Episodio N. 9
di Nihal


stampa il racconto


di Nihal

stampa il racconto

CAPITOLO V

510 d. C, Piana di Escalot

<<Sei proprio sicuro di voler andare da solo?>> la voce di Eric tradiva una sincera preoccupazione mentre cavalcava al fianco di Selene.
<<Sì, cugino. Ad avalon devo andare da solo>>
I due continuarono ad avanzare fianco a fianco, in silenzio. Eric aveva trovano in Selene, per lui Lancillotto, dapprima un compagno d’armi, poi un fratello cui si era sinceramente affezionato ed ora la Dama del Lago rivoleva suo figlio sulla sua isola. Con quale diritto lo reclamava, dopo averlo allontanato?
La ragazza, dal canto suo, se da un lato desiderava ardentemente ritornare al Tempio, rivedere Lisia e le altre Guardiane con cui era cresciuta, dall’altro l’addolorava dover lasciare la corte di Heron, dove aveva compreso il significato di famiglia. Per quanto Viviana l’amasse come una creatura sua, aveva sempre soffocato i suoi sentimenti nell’aura di Somma Sacerdotessa, severa ed incline al rimprovero. Quando aveva lasciato l’isola, aveva permesso che partisse senza neppure un saluto.
Selene chiuse gli occhi ed ebbe la sensazione di risentire l’abbraccio di Leida prima che montasse a cavallo, forse per non tornare più. Mai come in quel momento sentì sulle spalle il peso opprimente del marchio che portava.
<<Ora torna indietro, Eric. Da qui continuo da solo>> disse dopo aver fermato la cavalcatura ed essersi voltata verso il principe.
L’altro la fissò negli occhi chiari, incerto se accettare la sua decisione, ma la fermezza dei suoi lineamenti lo costrinse a cedere.
<<Torna presto, Lancillotto del Lago>> le disse porgendole una mano in segno di saluto che l’altra prontamente strinse.
<<Possa la tua dea proteggerti>> concluse, voltandosi poi per ripercorrere a ritroso la strada verso il castello.
Selene lo osservò andar via fino a quando non scomparve nella leggera nebbia che offuscava l’alba quella mattina. Sfiorò la spada, come se volesse assorbirne la forza, ed accarezzò il collo del cavallo, avvicinandosi al collo della bestia.
<<Ora, mia cara, corri come il vento>>
Accompagnò le sue parole con un movimento secco delle gambe e la puledra partì al galoppo senza esitare, lanciandosi in una corsa possente, che tuttavia la ragazza sembrava controllare perfettamente. Gioì nel sentire l’aria fredda sferzarle il viso e scomporle i capelli corvini, mentre il mantello blu svolazzava sulle sue spalle. Gli occhi le caddero sulla fibula che lo tratteneva ed ebbe la sensazione che la luna piena incisavi sopra le stesse sorridendo.


510 d. C, Carmelide

<<Che cosa assurda!>> sbottò Ginevra scostando il drappo che chiudeva la reda, una sorta di carro coperto in cui viaggiava assieme alla balia.
<<Sono perfettamente in grado di cavalcare, ma mi tocca rimanere qui come un topo in gabbia>> disse poi.
Dorilea roteò gli occhi rassegnata, non potendo però darle torno. Sebbene fosse vestita ben più semplicemente della principessa, soffriva notevolmente per il caldo ed aveva le gote in fiamme e la fronte imperlata di sudore. Innanzi a lei Ginevra si agitava, inquieta nell’austero abito zafferano che indossava. La donna non l’aveva mai vista così irritabile e facile all’ira come durante quel viaggio: la fanciulla si era giustificata incolpando il caldo e la sua non abitudine ai lunghi viaggi, ma lei la conosceva fin troppo bene per crederle.
Dorilea sapeva perfettamente quali aspettative avesse Leodegranz per il torneo cui si stavano recando e che Ginevra vi si era arresa solo perché, in fondo, l’uomo non voleva che il suo bene.
<<Cara, non vorrai che i tuoi pretendenti ti vedano vestita da uomo e ti scambino per un paggio!>> provò a scherzare, ma la ragazza non rise, degnandola appena di uno sguardo.
<<Non parleresti così se fossi tu ad essere messa in esposizione come una vacca al mercato>> sbottò la principessa.
La donna abbassò lo sguardo non riuscendo a sostenere la rabbia e la frustrazione negli occhi di colei che amava più di una figlia.
<<Ginevra, non ti lascerò sola: stai tranquilla>> le disse poi, trovando il coraggio di posare una mano su quella della giovane.
Ginevra dapprima non reagì, poi si gettò al collo della balia, lasciando che questa le carezzasse i morbidi capelli biondi mentre profondi singhiozzi le attraversavano tutto il corpo.
Dorilea non disse nulla, permettendole di dare fondo a tutte le sue lacrime. Del resto ogni sua parola, per quanto confortante, sarebbe servita a ben poco: la volontà di re Leodegranz di trovarle uno sposo era irremovibile e di certo le opinioni di una sottoposta non sarebbero valse a nulla. la donna ringraziò di aver avuto la possibilità di scegliere, almeno in parte, cosa fare della sua vita e commiserò la ragazza cui questa libertà era negata.


510 d. C, Avalon

Davanti a Selene, ritta sul suo destriero, si stendeva il lago su cui gravava la pesante nebbia perenne che proteggeva ed isolava le Figlie della Dea dal mondo esterno. Scese da cavallo e rimase ad osservare il biancore fluttuante che sbarrava l’accesso a chi non sapesse come schiuderlo, ancora lacerata da gioia e nostalgia. Quella mattina, svegliandosi, aveva deciso di indossare nuovamente, dopo anni, le vesti di Guardiana della Luna ed ora sentiva una leggera tensione sulle spalle e lungo le braccia: sia la corazza argentea che la sottoarmatura le andavano strette.
Accanto a lei la sua puledra raspava il terreno, scuotendo ogni tanto la criniera bianca. Selene esitò ancora, guardando fisso l’elmo che aveva tra le mani. Sfiorò lentamente con la punta delle dita i contorni del paranaso poco accentuato e dei paragnatidi fissi ed appena ornati, soffermandosi poi sulla celata, che amava portare sollevata per non nascondere mai il viso. La ragazza, quasi rinnovata da quel contatto, calzò l’elmo ed intonò poche note, rimanendo poi in attesa.
Non dovette aspettare molto perché due barche, una sacerdotessa che si ergeva sulla prua della più piccola, si avvicinassero alla riva. Sulla prima salì Selene, che lasciò invece che il suo cavallo salisse sulla seconda, affidandolo al giovane druido che vi faceva da timoniere.
“Bentornata a casa” si disse, mentre si allontanavano dalla riva.
Per un po’ la ragazza si sentì avvolgere dalla nebbie e non fece caso all’insistenza dello sguardo della sacerdotessa che l’accompagnava. Rendendosi poi conto di essere osservata, si voltò verso di lei e ne incrociò gli occhi castani profondi e felini. Qualcosa nel suo viso scuro dall’espressione indecifrabile le era profondamente familiare, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare chi fosse né dove l’avesse vista.
<<Ci conosciamo?>> le chiese diretta, stufa del suo silenzio.
<<Tutte le Figlie della Dea si conoscono>> fu la risposta sibillina che ottenne.
Selene inarcò il sopracciglio destro sarcastica e si dovette trattenere per non sbuffare. Eppure la sua voce aveva smosso qualcosa…chiuse gli occhi per meglio concentrarsi e vide se stessa, vestita di pelle di cervo e con le corna dell’animale sul copricapo, seduta vicino ad un piccolo fuoco, mentre l’altra le sussurrava di grandezza e potere.
Aprì immediatamente le palpebre, ma la sacerdotessa era ora ritta sulla prua e le dava le spalle, mentre intonava le parole che avrebbero aperto loro le porte di Avalon. Rispondendo al comando della sua voce, profonda e ferma, la nebbia si dissolse ed il tempio comparve agli occhi di Selene in tutta la sua magnificenza.
“Sì, sono tornata a casa” si disse.
Quando scese dalla piccola imbarcazione incrociò ancora lo sguardo dell’altra e, nel suo sorriso, intravide uno scintillio acuto, quasi maligno, che le trasmise un profondo senso di inquietudine.
<<La Dama ha ordinato che ti conduca prima tra le Guardiane. È impegnata in un rituale di purificazione e non può riceverti>> le disse, sorridendole ancora in quel modo ferino.
“Come se fosse una novità…” pensò Selene facendole cenno di andare avanti lungo il sentiero che portava alla Casa della Dea.
<<Mi dici il tuo nome o devo chiederlo alla Dea?>> disse ironica la Guardiana.
La sacerdotessa non si voltò neppure, continuando a camminare. Selene fece per dire qualcosa, ma l’altra l’anticipò.
<<Morgana>>

<<Viviana?>> la voce di Lisia fece voltare la Somma Sacerdotessa, china su di un quadro astrale.
Alzando gli occhi verdi la fissò, in attesa. Ancora una volta la sacerdotessa si meravigliò di come la Dama del Lago sembrasse immune allo scorrere del tempo. Solo delle rughe appena accennate le segnavano leggermente il contorno degli occhi ed i capelli, un tempo simili a fiamma, avevano perso solo parzialmente l’intensità del loro colore. Eppure aveva superato la soglia dei cinquant’anni.
<<Allora?>> la voce di Viviana la fece tornare presente a se stessa.
<<Selene vorrebbe vederti….è qui da due lune…>>
Il viso della donna parve congelarsi ed assunse una posizione solenne, le vesti azzurre che le conferivano un’aura leggermente incorporea nella luce del primo pomeriggio che illuminava la stanza.
<<Dovrà pazientare ancora. Sono impegnata>> disse secca.
Lisia non seppe trattenersi e sbuffò.
<<Per la Dea, Viviana! È tua figlia, l’hai allattata personalmente e non la vedi da anni, come puoi attendere ancora?>> sbottò esasperata.
La Dama del Lago, dapprima stupita, fu sul punto di reagire irata, ma si rese presto conto di desiderare così tanto di rivedere Selene da averne quasi paura. Sorrise appena.
<<Hai ragione, Lisia…dille che stasera ceneremo insieme nella mia stanza>> concluse, tornando poi a chinarsi sulla pergamena aperta sullo scrittoio.
Lisia, soddisfatta, si inchinò ed uscì dalla stanza, intenzionata a riferire immediatamente alla ragazza della sua vittoria. Dopo poco, da una porta laterale, entrò Morgana, il viso coperto da un velo azzurro ad indicare la sua recente partecipazione ad un rituale.
Viviana alzò appena gli occhi e le sorrise quando l’altra si sollevò la stoffa semitrasparente dal volto. Le notevoli capacita della giovane donna che, quando l’aveva accolta nel tempio era poco più di una ragazza, l’avevano colpita immediatamente, ma c’era sempre, nei suoi occhi, una nota stonata che non sapeva come definire. Di certo, dopo Selene, era l’unica che avrebbe potuto reggere il peso che ora era suo.
<<Dimmi, Morgana>> le disse, dal momento che l’altra non aveva ancora proferito parola.
<<Le novizie hanno superato la prima prova…>> Morgana cominciò a parlare, ma i pensieri della Somma Sacerdotessa erano tutti per Selene.

<<Sai che non è necessario che qui ti vesta da uomo, vero?>>
Al suono della voce di Lisia Selene si voltò verso di lei, posando a terra il rotolo di pergamena che stava leggendo, comodamente appoggiata al tronco di un melo nel frutteto alle spalle del Tempio. La ragazza si guardò i calzoni e la casacca scuri e sorrise facendo spallucce.
<<Ormai è abitudine>> le rispose mentre la donna le si sedeva accanto.
Da quella distanza ravvicinata, la guerriera scoprì nella chioma castana della donna non più giovanissima un’altra striatura di bianco.
<<Cosa leggi?>> le chiese Lisia, prendendo la pergamena da terra. Scosse la testa quando si accorse che era un trattato di strategia militare.
Le scompigliò i capelli corvini con una mano, come faceva quand’era una bambina, e provò una fitta di nostalgia per quella piccola peste che era stata in quegli anni. Ora aveva di fronte una donna forte e sicura di sé, una guerriera….
<<Viviana ti vuole nelle sue stanze questa sera: vuole cenare da sola con te>> le disse, certa di una sua reazione entusiasta.
Il sorriso sul viso di Selene si dissolse in un’espressione ironica.
<<Si è ricordata di me? Sia lode alla Dea…>> disse senza entusiasmo, riprendendo il rotolo dalle mani di Lisia e ricominciando a leggere.
<<Selene…>> la sua voce era di dolce rimprovero. La ragazza scattò in piedi.
<<Selene cosa??>> le disse a voce alta <<Non ho il diritto di essere arrabbiata se la Dama del Lago, “mia madre”, si degna di ricevermi dopo giorni? È stata lei ad ordinarmi di tornare!>> le diede le spalle ed incrociò le braccia.
La sacerdotessa si alzò e le si mise di fronte, guardandola negli occhi e non le sfuggì come la sua espressione dura mascherasse una profonda sofferenza. Le accarezzò il viso e la giovane chiuse gli occhi.
<<Lisia, perché mi hai portata qui?>> le chiese con la voce rotta.
La donna non trovò parole per risponderle, ma l’abbracciò, stringendola forte a sé. Selene non rispose all’abbraccio, ma sentì un dolce tepore mitigarle il dolore.

<<Selene…>> la voce di Viviana esitò mentre la ragazza entrava nella sala, le pareti di pietra illuminate da alcune lampade ad olio.
La Dama del Lago non riusciva a distogliere gli occhi dalla guerriera che aveva di fronte. Nonostante non indossasse né armi né armatura, le sue movenze e la struttura fisica impostata erano indice del ferreo addestramento militare che aveva ricevuto, prima ad Avalon e poi ad Escalot.
Selene si sedette sulla panca all’altro capo della tavola rispetto a dove, invece, sedeva Viviana, limitandosi a fissarla in silenzio. La sacerdotessa era esattamente come la ricordava….
<<Allora, figlia mia, sei stata via a lungo e non hai nulla da dirmi?>> le disse con un sorriso cordiale la donna, mentre una novizia portava un vassoio di pesce.
La ragazza si versò dell’acqua nel calice argenteo e, con calma, bevve, senza staccare gli occhi da quelli della Somma Sacerdotessa.
<<Se sei così interessata, perché mi hai ricevuta solo ora?>> le chiese, asciutta e sarcastica.
<<Ti ricordo che sei tenuta al rispetto delle mie decisioni, spero che il soggiorno ad Escalot non te l’abbia fatto dimenticare>> l’insolenza di Selene l’aveva irritata.
<<Dovresti essere tu a rispettare per prima le tue stesse decisioni: sei tu che mi hai mandata a chiamare, non ho scelto io di tornare>> la guerriera si impose di non urlare, ma i suoi occhi fiammeggiavano.
Viviana non rispose, servendosi del pesce arrostito, imitata dalla giovane. Come poteva darle torto? Se la decisione fosse stata sua, non l’avrebbe mai allontanata… Decise che in quel momento la soluzione migliore era deviare il discorso: l’avrebbero affrontato poi con più calma.
<<Una volta avevi una voce bellissima….ti va di cantare per me?>>
Selene sbatté le palpebre, sorpresa da quella richiesta, lasciando che la sua amarezza si addolcisse un po’.
<<Non ho né cetra né lira…>> disse poi.
La Dama del Lago sorrise e si alzò, dirigendosi verso uno scaffale. Quando tornò aveva tra le mani una lira in legno piuttosto semplice, ma ben tenuta.
<<La riconosci?>> le chiese Viviana.
La giovane rispose con un sorriso mentre prendeva lo strumento che l’altra le stava porgendo e ne saggiò le corde.
<<È stata la mia prima lira…non posso dimenticarla…>> guardò Viviana negli occhi.
<<Cosa vuoi che canti?>> le chiese.
La donna fece spallucce e poggiò il mento sul pugno chiuso, in attesa. La giovane si scostò un po’ dal tavolo ed intonò una ballata eroica che aveva appreso alla corte di Escalot. La Dama del Lago la osservò con attenzione: era diventata una donna, una vera guerriera. Aveva i capelli legati in una coda bassa, ma due ciocche scure le incorniciavano il viso forte e, sebbene fosse vestita da uomo, con calzoni scuri ed una blusa dell’azzurro di Avalon, la bellezza che emanava non aveva paragoni.
Viviana quasi non si accorse quando smise di cantare.
<<Ricordavo bene, allora: la tua voce è stupenda. Sembrerebbe quasi che tu non abbia mai smesso di esercitarla>> si complimentò e le fece cenno di sedersi sulla sua stessa panca. Lasciato lo strumento, la guerriera obbedì e la Dama del Lago le prese le mani tra le sue.
<<Sei una Figlia privilegiata della Dea, Selene…Lei ha preparato per te un grande destino>>
Selene sciolse immediatamente la stretta e sbuffò, alzandosi in piedi, mentre la Somma Sacerdotessa la guardava, basita, darle le spalle.
<<Possibile che tu non conosca altro all’infuori della Dea?>> le chiese, irata, voltandosi verso di lei. Trovandosi di fronte al silenzio della madre adottiva, la giovane sospirò esasperata.
<<Per una volta puoi essere solo mia madre e non la Dama del Lago?>> le chiese, quasi supplicante. Viviana si alzò e l’abbracciò stretta, in silenzio.
<<Hai ragione, figlia mia….Ma non posso permettere che l’istinto materno mi impedisca di farti compiere il tuo destino>> le disse dopo aver sciolto la stretta.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Selene la scostò da sé di scatto, furente.
<<Sono stanca del mio destino: che la Dea li metta in atto da sola i suoi piani! Io ho finito di essere la vostra marionetta!>> sibilò, poi uscì sbattendo la porta senza che Viviana potesse aggiungere alcunché.

<<Cosa stai facendo?>> Lisia entrò nella stanza di Selene mentre questa riponeva le sue cose in alcune sacche. Alla sua domanda non si voltò neppure.
<<Non lo vedi da sola?>> le rispose con voce profondamente venata di rabbia.
Lisia le si avvicinò e la fermò, costringendola a guardarla negli occhi. Il viso di Selene era contratto in un’espressione di sofferente furore.
<<Piccola mia, calmati…>> le disse, provando ad accarezzarla, ma la guerriera si sottrasse a quel contatto, ricominciando a riempire le sue borse. Accanto ad esse, sul letto, campeggiavano la corazza e l’elmo di Guardiana della Luna.
<<Selene, conosci Viviana…cerca di comprenderla>> le disse Lisia con ben poche speranze di riuscire a distoglierla dal suo intento.
Infatti la guerriera, impassibile, indossò la corazza, stringendo da sola le fibbie che gliela fissavano sui fianchi. Si caricò in spalla le due sacche e prese l’elmo, tenendolo sotto il braccio, ed uscì senza dire una parola. La sacerdotessa la seguì lungo il corridoio di pietra che conduceva alle stalle.
<<Selene, ti prego, sii ragionevole>> provò ad insistere. La giovane si voltò verso di lei solo dopo aver sellato il suo cavallo ed avervi fissato la spada.
<<Basta, Lisia: sono stufa di essere ragionevole. Visto che a lei sembra importare solo della Dea, da ora per me non sarà che la Dama del Lago…>> dalla sua voce traspariva amarezza.
<<Non essere così dura con lei: nonostante tutto è tua madre e ti ama più della sua stessa vita!>>
A quelle parole Selene scoppiò in una risata sarcastica, assicurando le borse sul dorso della sua cavalcatura, che raspava la pavimentazione di terra battuta.
<<Lisia, non prendiamoci in giro: non è mai stata mia madre…non più di quanto lo sia stata la mia vera madre…>> le rispose la guerriera, guardandola dritta negli occhi.
La sacerdotessa non seppe cosa risponderle ed abbassò lo sguardo.
<<Se davvero vuoi aiutarmi dimmi chi erano i miei veri genitori>> le disse poi a bruciapelo.
<<Questo potrebbe farti tornare sulle tue posizioni?>>
<<Non credo proprio>> le rispose Selene mentre conduceva fuori il cavallo tenendolo per le briglie.
<<Non puoi andare via di qui senza una sacerdotessa>> Lisia la raggiunse all’esterno mentre l’altra montava a cavallo ed indossava l’elmo.
<<So come schiudere le nebbie. Allora, vuoi dirmi chi sono o no?>> fu la risposta dura che ottenne.
La sacerdotessa voltò la testa, incerta se accettare.
<<Va bene, te lo dirò. Ma solo se lascerai che sia io ad aprire le nebbie: tu non hai esperienza e potresti perderti senza speranza di tornare indietro>>
Selene annuì e le allungò una mano per aiutarla a montare a cavallo dietro di lei. La sacerdotessa si allacciò ai suoi fianchi con le braccia, pregando in cuor suo di aver fatto la scelta giusta. Alle loro spalle, il sole, prossimo al tramonto, dipingeva di un arancione intenso tutto l’orizzonte di basse nuvole.


510 d. C, Camelot

In disparte, Ginevra si tormentava le mani per il nervosismo: era seduta insieme ad altre giovani dame su di un palco allestito appositamente per loro, ma non riusciva a trovare nulla d’interessante in quelle fanciulle, tutte prese nei loro mondi di sete e broccati. Senza contare le occhiate di pura invidia che le lanciavano ogni volta che rifiutava con formale cortesia le attenzioni dei cavalieri partecipanti al torneo. Non si erano affatto preoccupate di mascherarle il loro astio né di non farle ascoltare i loro commenti velenosi, ma non le importava minimamente: non era lì per mostrarsi amabile.
Era la terza giornata di giochi e ne aveva abbastanza di duelli e cavalieri: voleva tornare a casa. Ogni notte pregava perché nessuno si facesse avanti con suo padre per la sua mano e fino ad allora, forse anche grazie al suo atteggiamento freddo ed apparentemente scostante, le sue preghiere erano state esaudite ed era riuscita a scansarsi con abilità da scomodi e presuntuosi pretendenti. Guardò distrattamente la fila di duellanti che stava sfilando di fronte al palco dove sedeva: le sembravano tutti uguali, altezzosi nelle loro luccicanti armature.
Sotto la luce del sole di quella mattinata di primavera la piana alle spalle della nuova sede di re Uter riluceva di riflessi metallici delle armi e dei colori sgargianti degli abiti e degli stendardi. Per quella giornata Ginevra aveva scelto un abito semplice di un verde tenue che tendeva all’azzurro ed aveva indossato un monile d’argento e perle che era stato di sua madre, mentre i capelli sciolti le coprivano buona parte della schiena come una cascata di fili d’oro.
Una leggera gomitata la fece voltare alla sua destra verso una delle figlie del re delle isole Orcadi, una ragazza gaia con il viso chiazzato di lentiggini ed i capelli così chiari da sembrare bianchi.
<<Quel cavaliere laggiù ti sta fissando…>> le disse con un risolino.
Ginevra seguì la direzione che le indicava ed incontrò gli occhi azzurri di un giovane combattente. Lei non abbassò lo sguardo e lui sollevò la celata dell’elmo, mostrando un bel viso dai tratti gentili, il mento contornato da un sottile pizzetto dorato. Le fece un corte cenno di saluto e si avvicinò al palco, inginocchiandosi nella sua direzione. Per quanto si sforzasse, Ginevra non riusciva a staccare gli occhi da quel giovane.
<<I miei omaggi>> le disse con voce salda, poi sollevò lo sguardo per incontrare quello di lei. <<Chiedo di poterla onorare combattendo in suo nome>>
Sorpresa da quella richiesta Ginevra annuì e lui le sorrise ancora. La principessa rimase immobile mentre lui si alzava ed attendeva di fronte a lei.
<<Devi dargli qualcosa di tuo!>> le sussurrò la principessa delle Orcadi.
Non sapendo cosa potesse donargli, si sfilò dalla manica un piccolo fazzoletto e glielo porse, le gote in fiamme per l’imbarazzo. Il cavaliere lo prese baciandole la mano e se lo fissò al polso destro.
<<Il suo nome, mia signora?>> la sua voce la fece sussultare.
<<Ginevra…di Carmelide>> disse, dominando il balbettio, ed una profonda emozione cui non sapeva dare un nome che le faceva battere il cuore all’impazzata.
Lo seguì con lo sguardo mentre prendeva posizione tra gli altri guerrieri, la stoffa chiara che spiccava nel luccichio delle armature.

Immersa nei suoi pensieri, Ginevra a stento udiva le parole di Dorilea mentre le intrecciava i capelli. Da quella mattina il viso del giovane cavaliere era un’immagine fissa nella sua mente e non faceva che chiedersi chi fosse…Sperava ardentemente di poterlo incontrare quella sera, alla tavola di re Uter, e voleva essere perfetta…
<<Sei uno splendore!>> fu l’esclamazione della balia quando ebbe finito.
Le porse un piccolo specchio d’argento e, vedendo il risultato, la principessa ringraziò l’abilità della donna: due trecce sottili partivano dalle tempie e si riunivano sulla nuca, formandone una unica, bloccata alle estremità da due fermagli smaltati. Il resto della chioma scendeva libera lungo il collo, adagiandosi mordila sull’abito rosso intenso che indossava. Dorilea sorrise quando le chiese di portare l’essenza profumata.
<<A cosa devo questo cambiamento?>> le chiese ammiccando.
<<Cambiata? Io? No, affatto…>> tentò di dissimulare la principessa.
La donna rise mentre le portava un’ampollina trasparente. Ginevra lasciò che gliene mettesse alcune gocce, poi si girò di scatto, cercando qualcosa con gli occhi.
<<Dorilea, il monile di mia madre…?>> le chiese con espressione preoccupata.
<<Tranquilla, l’ho conservato io>> la rassicurò, dirigendosi verso l’altro lato della stanza piuttosto ampia che il ciambellano aveva riservato alla giovane per il suo soggiorno nel nuovo castello fatto edificare dal re. Oltre il letto, appoggiato alla parete in pietra chiara, campeggiava un mobile basso ben lavorato su cui erano riposti alcuni cofanetti intarsiati. Dorilea ne aprì uno e le portò il monile, allacciandoglielo al collo.
<<Non vuoi proprio dirmi chi è?>> le chiese, sorridendo maliziosa.
<<Non conosco il suo nome…è il giovane che ha sconfitto uno dei generali del re…>> confessò candidamente, ripensando al combattimento cui quella mattina aveva assistito con trepidazione.
<<Sono felice per te, piccola mia: non sei mai stata così luminosa>> disse Dorilea, posandole un leggero bacio tra i capelli.

<<Leodegranz, vecchio mio, hai una figlia splendida!>> disse re Uter abbracciando il sovrano della Carmelide. Leodegranz ricambiò la stretta e la principessa fece una riverenza al sovrano.
Dalla prima volta in cui l’aveva visto, Ginevra si era sempre chiesta come quell’uomo massiccio e basso, che ora era vestito della porpora regale, potesse infondere così tanto rispetto. Ormai aveva tutti i capelli bianchi e la corona gli cingeva la fronte non più giovane, attraversata da una rete di rughe piuttosto fitta, anche se il suo corpo era ancora prestante.
<<Sì, Uter…Ringrazio la Dea per avermi donato una così bella figlia>> gli rispose, cingendo con un braccio la vita della fanciulla.
<<Non hai ancora lasciato la tua vecchia fede, eh?>> lo canzonò il re. Notando una leggera irritazione nel padre e volendo evitare la discussione che ne sarebbe senz’atro scaturita, Ginevra intervenne.
<<Questo dimostra quanto mio padre tenga in considerazione i giuramenti prestati>> disse.
<<Vecchio mio, tua figlia mi ha messo a tacere!>> esclamò ridendo di gusto il sovrano, non mascherando affatto il suo compiaciuto stupore.
<<Sire, padre, ora però con il vostro permesso mi congederei…>> chiese la principessa con voce dolce ma sicura.
<<Sì, vai piccina: gli affari di stato non sono cose da donne>> le rispose Uter, facendole cenno che poteva allontanarsi.
Mentre si dirigeva verso un gruppo di giovani donne che già avevano preso posto alla lunga tavola che aspettava di essere imbandita, il suo orgoglio di donna messo a tacere per non mancare di rispetto all’uomo più potente dell’isola, Leodegranz la seguì con lo sguardo ed Uter gli diede una pacca sulla spalla.
<<Amico mio, è una piccola regina>> gli disse << Non c’è bisogno che le faccia la guardia! Su, vieni a sederti accanto a me e goditi la serata>>
<<Hai ragione, Uter…>>
I due si avviarono verso l’estremità della tavola dove era stato allestito il seggio per il re di Britannia.

<<Cos’hai Ginevra? Sembri così nervosa!>> le chiese la principessa delle Orcadi, accanto a cui si era seduta.
<<Nulla, Hanna…>> le rispose, continuando a voltarsi ed a scandagliare la sala con occhi inquieti. L’altra ragazza sorrise con espressione complice.
<<Cerchi il giovane di oggi, non è vero? Nemmeno io l’ho visto…forse era stanco>>
Ginevra non le rispose, lo sguardo fisso sull’entrata. Il cuore le batteva così forte che le sembrò sovrastasse l’intenso vociare della sala. Il giovane, vestito di blu notte con l’emblema del drago ricamato sul petto, sembrava cercare qualcuno, i capelli dorati corti che scintillavano ad ogni movimento del capo. Lei fece un cenno con la mano e lui si voltò nella sua direzione, incrociandone gli occhi smeraldini. Le sorrise e si diresse verso di lei, scansando chiunque lo fermasse. Quando le fu accanto, si inginocchiò e prese la mano che gli stava porgendo baciandola.
<<Mia signora Ginevra…>> le disse, quasi ipnotizzandola con i suoi occhi.
Alcuni musici intonarono una ballata allegra ed alcune coppie presero a danzare.
<<Sarebbe osare troppo se ti chiedessi di concedermi l’onore di danzare con te?>>
La sua voce le sembrò la cosa più dolce che avesse mai udito. Si alzò e prese il braccio che lui le offriva e si lasciò condurre nella danza. Ginevra ebbe la sensazione di volare mentre era tra le sue braccia che le cingevano la vita sottile. Si guardarono negli occhi, non riuscendo a trovare parole.
<<Dimmi, Ginevra: appartieni a questo mondo?>>
La principessa lo guardò interrogativa senza dire una parola.
<<Mi sembri una figlia delle fate….non ho mai visto occhi come i tuoi>>
Intorno a loro il resto della sala sembrò scomparire in un informe sfondo di colori senza senso che non lasciava spazio se non per loro due. Ginevra gli sfiorò una gota con la punta delle dita, poi le loro labbra si avvicinarono, incontrandosi in un bacio gentile e soffuso. La fanciulla sentì dentro di sé un’esplosione di emozioni.
Uter diede una gomitata a Leodegranz facendogli cenno nella direzione dei due giovani, sorridente. Il padre di Ginevra si sentì colpire da una fitta di gelosia, ma ben presto la felicità per la figlia la eclissò: ebbe la sensazione che intorno alla coppia aleggiasse un’aura quasi palpabile…
<<RE UTER!>> un soldato coperto di polvere irruppe nella sala, reggendosi a stento in piedi e cercando con gli occhi il sovrano.
<<La cosa…i Sassoni attaccano…>> disse, cadendo in ginocchio e respirando a fatica.
Re uter si alzò di scatto e gli si avvicinò immediatamente, mentre la sala cadde in un silenzio quasi irreale. Ginevra guardò il giovane che la teneva ancora tra le braccia, ma lo sguardo di lui era rivolto al re ed al messaggero.
<<Maledizione…>> disse sottovoce, la fronte ampia corrugata per la preoccupazione.
Quando il sovrano si alzò, lasciando che dell’uomo si occupassero dei servi, il suo viso era una maschera di furore.
<<Tutti gli uomini mi seguano. Domattina le donne saranno riportate a casa: i Sassoni stanno per sbarcare sulla cosa e la guerra è imminente>> disse con voce profonda.

CAPITOLO VI

510 d. C, Escalot

<<Lancillotto!>>
Non appena Eric vide il cugino varcare la soglia della sala, gli andò incontro e l’abbracciò, lieto che avesse fatto ritorno. Selene lo ricambiò, inchinandosi poi a re Heron.
<<Non immaginavo saresti tornato…Almeno non così presto!>> le disse il sovrano.
<<Non avresti potuto scegliere momento peggiore>> gli fece eco il figlio, corrucciato.
La guerriera li guardò entrambi negli occhi, temendo che i suoi timori fossero fondati. Non appena era giunta nei pressi di Escalot aveva notato manipoli di uomini armati con il vessillo di re Heron che si allontanavano in assetto da guerra. Vedendo che nessuno dei due parlava, si risolse a chiedere.
<<Cosa sta accadendo?>> si sforzò di mantenere un tono neutrale.
<<Ancora i Sassoni…Minacciano la costa orientale>> fu la mesta risposta di Eric, che le indicò un punto della mappa che campeggiava sul tavolo cui erano seduti lui ed il padre prima del suo arrivo.
Selene si avvicinò e lo ascoltò spiegare come re Uter aveva ordinato di organizzare la difesa. Annuì greve: la strategia era buona, ma le forze scarseggiavano ed era necessario che tutti quelli che erano in grado di combattere partecipassero alla spedizione, nobili compresi.
<<Fra tre giorni partiremo anche noi con l’ultima delle nostre coorti. Abbiamo atteso per dare disposizioni alle guardie del castello nel caso non fosse possibile arrestare i Sassoni. Sarai dei nostri?>> le chiese il cugino, mentre re Heron la osservava con sguardo penetrante.
All’idea della guerra imminente, nonostante tutto ciò che questa avrebbe comportato, il cuore della guerriera ebbe un guizzo di felicità che non seppe spiegarsi, ma che mascherò con abilità.
<<Se speravi che ti avrei lasciato tutta la gloria, mettiti l’animo in pace: non mi sono addestrato per anni solo per giocare>> rispose sorridendo.
I tre risero di gusto, allentando notevolmente la tensione palpabile che si era creata, per poi tornare a discorrere di strategia: l’intervento di Lancillotto sarebbe stato un apporto più che valido.


511 d. C, Costa orientale

Stringendo forte una benda, Selene sperò che il braccio ferito del soldato che stava bendando non prendesse infezione o avrebbe dovuto amputarlo. Quando non era impegnata nei combattimenti, aiutava sacerdoti e cerusici a curare i feriti, grazie alle conoscenze che aveva appreso ad Avalon. Purtroppo lì, lungo la costa ed in quel ricovero improvvisato, una grossa tenda d’accampamento al cui interno erano ammassati dei giacigli di paglia ben poco confortevoli, non sempre era stata nelle condizione di salvare delle vite.
Si sedette a terra e poggiò stancamente la testa ad uno dei pali che sostenevano la tenda, chiudendo gli occhi. Dalla schermaglia con le avanguardie sassoni di quella mattina non aveva avuto un istante di tregua ed indossava ancora l’armatura pesante. Aveva tolto solo i guanti ferrati e l’elmo, che giacevano abbandonati in un angolo, sporchi di sangue e terra come tutte le cose che si trovavano in quel luogo. Intorno a lei i gemiti dei feriti e dei moribondi facevano da sottofondo ai suoi pensieri. Senza far rumore Eric le si sedette accanto, anche lui in assetto da combattimento.
<<Cugino…>> lo salutò Selene senza aprire gli occhi. <<Heron è in Consiglio?>> gli chiese.
<<Già…posso farti una domanda?>> la voce del giovane era arrochita e bassa.
Lei aprì gli occhi e lo guardò, in attesa.
<<Dove trovi il tempo di rasarti sempre così bene?>> le sorrise, ricevendo per tutta risposta una spallata.
<<Dove trovi la forza di scherzare?>> gli chiese di rimando, felice che almeno lui riuscisse a non farsi permeare dalla morte che aleggiava in quel luogo e che le sembrava ormai la accompagnasse ad ogni passo.
Delle urla concitate si levarono improvvise, facendoli scattare immediatamente in piedi. In pochi istanti Eric fu fuori e Selene lo seguì a ruota mentre si infilava guanti ed elmo. Quello che videro li fece imprecare: un manipolo nutrito di Sassoni, due o tre coorti, era riuscito ad entrare nel loro accampamento, violando la tregua, ed ora seminava morte, senza che nessuno riuscisse ad organizzare una difesa che li fermasse.
<<Eric, vai ad avvisare il Consiglio! Corri!>> gli intimò Selene, abbassando la celata dell’elmo e sfoderando la spada. Il principe non ebbe il tempo di obiettare che era già montata sul primo cavallo e si dirigeva verso i nemici in avanzata.
Urlando con quanto fiato aveva in gola, si gettò a capofitto sulla prima fila di fanti sassoni, roteando la spada con precisione mortale: non c’era colpo che andasse a vuoto o che non riuscisse a ferire. Sull’onda del suo coraggio e seguendo gli ordini che impartiva, i soldati alleati riuscirono a disporsi in formazione ed ad offrire al nemico un fronte coeso.
Nella mente di Selene si era creato il vuoto: non esisteva nulla al di fuori della sua spada e dei nemici da colpire. Il suo braccio si muoveva con precisione, falciando vittime senza scampo, ed alla fine riuscì ad aprire un varco nella prima linea. Aveva perso il conto di quanti uomini avesse ucciso e cominciava a sentire il peso dell’armatura che la ostacolava nei movimenti quando le trombe della cavalleria irruppero nell’aria assieme al galoppo dei cavalli.
Si voltò un attimo e vide un’unità, in formazione a cuneo, che si avvicinava per darle manforte, ma questa distrazione non le permise di vedere l’ascia che si dirigeva alla gola del suo cavallo, abbattendolo. Si ritrovò a terra, una confusione di corpi vivi e morti che le impediva di rialzarsi. Si sentì sollevare di peso e riconobbe l’armatura di Eric. Gli fece un cenno d’intesa e ripresero a combattere, fianco a fianco, più letali di una macchina da guerra.
Per quanto non fossero così numerosi, quei Sassoni combattevano con la forza della disperazione e si stavano dimostrando poco intenzionati a cedere, nonostante stessero per essere sovrastati. Trapassando carni e corazze, Selene avanzò ancora, coperta di sangue e polvere, e nella mischia perse di vista Eric. Lasciando alle sue spalle solo una scia di cadaveri procedette ancora, anche se a fatica, e quasi non si accorse di essere accerchiata solo da nemici.
<<Lancillotto, attento!>> l’urlo del cugino le fece evitare il fendente di un’ascia che stava calando su di lei. Si voltò e conficcò la spada nel ventre dell’assalitore, trapassando il cuoio conciato che lo proteggeva come se niente fosse.
Uno scintillio metallico al limite del suo campo visivo attirò il suo sguardo e vide un cavaliere a terra che lottava disperatamente contro tre nemici. Si avvicinò e, presone uno per i capelli, gli tranciò la gola. Colpì poi il secondo in pieno viso con il pungo chiuso, facendolo indietreggiare abbastanza per poterlo ferire gravemente alla gamba. Il cavaliere, che nel frattempo aveva perso l’elmo, teneva testa a stento all’ultimo assalitore per una profonda ferita che questo gli aveva inferto al braccio destro. Selene balzò sul Sassone come una furia e, strappatagli la mazza ferrata dalle mani, la usò per colpirlo alla testa, sfondando elmo e cranio in un sol colpo. Affannata si voltò verso il cavaliere e lo riconobbe: era il giovane biondo che spesso sedeva alla destra di Uter, il suo protetto.
<<Forza amico: stringi i denti e cerca di tamponare la ferita. Ne avrai di tempo per morire>> gli disse, difendendolo a denti stretti.
Si fermò solo quando intorno a loro non ci furono che cadaveri. Le urla di gioia degli altri soldati le fecero capire che erano riusciti a fermare l’avanzata sassone, ma non si rilassò. Rinfoderata la spada ancora grondante di sangue, chiamò Eric perché la aiutasse a portare il cavaliere ferito nella tenda dove sarebbe stato curato. Il cugino accorse immediatamente e, messosi ciascuno un braccio del giovane intorno al collo, si diressero al ricovero. Sapendo quanto fosse importante che rimanesse sveglio, Selene, sollevata la celata per scoprire il viso, cominciò a parlargli.
<<Qual è il tuo nome?>> gli chiese, vedendo che stentava a tenere aperti gli occhi azzurri, molto simili ai suoi.
<<Artù…>> biascicò trascinando i piedi.
<<Bene, Artù, io sono Lancillotto del Lago>> gli rispose, notando però con preoccupazione che i capelli biondi dell’altro erano macchiati dal sangue che sgorgava da una ferita sulla testa
Non appena furono entrati nella tenda, lo fece sdraiare su di un giaciglio ed ordinò che le portassero acqua e bende pulite.
<<Eric, metti ad arroventare questo pugnale>> disse al cugino, porgendogli l’arma.
Il ragazzo annuì e si allontanò. Toltasi i guanti ferrati, Selene lavò la ferita alla testa e ringraziò che fosse solo superficiale, poi gli sfilò dal braccio le protezione metalliche squarciate, scoprendo un taglio slabbrato e sanguinante. Imprecò e ripulì la ferita alla meglio.
<<Del vino, presto!>> ordinò, tentando di fermare l’emorragia.
Non appena le fu portato un piccolo otre, ne versò il contenuto sulla ferita ed Artù urlò, ma lo tenne fermo. Eric la raggiunse, la lama arroventata tra le mani. Selene, notando che era piuttosto cosciente, fece un rotolo con una benda e gliela mise tra i denti.
<<Stringi questo>> gli disse, poi appoggiò il pugnale sulla ferita ed un acre odore di carne bruciata riempì l’aria.
Eric si scostò, disgustato, ma lei rimase immobile, un’espressione concentrata sul viso. Artù si contorceva per il dolore, ma lei non desistette e ripeté l’operazione. Quando vide che la ferita era cauterizzata completamente, versò dell’altro vino e la fasciò, senza che il cavaliere, svenuto, opponesse alcuna resistenza. I passi alle sue spalle le fecero capire che stavano portando altri feriti e, preso un profondo respiro, andò loro incontro, ignorando le parole di Eric, che tentava di convincerla a riposare.


513 d. C, Carmelide

Scendendo da cavallo, Ginevra si sistemò la gonna in modo che nascondesse le brache da uomo che indossava, imitata dalla sorella minore, che la seguiva a poca distanza. L’autunno era ormai alle porte, ma quella mattina sembrava di essere ancora in piena primavera, con il cielo terso ed un sole tiepido. Re Leodegranz era a Camelot, da dove dirigeva l’approvvigionamento delle truppe che combattevano ormai da tre anni. Re Uter gli aveva impedito di prender parte alla guerra perché non aveva eredi maschi cui avrebbe potuto lasciare il trono, ma Leodegranz non aveva accettato di essere messo da parte e si era offerto di garantire tutto il necessario all’esercito. Erano mesi ormai che non tornava a casa.
Mentre legava le briglie delle due cavalcature ad una quercia solitaria, seguì con lo sguardo Eilan che si avvicinava al piccolo stagno scintillante: quell’inverno avrebbe compiuto quindici anni, eppure le sembrava ieri che quella fulva bambina saltellante avesse fatto irruzione mentre lei era con il suo precettore, attirandosi le ire dell’anziano. Sorrise e la raggiunse, sedendosi a poca distanza dalla riva, incurante che si sarebbe sporcata gli abiti chiari con l’erba verde. Chiuse gli occhi e nella sua mente fece capolino il giovane che aveva conosciuto a Camelot, Artù…
Un’ondata di tristezza la colse impreparata e non riuscì a trattenere una lacrima, che le corse lungo la gota. Una mano gentile gliela asciugò e Ginevra sorrise alla sorella senza aprire gli occhi.
<<Stai tranquilla: tornerà>> le disse Eilan, sedendosi accanto a lei e poggiandole il capo sulla spalla.
“Me l’ha promesso” pensò la principessa, mentre rivedeva l’amato giurar che neppure i Sassoni gli avrebbero impedito di chiedere la sua mano e che, una volta ricacciati in mare, sarebbe corso da lei.
<<Sì, tornerà>> rispose poi alla sorella, pregando che le sue parole fossero veritiere.
Rimasero così per un po’, in silenzio, a godersi il piacevole tepore del sole sulla pelle e la delicata carezza di un vento leggero che aveva cominciato a soffiare.
<<Sono proprio curiosa di conoscere questo Artù>> le disse Eilan, destandola dallo stato di tepore in cui si era lasciata andare ed aprì gli occhi, mentre la sorella, con le mani a coppa, beveva un po’ d’acqua.
<<Il cavaliere che ha fatto breccia nel cuore di Ginevra!>> la canzonò, imitando con voluta goffaggine le movenze di un guerriero. La sorella maggiore rise.
<<Ma smettila!>> le rispose, avvicinandosi poi anche lei allo stagno per bere.
Si inginocchiò e, reggendosi con una mano al piccolo argine, era sul punto di immergere l’altra nell’acqua quando il riflesso che la superficie liquida le rimandò la lasciò senza fiato. Due profondi occhi cerulei la fissavano, indagatori, ed ebbe la sensazione che le scrutassero l’anima. Pensò ad Artù, ma quello sguardo, così inquieto ed impenetrabile, non poteva essere il suo…Si avvicinò ancora, come se volesse raggiungerli, ma si fermò di scatto, la mente occupata da un ricordo familiare, ma che non le apparteneva.
Quegli stessi occhi la fissavano, lucidi, ad un soffio dal suo viso.
<<Se avessi solo trenta secondi di vita, vorrei viverli in questo modo: guardandoti negli occhi. Ricorda sempre che ti voglio bene>> una voce calda ed appena incerta la avvolse. Aveva paura, paura di perdere una parte importante di se stessa, la migliore…
Ginevra chiuse le palpebre, per cercare di visualizzare altri dettagli di quel viso che era riuscita appena ad intravedere, ma si sentì tirare all’indietro. Si girò verso Eilan, che la guardava con evidente preoccupazione.
<<Stavi cadendo in acqua!>> le disse, la voce e l’espressione carichi di apprensione, ma l’altra continuò a fissarla come inebetita.
<<Ginevra, stai bene?>>
Mai come in quel momento il suo nome le sembrò estraneo…
Eilan, inginocchiata accanto a lei, la teneva per mano, la preoccupazione aumentata dalla sua reazione. La principessa scosse la testa, facendo brillare i lunghi capelli biondi intrecciati, e tentò di scacciare quelle immagini.
<<Sì, sto bene. Ho solo avuto un mancamento>> rispose alla ragazza che la guardava ancora in ansia. Le sorrise per rassicurarla, ma non era affatto sicura di esser riuscita nel suo intento.
<<Forse è meglio se ritorniamo al castello…>> propose Eilan, non del tutto convinta dalle parole della sorella maggiore.
<<Sì, hai ragione. È meglio se torniamo a casa>> rispose Ginevra, alzandosi con un po’ di fatica, ma senza perdere l’equilibrio, e si diressero verso le cavalcature.
Mentre rientravano procedendo al piccolo trotto, la principessa non riusciva a fare a meno di ripensare a quegli occhi ed a quella voce…Avevano aperto a lei un varco dal quale sembravano fuoriuscire emozioni sopite che la facevano sentire un’estranea ai suoi stessi occhi.
“Basta, Ginevra! Smettila con queste sciocchezze!” si rimproverò, cercando di tenere la mente concentrata sul castello che si stagliava, sempre più vicino, di fronte a loro.


513 d. C, Costa orientale

<<Speriamo di riuscire a ricacciarli finalmente in mare, quei maledetti…>> disse Artù, gettandosi pesantemente sul basso giaciglio nella tenda di Lancillotto, con cui era appena giunto dal Consiglio di Guerra.
L’altro cavaliere, nel frattempo, aveva cominciato a togliersi l’armatura, dandogli le spalle, fino a rimanere con indosso sugli abiti solo la leggera cotta di maglia.
<<Il piano di re Uter per questa notte non è male>> gli rispose poi, sedendogli accanto con la spada sguainata tra le mani per lucidarla. Artù lo guardò sorpreso.
<<Non è male? Lancillotto, mi faresti il piacere una volta tanto di essere un po’ ottimista? È un piano geniale!>> esclamò guardandolo negli occhi cerulei sempre così freddi.
<<Non è affatto geniale, Artù. Ha un punto debole non indifferente: se non dovesse funzionare, non avremmo scampo>> fu la risposta cruda che ottenne.
<<Funzionerà>> controbatté, fiducioso, il giovane uomo biondo. Selene lo guardò sorridendo ironicamente e fece spallucce.
<<Spero che tu abbia ragione…>> gli disse poi, cominciando a lucidare il piatto della lama con uno straccio imbevuto di un particolare unguento.
Artù si alzò, camminando nella piccola tenda e notando come tutto fosse perfettamente in ordine: al palo centrale erano fissate un arco e due lance, su di un tavolo piuttosto grezzo erano poggiate le parti della sua armatura e lungo una delle pareti di stoffa, di cui ormai non era più possibile stabilire il colore originale, erano ordinate le sue borse.
<<Fino alla fine la farai diventare trasparente!>> esclamò il giovane, canzonando la cura con cui la guerriera stava ripulendo la sua arma. Selene alzò gli occhi verso di lui.
<<Vedremo cosa ne farai del tuo sarcasmo quando la tua spada sarà inservibile perché trascurata>> gli disse di rimando, riabbassando lo sguardo sul suo lavoro.
Stava seguendo il filo perfettamente forgiato con l’indice sinistro quando il riflesso che la superficie metallica le rimandò la fece fermare di scatto. Due occhi verdi, grandi e gentili, la fissavano attraverso l’acciaio, intimoriti ma curiosi. Sbatté più volte le palpebre, ma l’immagine era sempre lì…La voce di Artù la strappò da quello sguardo così limpido e puro.
<<Dovresti trovare una fanciulla da sposare, amico mio. Mi preoccupa vederti così premuroso nei confronti di quella spada!>>
Nella mente di Selene, intorno a quegli occhi, cominciarono ad emergere i lineamenti di un viso, ma, per quanto si sforzasse, non riuscì ad ottenere un’immagine completa. Tuttavia avvertiva un netto legame con quella giovane fanciulla che aveva appena intravisto, quasi come se appartenesse ad un passato di cui non aveva più memoria.
<<Quando finirà questa guerra>> proseguì Artù <<sarei felicissimo di vederti al mio matrimonio!>>
Tornando presente a se stessa, la guerriera lo guardò con espressione ironica, il sopracciglio destro inarcato e le labbra increspate in un sorriso sferzante.
<<Sarà meglio di no, amico mio. Non vorrai che la tua sposa ti abbandoni prima ancora di sposarti>> gli rispose, ignorando con forza la sensazione di premonizione che le sue stesse parole avevano provocato.
“Smettila, Selene! Il tempo di Avalon e dei suoi presagi è finito!” si rimproverò, mentre l’altro cavaliere rideva di gusto.

Quella notte l’esercito guidato da Uter in persona, scagliò una possente offensiva contro l’accampamento sassone, cogliendo i nemici di sorpresa, mentre il sole era ancora ben lontano dall’alba. Il mio amato Artù, come egli stesso mi raccontò, con Lancillotto erano alla testa di due reparti di cavalleria e li guidarono con tale impeto che le linee su cui si scagliarono non ressero l’impatto, sgretolandosi in più punti, così che la fanteria poté avanzare senza incontrare resistenza.
Lo scontro durò a lungo: i Sassoni, compresa l’impossibilità di ottenere la vittoria contro un tale dispiegamento di forza, erano intenzionati a trascinare con loro nella morte quanti più nemici fosse loro possibile. Solo quando il sole cominciò ad emergere dal mare, schiarendo il basso orizzonte con i suoi raggi, le schiere al comando di Uter poterono esultare per la vittoria. Lo stesso sovrano, che aveva combattuto fieramente in prima linea, fu portato in trionfo a spalla dai giovani comandanti della cavalleria, cui si unirono gli stessi Artù e Lancillotto. Nessuno si accorse, però, del pallore del re di Britannia, né della ferita di freccia che gli faceva sanguinare lentamente la spalla destra.
La gioia dell’esercito non durò a lungo: quella stessa notte, nonostante le cure infaticabili di Lancillotto e le preghiere dei seguaci di Belur, cui il sovrano apparteneva, non fu possibile salvargli la vita. Sul letto di morte, ebbe appena il tempo di designare Artù come suo erede, in quanto suo figlio legittimo primogenito, di cui aveva nascosto l’identità per preservarlo dai pericoli. Artù si trovò quindi catapultato in una realtà cui non avrebbe mai osato aspirare, ma ebbe la forza di non mostrare i suoi dubbi. L’esercito, cavalleria in testa, lo acclamò come comandante supremo dopo che furono celebrate le esequie del padre: al suo fianco Lancillotto era una presenza costante su cui sapeva di poter contare. Tant’è che, non appena rientrarono a Camelot, volle che fosse lui il suo ambasciatore presso tutti i re fedeli a suo padre, affinché prestassero lo stesso giuramento anche a lui.
Quando seppi che mio padre stava giungendo con il nuovo re di Britannia, non avrei mai immaginato che fosse il mio Artù…Vederlo avanzare ritto in sella ad un purosangue bianco, la corazza da parata con inciso l’emblema del drago sul petto ed una sottile corona d’oro che gli cingeva il capo, mi fece fermare il cuore: quasi non mi accorsi che mi stava correndo incontro fino a quando non mi strinse tra le braccia.
I preparativi delle nozze furono febbrili, ma li trascorsi in uno stato di sogno estatico: vedevo Dorilea correre affannata da una parte all’altra del castello, sempre in tensione e mi divertiva vedere le sue reazioni di fronte al mio atteggiamento inspiegabilmente calmo. In quel periodo Artù non fu molto presente, preso com’era dalle nuove incombenze che gli spettavano come sovrano, ma lo sentivo ugualmente accanto a me, quasi come se talvolta potessi ascoltare i suoi pensieri. La data fu fissata dai sacerdoti druidici, nel rispetto della religione antica della Britannia, mentre decidemmo che il rito venisse celebrato congiuntamente ai ministri di Belur, che ormai si stavano imponendo nelle coscienze di molti.
Quella mattina splendeva un pallido sole invernale ed il cielo era di un azzurro così tenue da sembrare bianco. Inutile dire come Dorilea fosse in fibrillazione: mi vestì con mani tremanti e la voce resa acuta dall’ansia. L’abito che indossavo, tessuto con un broccato bianco, mi fasciava perfettamente il busto, il corpetto stretto sulla schiena da un nastro di seta, mentre si apriva in una gonna appena più ampia, rifinita con fili d’oro e d’argento. Avevo insistito per indossare il velo di mia madre, che mi scendeva fino al seno a coprirmi il viso, tenuto fermo sui capelli da una sottile corona con un motivo floreale a rilievo.
Avanzai al braccio di mio padre lungo la navata centrale del tempio, alla cui fine mi attendeva, inginocchiato e con la corona sul capo, il mio sposo, vestito della porpora regale. Venni incoronata regina di Britannia e, voltandomi verso la folla, stretta al braccio di Artù, vidi mio padre piangere di gioia…Credetti che non avrei mai potuto vivere giorni più felici!
Il banchetto che seguì fu degno di un imperatore di Roma e ricevemmo doni dei più preziosi. Mio padre donò ad Artù un’ampia tavola circolare, come egli stesso aveva richiesto, fatta in legno massiccio, alla quale potesse sedere da pari con i sovrani ed i cavalieri del suo Consiglio, che si andava ancora formando, anche se già quel giorno furono pochi e seggi che rimasero vacanti, in particolare quello alla destra di Artù stesso. Quando chiesi al mio sposo a chi fosse riservato, mi rispose che era per il cavaliere più grande che avesse mai conosciuto ed il suo amico più fidato. Seppi poi che si trattava del nipote del sovrano di Escalot e che in quei giorni era impegnato come suo ambasciatore nelle zone più remote della Britannia.
Trascorremmo i mesi successivi ricevendo le delegazioni delle corti che Lancillotto aveva visitato in nome del re e che ora portavano i loro omaggi e la loro fedeltà all’erede di Uter, mentre Artù organizzava un grandioso torneo, cui avrebbe preso parte il fior fiore della nobiltà che lo appoggiava. In quel giorno, mi disse, tutti i seggi della Tavola Rotonda sarebbero stati occupati ed egli sarebbe diventato davvero re.