DESTINY
di
Carmen
(Prima
parte)
Desclaimer:
I personaggi presenti nella storia si basano su quelli della serie
televisiva di Xena: The Warrior Princess, e sono di proprietà
della MCA/Universal Renassiance Pictures, del quale non intendo infrangere
nessun copyright.
Le vicende sono di mia personale invenzione.
Riferimenti a fatti o persone realmente esistite è da ritenersi
puramente casuale.
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Genere:
Uber. Ho ripreso caratterialmente, e fisicamente, i personaggi riportandoli
ai giorni nostri.
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Rating:
A causa di alcune scene, consiglio la lettura ad un pubblico adulto.
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Note:
La storia presenta alcune scene di violenza e di amore, esplicito,
tra persone dello stesso sesso, se questo vi infastidisce non proseguite
con la lettura.
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Per qualsiasi commento, critica, suggerimento (tipo: perché
invece di scrivere non vai a zappare la terra che così fai
un favore a tutti! ^^), maledizioni e altro, potete contattarmi a
questi indirizzi mail:
carmen.sticchi@hotmail.it
e c.sticchi@studenti.unina.it
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Detto questo vi auguro, si spera, buona lettura!
La libertà esiste solo quando è presente l'amore. Chi
si abbandona totalmente, chi si sente libero, ama al grado estremo.
E chi ama al grado estremo, si sente libero.
(Paulo Coelho. Undici Minuti.)
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Cap.1: L'incontro fatale.
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Una leggera pioggerella cadeva sulla città quella mattina d’inverno,
rendendo le strade tetre più di quanto non fossero già.
Il traffico era intenso, molti ingorghi si erano formati nella metropoli
superaffollata, il brutto tempo aveva spinto i più a prendere
l’auto cosa che rendeva il traffico già intensissimo,
ancora di più.
«Merda.»
Luc imprecò ad alta voce sbattendo una mano sul volante, mentre
si trovava imbottigliata nell’ingorgo. Davanti a lei due deficienti
che litigavano come bambini per un tamponamento microscopico. Strinse
gli occhi a due fessure e si impose di calmarsi, doveva controllarsi
altrimenti sarebbe scesa da quel catorcio che qualcuno definiva auto
e gli avrebbe spaccato la faccia a tutti e due.
Sfiorò la pistola con la mano e un sorriso diabolico le salì
sulle labbra carnose.
Calma.
Suonò il clacson con forza.
Calma.
I due non sembravano averla sentita.
Calma un paio di palle!
«Ma allora vogliamo fare notte!» la sua voce tuonò
superando il suono di altri clacson che rimbombavano spazientiti.
«Togliete quei due catorci dalla strada!»
«Fatti i cazzi tuoi!»
Uno scintillio maligno brillò negli occhi cerulei di Luc. Ah
è così. Bene, ti faccio vedere io.
Innescò la prima è partì sgommando, rischiando
di investire i due ragazzi che si spostarono appena in tempo. Stessa
fortuna non ebbero le loro macchine che si ritrovarono semidistrutte,
mentre Luc passava tra le macerie che aveva creato.
«Stronza! Ma che cazzo fai!!!»
Tutto quello che i ragazzi ottennero come risposta fu il dito medio
alzato che si vedeva dal finestrino, mentre l’auto con uno specchietto
rotto e il cofano ammaccato si allontanava.
.
«Ma guarda tu cosa mi tocca fare!» la sua voce risuonava
nell’abitacolo vuoto con una punta di ironia. Per un attimo
si provò ad immaginare la faccia di John, il sorriso si allargò.
John Carson era il miglior meccanico del paese. Poteva rendere un
ammasso di ferraglia un auto da corsa in pochissimo tempo.
Sulla sessantina, aveva sostituito la figura paterna nella mente di
una bambina di tredici anni, che fino a quel momento aveva avuto come
modello uno stronzo di prima categoria, che l’aveva abbandonata
quando aveva otto anni.
Grazie a lui aveva imparato tutto quello che sapeva sui motori, e
da lui derivava la passione, quasi maniacale, per auto e moto sportive.
Sempre lui l’aveva introdotta nell’ambiente delle corse
clandestine, che ancora oggi ogni tanto frequentava. Si era pagata
gli studi grazie ai soldi vinti lì. Gli aveva insegnato anche
a usare la pistola e a combattere, cosa che la madre inizialmente
non aveva approvato, ma ormai erano passati quasi quindici anni.
Spesso, quando era piccola e ancora aveva dei sogni romantici tipici
di una ragazzina, sognava che sua madre e John si sposassero. Così
sarebbero potuti essere una vera… famiglia.
Non escludeva che i due fossero più di semplici amici, ma ormai
aveva ventotto anni e non credeva nei sogni e nell’amore da
tantissimo tempo.
Anche se sua madre aveva tentato non farglielo pesare, lei non aveva
mai avuto una famiglia normale. La sua era stravagante, fatta di zie
prostitute e zii assassini, ma che le volevano bene, e per lei bastava
questo.
E aveva un mucchio di questioni irrisolte.
.
Mise la quarta con un gesto secco e fece una curva quasi su due ruote,
rischiando di mettere sotto una vecchietta che ora le mandava insulti
anche in turco.
Scosse la testa con un sorrisetto che proprio non voleva abbandonarla.
Sarebbe arrivata all’autofficina di John in dieci minuti passando
per la strada principale, ma a quell’ora era impensabile. Sbuffò
e si apprestò a prendere il ponte passando per il così
detto “giardino delle meraviglie”.
Il giardino delle meraviglie era una specie di parco dove si poteva
trovare di tutto.
Armi, droga, sesso. Tutto, e di tutti i tipi. Bastava pagare.
Sbuffò. Non le piaceva molto quel posto. Le faceva venire in
mente ricordi d’infanzia che non avrebbe dovuto avere.
Ero solo una bambina.
Quando aveva cinque anni il padre frequentava spesso quel posto. Si
drogava, si scopava tutto quello che poteva permettersi e poi tornava
a casa.
A volte quando lui non ce la faceva a tornare lei lo andava a prendere.
Casa sua era di fronte al parco. Lì era di casa, e lo è
ancora.
Corrugò la fronte per un attimo al pensiero del padre.
Aveva imparato tutto quello che sapeva su come difendersi, e su come
andavano le cose in quel mondo. Loro gli avevano donato quella maschera
di cinismo che indossava perennemente.
Il solo calore che aveva ricevuto era quello della madre.
Adorava sua madre. Lei era l’unica di cui si potesse fidare.
Sorrise. Sua madre gestiva un bar lì vicino, dove si ritrovavano
prostitute e altro. Li aiutava, non permetteva loro di perdere la
strada.
Perché anche se lavorate qui non dovete mai perdere di vista
i vostri sogni!
Ottimista e idealista!
Ancora di salvezza per molti giovani che si stavano consumando nell’alcol
e nelle droghe.
E per lei.
Devo passare a trovarla!
.
Immersa nei suoi pensieri non si era resa conto di aver superato il
parco poco affollato. Salì sul ponte e in pochi minuti arrivò
all’autofficina.
Scese dalla macchina e lanciò un’occhiata al cofano.
Era proprio malridotto.
«Luc! Finalmente, non ci speravo più.»
Un omone, vestito di jeans e con il corpo ricoperto di tatuaggi la
salutò con un sorriso luminoso, sorriso che si spense non appena
vide la macchina.
I suoi occhi marroni, come la sua chioma, diventarono due laghi di
incredulità, mentre la bocca si era spalancata diventando il
ritratto dello stupore.
«Oh porca… Che cazzo ci hai fatto!»
Trattenne un sorriso all’espressione affranta e disperata dell’uomo.
«Ho avuto un piccolo incidente.» disse evitando di fornirgli
i dettagli. L’avrebbe sgozzata.
«Piccolo? Ma…» non riuscì a proseguire.
«La prossima volta non rifilarmi un catorcio simile!»
«Catorcio? Ehi, bada a come parli, questa è una signora
macchina.»
Luc scosse la testa sconsolata. Era legato alle macchine in modo quasi
morboso.
«Scusa, scusa. Allora è pronta?»
John le lanciò un’occhiataccia e poi si diresse verso
l’interno, seguito dalla donna. Al centro del salone c’era
un enorme telo blu che copriva qualcosa.
Gli occhi di Luc iniziarono a brillare.
«E poi dici che sono io quello attaccato alle auto!» sbottò
l’uomo mentre toglieva il telo e faceva comparire una meravigliosa
Ducati 999 nera.
Quella moto aveva delle prestazioni e delle forme perfette!
Luc trattenne un gridolino e si avvicinò sfiorando la superficie
lucida.
«Stupenda!» disse mentre faceva partire il gas e un rombo
assordante riempiva l’aria.
«Ovvio, è una mia creatura!» disse con orgoglio
battendosi enfaticamente la mano sul petto.
«Si, si! E la Ferrari?» chiese allargando il sorriso.
«Per quella ancora qualche giorno.»
Luc sbuffò contrariata.
«Mi hai chiesto delle cose assurde!» tentò di giustificarsi.
Alzò le mani in segno di resa. «Va bene, vengo a ritirarla
tra una settimana. Mi raccomando.»
«Tranquilla, sei in buone mani. Non posso dire lo stesso!»
rispose con tono di rimprovero.
«Non riesco a crede che me l’hai ridotta così.
Non ti presterò più nulla!»
«Spero di non doverti più chiedere in prestito un mezzo
di trasporto!» urlò quasi per coprire il rumore degli
scarichi, mentre si allacciava il casco nero.
Eccola là, bella e pericolosa. Scura come la notte!
John si ritrovò a pensare queste cose ancora prima di accorgersene,
mentre Lucies Killigrew, una delle mercenarie più pericolose
del mondo, volava sulla sua moto nuova di zecca.
Scosse la testa, se correva così sarebbe tornata a ripararla
molto presto.
Che spericolata! La mia bambina.
Nonostante tutto lui la vedeva sempre come la ragazzina pestifera,
che faceva a botte con tutti e che faceva disperare la madre.
Un sorriso sognante si formò sulle labbra dell’uomo appena
i suoi pensieri si diressero verso Irene.
Sospirò. «Sto perdendo colpi!»
.
.
Nella sala della palestra una piccola folla si era riunita per godersi
lo spettacolo. Urla di apprezzamento e fischi incoraggiavano i due
duellanti che si affrontavano in un incontro di arti marziali.
Una figura snella schivava con riflessi eccezionali i pugni che volavano
vicinissimi al suo viso.
Per il momento si stava solo difendendo, voleva studiare le mosse
dell’avversario prima di colpirlo. Conoscere bene il nemico.
Con un scatto si abbassa per schivare un calcio.
Il suo caschetto biondo si muove in maniera sensuale, facendo distrarre
per un momento il suo avversario, che deve fare un passo indietro
per riprendersi.
«Allora biondina, ti stai solo difendendo. Non è che
vuoi ritirarti? Sai lo capirei. Certe cose non sono adatte per una
ragazzina.» fa un sogghigno ironico. La sta studiando, o meglio
spogliando con gli occhi. Questo non le piace. E ancora meno le piace
il suo atteggiamento.
Borioso pallone gonfiato!
Con un movimento fluido e sicuro si abbassa e con un calcio circolare
colpisce le caviglie del suo avversario, che cade con un tonfo.
Nei suoi occhi verdi passa un lampo di soddisfazione.
«Io non sarei così sicuro di me, se fossi in te.»
Un sorrisetto si allarga sul suo viso vedendo l’espressione
di furia sul volto dell’uomo, che si rialza e comincia a menare
pugni e calci quasi alla cieca.
La rabbia non è mai una buona consigliera.
Afferra con una stretta salda il polso dell’uomo e gli porta
il braccio dietro la schiena.
Anche se non urla, sa che gli sta facendo male.
«Allora?» domanda con voce dura. «Ti basta o dobbiamo
continuare?»
«Maledetta.» sibila con odio l’uomo che ora si sta
massaggiando il polso.
Un applauso eruppe nella sala e Allison fa un inchino teatrale leggermente
imbarazzata.
Si dirige negli spogliatoi, sente ancora l’adrenalina provocata
dall’incontro correre nelle sue vene. Si sente decisamente su
di giri.
Una doccia fredda l’aiuta a riprendere il controllo dei propri
nervi e a ristorarsi.
«Cazzo Al sei stata fantastica!»
Nel box doccia accanto al suo, la sua migliore amica tesseva le sue
lodi, ricamandoci sopra come solo una grande sarta può fare.
Si sente leggermente a disagio. È sempre stata molto timida,
ma quando la situazione lo richiedeva sapeva cacciare le unghie.
«Piantala Jenny.»
Tenta di fermarla, ben sapendo che l’amica quando parte non
la ferma più nessuno. Ha una parlantina addirittura peggiore
della sua.
«Gliele hai suonate di brutto a quello stronzo! Certo che se
lo meritava!»
Al scuote la testa. È irrecuperabile.
Decide di ignorare lo sproloquio dell’amica, e continua a insaponarsi.
Il getto violento dell’acqua la rigenera.
Ripensa a come ha finito per affrontare quell’energumeno e le
scappa un sorrisetto ironico.
Reins è il bulletto della palestra. Il solito tipo che si crede
figo solo lui, e che crede di avere tutto perché gli è
dovuto.
Lei lo odia dal profondo.
Un commento poco carino sul fondoschiena di una ragazza che evidentemente
stava importunando, ed erano venuti alle mani.
Solitamente era una ragazza a cui piaceva poco la violenza, era una
sognatrice, che fantasticava persa in un mondo tutto suo, romantica,
idealista e quasi sempre ottimista.
Ma quando ci voleva ci voleva. E lei non sopportava gli uomini che
si credevano superiori.
Una poetessa dai sani principi morali.
Come spesso dicevano i suoi amici. Qualcuno aggiungeva bellissima
ma lei non ci credeva poi tanto.
Per una strana associazione di idee pensò per un momento a
Chris, il suo ragazzo, lui era il ragazzo più gentile che avesse
mai conosciuto, per non parlare dell’aspetto fisico.
Ma anche nella sua perfezione, Al non sa se lo ama davvero. Lei sogna
il grande amore, quello che ti travolge, ti lascia senza fiato, sogna
una persona che possa farle toccare il cielo con un dito anche solo
guardandoti. Lei vuole trovare la sua anima gemella, e non è
certa che Chris sia la sua.
Certe volte pensa di stare con lui più per abitudine che per
altro. I suoi genitori già il considerano sposati. E le sue
amiche certo non la aiutano, dicendo che sarebbe una pazza a lasciare
uno come Chris.
Chissà forse un giorno incontrerà la sua anima gemella,
e allora avrebbe pensato al da farsi, ma fino a quel momento…
Che sciocca! Fantastico come una bambina!
Uscì dalla doccia e si avvolse nell’asciugamano.
«Allora andiamo da Donny stasera?» chiese Jenny mentre
si asciugava i ricci castani.
«Fa una festa. Sarà divertente.» continuò
mentre si vestiva.
«Si. Appena torno a casa lo dico a Chris.»
«Splendido. Holly mi ha detto che questa volta ha organizzato
una cosa di classe. Sai champagne, caviale e simili.»
«Dovremmo vestirci eleganti allora.» dice mentre si infila
i jeans con un gesto fluido.
«Già, e poi ha invitato dei finanziatori per il suo progetto.
Vuole fare bella figura.»
Al rotea gli occhi. Donny e le sua fissa di trovare investitori per
i suoi progetti assurdi. Voleva dimostrare al padre che poteva farcela
anche da solo, senza i suoi soldi, ma la cosa si prospettava difficile.
Nelle alte sfere potevi rientrare solo se avevi i santi giusti in
paradiso.
E tutti loro li avevano. Ma Donny, come lei d’altronde, voleva
essere indipendente. Dimostrare a tutti che valeva qualcosa perché
aveva delle idee valide e le capacità, non perché era
figlio di un uomo ricco.
L’indipendenza va conquistata, con il sudore della fronte. L’indipendenza
è libertà.
Guardò la sua amica.
Lei non poteva capire. Usava la carta di credito di papà come
se fosse stato un giocattolo. Non aveva lavorato un solo giorno in
vita sua.
Per ottenere questo aveva dovuto pagare come prezzo l’impossibilità
di compiere scelte per la sua vita.
Sapeva già che si sarebbe sposata con Owen, il suo attuale
ragazzo, scelto dalla sua famiglia, e avrebbe fatto la moglie casalinga,
senza problemi. Non che non amasse il suo ragazzo, anzi!
Jenny era felice così, era questa la vita che voleva.
Ma lei no.
Lavorava per vivere, anche se il padre metteva ogni mese una cospicua
quantità di denaro sul suo conto corrente “per le emergenze”,
somma che lei non aveva mai utilizzato e che donava in beneficenza,
agli enti più svariati.
Le piaceva lavorare, e molto. Faceva l’insegnante di letteratura
al liceo.
Lavoro stimolante quando si scatenano le fantasie erotiche di adolescenti
e insegnanti in egual misura.
Il padre le ripeteva sempre di smettere, ma a lei piaceva. Poteva
donare qualcosa a quei ragazzi, essere per loro una guida.
Anche se la differenza di età con gli studenti non era molta.
A ventiquattro anni insegnante a ragazzini di diciotto. Davvero un
bel colpo!
.
Le due amiche si separano all’uscita della palestra.
Allison sale sulla sua macchina e prova a farla partire più
di una volta.
«Accidenti!»
Apre il cofano e scende dalla macchina, ma sa che la cosa sarà
completamente inutile. Non ci capisce nulla di motori. Guarda sconsolata
quella distesa di fili, tubi e quant’altro non sapendo nemmeno
dargli un nome.
«Me l’aveva detto Chris che dovevo portarla dal meccanico.»
Da un calcio alla ruota in un gesto di stizza. «Maledizione!»
Anche se ha smesso di piovere l’aria è rimasta umida,
e fa freddo. Natale è vicino, si sente nell’aria il profumo
di dolci e i primi addobbi fanno già capolino nelle vetrine
dei negozi.
E siamo solo a metà Novembre.
Si soffia sulle mani infreddolite e batte i piedi a terra per scaldarsi.
Guarda l’orologio. Sono le sette e un quarto. Chris deve essere
già tornato da lavoro.
Ma che importa, tanto lavora per il padre.
Compone velocemente il numero del ragazzo, che risponde dopo un paio
di squilli.
«Pronto?»
«Ciao Chris, sono io.»
Dall’altro capo della cornetta il viso del ragazzo si illumina
«Amore, che cosa c’è?»
«Ho un problema. La macchina non parte e Jenny è andata
via.»
«Tesoro mi dispiace, ma vedi tra poco ho una riunione con i
dirigenti. Anzi volevo già chiamarti per dirti che stasera
torno tardi, e che non ci vediamo.»
«Ma…» tenta di protestare, ma il ragazzo la liquida
con un veloce prendi un taxi, ci sentiamo domani.
Rimane allibita mentre fissa il telefonino ormai muto. Riunione del
cazzo!
Entra in macchina mentre sta ancora bestemmiando in tutte le lingue.
Sta per chiamare un taxi con il cellulare quando si ricorda che non
ha sufficiente contante con sé.
«Merda. Bollette del…» ingoia l’ennesima imprecazione
e riprova a far partire l’auto.
Il rumore secco del motore che va a vuoto le da sui nervi. Sembra
una pernacchia.
Si sta particolarmente alterando.
Scende nuovamente e comincia a trafficare alla cieca con dei fili
sperando di non rimanerci secca.
«Forse è la batteria? O forse…»
Una presenza alle sue spalle interrompe le sue congetture.
«Serve aiuto?»
Al si volta e vede una donna alta e snella fasciata in un completo
di pelle nero con un casco che le pende dal braccio. Lunghi capelli
corvini le ricadono leggeri sulle spalle, mentre due occhi di un azzurro
così chiaro l’abbagliano. La donna continua a fissarla
in attesa di risposta.
«Eh?»
«Ti ho chiesto se ti serve una mano?» ripete lentamente
come si fa con i bambini, mentre uno strano sorriso si allarga sul
suo volto.
«Oh, la macchina non parte!» dice riprendendosi da quello
stato di semi-stordimento che l’apparizione della donna le ha
provocato. Si era quasi persa in quegli occhi cerulei.
Scuote la testa e torna a fissare quello che sembra il tubo dell’olio.
«Fammi dare un’occhiata.» dice e la sposta quasi
di peso dal cofano. Poi inizia a trafficare vicino al motore, corrugando
la fronte.
«Cavolo, certo che questa macchina è proprio malridotta.
Le candele devono essere sostituite e il motore è quello che
usava mio nonno!»
«Meraviglioso!» la faccia affranta di Al fa sorridere
ancora di più Luc.
Solitamente lei non aiuta le persone che vede in difficoltà
in mezzo ad una strada, a meno che non le conosca, ma con quella ragazzina…
Era così buffa.
L’aveva vista tentare di far partire la macchina per alcuni
minuti, e sicuramente l’aveva sentita imprecare. La quantità
di parolacce provenienti dal quella figura così esile l’aveva
fatta quasi scoppiare a ridere. Ma poi aveva pensato di aiutarla,
infondo che male c’era, sembrava così disperata. Era
stata come spinta da una forza maggiore, e poi quegli occhi verdi,
così limpidi, gli sembrava di poterci scorgere tutta la bontà
del mondo e una grande forza. Era rimasta incantata, quasi sopraffatta.
«Dai, ti do un passaggio.»
Al la fissa dubbiosa, può percepire la pericolosità
di quella donna, ma dentro sente che può fidarsi.
«Non vorrei crearti troppo disturbo.» dice infine con
uno sguardo timido, non riesce a tenere gli occhi fissi su quelli
di lei per troppo tempo.
Luc scrolla le spalle. «Nessun disturbo. Ho la moto proprio
lì.» dice indicando un punto alle sue spalle.
Allison spalanca gli occhi alla vista della moto. «Wow, è
fantastica!»
Un lampo di orgoglio passa negli occhi cerulei della donna.
«Si lo è. Allora?» chiede spostando gli occhi dalla
Ducati alla ragazza.
Si sente stranamente attratta da lei. Deve fare appello a tutto il
suo autocontrollo per non arrossire, o per non saltarle addosso. E
conoscendosi sarebbe molto più propensa per la seconda.
Sono esaurita! Devo prendermi una vacanza.
Pensa scuotendo la testa e cercando di far allontanare quei pensieri
il più possibile.
«D’accordo. Ma prima facciamo le presentazioni per bene.
Il mio nome è Allison, puoi chiamarmi Al.»
Le tende la mano con un ampio sorriso, Luc l’afferra sorpresa
dall’entusiasmo della ragazza.
«Piacere Allison, il mio nome è Lucies, ma puoi chiamarmi
Luc.» dice canzonandola e facendo scoppiare entrambe in una
sonora risata.
.
«Tieni.» Luc le porge il casco di riserva e indossa il
suo, salendo sulla moto in un movimento che Al ritiene estremamente
sensuale.
Mio Dio, sto impazzendo!
Si infila il casco velocemente sperando che Luc non si sia accorta
del rossore improvviso delle sue gote, e sale sulla moto stringendo
la donna per i fianchi con non poco imbarazzo.
«Tieniti forte!» urla per poi partire come un razzo. Allison
si aggrappa con tutte le forze dimendicandosi di conoscerla solo da
qualche minuto.
Luc sorride divertita, quel contatto non le dispiace affatto. Accelera
e la sente stringersi ancora di più, quasi a fondere i loro
corpi.
Si sente bene, in pace.
Eppure la conosce solo da poco, e sicuramente lei non si lascia andare
così facilmente.
Ma che mi sta succedendo? Mi sento a… casa.
Quella parola le viene in mente in maniera quasi naturale, come se
fosse ovvio che stare in compagnia di quella strana ragazza le desse
un calore così familiare.
Sto proprio invecchiando!
Pensa mentre fa un sorpasso piuttosto azzardato sull’asfalto
che si è nuovamente bagnato a causa della pioggia che ha cominciato
a scendere nuovamente.
«Oh Dio! Così ci farai ammazzare!» Al ha una voce
estremamente terrorizzata, mentre Luc abituata alla sua guida spericolata
ridacchia contro il casco.
«Tranquilla, sono una professionista.» per tutta risposta
Al si rilassa leggermente sulla schiena della donna, come tranquillizzata
da quelle parole, senza allentare però la presa.
Allison si sente strana. Non si è mai sentita così a
suo agio con una persona, un’estranea.
Si sente protetta, avvolta in un calore familiare, in pace.
Sono a casa.
Si appoggia meglio alla schiena morbida come a volersi accoccolare,
incurante del pensiero appena formulato, come se fosse stata una cosa
del tutto normale.