per quanto confortante, sarebbe servita a ben poco: la volontà di re Leodegranz di trovarle uno sposo era irremovibile e di certo le opinioni di una sottoposta non sarebbero valse a nulla. la donna ringraziò di aver avuto la possibilità di scegliere, almeno in parte, cosa fare della sua vita e commiserò la ragazza cui questa libertà era negata.


510 d. C, Avalon

Davanti a Selene, ritta sul suo destriero, si stendeva il lago su cui gravava la pesante nebbia perenne che proteggeva ed isolava le Figlie della Dea dal mondo esterno. Scese da cavallo e rimase ad osservare il biancore fluttuante che sbarrava l’accesso a chi non sapesse come schiuderlo, ancora lacerata da gioia e nostalgia. Quella mattina, svegliandosi, aveva deciso di indossare nuovamente, dopo anni, le vesti di Guardiana della Luna ed ora sentiva una leggera tensione sulle spalle e lungo le braccia: sia la corazza argentea che la sottoarmatura le andavano strette.
Accanto a lei la sua puledra raspava il terreno, scuotendo ogni tanto la criniera bianca. Selene esitò ancora, guardando fisso l’elmo che aveva tra le mani. Sfiorò lentamente con la punta delle dita i contorni del paranaso poco accentuato e dei paragnatidi fissi ed appena ornati, soffermandosi poi sulla celata, che amava portare sollevata per non nascondere mai il viso. La ragazza, quasi rinnovata da quel contatto, calzò l’elmo ed intonò poche note, rimanendo poi in attesa.
Non dovette aspettare molto perché due barche, una sacerdotessa che si ergeva sulla prua della più piccola, si avvicinassero alla riva. Sulla prima salì Selene, che lasciò invece che il suo cavallo salisse sulla seconda, affidandolo al giovane druido che vi faceva da timoniere.
“Bentornata a casa” si disse, mentre si allontanavano dalla riva.
Per un po’ la ragazza si sentì avvolgere dalla nebbie e non fece caso all’insistenza dello sguardo della sacerdotessa che l’accompagnava. Rendendosi poi conto di essere osservata, si voltò verso di lei e ne incrociò gli occhi castani profondi e felini. Qualcosa nel suo viso scuro dall’espressione indecifrabile le era profondamente familiare, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare chi fosse né dove l’avesse vista.
<<Ci conosciamo?>> le chiese diretta, stufa del suo silenzio.
<<Tutte le Figlie della Dea si conoscono>> fu la risposta sibillina che ottenne.
Selene inarcò il sopracciglio destro sarcastica e si dovette trattenere per non sbuffare. Eppure la sua voce aveva smosso qualcosa…chiuse gli occhi per meglio concentrarsi e vide se stessa, vestita di pelle di cervo e con le corna dell’animale sul copricapo, seduta vicino ad un piccolo fuoco, mentre l’altra le sussurrava di grandezza e potere.
Aprì immediatamente le palpebre, ma la sacerdotessa era ora ritta sulla prua e le dava le spalle, mentre intonava le parole che avrebbero aperto loro le porte di Avalon. Rispondendo al comando della sua voce, profonda e ferma, la nebbia si dissolse ed il tempio comparve agli occhi di Selene in tutta la sua magnificenza.
“Sì, sono tornata a casa” si disse.
Quando scese dalla piccola imbarcazione incrociò ancora lo sguardo dell’altra e, nel suo sorriso, intravide uno scintillio acuto, quasi maligno, che le trasmise un profondo senso di inquietudine.
<<La Dama ha ordinato che ti conduca prima tra le Guardiane. È impegnata in un rituale di purificazione e non può riceverti>> le disse, sorridendole ancora in quel modo ferino.
“Come se fosse una novità…” pensò Selene facendole cenno di andare avanti lungo il sentiero che portava alla Casa della Dea.
<<Mi dici il tuo nome o devo chiederlo alla Dea?>> disse ironica la Guardiana.
La sacerdotessa non si voltò neppure, continuando a camminare. Selene fece per dire qualcosa, ma l’altra l’anticipò.
<<Morgana>>

<<Viviana?>> la voce di Lisia fece voltare la Somma Sacerdotessa, china su di un quadro astrale.
Alzando gli occhi verdi la fissò, in attesa. Ancora una volta la sacerdotessa si meravigliò di come la Dama del Lago sembrasse immune allo scorrere del tempo. Solo delle rughe appena accennate le segnavano leggermente il contorno degli occhi ed i capelli, un tempo simili a fiamma, avevano perso solo parzialmente l’intensità del loro colore. Eppure aveva superato la soglia dei cinquant’anni.
<<Allora?>> la voce di Viviana la fece tornare presente a se stessa.
<<Selene vorrebbe vederti….è qui da due lune…>>
Il viso della donna parve congelarsi ed assunse una posizione solenne, le vesti azzurre che le conferivano un’aura leggermente incorporea nella luce del primo pomeriggio che illuminava la stanza.
<<Dovrà pazientare ancora. Sono impegnata>> disse secca.
Lisia non seppe trattenersi e sbuffò.
<<Per la Dea, Viviana! È tua figlia, l’hai allattata personalmente e non la vedi da anni, come puoi attendere ancora?>> sbottò esasperata.
La Dama del Lago, dapprima stupita, fu sul punto di reagire irata, ma si rese presto conto di desiderare così tanto di rivedere Selene da averne quasi paura. Sorrise appena.
<<Hai ragione, Lisia…dille che stasera ceneremo insieme nella mia stanza>> concluse, tornando poi a chinarsi sulla pergamena aperta sullo scrittoio.
Lisia, soddisfatta, si inchinò ed uscì dalla stanza, intenzionata a riferire immediatamente alla ragazza della sua vittoria. Dopo poco, da una porta laterale, entrò Morgana, il viso coperto da un velo azzurro ad indicare la sua recente partecipazione ad un rituale.
Viviana alzò appena gli occhi e le sorrise quando l’altra si sollevò la stoffa semitrasparente dal volto. Le notevoli capacita della giovane donna che, quando l’aveva accolta nel tempio era poco più di una ragazza, l’avevano colpita immediatamente, ma c’era sempre, nei suoi occhi, una nota stonata che non sapeva come definire. Di certo, dopo Selene, era l’unica che avrebbe potuto reggere il peso che ora era suo.
<<Dimmi, Morgana>> le disse, dal momento che l’altra non aveva ancora proferito parola.
<<Le novizie hanno superato la prima prova…>> Morgana cominciò a parlare, ma i pensieri della Somma Sacerdotessa erano tutti per Selene.

<<Sai che non è necessario che qui ti vesta da uomo, vero?>>
Al suono della voce di Lisia Selene si voltò verso di lei, posando a terra il rotolo di pergamena che stava leggendo, comodamente appoggiata al tronco di un melo nel frutteto alle spalle del Tempio. La ragazza si guardò i calzoni e la casacca scuri e sorrise facendo spallucce.
<<Ormai è abitudine>> le rispose mentre la donna le si sedeva accanto.
Da quella distanza ravvicinata, la guerriera scoprì nella chioma castana della donna non più giovanissima un’altra striatura di bianco.
<<Cosa leggi?>> le chiese Lisia, prendendo la pergamena da terra. Scosse la testa quando si accorse che era un trattato di strategia militare.
Le scompigliò i capelli corvini con una mano, come faceva quand’era una bambina, e provò una fitta di nostalgia per quella piccola peste che era stata in quegli anni. Ora aveva di fronte una donna forte e sicura di sé, una guerriera….
<<Viviana ti vuole nelle sue stanze questa sera: vuole cenare da sola con te>> le disse, certa di una sua reazione entusiasta.
Il sorriso sul viso di Selene si dissolse in un’espressione ironica.
<<Si è ricordata di me? Sia lode alla Dea…>> disse senza entusiasmo, riprendendo il rotolo dalle mani di Lisia e ricominciando a leggere.
<<Selene…>> la sua voce era di dolce rimprovero. La ragazza scattò in piedi.
<<Selene cosa??>> le disse a voce alta <<Non ho il diritto di essere arrabbiata se la Dama del Lago, “mia madre”, si degna di ricevermi dopo giorni? È stata lei ad ordinarmi di tornare!>> le diede le spalle ed incrociò le braccia.
La sacerdotessa si alzò e le si mise di fronte, guardandola negli occhi e non le sfuggì come la sua espressione dura mascherasse una profonda sofferenza. Le accarezzò il viso e la giovane chiuse gli occhi.
<<Lisia, perché mi hai portata qui?>> le chiese con la voce rotta.
La donna non trovò parole per risponderle, ma l’abbracciò, stringendola forte a sé. Selene non rispose all’abbraccio, ma sentì un dolce tepore mitigarle il dolore.

<<Selene…>> la voce di Viviana esitò mentre la ragazza entrava nella sala, le pareti di pietra illuminate da alcune lampade ad olio.
La Dama del Lago non riusciva a distogliere gli occhi dalla guerriera che aveva di fronte. Nonostante non indossasse né armi né armatura, le sue movenze e la struttura fisica impostata erano indice del ferreo addestramento militare che aveva ricevuto, prima ad Avalon e poi ad Escalot.
Selene si sedette sulla panca all’altro capo della tavola rispetto a dove, invece, sedeva Viviana, limitandosi a fissarla in silenzio. La sacerdotessa era esattamente come la ricordava….
<<Allora, figlia mia, sei stata via a lungo e non hai nulla da dirmi?>> le disse con un sorriso cordiale la donna, mentre una novizia portava un vassoio di pesce.
La ragazza si versò dell’acqua nel calice argenteo e, con calma, bevve, senza staccare gli occhi da quelli della Somma Sacerdotessa.
<<Se sei così interessata, perché mi hai ricevuta solo ora?>> le chiese, asciutta e sarcastica.
<<Ti ricordo che sei tenuta al rispetto delle mie decisioni, spero che il soggiorno ad Escalot non te l’abbia fatto dimenticare>> l’insolenza di Selene l’aveva irritata.
<<Dovresti essere tu a rispettare per prima le tue stesse decisioni: sei tu che mi hai mandata a chiamare, non ho scelto io di tornare>> la guerriera si impose di non urlare, ma i suoi occhi fiammeggiavano.
Viviana non rispose, servendosi del pesce arrostito, imitata dalla giovane. Come poteva darle torto? Se la decisione fosse stata sua, non l’avrebbe mai allontanata… Decise che in quel momento la soluzione migliore era deviare il discorso: l’avrebbero affrontato poi con più calma.
<<Una volta avevi una voce bellissima….ti va di cantare per me?>>
Selene sbatté le palpebre, sorpresa da quella richiesta, lasciando che la sua amarezza si addolcisse un po’.
<<Non ho né cetra né lira…>> disse poi.
La Dama del Lago sorrise e si alzò, dirigendosi verso uno scaffale. Quando tornò aveva tra le mani una lira in legno piuttosto semplice, ma ben tenuta.
<<La riconosci?>> le chiese Viviana.
La giovane rispose con un sorriso mentre prendeva lo strumento che l’altra le stava porgendo e ne saggiò le corde.
<<È stata la mia prima lira…non posso dimenticarla…>> guardò Viviana negli occhi.
<<Cosa vuoi che canti?>> le chiese.
La donna fece spallucce e poggiò il mento sul pugno chiuso, in attesa. La giovane si scostò un po’ dal tavolo ed intonò una ballata eroica che aveva appreso alla corte di Escalot. La Dama del Lago la osservò con attenzione: era diventata una donna, una vera guerriera. Aveva i capelli legati in una coda bassa, ma due ciocche scure le incorniciavano il viso forte e, sebbene fosse vestita da uomo, con calzoni scuri ed una blusa dell’azzurro di Avalon, la bellezza che emanava non aveva paragoni.
Viviana quasi non si accorse quando smise di cantare.
<<Ricordavo bene, allora: la tua voce è stupenda. Sembrerebbe quasi che tu non abbia mai smesso di esercitarla>> si complimentò e le fece cenno di sedersi sulla sua stessa panca. Lasciato lo strumento, la guerriera obbedì e la Dama del Lago le prese le mani tra le sue.
<<Sei una Figlia privilegiata della Dea, Selene…Lei ha preparato per te un grande destino>>
Selene sciolse immediatamente la stretta e sbuffò, alzandosi in piedi, mentre la Somma Sacerdotessa la guardava, basita, darle le spalle.
<<Possibile che tu non conosca altro all’infuori della Dea?>> le chiese, irata, voltandosi verso di lei. Trovandosi di fronte al silenzio della madre adottiva, la giovane sospirò esasperata.
<<Per una volta puoi essere solo mia madre e non la Dama del Lago?>> le chiese, quasi supplicante. Viviana si alzò e l’abbracciò stretta, in silenzio.
<<Hai ragione, figlia mia….Ma non posso permettere che l’istinto materno mi impedisca di farti compiere il tuo destino>> le disse dopo aver sciolto la stretta.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Selene la scostò da sé di scatto, furente.
<<Sono stanca del mio destino: che la Dea li metta in atto da sola i suoi piani! Io ho finito di essere la vostra marionetta!>> sibilò, poi uscì sbattendo la porta senza che Viviana potesse aggiungere alcunché.

<<Cosa stai facendo?>> Lisia entrò nella stanza di Selene mentre questa riponeva le sue cose in alcune sacche. Alla sua domanda non si voltò neppure.
<<Non lo vedi da sola?>> le rispose con voce profondamente venata di rabbia.
Lisia le si avvicinò e la fermò, costringendola a guardarla negli occhi. Il viso di Selene era contratto in un’espressione di sofferente furore.
<<Piccola mia, calmati…>> le disse, provando ad accarezzarla, ma la guerriera si sottrasse a quel contatto, ricominciando a riempire le sue borse. Accanto ad esse, sul letto, campeggiavano la corazza e l’elmo di Guardiana della Luna.
<<Selene, conosci Viviana…cerca di comprenderla>> le disse Lisia con ben poche speranze di riuscire a distoglierla dal suo intento.
Infatti la guerriera, impassibile, indossò la corazza, stringendo da sola le fibbie che gliela fissavano sui fianchi. Si caricò in spalla le due sacche e prese l’elmo, tenendolo sotto il braccio, ed uscì senza dire una parola. La sacerdotessa la seguì lungo il corridoio di pietra che conduceva alle stalle.
<<Selene, ti prego, sii ragionevole>> provò ad insistere. La giovane si voltò verso di lei solo dopo aver sellato il suo cavallo ed avervi fissato la spada.
<<Basta, Lisia: sono stufa di essere ragionevole. Visto che a lei sembra importare solo della Dea, da ora per me non sarà che la Dama del Lago…>> dalla sua voce traspariva amarezza.
<<Non essere così dura con lei: nonostante tutto è tua madre e ti ama più della sua stessa vita!>>
A quelle parole Selene scoppiò in una risata sarcastica, assicurando le borse sul dorso della sua cavalcatura, che raspava la pavimentazione di terra battuta.
<<Lisia, non prendiamoci in giro: non è mai stata mia madre…non più di quanto lo sia stata la mia vera madre…>> le rispose la guerriera, guardandola dritta negli occhi.
La sacerdotessa non seppe cosa risponderle ed abbassò lo sguardo.
<<Se davvero vuoi aiutarmi dimmi chi erano i miei veri genitori>> le disse poi a bruciapelo.
<<Questo potrebbe farti tornare sulle tue posizioni?>>
<<Non credo proprio>> le rispose Selene mentre conduceva fuori il cavallo tenendolo per le briglie.
<<Non puoi andare via di qui senza una sacerdotessa>> Lisia la raggiunse all’esterno mentre l’altra montava a cavallo ed indossava l’elmo.
<<So come schiudere le nebbie. Allora, vuoi dirmi chi sono o no?>> fu la risposta dura che ottenne.
La sacerdotessa voltò la testa, incerta se accettare.
<<Va bene, te lo dirò. Ma solo se lascerai che sia io ad aprire le nebbie: tu non hai esperienza e potresti perderti senza speranza di tornare indietro>>
Selene annuì e le allungò una mano per aiutarla a montare a cavallo dietro di lei. La sacerdotessa si allacciò ai suoi fianchi con le braccia, pregando in cuor suo di aver fatto la scelta giusta. Alle loro spalle, il sole, prossimo al tramonto, dipingeva di un arancione intenso tutto l’orizzonte di basse nuvole.


510 d. C, Camelot

In disparte, Ginevra si tormentava le mani per il nervosismo: era seduta insieme ad altre giovani dame su di un palco allestito appositamente per loro, ma non riusciva a trovare nulla d’interessante in quelle fanciulle, tutte prese nei loro mondi di sete e broccati. Senza contare le occhiate di pura invidia che le lanciavano ogni volta che rifiutava con formale cortesia le attenzioni dei cavalieri partecipanti al torneo. Non si erano affatto preoccupate di mascherarle il loro astio né di non farle ascoltare i loro commenti velenosi, ma non le importava minimamente: non era lì per mostrarsi amabile.
Era la terza giornata di giochi e ne aveva abbastanza di duelli e cavalieri: voleva tornare a casa. Ogni notte pregava perché nessuno si facesse avanti con suo padre per la sua mano e fino ad allora, forse anche grazie al suo atteggiamento freddo ed apparentemente scostante, le sue preghiere erano state esaudite ed era riuscita a scansarsi con abilità da scomodi e presuntuosi pretendenti. Guardò distrattamente la fila di duellanti che stava sfilando di fronte al palco dove sedeva: le sembravano tutti uguali, altezzosi nelle loro luccicanti armature.
Sotto la luce del sole di quella mattinata di primavera la piana alle spalle della nuova sede di re Uter riluceva di riflessi metallici delle armi e dei colori sgargianti degli abiti e degli stendardi. Per quella giornata Ginevra aveva scelto un abito semplice di un verde tenue che tendeva all’azzurro ed aveva indossato un monile d’argento e perle che era stato di sua madre, mentre i capelli sciolti le coprivano buona parte della schiena come una cascata di fili d’oro.
Una leggera gomitata la fece voltare alla sua destra verso una delle figlie del re delle isole Orcadi, una ragazza gaia con il viso chiazzato di lentiggini ed i capelli così chiari da sembrare bianchi.
<<Quel cavaliere laggiù ti sta fissando…>> le disse con un risolino.
Ginevra seguì la direzione che le indicava ed incontrò gli occhi azzurri di un giovane combattente. Lei non abbassò lo sguardo e lui sollevò la celata dell’elmo, mostrando un bel viso dai tratti gentili, il mento contornato da un sottile pizzetto dorato. Le fece un corte cenno di saluto e si avvicinò al palco, inginocchiandosi nella sua direzione. Per quanto si sforzasse, Ginevra non riusciva a staccare gli occhi da quel giovane.
<<I miei omaggi>> le disse con voce salda, poi sollevò lo sguardo per incontrare quello di lei. <<Chiedo di poterla onorare combattendo in suo nome>>
Sorpresa da quella richiesta Ginevra annuì e lui le sorrise ancora. La principessa rimase immobile mentre lui si alzava ed attendeva di fronte a lei.
<<Devi dargli qualcosa di tuo!>> le sussurrò la principessa delle Orcadi.
Non sapendo cosa potesse donargli, si sfilò dalla manica un piccolo fazzoletto e glielo porse, le gote in fiamme per l’imbarazzo. Il cavaliere lo prese baciandole la mano e se lo fissò al polso destro.
<<Il suo nome, mia signora?>> la sua voce la fece sussultare.
<<Ginevra…di Carmelide>> disse, dominando il balbettio, ed una profonda emozione cui non sapeva dare un nome che le faceva battere il cuore all’impazzata.
Lo seguì con lo sguardo mentre prendeva posizione tra gli altri guerrieri, la stoffa chiara che spiccava nel luccichio delle armature.

Immersa nei suoi pensieri, Ginevra a stento udiva le parole di Dorilea mentre le intrecciava i capelli. Da quella mattina il viso del giovane cavaliere era un’immagine fissa nella sua mente e non faceva che chiedersi chi fosse…Sperava ardentemente di poterlo incontrare quella sera, alla tavola di re Uter, e voleva essere perfetta…
<<Sei uno splendore!>> fu l’esclamazione della balia quando ebbe finito.
Le porse un piccolo specchio d’argento e, vedendo il risultato, la principessa ringraziò l’abilità della donna: due trecce sottili partivano dalle tempie e si riunivano sulla nuca, formandone una unica, bloccata alle estremità da due fermagli smaltati. Il resto della chioma scendeva libera lungo il collo, adagiandosi mordila sull’abito rosso intenso che indossava. Dorilea sorrise quando le chiese di portare l’essenza profumata.
<<A cosa devo questo cambiamento?>> le chiese ammiccando.
<<Cambiata? Io? No, affatto…>> tentò di dissimulare la principessa.
La donna rise mentre le portava un’ampollina trasparente. Ginevra lasciò che gliene mettesse alcune gocce, poi si girò di scatto, cercando qualcosa con gli occhi.
<<Dorilea, il monile di mia madre…?>> le chiese con espressione preoccupata.
<<Tranquilla, l’ho conservato io>> la rassicurò, dirigendosi verso l’altro lato della stanza piuttosto ampia che il ciambellano aveva riservato alla giovane per il suo soggiorno nel nuovo castello fatto edificare dal re. Oltre il letto, appoggiato alla parete in pietra chiara, campeggiava un mobile basso ben lavorato su cui erano riposti alcuni cofanetti intarsiati. Dorilea ne aprì uno e le portò il monile, allacciandoglielo al collo.
<<Non vuoi proprio dirmi chi è?>> le chiese, sorridendo maliziosa.
<<Non conosco il suo nome…è il giovane che ha sconfitto uno dei generali del re…>> confessò candidamente, ripensando al combattimento cui quella mattina aveva assistito con trepidazione.
<<Sono felice per te, piccola mia: non sei mai stata così luminosa>> disse Dorilea, posandole un leggero bacio tra i capelli.

<<Leodegranz, vecchio mio, hai una figlia splendida!>> disse re Uter abbracciando il sovrano della Carmelide. Leodegranz ricambiò la stretta e la principessa fece una riverenza al sovrano.
Dalla prima volta in cui l’aveva visto, Ginevra si era sempre chiesta come quell’uomo massiccio e basso, che ora era vestito della porpora regale, potesse infondere così tanto rispetto. Ormai aveva tutti i capelli bianchi e la corona gli cingeva la fronte non più giovane, attraversata da una rete di rughe piuttosto fitta, anche se il suo corpo era ancora prestante.
<<Sì, Uter…Ringrazio la Dea per avermi donato una così bella figlia>> gli rispose, cingendo con un braccio la vita della fanciulla.
<<Non hai ancora lasciato la tua vecchia fede, eh?>> lo canzonò il re. Notando una leggera irritazione nel padre e volendo evitare la discussione che ne sarebbe senz’atro scaturita, Ginevra intervenne.
<<Questo dimostra quanto mio padre tenga in considerazione i giuramenti prestati>> disse.
<<Vecchio mio, tua figlia mi ha messo a tacere!>> esclamò ridendo di gusto il sovrano, non mascherando affatto il suo compiaciuto stupore.
<<Sire, padre, ora però con il vostro permesso mi congederei…>> chiese la principessa con voce dolce ma sicura.
<<Sì, vai piccina: gli affari di stato non sono cose da donne>> le rispose Uter, facendole cenno che poteva allontanarsi.
Mentre si dirigeva verso un gruppo di giovani donne che già avevano preso posto alla lunga tavola che aspettava di essere imbandita, il suo orgoglio di donna messo a tacere per non mancare di rispetto all’uomo più potente dell’isola, Leodegranz la seguì con lo sguardo ed Uter gli diede una pacca sulla spalla.
<<Amico mio, è una piccola regina>> gli disse << Non c’è bisogno che le faccia la guardia! Su, vieni a sederti accanto a me e goditi la serata>>
<<Hai ragione, Uter…>>
I due si avviarono verso l’estremità della tavola dove era stato allestito il seggio per il re di Britannia.

<<Cos’hai Ginevra? Sembri così nervosa!>> le chiese la principessa delle Orcadi, accanto a cui si era seduta.
<<Nulla, Hanna…>> le rispose, continuando a voltarsi ed a scandagliare la sala con occhi inquieti. L’altra ragazza sorrise con espressione complice.
<<Cerchi il giovane di oggi, non è vero? Nemmeno io l’ho visto…forse era stanco>>
Ginevra non le rispose, lo sguardo fisso sull’entrata. Il cuore le batteva così forte che le sembrò sovrastasse l’intenso vociare della sala. Il giovane, vestito di blu notte con l’emblema del drago ricamato sul petto, sembrava cercare qualcuno, i capelli dorati corti che scintillavano ad ogni movimento del capo. Lei fece un cenno con la mano e lui si voltò nella sua direzione, incrociandone gli occhi smeraldini. Le sorrise e si diresse verso di lei, scansando chiunque lo fermasse. Quando le fu accanto, si inginocchiò e prese la mano che gli stava porgendo baciandola.
<<Mia signora Ginevra…>> le disse, quasi ipnotizzandola con i suoi occhi.
Alcuni musici intonarono una ballata allegra ed alcune coppie presero a danzare.
<<Sarebbe osare troppo se ti chiedessi di concedermi l’onore di danzare con te?>>
La sua voce le sembrò la cosa più dolce che avesse mai udito. Si alzò e prese il braccio che lui le offriva e si lasciò condurre nella danza. Ginevra ebbe la sensazione di volare mentre era tra le sue braccia che le cingevano la vita sottile. Si guardarono negli occhi, non riuscendo a trovare parole.
<<Dimmi, Ginevra: appartieni a questo mondo?>>
La principessa lo guardò interrogativa senza dire una parola.
<<Mi sembri una figlia delle fate….non ho mai visto occhi come i tuoi>>
Intorno a loro il resto della sala sembrò scomparire in un informe sfondo di colori senza senso che non lasciava spazio se non per loro due. Ginevra gli sfiorò una gota con la punta delle dita, poi le loro labbra si avvicinarono, incontrandosi in un bacio gentile e soffuso. La fanciulla sentì dentro di sé un’esplosione di emozioni.
Uter diede una gomitata a Leodegranz facendogli cenno nella direzione dei due giovani, sorridente. Il padre di Ginevra si sentì colpire da una fitta di gelosia, ma ben presto la felicità per la figlia la eclissò: ebbe la sensazione che intorno alla coppia aleggiasse un’aura quasi palpabile…
<<RE UTER!>> un soldato coperto di polvere irruppe nella sala, reggendosi a stento in piedi e cercando con gli occhi il sovrano.
<<La cosa…i Sassoni attaccano…>> disse, cadendo in ginocchio e respirando a fatica.
Re uter si alzò di scatto e gli si avvicinò immediatamente, mentre la sala cadde in un silenzio quasi irreale. Ginevra guardò il giovane che la teneva ancora tra le braccia, ma lo sguardo di lui era rivolto al re ed al messaggero.
<<Maledizione…>> disse sottovoce, la fronte ampia corrugata per la preoccupazione.
Quando il sovrano si alzò, lasciando che dell’uomo si occupassero dei servi, il suo viso era una maschera di furore.
<<Tutti gli uomini mi seguano. Domattina le donne saranno riportate a casa: i Sassoni stanno per sbarcare sulla cosa e la guerra è imminente>> disse con voce profonda.